RASSEGNA STAMPA

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giovedì 29 gennaio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
Da Adn Kronos del 28/01/15
Tav: processo a De Luca, Arci aderisce a
campagna #IoStoConErri
Roma, 28 gen. (AdnKronos) – Il processo contro Erri De Luca, accusato di ‘istigazione a
delinquere’ per le sue dichiarazioni sulla resistenza al proseguimento dei lavori per la linea
Tav Torino-Lione, ”dimostra amaramente che il diritto e la libertà di espressione del proprio
pensiero non è solamente una questione fra noi e certo fondamentalismo fanatico di
ispirazione islamica, ma si pone anche all’interno dei nostri confini”. E’ quanto si sottolinea
in una nota dell’Arci, che aderisce alla campagna #IoStoConErri.
”Stabilire un meccanico rapporto tra opinioni espresse e atti considerati illegali riporta alla
memoria i teoremi giudiziari che generarono l’ondata di arresti del 7 aprile del 1979.
Oltretutto – ricorda l’Arci – contraddice una recente sentenza che esclude che l’attivismo
anti Tav possa essere considerato alla stregua di terrorismo contro lo Stato. Malgrado
questo, il movimento NoTav è stato oggetto di pesanti condanne proprio in questi giorni, a
dimostrazione di un atteggiamento quantomeno altalenante della magistratura, con una
propensione però alla repressione pura e semplice”.
”Ha quindi ragione Erri De Luca a dire che è pronto a reiterare il presunto reato, se tale
verrà considerato. E noi siamo pronti a sostenerlo – ribadisce l’Arci – Tutte le evidenze,
perfino quelle contabili, dimostrano che il movimento della Val di Susa che si oppone alla
Tav ha sempre avuto ragione. La tratta di alta velocità Lione Torino è distruttiva
dell’ambiente, costosissima e priva di interesse economico visto il mutamento della
situazione. Qualunque governo serio avrebbe il dovere di voltare pagina su quel progetto.
Così come del resto sta accadendo in altri paesi europei”.
Da Dazebao News del 28/01/15
Tav. Erri De Luca, processo rinviato al 16
marzo
TORINO - E' stato rinviato al 16 marzo il discusso processo allo scrittore Erri De Luca,
accusato di istigazione a delinquere per aver dichiarato in alcune interviste che la Tav va
sabotata.
Il procedimento si e' aperto stamani a Palazzo di Giustizia di Torino. Nel corso dell'udienza
del 16 marzo saranno sentiti i testi ammessi dal giudice. E' stata respinta la richiesta della
procura di fare testimoniare il presidente dell'Osservatorio sulla Torino-Lione Mario Virano.
Al termine dell'udienza di oggi, De Luca, dopo aver lasciato l'aula, e' stato accolto
all'esterno dagli applausi degli attivisti no Tav. "Cosa c'e' di piu' democratico e civile di oltre
20 anni di lotta alla Tav? - ha detto De Luca ai giornalisti - una lotta che continua
civilmente. Sabotare per me e' un verbo nobile". De Luca ha poi aggiunto che la Tav si
sabotera' da sola' "perche' non ci sono i soldi per costruirla. Il buco della Tav sara' un
'buco interrotto', un 'bucus interruptus'".
Intanto si moltiplicano le adesioni alla campagna #IoStoConErri e i convinti che "il diritto e
la libertà di espressione del proprio pensiero sono diritti inalienabili. "Stabilire un
meccanico rapporto tra opinioni espresse e atti considerati illegali - argomenta l'Arci che
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oggi ha aderito - riporta alla memoria i teoremi giudiziari che generarono l'ondata di arresti
del 7 aprile del 1979. Oltretutto contraddice una recente sentenza, che esclude che
l'attivismo anti-Tav possa essere considerato alla stregua di terrorismo contro lo Stato.
Malgrado questo, il movimento No Tav è stato oggetto di pesanti condanne proprio in
questi giorni, a dimostrazione di un atteggiamento quantomeno altalenante della
magistratura, con una propensione però alla repressione pura e semplice". "Ha quindi
ragione Erri De Luca a dire che è pronto a reiterare il presunto reato, se tale verrà
considerato. E noi siamo pronti a sostenerlo. Tutte le evidenze, perfino quelle contabili,
dimostrano che il movimento della Val di Susa che si oppone alla Tav ha sempre avuto
ragione. La tratta ad alta velocità Lione-Torino è distruttiva dell'ambiente, costosissima e
priva di interesse economico, visto il mutamento della situazione. Qualunque governo
serio avrebbe il dovere di voltare pagina su quel progetto. Così come del resto sta
accadendo in altri paesi europei" conclude l'Arci.
http://www.dazebaonews.it/primo-piano/item/31937-tav-erri-de-luca-processo-rinviato-al16-marzo.html
Da Termometro Politico del 29/01/15
La sinistra italiana a lezione di greco
Domenica sera, la centralissima piazza Klafthmonos di Atene parlava (e cantava) italiano.
In centinaia, infatti, sono partiti dall’Italia nei giorni immediatamente precedenti al voto, per
partecipare attivamente alla campagna elettorale ma anche allo scopo di conoscere più a
fondo la realtà di Syriza, ormai impostasi come modello ispiratore di (quasi) tutta la sinistra
radicale europea.
L’idea della “spedizione” – come racconta Raffaella Bolini, dell’Arci – era nata con l’intento
di raggruppare una trentina di persone al fine di mostrare ai compagni greci tutta la
vicinanza dei comitati italiani dell’Altra Europa con Tsipras. Di lì a poco, anche grazie al
passaparola via web, il gruppo – che ha assunto il nome di “Brigata Kalimera” – si è
esteso ogni giorno di più, arrivando a toccare quota trecento unità. La Brigata Kalimera è
così diventata subito oggetto di interesse da parte di televisioni e giornali, non solo italiani,
rendendosi anche protagonista di un simpatico siparietto durante il comizio di chiusura
della campagna elettorale, quando Alexis Tsipras – al termine del suo discorso, di fronte
alle telecamere di mezzo mondo – si è ritrovato fra le mani una bandiera, lanciata da sotto
il palco, dell’Altra Europa con Tsipras, la lista che ha unito Prc, Sel e altre forze della
sinistra nelle ultime elezioni europee, riuscendo a superare la soglia di sbarramento del
4% e ad eleggere tre eurodeputati.
Nessuno si sarebbe aspettato un’adesione così massiccia, anche se, come ci dice
Roberto Morea – uno degli organizzatori di questo viaggio in terra ellenica – “noi avevamo
capito da tempo il valore del progetto di Tsipras. Siamo stati primi a renderci conto che
non si tratta di una vicenda greca, ma di una questione che investe tutte le sinistre
europee”. Ma quali sono i confini che delimitano il confine del concetto di sinistra? “La
sinistra di Tsipras – prosegue Morea – è una sinistra orgogliosamente radicale, perché
radicale è anche la realtà che vive. Intorno a questa radicalità si può costruire
maggioranza, e Tsipras ce lo ha dimostrato. Il messaggio che ci viene da qua è forte e
chiaro: anche in Italia dobbiamo fare la stessa cosa”. L’intento è condiviso anche dai molti
dirigenti di partito e politici di lungo corso aggregatisi alla Brigata Kalimera nei giorni
scorsi. Tra questi, ad Atene c’è anche Roberto Musacchio, ex parlamentare europeo, che
ci tiene a sottolineare il grande clima di cambiamento avvertito ad Atene nei giorni
immediatamente precedenti al voto, un cambiamento “che Syriza ha saputo
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adeguatamente interpretare, ma che deve estendersi in tutta Europa: ecco perché noi
italiani siamo arrivati qui. La lista L’Altra Europa con Tsipras nacque lo scorso anno
proprio in una dimensione europea. I risultati di stasera ci dicono che avevamo ragione, al
punto che adesso nessuno più osa ironizzare con lo ‘Tsipras chi?’ che continuavano a
ripeterci. Ora che tutti sanno chi è Tsipras, è nostro compito rimanere all’altezza di quanto
siamo riusciti a costruire”.
Nel comitato elettorale, da dove risuonano le note di Bella ciao cantate a squarciagola,
incontriamo poi Salvatore Bonadonna, una vita nel sindacato e nell’attivismo politico,
senatore con Rifondazione Comunista dal 2006 al 2008. Parla di una “offensiva infame da
parte della troika, alla quale i greci hanno saputo resistere con coraggio e dignità. Cambia
il vento non solo in Grecia ma in tutta Europa, con il concretizzarsi delle possibilità di
vittoria per Podemos in Spagna”. Per Bonadonna, ci troviamo di fronte a “un conflitto tra il
basso e l’alto, tra l’interesse dei popoli e quello dell’alta finanza. Un conflitto che
avvertiamo in Italia, in positivo con la ripresa dei movimenti sociali e con le battaglie della
Fiom, ma anche in negativo, attraverso la virulenza settaria con la quale il governo Renzi
sta affrontando alcune questioni, tra le quali lo scontro con il sindacato e l’attacco al diritto
del lavoro. Per quanto possa prendere le distanze o alzare i toni della propaganda, Renzi
si sta dimostrando organico al disegno della troika, un perfetto rappresentante del potere
finanziario”. E allora come rispondere a Renzi da sinistra? L’ex senatore è convinto che
per la sinistra italiana sia arrivata da Atene una severa lezione: “invece di pensare ad
accordi politici ed eccessi di personalismo, è necessario ricostruire il tessuto della
solidarietà sociale del popolo. Syriza, da questo punto di vista, ha avuto la grande
intelligenza di lavorare proprio per la costruzione di una rete di solidarietà, cogliendo
questo bisogno e trasformandolo in strategia politica unitaria, non avventurista, ma
alternativa alle politiche del neoliberismo”. “Anche in Italia – conclude Bonadonna, citando
Gramsci – sta arrivando una guerra di movimento. E quando si è in guerra, bisogna
abbandonare le “case matte” per uscire in campo aperto, dove si parla con la gente e non
con gli apparati”.
Stando alle testimonianze della sinistra radicale nostrana, a quanto pare l’assenza di uno
Tsipras italiano rappresenta, di fatto, un non-problema. Ciò che emerge è invece la
necessità di ritrovare l’unità, non solo limitandosi ad una mera aggregazione di sigle
partitiche – come ha dichiarato l’europarlamentare Eleonora Forenza nell’intervista
rilasciata proprio alla nostra testata – ma puntando ad unire le forze sociali, dalle quali
bisogna ripartire. I presupposti sembrano esserci tutti, tanto che molti esponenti della
sinistra PD (e non solo) si sono affrettati a dichiarare pubblicamente il proprio
apprezzamento per Syriza, riservandosi di tenere aperta la possibilità di intraprendere
futuri progetti comuni. Ma si rischia anche di cadere nella trappola della “moda del
momento”: è il caso, ad esempio, di Gennaro Migliore, fuoriuscito da Sel anche per non
aver condiviso l’intenzione di collocarsi all’interno della famiglia della sinistra europea – la
GUE/NGL – di cui Tsipras è vicepresidente (egli sosteneva l’ingresso del partito nel
gruppo del PSE), e che subito dopo il voto di domenica ha provveduto a rivolgere sul suo
profilo twitter convinti elogi allo stesso Tsipras, suscitando sulla rete l’indignazione degli
tsiprasiani della prima ora, che adesso non ci stanno ad assistere alla frenetica corsa per
accaparrarsi un posto sul carro del vincitore.
In tutti i casi, è indubbio che la vittoria di Tsipras conferisca oggi una notevole carica tra i
promotori dell’Altra Europa italiana, i quali adesso cercheranno di raccogliere i frutti di
quanto raccolto in questa esperienza ateniese, pur consci delle difficoltà esistenti
nell’esportare in toto un modello politico. Staremo a vedere in quanti, nell’arcipelago delle
innumerevoli sinistre radicali italiane, saranno disposti a mettere da parte personalismi e
antipatie reciproche per far posto ad un rinnovato soggetto unitario.
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http://www.termometropolitico.it/1158178_la-sinistra-italiana-lezione-di-greco.html
Da Immezcla del 28/01/15
Reggio Calabria, Arci: dalle primavere arabe
ai giorni nostri
«Abbiamo aspettato un po’ dopo i dolorosi fatti di Parigi, sui quali ci sono stati retorica,
demagogia ed anche razzismo. Abbiamo aspettato per inquadrarli in un contesto più
ampio parlando di temi delicati e complessi. Perché l’Occidente non può osservare il
mondo da un unico punto di vista e deve ascoltare la voce del mondo islamico. Non c’è un
Islam moderato perché presupporrebbe un Islam estremo che non esiste».
È con queste parole che Ernesto Romeo ha spiegato il senso di “Dalle primavere arabe ai
giorni nostri: quale futuro per il mondo arabo?”, iniziativa promossa da Arci ed e Arci Next
in collaborazione con il Dopolavoro ferroviario, a Reggio Calabria. Oltre all’esponente
dell’Arci Next, che ha smentito il collegamento tra immigrazione e terrorismo
strumentalmente diffuso da certi politici e certi media, davanti ad una affollata e partecipe
sala del Dlf, sono intervenuti anche i professori dell’università per stranieri “Dante Alighieri
“ Stefano Morabito ed Ezzat Hassan, l’esperta d’arte e cultura orientale Giovanna Dodaro
e l’imam della moschea di Reggio Jilali Chanouane.
«Lo scontro fra civiltà e religioni è l’unica prospettiva che abbiamo? No. Invece c’è uno
scontro tra potenze per la loro egemonia e sopravvivenza e bisogna ritrovare le ragioni di
carattere politico ed economico. Dietro a gruppi di fanatici apertamente in battaglia contro
l’Occidente, si occultano questioni come il sostegno più o meno diretto ed esplicito da
parte degli stessi occidentali. Anche il sottosviluppo può portare all’estremismo. Lo scontro
lo alimentano fortissimi interessi occidentali che impediscono un’inversione di tendenza.
Per risolverlo, bisogna riequilibrare le disuguaglianze ridiscutendo l’ordine mondiale» ha
affermato Morabito.
«Perché nel decimo secolo le crociate non hanno interessato le occupate Spagna e
Sicilia? Hanno toccato solo il Medio Oriente è sempre stato fonte di ricchezza e
geopoliticamente importante. Anche in Africa, pure dopo la decolonizzazione europea, con
i “delegati” alla guida dei vari governi, si è avuta la difesa degli interessi dei vecchi
colonizzatori. Le “primavere arabe” hanno detto “no” a tutto ciò. Adesso c’è l’Isis, gli
islamici sono contro di essa, niente di ciò che fa c’è nel Corano. Serve collaborazione in
un Mediterraneo che deve essere “nostrum” e non di odio» ha detto Hassan. «Quella
islamica è una cultura millenaria. Dobbiamo guardare a questa ricchezza culturale
nell’ottica dello scambio. L’Islam non è opposto alla nostra cultura, siamo mediterranei. Il
“Mare nostrum” è stato annientato, dobbiamo portare il nostro baricentro verso Sud» è
stato l’intervento dell’architetto Dodaro.
«L’Islam è pace, tolleranza e libertà. Il terrorismo non appartiene alla cultura islamica, è un
crimine contro la nostra religione. Bisogna combattere chi usa l’Islam per propri fini e
condividere il dolore con le vittime» ha concluso Chanouane questa importante occasione
di conoscenza e scambio, quindi di fratellanza e pace, sempre necessaria, ma
specialmente oggi davanti ad atteggiamenti di chiusura culturale e atti violenti.
http://www.immezcla.it/notizie-immigrazione/item/797-reggio-calabria,-arci-dalleprimavere-arabe-ai-giorni-nostri.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Adn Kronos del 28/01/15
Arci Servizio Civile, certificazione digitale
Un percorso guidato su piattaforma digitale che facilita la definizione del bilancio delle
competenze acquisite nel servizio civile, attraverso la compilazione di un modulo di
orientamento professionale. E' il nuovo servizio attivato da Arci Servizio Civile, che
prosegue negli investimenti per migliorare l’offerta educativa ai giovani e rafforzare il
contributo del Servizio Civile Nazionale alla coesione e alla sicurezza del Paese.
L'iniziativa sperimentale è stata avviata a favore ai giovani che stanno terminando l’anno
di servizio civile iniziato il 3 febbraio 2014. L’obiettivo è quello di aiutare i giovani a
comprendere l’importanza e la funzione del bilancio delle competenze; saper valorizzare le
proprie esperienze personali e professionali; comprendere dove poter trasferire le proprie
competenze e abilità; saper utilizzare meglio le proprie potenzialità; saper scrivere un
curriculum vitae efficace. Questa offerta si aggiunge a quella, in corso da anni, del rilascio
di una certificazione delle competenze acquisite attraverso la partecipazione al Servizio
civile nazionale, in particolare quelle trasversali e di formazione alla cittadinanza attiva.
Entrambe si ottengono su richiesta dei singoli giovani e sono state realizzate da Arci con
Asvi, con cui collabora da anni e con cui era già stato realizzato il modello di certificazione
delle competenze, diventato una best practice citata anche dall’Isfol.
"Si tratta di un’azione rilevante che Arci Servizio Civile -si legge in una nota
dell'associazione- intende mettere a disposizione delle istituzioni che gestiscono il Servizio
civile nazionale, del Parlamento che sta lavorando sulla disciplina del Servizio civile
universale e del mondo universitario". Asc, Arci Servizio Civile, associazione di
promozione sociale, è la più grande associazione di scopo italiana dedicata
esclusivamente al servizio civile cui aderiscono - relativamente al servizio civile - 5
associazioni nazionali (Arci, Arciragazzi, Auser, Legambiente, Uisp) e decine di
organizzazioni locali.
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ESTERI
del 29/01/15, pag. 4
Tsipras: «Governiamo per il popolo»
Pavlos Nerantzis
ATENE
Atene. Il governo oggi incontra Martin Schulz e annuncia le prime
mosse: aiuti alle famiglie povere, riassunzioni dei licenziati, cittadinanza
ai figli di migranti nati in Grecia, stop alle privatizzazioni
Aiuti immediati alle famiglie povere, riassunzioni dei licenziati dalla Troika e dai governi
precedenti, blocco alle privatizzazioni del porto di Pireo e di Salonicco, allontanamento
della ringhiera che circondava il parlamento, destituzione dei poliziotti in tenuta
antisommossa dagli atenei, attribuzione di cittadinanza a tutti i figli di migranti nati in
Grecia.
Sono alcune delle misure che già sono state prese o sono in corso di essere realizzate dal
dream team di Alexis Tsipras, che comincia ad incontrarsi con i massimi dirigenti dell’ Ue
per discutere sul programma del nuovo governo. Il premier ha poi proposto Zoi
Konstantopoulou, figlia di un ex leader del Synaspismos (Coalizione della sinistra),
ascendente del Syriza, e nota dirigente della sinistra radicale come candidata alla
presidenza del parlamento.
Nell’ epicentro dei colloqui del governo — oggi con il presidente dell’ europarlamento,
Martin Schulz e domani con il presidente dell’ eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem– il taglio
del debito e l’annulamento del memorandum. «Non vogliamo andare allo scontro frontale
con i nostri creditori, ma questa catastrofe sociale non può andare avanti. Siamo contrari a
un conflitto distruttivo» ha detto Alexis Tsipras nel suo discorso di apertura del primo
consiglio dei ministri. Per aggiungere poi che «siamo un governo di salvezza sociale, il
popolo ci chiede di lavorare duramente per difendere la sua dignità».
Sono appena passati tre giorni dalle elezioni, nemmeno 24 ore dal giuramento dei ministri
di Syriza e Anel e un’ aria diversa, di ottimismo e di speranza, di rivoluzione (con o senza
virgolette), di dignitá e di grinta, sta attraversando la capitale greca. Si sente nei discorsi
della gente, nelle dichiarazioni dei neo ministri.
Anche se apparentemente nulla ancora è cambiato e non mancano le lamentele da parte
di chi ha ancora paura di perdere il suo stipendio o la pensione «perché c’é il pericolo che
le banche chiudono», i greci sono di nuovo in marcia, perché se ne rendono conto che —
parole loro– «questi qui al governo non scherzano», «il modo che hanno di fare politica è
diverso». Gli unici nella capitale greca a reagire negativamente — un segnale per le
trattative in corso da oggi– sono i mercati. La Borsa di Atene ha chiuso registrando un calo
di 9,24% (le azioni delle banche hanno continuato a colare a picco, meno 27%), mentre il
rendimento dei titoli di stato a tre anni ha superato il 16%.
«I greci sanno che non potremo cambiare lo stato della nostra economia in un giorno. Ma
di una cosa possono essere certi: l’unico punto di riferimento di questo governo é il
popolo» ha sottolineato il nuovo premier greco. Stessa lunghezza d’ onda anche al primo
discorso del ministro delle finanze, Yanis Varoufakis.
«I colloqui con i nostri creditori saranno difficili, ma riteniamo che i nostri partner ci
possano dare una chance». Varoufakis che ha già parlato telefonicamente con il
presidente dell’eurogruppo e la settimana prossima si incontrerà con i suoi omologhi
italiano e francese. Il neo ministro ha affermato che ci sono «diversi punti di accordo» e
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non «di scontro» con gli altri membri dell’ eurogruppo, ma se le cose vanno male Atene
«non accetterà più i trattati dell’ Ue».
La reazione é arrivata proprio ieri prima da Bruxelles e poi da Berlino. La Commissione
europea,con il vice-presidente dell’ esecutivo, Jyrki Katainen, fedelissimo della cancelliera
Ankela Merkel, ha ripetuto che Atene «si é assunta degli impegni e ci aspettiamo che
mantenga le promesse», mentre il ministro dell’economia tedesco, Sigmar Gabriel, ha
ricordato ad Atene che «il nuovo governo deve essere giusto verso i contribuenti in
Germania e in Europa che hanno mostrato solidarietà».
Tutti i partner europei chiedono al governo Tsipras di mantenere i patti, escludendo ogni
dialogo per un eventuale taglio del debito pubblico greco. Un atteggiamento che, se da
una parte serve le politiche di rigore di Berlino, dall’altra nasconde due fattori non
trascurabili.
Innanzitutto ciò che sottolineano tutti gli economisti del mondo e che dietro le quinte
ammettono pure i dirigenti europei: il debito non è sostenibile, non solo in Grecia, ma
anche in Italia, in Spagna e altrove.
Perciò — ed è questa la proposta di Atene– bisogna affrontare la questione in una
conferenza europea. In secondo luogo, riferendosi ai contribuenti europei, Alexis Tsipras
che si incontrerà anche con il presidente francese, Francois Hollande, varie volte ha
sottolineato che un eventuale hair-cut del debito pubblico non toccherà i contributi dei
privati. «L’Europa e la Grecia possono avanzare insieme» ha detto più cauto ieri il
commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici. Infine, a Tsipras, è arrivata
anche la telefonata di Obama, che si è detto disposto ad aiutare il paese: «Pure io ero
giovane come te quando sono stato eletto e ora ho i capelli grigi», avrebbe detto al leader
greco il presidente Usa.
del 29/01/15, pag. 2
La svolta in Grecia
Debutto shock per Tsipras: stop alle
privatizzazioni
Premier morbido nei toni, linea ferma
ATENE
Il Governo Tsipras nel primo consiglio dei ministri ha lanciato un “siluro” alla politica della
troika bloccando le privatizzazioni. Uno dei pilastri del “Washington Consensus”, cioè della
riduzione del debito pubblico attraverso la messa sul mercato dei “gioielli di famiglia”
portato avanti dalla troika su suggerimento dell’Fmi. Una strategia economica che viene
subito abbandonata dal nuovo esecutivo.
La mossa non giunge inaspettata agli osservatori perché Alexis Tsipras lo aveva
promesso in campagna elettorale, ma a colpire è stata la rapidità di esecuzione del
programma. Il ministro dell’Energia, Panagiotis Lafazanis ha dichiarato che bloccherà
immediatamente il piano di privatizzazione del 30% della compagnia elettrica DEH (Ppc),
la più grande public utility del Paese, di cui lo Stato ellenico controlla una quota di
maggioranza e della compagnia di distribuzione dell’energia elettrica (Admie). Lo stesso
Lafazanis ha annunciato il blocco della prevista cessione a privati del 35,5% di Hellenic
Petroleum, la maggiore raffineria del paese.
Congelata anche la cessione del 67% dell’autorità di gestione del Porto di Pireo,
un’operazione già avviata per la quale erano rimaste in corsa quattro società, tra cui il
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colosso cinese Cosco che gestisce in concessione per 30 anni già le due maggiori
banchine container dello scalo. Rinviata anche la privatizzazione del Porto di Salonicco.
«L’accordo per Cosco sarà rivisto per il beneficio del popolo greco» ha detto il vice
ministro Thodoris Dritsas. Il colosso cinese aveva intenzione di subentrare nelle quote
ancora possedute dallo Stato greco nella società del porto. Per cercare di non irritare
eccessivamente la Cina, che da anni tesse una paziente tela diplomatica con Atene, dopo
la mossa shock sul Porto del Pireo, Tsipras ieri ha incontrato l’ambasciatore di Pechino ad
Atene.
Immediata la reazione dei titoli alla Borsa di Atene. Il Porto del Pireo è precipitato del 9%,
malissimo anche DEH (-13,9%). A picco anche i titoli delle banche: Piraeus Bank – 29,9%,
Nbg -25%, Eurobank -25%, Alpha -29 per cento. Più in generale, la Borsa di Atene ha
perso il 9 per cento. Gli investitori temono che il governo greco, che ha già attraverso il
Fondo ellenico di stabilità un grosso pacchetto di azioni delle banche, voglia abolire la
norma che ne congela i diritti di voto. Una richiesta che era stata voluta ancora una volta
dalla troika che voleva mantenere una certa autonomia alla dirigenza bancaria rispetto
all’esecutivo. Abolendo questa norma l’esecutivo potrebbe tornare ad esercitare un
controllo diretto sul credito.
Vassillis Patikis, capo dei mercati globali alla Piraeus Bank, lo ha dichiarato apertamente
ricordando che l’esecutivo possiede un congruo numero di azioni delle banche. Questo
darebbe maggiori poteri all’esecutivo sul sistema creditizio che a sua volta è creditore
verso molti gruppi di potere economico che hanno remato contro la vittoria di Syriza e ora
temono una reazione ostile.
In effetti Tsipras mostra ramoscelli d’ulivo verso il fronte esterno ma rincara la dose sul
fronte interno. «Faremo proposte realistiche ai creditori», ha detto il premier. Ma il primo
atto di politica interna è stata una dichiarazione di guerra agli oligarchi: «Andremo a far
saltare gli interessi di chi ha tenuto finora in mano i fili del Paese», ha sottolineato Tsipras.
«Sarebbe ingiustificabile se questo governo non fosse all’altezza delle aspettative dei
cittadini che l’hanno votato».
Retorica? Forse. In materia di lavoro, però una delle prime decisioni del governo, hanno
fatto trapelare i ministri, sarà quella di reintegrare i dipendenti pubblici il cui licenziamento
è stato giudicato incostituzionale. Il nuovo ministro del Lavoro greco, Panos Skurletis, ha
annunciato il governo vuole «aumentare il salario minimo interprofessionale, e ripristinare
la tredicesima mensilità per le pensioni più basse. Inoltre riallacceremo le relazioni tra
sindacati e imprenditori», ha aggiunto Skurletis, entrando in Consiglio dei ministri. Skurletis
ha ricordato che le misure «fanno parte del programma» con cui Syriza si è presentata agli
elettori. Il cosiddetto programma di Salonicco prevede di riportare il salario minimo a 751
euro netti, rispetto ai 586 attuali.
Sul tema della rinegoziazione del debito Tsipras si è mostrato prudente nei toni senza
però arretrare nei principi: «No a una rottura distruttiva. Il governo di Atene è pronto a
negoziare con partner e finanziatori per una soluzione giusta e duratura per il taglio del
debito».
I toni concilianti di Tsipras sul debito non hanno calmato i mercati. Il rendimento dei titoli di
stato a tre anni, al 10% il giorno prima delle elezioni, ha toccato il 16,09%. Le banche
hanno perso quasi il 40% in Borsa in tre sedute (il 20% ieri). Quanto al nuovo ministro
delle Finanze, Yanis Varoufakis (che la settimana prossima vedrà a Roma il suo omologo
italiano, Pier Carlo Padoan, a cui ha chiesto un incontro) ha smentito qualsiasi «scontro»
tra il suo Paese e gli altri membri dell’Eurogruppo, sottolineando come invece ci «siano
diversi punti di accordo». Poi, se le cose non dovessero andare per il verso giusto, ha
detto che , «non accetteremo più i trattati dell’Unione europea». Non proprio un ramoscello
d’ulivo.
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del 29/01/15, pag. 5
I 3 pilastri della nuova Grecia
Angelo Mastrandrea
Atene. Via le transenne davanti al parlamento. Ministri concentrati su
economia, società e lavoro. Segnali minimi, ma significativi: sono
sparite le forze speciali antisommossa che presidiavano i ministeri, in
particolare quello della Cultura
I primi segni del nuovo corso ellenico sono minimi, simbolici, ma già significativi. Da ieri
mattina, primo giorno di lavoro del nuovo governo Tsipras, sono sparite le transenne
davanti al Parlamento e con loro i Mat, le forze speciali antisommossa che presidiavano i
ministeri, in particolare quello della Cultura. Il nuovo inquilino della sede di Exarchia ha
poco da temere da anarchici e ribelli vari.
Si tratta di Aristidis Baltas e gode di un prestigio assoluto: filosofo althusseriano, è
considerato uno dei maggiori pensatori marxisti in Grecia, proviene dall’Istituto Nikos
Poulantzas (di cui è presidente) ed è noto per i suoi studi su Wittngstein, Derrida, Spinoza,
Benjamin. Ad affiancarlo, come sottosegretari, ci saranno un noto giornalista, Nikos
Xiolakis, responsabile delle pagine culturali del quotidiano Kathimerini, e Tassos Kourakis,
un docente della Facoltà di Medicina di Salonicco sempre in presente alle manifestazioni
contro l’austerità e nelle lotte sociali (in particolare quella contro l’estrazione dell’oro nella
penisola Calcidica).
Un segnale meno simbolico è invece arrivato dal primo consiglio dei ministri. Al termine
Panaiotis Lafazanis, un matematico che abbandonò il Kke nel ’91 quando i «rinnovatori»
persero la battaglia contro gli «ortodossi» e leader della corrente di sinistra di Syriza,
Aristeria Platforma (Piattaforma di sinistra), che Tsipras messo alla testa del
superministero alla Riorganizzazione produttiva, all’Ambiente e all’Energia, ha annunciato
il blocco della privatizzazione del porto del Pireo. I portuali avranno anche un
sottosegretario a loro molto vicino. Si tratta di Thodoris Dritsas: pireota doc, impiegato
nella farmacia di famiglia, durante la dittatura militava in un gruppo denominato
«Rivoluzione socialista» ed è tra i fondatori di Syriza. Di lui si ricordano le manganellate
prese dalla polizia italiana al porto di Bari nel luglio 2001, quando la nave degli anti-G8
diretti a Genova fu respinta in Grecia.
Nel suo primo giorno di lavoro il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, economista di
fama internazionale, ha incontrato davanti al ministero le donne delle pulizie che da un
anno e mezzo chiedono di essere reintegrate, divenute un simbolo della lotta contro
l’austerità. «Taglieremo le spese al ministero e le riassumeremo», ha promesso loro. Ma
Varoufakis non rimarrà da solo ad affrontare i nodi principali che il governo dovrà
sciogliere: la rinegoziazione del debito e la soluzione dei gravissimi problemi sociali
causati dalla crisi.
Per questo Tsipras ha predisposto una vera e propria linea di fuoco.
A coordinarla ci sarà il vicepresidente del Consiglio Yannis Dragasakis, un altro
personaggio di assoluto spessore. Economista, già ministro dell’Economia nel governo di
unità nazionale del 1989, fino al ’91 esponente di spicco del Kke, che abbandonò quando
perse la segreteria per appena quattro voti (57 a 53), Dragasakis è considerato l’ispiratore
della politica economica di Syriza. Il terzo esponente della troika di Tsipras è Yorgos
Stafakis. Il neotitolare dell’Economia proviene da una famiglia dell’alta borghesia, è un
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pupillo di Dragasakis dai tempi del Kke (all’epoca era nel Kne, i Giovani comunisti), ma nel
tempo si è spostato su posizioni riformiste, suscitando anche mugugni per alcune
esternazioni, come quando affermò che il «debito odioso» dei greci, vale a dire quello
provocato dalla speculazione finanziaria, non supera il 5 per cento. Tsipras l’ha voluto al
governo per le sue posizioni fermamente contrarie al ritorno alla dracma e perché è
considerato un profondo conoscitore dell’economia reale.
Al terzetto di economisti il neopremier ha affiancato due sottosegretari che rispondono
direttamente a lui: quello alle Relazioni economiche internazionali, affidato a Euclide
Thakalotos, un rappresentante del partito degli «inglesi» (si è laureato a Oxford e ha
insegnato a Cambridge, mentre Varoufakis si è formato nell’Università dell’Essex così
come la Governatrice dell’Attica Rena Dourou, braccio destro di Tsipras, e il deputato di
Corfù Fotini Vaki), e l’altro agli Affari europei, messo nelle mani di Nikos Kundos, un
eurodeputato dell’ala comunista di Syriza, noto per il suo attivismo a Bruxelles (di lui si
contano 300 interventi e un migliaio di interrogazioni, anche su argomenti molto scottanti
come quello della svendita dell’aeroporto di Atene e sul caso Siemens).
Thakalotos, formatosi nei giovani laburisti inglesi, è invece un keynesiano puro. Ottimo
conoscitore di Gramsci, sostenitore del commercio equo e solidale, è convinto che il debito
della Grecia non sia sostenibile e che la ricetta per l’uscita dalla crisi abbia un solo nome:
socialdemocrazia.
Il secondo pilastro del governo, dopo l’economia, è quello sociale. Alla testa troviamo
Nikos Voutzis, a capo del secondo superministero (dopo l’Economia): agli Interni e alla
riorganizzazione dell’amministrazione statale. Voutzis, proveniente dal Partito comunista
dell’interno ed ex capo della segreteria politica di Syriza, sarà affiancato da un ministro ad
hoc per la lotta alla corruzione, l’ex magistrato (dalla fama di duro) Panaiotis Nicoloudis,
un indipendente voluto direttamente da Tsipras. Prima promessa: la chiusura delle carceri
speciali. Contemporaneamente la sua viceministra con delega all’Immigrazione, Tasia
Christodoulopoulou, si è impegnata a dare la cittadinanza a tutti i figli degli immigrati nati in
Grecia.
Tralasciando le concessioni all’Anel (l’istrionico e discusso segretario Panos Kammenos
alla Difesa, un sottosegretario con delega alla Macedonia e un’ex campionessa di salto in
alto e 100 metri a ostacoli che la Cnn nel ’91 scelse tra le migliori dieci modelle al mondo
alla quale è stata affidata la delega al Turismo), il terzo pilastro del governo Tsipras sarà il
lavoro. Tra i primissimi provvedimenti ci saranno il ritorno alla contrattazione collettiva e
l’aumento del salario minimo a 751 euro. Anche qui la squadra messa in campo è di tutto
rispetto. Il nuovo ministro, Panos Skouletis, è stato per anni responsabile della
comunicazione di Syriza. Sarà affiancato da Teano Fotiou (con delega alla Solidarietà
sociale), una docente di Architettura al Politecnico attiva in Solidarity4all, la rete che
gestisce gli ambulatori e le mense sociali, e da Mania Antonopoulou (con delega specifica
per la lotta alla disoccupazione). Docente alla New York University e al Bard College,
consigliere all’Onu sui temi dell’uguaglianza di genere, Antonopoulou è definita “la signora
dei 300 mila posti di lavoro” per aver criticato duramente i fondi europei per la
riqualificazione professionale (poiché, ha sostenuto, il problema in questo momento è
l’assenza di offerta di lavoro), e per aver teorizzato, in uno studio per il Levy Institute, il
ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza per garantire la piena
occupazione. Ora è chiamata a metterlo in pratica.
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del 29/01/15, pag. 3
L’onda. Sui mercati si inizia a guardare l’avanzata di Podemos in
Spagna, ma anche la situazione dell’iper-indebitato Portogallo
Rischio contagio? Più politico che finanziario
«I mercati guardano solo alla Bce, aspettando il via agli acquisti di titoli di Stato. La
vicenda greca è solo rumore di fondo». «Gli investitori sono convinti che Atene troverà un
compromesso con Bruxelles». Fino a due giorni fa bastava chiamare qualunque trader o
economista per avere queste risposte: la vicenda greca resta isolata, dicevano tutti. Non
può - se non con un po’ di volatilità - contagiare il resto d’Europa. Eppure, a guardare la
giornata di ieri ma soprattutto la realtà dei fatti, viene da pensare che possa non essere
proprio così. Del resto non si può pretendere che l’evoluzione della vicenda greca non
produca effetti in un continente che è costruito come un sistema di vasi comunicanti. Il
contagio (anche escludendo scenari estremi come l’uscita di Atene dall’euro che
creerebbero un vero tsunami sui mercati) potrebbe dunque prima o poi farsi sentire:
soprattutto in Spagna e Portogallo. Meno a rischio, per ora, l’Italia.
Ma andiamo con ordine. Il motivo per cui l’opinione prevalente è che la Grecia non possa
influenzare il resto d’Europa è legato al fatto che siamo abituati a considerare la
propagazione del contagio solo attraverso il canale finanziario. Tutti ricordano cosa
accadde nelle precedenti crisi greche: gli spread salivano per tutti i Paesi periferici (è
accaduto nel 2012) e le Borse crollavano. Oggi tutto questo non sta accadendo, se non
per qualche minima turbolenza come ieri.
Il punto, però, è che i mercati finanziari oggi - rispetto al 2012 - sono anestetizzati dalla
manovra varata giovedì scorso dalla Bce: questo li rende sempre meno sensibili ai rischi.
«Il quantitative easing di Mario Draghi - spiega un trader - incentiva gli investitori a
comprare titoli sempre più rischiosi. Questo favorisce gli acquisti di BTp italiani, di Bonos
spagnoli o di obbligazioni aziendali». Rbs ha calcolato che quando la Bce inizierà ad
acquistare titoli di Stato e altro tipo di bond, sul mercato si creerà un effetto scarsità: le
nuove emissioni, insomma, non saranno in grado di compensare i 60 miliardi assorbiti
mensilmente dalla Bce. Questo sostiene i mercati. E fa dimenticare la Grecia.
Ma se i mercati non reagiscono, non significa che il contagio dalla Grecia non possa in
futuro materializzarsi attraverso altri canali. Il più evidente è quello politico. E il primo
Paese che preoccupa,sotto questo punto di vista, è la Spagna: perché andrà alle elezioni
a fine 2015 e perché i sondaggi danno in testa il partito di estrema sinistra Podemos. «Tra
gli investitori questo sta diventando un tema sempre più importante - riferisce Luca
Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo -. Se un tempo era l’Italia a creare incertezza
politica, ora sta tornando a farlo la Spagna». Non è un caso che i titoli di Stato di Roma e
Madrid si stiano riavvicinando: lo scorso ottobre i titoli italiani erano costretti ad offrire 0,41
punti percentuali in più per trovare acquirenti, mentre ora lo spread Italia-Spagna si è
ridotto a 14. Sebbene il Paese iberico sia quello che cresce più di tutti in Europa (+1,3%
nel 2014), l’Italia sta riducendo lo svantaggio sui titoli di Stato.
Ma il contagio potrebbe colpire anche altri. Se la Grecia riuscisse a spuntare condizioni più
favorevoli sul debito, si chiede Alberto Gallo di Rbs, perché non dovrebbero chiedere
altrettanto Portogallo e Irlanda? Soprattutto Lisbona, che ha una condizione economica
simile a quella greca: ha basse prospettive di crescita e un debito molto elevato. Non solo
quello pubblico (127,7% del Pil), ma anche quello delle famiglie (al 133% del reddito
disponibile) e delle imprese (più della metà ha un debito netto 5 volte superiore all’Ebitda):
il totale è pari al 500% del Pil. Il Paese ha annunciato il rimborso anticipato degli aiuti del
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Fondo monetario, ma se la Grecia ottenesse qualcosa Lisbona potrebbe forse chiedere
altrettanto. Con tutte le incertezze e tutta la volatilità che questo comporta. Il contagio,
insomma, non è escluso. Anche se i mercati, narcotizzati, per ora non ci pensano.
del 29/01/15, pag. 8
Ucraina: l’esercito di Kiev è allo sbando
Fabrizio Poggi
Ucraina. Continuano i combattimenti. Nuove sanzioni contro la Russia
all'orizzonte
Non si riferiva certo alla disciplina e allo spirito combattivo Vladimir Putin, quando ha
definito l’esercito ucraino «Legione straniera della Nato». Il riferimento era — casomai —
ai metodi di guerra terroristica e alla composizione dei battaglioni che affiancano le truppe
regolari. Sempre più spesso le milizie, allorché occupano una posizione prima controllata
dai governativi, trovano indumenti, oggetti personali e armi di fabbricazione straniera,
appartenenti a mercenari di ogni parte d’Europa, arruolati nei battaglioni neonazisti. Dopo
il bombardamento di Mariupol di sabato scorso, è comparso in rete un video in cui, nelle
strade della città, soldati dell’esercito ucraino rispondevano in inglese ad alcuni passanti.
Quanto poca sia la volontà degli ucraini di andare nel Donbass a sparare contro propri
connazionali è testimoniato dai casi sempre più frequenti di uomini in età di richiamo alle
armi che, in ogni maniera, cercano di sottrarsi. Tanto che, mentre il consigliere
presidenziale ucraino Birjukov ha definito i cittadini delle regioni occidentali «botoli
codardi», Kiev ha iniziato a ricorrere ai «reparti di sbarramento»: plotoni che, alle spalle
dei militari, armi alla mano, bloccano loro la strada della ritirata o della diserzione.
E, in ogni caso, il morale delle truppe non deve essere dei più alti se il cosiddetto
Cyberberkut ucraino ha ordinato ai comandi di non diffondere cifre sulle perdite, tra le quali
si contano anche i 10mila soldati accerchiati nel saliente di Debaltsevo e che cadranno
prigionieri delle milizie. In generale, che la mobilitazione lanciata da Kiev in gennaio non
vada secondo le attese, lo dimostrano le centinaia di uomini che rifiutano di presentarsi
alle commissioni di leva e gli interi consigli comunali che si oppongono al richiamo alle
armi. Molti si rifugiano in Russia; dalle regioni occidentali si fugge verso Moldavia,
Ungheria, Romania, Slovacchia. Un provvedimento adottato ieri dal Servizio federale di
immigrazione russo concede ai cittadini ucraini in età di mobilitazione – sarebbero 1,2
milioni, su un totale doppio di profughi — di rimanere in Russia oltre i 90 giorni previsti
normalmente.
Tutto ciò, non impedisce a Kiev di continuare nella guerra terroristica contro la
popolazione civile: sembra proprio che l’azione delle artiglierie governative contro i centri
abitati sia inversamente proporzionale agli insuccessi al fronte. Nelle ultime 24 ore, si sono
contati almeno 20 morti e 123 feriti tra la popolazione di varie città delle regioni di Donetsk
e Lugansk; il numero più alto di morti, 13, a Stakhanov, per i bombardamenti governativi.
Sul fronte diplomatico, mentre si attende un nuovo incontro delle parti in conflitto — ma,
come siederanno al tavolo delle trattative, dopo che la Rada ha dichiarato ieri l’altro la
Russia «Stato aggressore» e le Repubbliche del sudest «organizzazioni terroristiche»? —
Usa e Ue si esprimono oggi per l’estensione delle sanzioni a ulteriori persone fisiche e
giuridiche russe. La motivazione si basa sul bombardamento di Mariupol, che la Ue, su
suggerimento di Kiev e senza produrre documentazioni, attribuisce alle milizie. La Ue
auspica anche misure contro le «attività di disinformazione» russe. Uniche eccezioni nel
coro euroatlantico, Grecia e Cipro, contrari alle nuove sanzioni. E il Comitato di
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monitoraggio del Consiglio d’Europa ha votato la risoluzione presentata dalla Gran
Bretagna e appoggiata da Ucraina, Polonia e Paesi baltici, per privare la delegazione
russa del diritto di voto e del diritto di far parte degli organi direttivi dell’Assemblea
del 29/01/15, pag. 12
Israele-Hezbollah: è guerra
Uccisi 2 soldati, raid in Libano
Attaccata una pattuglia, poi la rappresaglia: muore anche un casco blu
spagnolo
Maurizio Molinari
Lampi di guerra fra Hezbollah e Israele lungo il confine del Libano del Sud e del Golan. La
scintilla iniziale sono quattro razzi da 107 mm che unità di miliziani filo-iraniani lanciano
martedì dal Golan siriano in territorio israeliano. Gerusalemme risponde con i jet, nella
notte seguente, che bersagliano basi e postazioni della 90a brigata siriana. Sono i
fedelissimi del regime di Bashar Assad che nella Siria del Sud operano assieme ad
Hezbollah. È dalle loro basi che, la scorsa settimana, si era mosso il corteo di auto con a
bordo Jihad Mughinyeh - capo Hezbollah nel Golan - annientato dall’attacco di elicotteri
israeliani a Quneitra che ha ucciso sei miliziani ed altrettanti iraniani, incluso un generale.
Tanto l’Iran che Hassan Nasrallah, sceicco di Hezbollah, avevano preannunciano
«vendetta» e la promessa di morte si avvera ieri mattina, con l’agguato a un convoglio
israeliano. È una colonna di tre mezzi, non blindati, che attraversa l’area delle Fattorie
Shebaa - dove Israele, Siria e Libano si toccano - cercando tunnel Hezbollah e viene
investita da cinque missili antitank «Kornet». Il primo centra un veicolo e uccide sul colpo
due soldati. Gli altri si gettano in strada mentre i «Kornet» distruggono gli altri mezzi.
Segue un’aspra battaglia. Sette i feriti israeliani, di cui due in gravi condizioni.
I nomi sui proiettili
Alcuni dei proiettili lanciati da Hezbollah non esplodono, gli israeliani li raccolgono e vi
trovano scritti sopra messaggi espliciti:«Questo è da parte della Brigata dei Martiri di
Quneitra», «Il martire Jihad Mughniyeh non è morto». La rivendicazione di Hezbollah
arriva con Naim Qassem, vice di Nasrallah, «attaccando a Quneitra Israele ha tentato di
cambiare l’equilibrio di forze, abbiamo iniziato a rispondere». Segue una pioggia di colpi di
mortaio e razzi a corto raggio su piccoli centri e kibbutizim israeliani oltre la frontiera del
Sud Libano.
Il più sanguinoso attacco di Hezbollah contro Israele dalla fine del conflitto del 2006
disegna una nuova linea di scontro, che include il Golan e apre lo scenario di un possibile
coinvolgimento di Israele nella guerra civile che ha già causato 250 mila vittime. Hezbollah
lancia soprattutto mortai perché le batterie israeliane di Iron Dome non riescono ad
intercettarli: conferma che Nasrallah ha studiato il recente conflitto di Gaza, prendendo le
misure contro le difese anti-missilistiche dello Stato Ebraico. La replica di Gerusalemme
all’agguato è massiccia: gli obici dell’artiglieria martellano Majidiyeh, Abbasiyeh e Kfar
Chouba, i villaggi controllati da Hezbollah nel Libano del Sud. Sono dozzine di colpi che
«vanno a segno» assicura il portavoce israeliano Moti Amoz, aggiungendo: «Non abbiamo
ancora finito». Fonti libanesi assicurano che «ci hanno lanciato contro anche missili,
almeno sette». Ad Abbasiyeh le truppe Onu si trovano sotto il fuoco israeliano e un soldato
spagnolo viene ucciso.
Tensioni con Madrid
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Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman chiama Madrid per esprimere «condoglianze» e
attribuisce la responsabilità all’escalation Hezbollah: «Sono terroristi, dobbiamo
difenderci». Da Sderot, dove è in visita, il premier Benjamin Netanyahu ammonisce
Nasrallah: «Dia un’occhiata a quanto avvenuto quest’estate a Gaza, è quello che sta
rischiando». Il riferimento a Gaza non è casuale: Nasrallah dalla tv Al Manar parla di
riconciliazione con Hamas, superando i disaccordi sulla Siria, e ciò fa temere a Israele lo
scenario di una guerra su due fronti. Tantopiù che Khaled Mashaal, leader di Hamas, è
stato invitato a Teheran. Nel giorno di guerra al Nord, Israele fa trapelare un’ammissione
che ridimensiona l’effetto della guerra di Gaza: il capo militare di Hamas, Mohammed Deif,
è ancora vivo.
Del 29/01/2015, pag. 14
Giorno di guerra tra Israele e Hezbollah
Uccisi due soldati e un militare dell’Onu
Convoglio attaccato dai miliziani sciiti al confine libanese. Netanyahu: i
responsabili pagheranno
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME I «fulmini devastanti» minacciati dai generali iraniani si sono
materializzati in sei razzi Kornet sparati contro una pattuglia israeliana. Il primo ha colpito il
veicolo alla testa del convoglio (due militari uccisi), gli altri le jeep al seguito: i soldati sono
riusciti a saltare fuori prima dell’impatto, i sette feriti non sono gravi.
Lo stato maggiore e l’intelligence aspettavano la risposta all’attacco di dieci giorni fa,
quando un missile di Tsahal aveva centrato dentro la Siria il pick-up che trasportava sei
miliziani di Hezbollah e un generale di Teheran. Aspettavano e provavano a indovinare il
possibile bersaglio, era chiaro che l’operazione sarebbe stata condotta dall’organizzazione
sciita libanese su mandato degli iraniani. Martedì due razzi katiusha sono esplosi sul
Monte Hermon, le piste da sci sono state evacuate, gli analisti non l’hanno considerato
sufficiente per la vendetta proclamata. La vera operazione è quella di ieri: i Kornet sono
stati lanciati da quattro chilometri di distanza, i puntatori laser hanno fatto da mirino,
l’obiettivo era uccidere, non provare a rapire i soldati com’era successo nell’estate del
2006. L’artiglieria ha bombardato le postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, sono le
aree al confine dove stazionano anche i soldati delle Nazioni Unite: lo spagnolo Francesco
Javier Soria Toledo è rimasto ucciso dal fuoco israeliano, Madrid chiede un’inchiesta.
Sono le perdite più gravi inflitte da Hezbollah a Israele sul fronte nord dal conflitto di nove
anni fa e il governo sta ancora decidendo come reagire. Il premier Benjamin Netanyahu
promette «i responsabili pagheranno», considera coinvolti il Libano, la Siria e l’Iran.
Malgrado le pressioni di Avigdor Lieberman — il ministro degli Esteri che invoca una
«risposta sproporzionata» — il premier sembra voler raffreddare la situazione: gli israeliani
hanno combattuto contro Hamas per sessanta giorni l’estate scorsa, il Paese è in
campagna elettorale (si vota a metà marzo).
Hezbollah ha rivendicato l’imboscata, non ha lasciato ambiguità sugli autori, ha voluto
dimostrare che l’azione del 18 gennaio non poteva passare senza una rappresaglia.
Eppure sembra aver calibrato come — e soprattutto dove — colpire. I militari israeliani (i
due caduti sono il capitano Yochai Klengel e il sergente Dor Nini) si muovevano vicino al
villaggio di Ghajar, è la zona delle fattorie di Sheeba, venticinque chilometri quadrati che
Hezbollah considera sottratti al Libano e che le mappe delle Nazioni Unite attribuiscono
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alla Siria come il resto delle alture del Golan conquistate dagli israeliani nella guerra del
1967 e annesse dal parlamento nel 1981.
«È territorio conteso dove esistono regole non scritte: una di queste è che qui il conflitto tra
Israele e Hezbollah non si ferma mai» scrive su Times of Israel l’analista militare Mitch
Ginsburg. Fa notare che altri obiettivi avrebbero obbligato Netanyahu a quell’operazione
militare massiccia che i miliziani e l’Iran vorrebbero comunque evitare. L’esercito irregolare
di Hezbollah è impegnato in Siria e una guerra con Israele in questo momento potrebbe
solo avvantaggiare i ribelli, portare all’indebolimento e alla caduta del regime di Bashar
Assad. «Forse è finita così: occhio per occhio» commenta la ricercatrice Orit Perlov. La
decisione dell’esercito di permettere la riapertura della stazione sciistica sul Monte
Hermon sembra voler mandare il segnale che per ora bastano i trentacinque obiettivi
distrutti dall’artiglieria subito dopo l’attacco. Gli ultimi dieci giorni confermano allo stato
maggiore quello che stava diventando evidente con il prolungarsi della guerra civile
siriana: le alture del Golan — tranquille per quasi cinquant’anni — sono il nuovo fronte
dello scontro con Hezbollah e gli iraniani. Tra i sette miliziani uccisi il 18 gennaio, c’era
Jihad Mughniyeh — figlio del comandante eliminato dagli israeliani a Damasco nel 2008
— che sarebbe stato incaricato di organizzare le cellule e le squadre da muovere per
colpire dall’altra parte della frontiera.
Davide Frattini
Del 29/01/2015, pag. 14
Unifil protesta per l’«errore di mira»
La missione impossibile del comandante italiano: vigilare e mediare con
pochi poteri
Perché voi israeliani non state più attenti, se dovete rispondere agli Hezbollah? E perché
voi dell’Onu non controllate i missili che gli Hezbollah vi piazzano sotto il naso? Quando si
telefonano tra Naqoura e Tel Aviv, fra il comando delle forze onusiane in Libano e i
generali all’ombra delle Azrieli Towers, le domande sono sempre le stesse; le risposte,
regolarmente evasive; i toni, spesso duri. È andata così anche ieri: raccomandando
«massima moderazione», il generale Luciano Portolano ha in realtà preteso chiarimenti
sulla morte di Francisco Toledo, l’ufficiale spagnolo ucciso da un mortaio israeliano.
Un errore di mira, chiaro: c’era da reagire agli sciiti che avevano appena ammazzato due
soldati di Tsahal. «L’ennesimo episodio che innervosisce tutti, dice un diplomatico italiano:
«Questa missione sta nell’area più calda, a due passi dalla Siria, con un mandato
limitatissimo. E l’ordine è di voltarsi dall’altra parte».
L’aria a sud del Libano si rifà pesante e la missione Unifil – 10mila caschi blu di 37 Paesi,
1.100 italiani, il comando per la terza volta a un nostro generale – si ritrova con la solita
coperta leggera della risoluzione 1701 approvata dopo la guerra del 2006: vigilare,
supportare, se proprio va male scappare.
L’escalation preoccupa, anche se i razzi degli sciiti erano tutto meno che inattesi: a metà
gennaio, dopo l’esecuzione del superpasdaran che addestrava gli Hezbollah, il grado
d’allerta è stato elevato. Ogni mese, Portolano incontra ufficiali libanesi e israeliani perché
«teniamo aperti tutti i canali». Poi però c’è un patto non scritto fra noi e gli Hezbollah:
«Loro sanno che devono lasciarci stare – rivela una fonte italiana –. Infatti non ci
attaccano mai direttamente: quando ci sono state le autobombe, erano di gruppi sunniti
che volevano visibilità. I problemi li abbiamo di più con gl’israeliani». I quali non hanno mai
risparmiato critiche alla missione: «Hezbollah viola ogni giorno la risoluzione Onu – ha
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ripetuto un alto ufficiale a Maariv – e lo fa sotto il naso di Unifil. Gli sciiti non possono
avere armi in quell’area, eppure le hanno. Armi con le impronte digitali dell’Iran».
Fra razzi e mortai, il difficile equilibrio su cui si regge Unifil dovrebbe comunque durare:
«Hezbollah non ha interesse a usare ora i Fajr che tiene sotto il Litani, a fare scoprire i
tunnel che sarebbero stati scavati lungo il confine». E a due mesi dal voto, Netanyahu non
può desiderare avventure rischiose. «I nuovi Fajr non sono i ferrivecchi di Hamas» l’ha
avvertito l’alto ufficiale: possono colpire ovunque e «Iron Dome non può intercettarli tutti».
Gl’israeliani stanno già addestrando piccole unità rapide d’autodifesa. Perché dal Libano ci
si aspetta il peggio e dall’Onu non ci si aspetta niente: «Pur di non avere grane dagli
Hezbollah – accusa la stampa israeliana – Ban Ki-moon ha prorogato fino al 2018
l’inchiesta sull’assassinio di Rafik Hariri, il presidente libanese». Dodici anni per non avere
un colpevole. «E tutti sanno chi è stato».
del 29/01/15, pag. 9
Amman e Tokyo, si tratta con l’Isis
Chiara Cruciati
Califfato. L'alleato Usa tratta con al-Baghdadi: libera kamikaze irachena
in cambio del pilota giordano e il giornalista giapponese. A pesare lo
strapotere delle tribù. L'Isis punta a mostrarsi la vera erede dell'alQaeda di al-Zarqawi
Stavolta niente esecuzioni sanguinarie né riscatti a sette zeri. Stavolta l’Isis tratta: ieri la
Giordania ha accettato di rilasciare Sajida al-Rishawi, miliziana di al-Qaeda, in cambio del
pilota giordano Moaz al-Kasasbeh e del giornalista giapponese superstite, Kenji Goto.
Al-Kasasbeh era stato catturato dai miliziani di al-Baghdadi un mese fa, dopo che il suo jet
era stato abbattuto mentre era in volo sopra il cielo siriano. Amman, rendendo pubblico
l’accordo di scambio con il califfo, ha fatto solo il suo nome: il militare proviene da una
potente tribù della città di Karak e le possibili reazioni della famiglia preoccupano molto il
governo, la cui stabilità si regge su un ramificato sistema clientelare e il delicato equilibro
che la famiglia reale mantiene tra le varie tribù locali.
Di Goto non si è parlato ufficialmente, ma secondo fonti governative anche il suo nome è
nella lista. Il giornalista era ricomparso in un video pubblicato sabato, costretto a mostrare
la foto del corpo ormai senza vita dell’altro ostaggio giapponese, Haruna Yukawa. In un
messaggio successivo i miliziani concedevano a Giappone e Giordania 24 ore di tempo. E
così in cambio della vita dei due ostaggi, Amman restituirà la libertà ad una donna che nel
2005 attaccò insieme ad altri 4 attentatori suicidi tre hotel della capitale giordana,
uccidendo 57 persone. La sua cintura non esplose, fu catturata e condannata a morte,
pena sospesa.
I movimenti avvengono dietro le quinte: non è semplice giustificare alle proprie opinioni
pubbliche – e a quelle dei paesi della coalizione anti-Isis – che si sta trattando con il
nemico: due giorni fa ad ammettere che un negoziato indiretto era già in corso era stato il
presidente della commissione Esteri della Camera, Bassam al-Manaseer, negoziato
gestito da leader tribali e religiosi iracheni.
Non mancheranno effetti collaterali a seguito dell’ufficioso dialogo con il califfato da parte
di uno dei più fedeli alleati Usa, Amman, da subito in prima linea nel fornire basi e uomini
alla coalizione e ad aderire al programma di addestramento delle opposizioni moderate
siriane insieme alla Turchia. In Giordania non sono pochi quelli che alzano la voce per una
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discesa in campo ritenuta non necessaria, una guerra che «non riguarda Amman». E i
sostenitori della lotta all’Isis non faranno che assottigliarsi dopo un simile accordo: martedì
notte centinaia di manifestanti hanno marciato per la capitale, cantando slogan contro re
Abdallah, grave crimine in Giordania.
Ma perché al-Rishawi, la donna irachena che l’Isis chiama «la sorella prigioniera», è tanto
importante da valere un accordo di scambio? Sajida è la sorella di Mubarak al-Rishawi,
uno dei bracci destri del fondatore di al Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi, ucciso nel
2006. Ovvero, il fondatore del gruppo da cui è nato l’Isis di al-Baghdadi, che ancora lo
considera una figura di riferimento. La liberazione della donna avrebbe quindi un
significato simbolico e un ritorno concreto: mostrarsi come l’erede della vera al-Qaeda e
attirare così altri adepti, soffiandoli agli stessi gruppi qaedisti, a partire da al-Nusra.
L’Isis è sempre alla ricerca di nuovi miliziani: secondo l’ultimo rapporto del Centro
Internazionale per lo studio della radicalizzazione e della violenza politica (realizzato da
università occidentali e arabe), il numero di miliziani stranieri in Siria e Iraq è salito a
20.730, «la più ampia mobilitazione di combattenti stranieri in paesi a maggioranza
musulmana dal 1945». Nuove leve giunte da 50 paesi e andate ad arricchire le già ampie
file del califfato e del Fronte al-Nusra.
«Si stima che il 5–10% di loro siamo morti e un altro 10–30% abbia già lasciato le zone di
conflitto». Con un tale sistema di arruolamento, si comprende bene perché l’Isis continui la
sua avanzata e perché la scorsa settimana il Pentagono sia stato costretto ad ammettere
che in 5 mesi fa la coalizione è stata in grado di strappare allo Stato Islamico solo l’1% dei
territori occupati in Iraq, 700 km quadrati contro i 55mila in mano al califfo.
La vittoria appena archiviata dai kurdi di Kobane appare così ancora più significativa. A
due giorni dall’annuncio della liberazione della città, si combatte nei villaggi intorno, mentre
dal confine con la Turchia molti profughi hanno tentato di rientrare nelle loro case, fermati
dai cannoni ad acqua dell’esercito di Ankara. E ora è il tempo della ricostruzione: il 50%
della città è distrutto, mancano cibo, medicine, acqua e elettricità.
del 29/01/15, pag. 1/14
Il gioco dei tiri incrociati che blocca l’intesa
con l’Iran e rimette in pista Assad
BERNARDO VALLI
LA Siria è il teatro di vari conflitti in cui alleati e avversari si scambiano i ruoli. I nemici,
dichiarati o di fatto, possono essere amici secondo lo scontro in cui sono impegnati. È la
guerra dei tiri incrociati. Il missile che ieri ha ucciso due soldati israeliani e ne ha feriti
sette, nell’area nota come la Fattoria Shebaa (o in Israele come Monte Dov), è stato
sparato dagli hezbollah libanesi. I quali sostengono al tempo stesso in quanto sciiti il
regime di Damasco e quindi combattono i jihadisti sunniti dello Stato Islamico, principale
forza ribelle. Ma quest’ultimo, lo Stato Islamico, è anche il bersaglio degli attacchi aerei
della coalizione guidata dagli americani. Americani e hezbollah hanno dunque un obiettivo
comune. Lo stesso vale per i sauditi impegnati nella coalizione americana contro lo Stato
Islamico. Questo non toglie che i missili degli hezbollah piovano pure sugli israeliani,
strettamente legati agli Stati Uniti. E che l’Arabia Saudita, potenza sunnita, sia la principale
avversaria araba dell’Iran sciita, di cui gli hezbollah sono stretti alleati.
Questo è soltanto un aspetto del mosaico di conflitti di cui bisogna tracciare i contorni e
precisare le cause per tentare di capire quel che accade in Medio Oriente. L’uccisione dei
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due soldati, nell’area della fattoria Shebaa, in prossimità delle alture del Golan, ricorda
quel che accadde nel 2006. Allora un missile colpì una pattuglia di confine, tre soldati
furono uccisi e due presi prigionieri. Nel tentativo di liberarli altri cinque israeliani persero
la vita. Così si accese una guerra durata un mese. Il bilancio finale fu di mille morti libanesi
e centosessanta israeliani. C’è il rischio che quel conflitto riprenda?
Israele ha reagito con tiri di mortaio che hanno ucciso un militare spagnolo dell’Onu (a
qualche chilometro c’è il contingente italiano), ma soprattutto il primo ministro Benjamin
Netanyahu ha annunciato una risposta più dura. Ha detto che Israele «sa rispondere con
la forza» a coloro che lo sfidano uccidendo i suoi cittadini. Il lancio micidiale del missile
delle milizie sciite libanesi è avvenuto nove giorni dopo l’incursione aerea, attribuita agli
israeliani, in territorio siriano che ha fatto cinque morti. Tra i quali il figlio di un capo
hezbollah. Oltre ai libanesi fu ucciso un generale iraniano. Israele si aspettava una
risposta. Un alto ufficiale di Teheran aveva avvertito che «il tuono si sarebbe fatto sentire »
molto presto.
Il conflitto tra israeliani e Hezbollah è un capitolo a parte, ma risente della situazione
generale in Medio Oriente. E anche dei riflessi che essa ha nelle capitali vicine e lontane.
Anzitutto la guerra civile in Siria, che in quattro anni ha fatto più di duecentomila morti,
negli ultimi mesi ha subito un cambiamento radicale e drammatico. Lo Stato Islamico (o
Califfato), inesistente all’inizio, occupa ormai circa la metà del paese, mentre le forze ribelli
moderate e “laiche”, sulle quali contavano gli americani per mettere fine alla dittatura di
Bashar el Assad, sono state ridimensionate. Non sono più in grado di minacciare il regime
di Damasco.
La posizione di Assad si è rafforzata. Al punto che quando il segretario di Stato John Kerry
lo invita a cambiare politica, non gli intima più come un tempo di abbandonare il potere.
Non sarebbe realistico. Assad non può essere un alleato degli Stati Uniti, poiché resta un
raìs infrequentabile per le migliaia di vittime che ha fatto il suo regime, forse anche usando
i gas tossici. Ma di fatto l’aviazione americana e quelle degli alleati occidentali e arabi
scaricano le loro bombe sulle zone occupate dallo Stato Islamico esattamente come
l’aviazione di Assad. I bersagli sono gli stessi. Entrambi, Obama (e i suoi alleati) e Assad
hanno un nemico comune, pur essendo loro stessi nemici, ma senza combattersi
direttamente. Ed è ormai opinione comune che se le truppe governative di Damasco non
presidiassero una larga parte del paese, i jihadisti del califfato avrebbero un successo
inarrestabile e «catastrofico ». Non si vince una guerra che implica il controllo del territorio
senza una fanteria, con la sola aviazione. E le milizie che gli americani preparano in Iraq e
in Siria saranno operative soltanto tra qualche mese. Per ora i soli soldati validi che si
battono a terra sono i curdi e gli sciiti, quest’ultimi spesso inquadrati e armati dall’Iran.
La guerra dei tiri incrociati costringe gli americani a puntare su un fronte comune per
combattere lo Stato Islamico, che rappresenta la minaccia maggiore in Medio Oriente. Un
fronte politico che includa la Russia e l’Iran, principali alleati di Assad, e la Turchia e
l’Arabia Saudita che sono i suoi principali avversari. È indicativo che le Nazioni Unite
tentino di creare le condizioni per una trattativa tra le forze, governative e ribelli, impegnate
nella battaglia di Aleppo. Sarebbe un inizio di dialogo da estendere poi a tutto il paese. Dal
tavolo dell’ipotetico negoziato dovrebbero essere esclusi soltanto i jihadisti del Califfato. I
tagliatori di teste non possono diventare interlocutori. Tutti gli altri gruppi ribelli, quelli
moderati appoggiati dagli americani e quelli islamici, dovrebbero avere diritto a una
seggiola. Sarebbe come avviare un dialogo con Bashar el Assad.
Il recupero dell’Iran provoca molte reticenze tra gli alleati dell’America. E questo pesa sul
conflitto che potrebbe riesplodere tra israeliani e Hezbollah. Benjamin Netanyahu è in
aperto contrasto con Barack Obama. Ai primi di marzo parlerà al Congresso di
Washington, invitato dalla maggioranza repubblicana, senza mettere piede alla Casa
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Bianca e al Dipartimento di Stato. Sempre in marzo si voterà in Israele e per il primo
ministro la visita a Washington, senza neppure una stretta di mano con il presidente e il
segretario di Stato, farà parte della sua campagna elettorale. Obama non è popolare a
Gerusalemme e a Tel Aviv, ma in questa stagione non è apprezzato in particolare il veto
che ha posto alle nuove sanzioni all’Iran proposte dai repubblicani. Poiché sempre in
primavera dovrebbe aprirsi la nuova conferenza sul nucleare iraniano, Obama pensa che
non sia opportuno cominciare dando uno schiaffo agli interlocutori con cui si spera di
concludere un accordo. Netanyahu, per il quale la minaccia nucleare iraniana è un
argomento chiave nella campagna elettorale, potrà esortare il Congresso americano a
raccogliere i due terzi dei voti necessari per annullare il veto presidenziale. Se ci riuscisse
apparirebbe come il primo ministro che ha sconfitto il presidente americano in patria. E ha
contribuito a sventare un accordo sul nucleare iraniano, sul quale spera Obama, e che ai
suoi occhi non sarebbe invece sufficiente per evitare nel futuro un arma atomica in mano
agli ayatollah.
La guerra dei tiri incrociati, che spesso appare una mischia indecifrabile, ha riflessi nelle
grandi capitali. Obama cerca di raggiungere con l’Iran il più difficile accordo degli ultimi
decenni, e Netanyahu invece lo teme. Sul terreno, nella mischia mediorientale, un conflitto
con gli hezbollah, importante appendice della Teheran degli ayatollah, toglierebbe valore
alle carte dei diplomatici. L’Arabia Saudita non è lontana dalle posizioni di Netanyahu.
Essa teme, come Israele, una riammissione in società dell’Iran. Nella tenzone tra sciiti e
sunniti che pesa sulla guerra in corso in Iraq e in Siria, i primi, gli sciiti, acquisterebbero
peso. Non a caso Barack Obama ha dato tanta solennità alla sua visita al nuovo re
d’Arabia. Doveva rassicurarlo.
del 29/01/15, pag. 8
Kamikaze contro i ribelli tuareg
Gina Musso
Mali. Le milizie lealiste del Gatia attaccano con modalità inedite una
postazione dell’Mnla presso Tabankort: 13 morti. Gli indipendentisti
dell’Azawad imputano ai caschi blu la non neutralità nel conflitto che
agita il nord
Un attacco kamikaze unico nel suo genere torna a scuotere il nord del Mali, che si
presumeva “pacificato” dall’intervento francese prima e dalla missione Onu poi. È
avvenuto all’alba di ieri nei pressi di Tabankort, nella regione di Gao. Obiettivo, una
postazione del Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), federazione di
combattenti indipendentisti tuareg e arabi dominata dal Movimento nazionale di
liberazione dell’Azawad (Mnla); bilancio, almeno 13 morti e un numero imprecisato di feriti.
L’attacco è opera della milizia lealista Gatia (Gruppo di autodifesa tuareg Imghad e alleati),
che controlla la strategica città di Tabankort, a metà strada tra Gao e la roccaforte dei
ribelli tuareg, Kidal. Il Gatia, nato per contrastare l’Mnla nel maggio 2014, appoggia il
potere centrale di Bamako e ha alterato gli equilibri nella regione. Ne fanno parte una
frazione filo-Bamako del Movimento arabo dell’Azawad (Maa), le milizie tuareg del clan
Imghad e quelle di etnia songhaï del Coordinamento dei movimenti e del Fronte patriottico
di resistenza (Cm-Fpr), per un totale di circa mille uomini. La natura inedita di quest’ultimo
episodio deriva dal fatto che mai si erano verificati attacchi suicidi a opera del Gatia. Le
modalità fanno piuttosto pensare a infiltrazioni jihadiste o a nuove, inquietanti alleanze. Tra
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le vittime, riferisce il Cma, ci sono sette degli assalitori e in particolare tre kamikaze: i due
che si sono fatti esplodere e un terzo ucciso prima che potesse azionare il detonatore.
Un pick up dell'Mnla Un pick up dell’Mnla
È l’ultimo atto di un’escalation che sta investendo tutta la regione di Gao e coinvolge, oltre
alle varie milizie armate, la forza multinazionale che partecipa alla missione Onu
(Minusma, con circa 9 mila uomini sul terreno) e ovviamente la popolazione civile. Lo
scorso 20 gennaio un elicottero olandese ha colpito un veicolo dell’Mnla (per «legittima
difesa», dice una nota della Minusma), provocando sette morti, venti feriti e la
conseguente reazione indignata dei ribelli, che accusano i caschi blu di essere tutt’altro
che neutrali. Ma il mandato della missione Onu è chiaramente di sostegno al governo
centrale e il Gatia è al momento un alleato prezioso per Bamako, l’unica forza in grado di
togliere le castagne dal fuoco all’esercito regolare nella regione.
Gli olandesi invece partecipano all’operazione Minusma con 480 uomini, quattro elicotteri
d’assalto Apache e tre elicotteri Chinook per il trasporto truppe. Il giorno dopo l’attacco, la
protesta è andata in scena a Kidal, un centinaio di miglia più a nord, dove una folla di
sostenitori dell’Mnla composta soprattutto da donne e bambini ha circondato il locale
aeroporto controllato dai «peacekeepers». I quali dopo aver tentato di disperdere i
manifestanti sparando colpi in aria hanno abbandonato le loro postazioni. Tende,
generatori e altro materiale custodito nell’area dello scalo sono state date alle fiamme.
Pochi giorni fa, ancora, sono morti due manifestanti di segno opposto — ma sempre per
mano dei caschi blu — negli scontri scoppiati intorno alla base Onu di Gao. La protesta
era esplosa dopo che erano circolate voci di un piano per la creazione di una zona
cuscinetto proprio nella zona di Tabankort, cosa che secondo alcuni finirebbe per favorire i
tuareg del Cma. Il portavoce della Minusma, Olivier Salgado, si è giustificato sostenendo
che la base era sotto assedio. Nel lancio di pietre e bottiglie molotov da parte dei
manifestanti sono rimasti feriti due impiegati dell’Onu. Un’inchiesta è stata aperta
sull’accaduto.
La crisi in Mali è esplosa nel 2012 con l’offensiva delle milizie qaediste, inizialmente
alleate con l’Mnla, che ha strappato al controllo del governo di Bamako gli immensi territori
del nord. La Francia è intervenuta nel gennaio 2013 con l’Operazione Serval, a cui è
subentrata nell’agosto 2014 l’Operazione Barkhane dell’Onu.
del 29/01/15, pag. 8
Messico, ufficialmente chiuso il caso dei 43
scomparsi
Geraldina Colotti
Guerrero. A febbraio, si discute all'Onu il crimine di stato
Per il governo messicano, non ci sono dubbi: i 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi dal 26
settembre del 2014, sono morti. Li avrebbero uccisi e bruciati i narcotrafficanti dei
Guerreros Unidos in una discarica di Cucula, nello stato del Guerrero, alimentando il fuoco
con numerosi pneumatici e gettando poi i corpi nel fiume. Il caso degli studenti della
Normal Rural di Ayotzinapa (una delle combattive scuole rurali presenti in Messico) ha
commosso il mondo e ha evidenziato il perverso intreccio tra mafia e potere che governa il
paese. Il 26 settembre, poliziotti e narcotrafficanti, insieme, hanno attaccato i gruppi di
normalistas che protestavano contro le politiche neoliberiste del governo, provocando 6
morti e una ventina di feriti. Alcuni studenti sono fuggiti, altri sono scomparsi.
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Secondo alcuni pentiti, la polizia locale ha consegnato i 43 ragazzi ai narcos e questi li
hanno uccisi e bruciati. Secondo i famigliari e i movimenti sociali, scesi ripetutamente in
piazza per denunciare «il crimine di stato», i ragazzi sono vivi e potrebbero trovarsi nelle
caserme dell’esercito. Luoghi tristemente noti per la brutalità della repressione in un paese
che registra un sequestro ogni tre ore. Durante la presidenza del neoliberista Enrique
Peña Nieto, il numero delle denunce per gli arresti arbitrari (e per le torture) è arrivato a
5.144. Un paese particolarmente pericoloso per attivisti, sindacalisti e giornalisti (l’ultimo è
stato ritrovato morto pochi giorni fa). I famigliari accusano il governo di aver sottovalutato o
inquinato l’inchiesta e dubitano che i resti dell’unico studente identificato si trovassero
effettivamente nella discarica. E continuano a battersi, sia nelle strade che presso gli
organismi internazionali.
Il prossimo 2 e 3 febbraio, l’avvocato delle famiglie dei 43, Vidulfo Rosales, presenterà una
formale denuncia contro lo stato presso il comitato per le sparizioni forzate dell’Onu. Il
legale ha rifiutato la «certezza legale» della morte dei ragazzi annunciata dal procuratore
generale messicano Jesus Murillo Karam. Quello stesso che aveva provocato
l’indignazione popolare dicendo durante una conferenza stampa: «Adesso mi sono
stancato». E subito sulle magliette dei manifestanti era apparsa la stessa frase: per
indicare che anche una gran parte del paese si era stancata di subire l’arroganza del
potere.
Il portavoce dei famigliari, Felipe de la Cruz, ha denunciato le manovre politiche che
nasconde la decisione del governo di concludere le indagini, in vista delle elezioni
regionali e federali di metà mandato, del prossimo 7 giugno. Per l’avvocato Rosales non
c’è «prova scientifica» che gli studenti siano stati uccisi nella discarica di Cucula.
Inoltre, l’indagine si presenta «incompleta» e dipende «eccessivamente» dalle
dichiarazioni di 4 detenuti. In Messico, sono riprese le marce e i blocchi stradali. Ieri,
studenti della Normal di Amilcingo, hanno bloccato il palazzo del governo locale al grido di:
«L’educazione non si vende, l’educazione si difende con la lotta popolare».
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INTERNI
del 29/01/15, pag. 4
Sergio Mattarella
Modi felpati e principi inviolabili, a Montecitorio lo conoscono in pochi.
De Mita lo mandò in Sicilia a bonificare la Dc di Lima. Dopo il
Mattarellum sostenne Prodi e l’Ulivo. Più volte ministro, fu vicepremier
di D’Alema. È tra i fondatori del Pd
Dalla morte di Piersanti al no sulla Mammì
una carriera con la schiena dritta
SEBASTIANO MESSINA
«MATTARELLA ? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il
cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i
suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe
diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa
vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle
facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio
Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a
bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. « In confronto
a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce
meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.
Ma proprio De Mita sa che sotto quel vestito grigio e dietro quei modi felpati c’è un uomo
con la schiena dritta, un hombre vertical capace di discutere giorni interi per trovare un
compromesso con l’avversario, ma anche di diventare irremovibile se deve difendere un
principio, una regola o un imperativo morale. Come fece la sera del 26 luglio 1990, quando
– con un gesto che ancora oggi Berlusconi ricorda – si dimise da ministro della Pubblica
Istruzione perché Andreotti aveva posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sanava
definitivamente le tre reti televisive del Cavaliere. Si dimisero in cinque (c’erano anche
Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino) ma fu lui a spiegare quel gesto di rottura
senza precedenti, e lo fece a bassa voce e senza usare un solo aggettivo polemico:
«Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di
principio, inammissibile…». Poi, quella sera, incrociò Martinazzoli e gli chiese: «Hai
consegnato la lettera di dimissioni?». «Certo, l’ho appena fatto». «E hai fatto una
fotocopia?». «No, perché? ». «Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera,
pur di farla scomparire…».
Nato settantaquattro anni fa a Palermo, figlio di Bernardo che era stato ministro, deputato
e potente democristiano in Sicilia, Sergio Mattarella voleva fare il professore di diritto
pubblico. L’eredità politica del padre era stata raccolta dal fratello maggiore, Piersanti, che
era rapidamente arrivato alla poltrona più potente dell’isola: la presidenza della Regione.
Ma quando la mafia capì che quel politico quarantacinquenne non si sarebbe piegato alle
sue regole, decise di toglierlo di mezzo con il piombo di una pistola. Sergio vide morire il
fratello tra le sue braccia – era il 6 gennaio 1980 – e fu forse in quel momento che fece la
sua scelta: avrebbe fatto politica per non darla vinta a chi aveva ordinato l’assassinio.
Così tre anni dopo fu eletto deputato (in quota Zaccagnini), e l’anno dopo De Mita –
diventato segretario – scelse proprio lui come plenipotenziario del partito in Sicilia. La
missione era chiara: doveva bonificare la Dc di Lima e Ciancimino. La mossa di Mattarella
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arrivò quando si trattò di scegliere il nuovo sindaco di Palermo. Lui scelse, e riuscì a far
eleggere, un giovane professore che era stato tra i consiglieri del fratello: Leoluca Orlando.
Poi De Mita, quando arrivò a Palazzo Chigi, lo richiamò a Roma. Ministro dei Rapporti col
Parlamento. Andreotti lo nominò alla Pubblica Istruzione, e finì come sappiamo. Mattarella
tornò a fare il deputato. Ripensarono a lui quando si trattò di riscrivere la legge elettorale
per adeguarla all’esito del referendum di Mario Segni. Così nacque quell’incastro tra
collegi uninominali e quote proporzionali che fu poi battezzato da Giovanni Sartori con il
nome del suo autore: Mattarellum.
Il destino volle che fosse proprio quella legge, sotto il ciclone di Tangentopoli, a far crollare
il partito di Mattarella, la Dc. Ma lui fu uno dei pochi che sopravvissero alla Prima
Repubblica, perché l’unica macchia che erano riusciti a trovargli era una vecchia storia di
buoni benzina regalatigli da un costruttore siciliano (assoluzione piena, «il fatto non
sussiste»). Nel Partito popolare che prende il posto della Dc, Mattarella fu uno degli
oppositori della linea filo-berlusconiana di Buttiglione («Vuole uccidere il partito» disse) e
anche uno dei sottoscrittori della candidatura a premier di Romano Prodi, schierando il
partito con il centro-sinistra. Poi vennero l’Ulivo, la Margherita e infine il Partito
democratico, del quale Mattarella scrisse (con Pietro Scoppola e altri quattro) il manifesto
fondativo.
Non fu Prodi però a farlo tornare al governo, ma Massimo D’Alema. A Mattarella toccava
la guida del gruppo dei ministri del Ppi, e dunque la vicepresidenza del Consiglio. Poi
arrivò anche il ministero: la Difesa. E lui realizzò l’impresa che non era riuscita a nessuno
dei suoi predecessori: l’abolizione della naja, il servizio militare obbligatorio. Restò anche
con il governo Amato, poi lasciò il governo e, nel 2008, anche il Parlamento. Che però si è
ricordato di lui quando, quattro anni fa, bisognava trovare il nome di un giudice
costituzionale che avesse un ampio consenso. E lui fu eletto. Sembrava che non ce
l’avesse fatta, che avesse mancato il quorum per un solo voto, ma quando le schede
furono ricontate si scoprì che quel voto in più c’era. Era il 5 ottobre 2011. Dopo tre anni e
quattro mesi, si voterà ancora una volta sul suo nome. E lui non sarà il solo ad aspettare lo
spoglio con il fiato sospeso.
del 29/01/15, pag. 6
I GIORNI DEL QUIRINALE
L’exit strategy del Cavaliere “Quel nome non
mi piace ma si può fare come nel 2006 e
votare scheda bianca”
Il leader Fi studia un’alternativa per non rompere il patto con Renzi. La
consultazione con Alfano
CARMELO LOPAPA
ROMA .
«No, Mattarella proprio no». Silvio Berlusconi scuote la testa e si infila rapido in auto, è
scuro in volto, l’assemblea dei 142 parlamentari forzisti è appena conclusa e lui risponde
con quattro parole secche al giornalista che gli chiede se dunque è lì che si va a parare.
Se alla fine cederà ancora una volta al pressing di Matteo Renzi. Come avvenuto
sull’Italicum, come due anni fa sull’elezione del Napolitano II. Perché, come annuncia il
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vicesegretario pd Guerini in serata, è da quel nome che si parte e a quel nome si arriverà.
Il messaggio per i partner del Nazareno è assai chiaro: non c’è margine di trattativa.
«Non erano quelle le condizioni», spiegano nervosi a tarda sera i dirigenti forzisti più vicini
al capo. Gli stessi che gli si sono stretti attorno, appena rientrati a Palazzo Grazioli, per
ragionare su come uscire dall’ennesimo cul de sac nel quale il leader pd li ha cacciati.
«Pensavo si potesse ragionare, invece sembra che su Mattarella Matteo faccia sul serio»,
sostiene sconsolato Berlusconi circondato dai capigruppo Brunetta e Romani, con Verdini
e Letta, Toti, la Rossi e Bergamini. Allora bisogna pensare a una «exit strategy», a un
piano B per non ritrovarsi fuori dai giochi. Come i grillini, come i leghisti, «dopo i tanti
sacrifici portati avanti con le riforme». Ma il rischio di far saltare per aria il partito è
altissimo, gli spiegano i capigruppo. Fitto, che ha riunito i suoi ieri a pranzo, non aspetta
altro, è già in riva al fiume. La via d’uscita allora può essere quella suggerita da Verdini e
Letta, i due che hanno affiancato il leader nelle due ore a Palazzo Chigi: porterebbe allo
schema del 2006, quando Napolitano venne eletto la prima volta con le schede bianche di
Forza Italia. «Potremmo testimoniare così il nostro distacco, ma al contempo non rompere
con Renzi, in nome del patto sulle riforme» ragiona Berlusconi a voce alta. Se poi
dovessero mancare una manciata di voti alla maggioranza per consentire a Mattarella di
raggiungere quota 505 dalla quarta votazione, allora una ventina, nel segreto dell’urna,
potrebbero sempre dare una mano. Poco prima di entrare a Palazzo Grazioli, nella gelida
serata romana, Bossi sembrava avere chiaro il quadro. «Berlusconi ha già giocato la
partita a Palazzo Chigi e l’ha persa, si è piegato, è la sua fine, muore alleato della sinistra,
è un po’ troppo: gli ha votato l’Italicum e ora Renzi fa quel che vuole, con un presidente
imposto da lui». I nervi sono a fior di pelle, nel fortino di Grazioli. In quelle stesse ore i
legali di Berlusconi chiedono al Tribunale di Sorveglianza di Milano che il loro assistito
possa restare a Roma questo fine settimana, per seguire da vicino le trattative sul Colle.
Lo sconforto era tangibile anche tra i deputati e i senatori che hanno ascoltato il leader per
oltre un’ora nel pomeriggio a Montecitorio. «Ma come faccio a votarti Mattarella? Mi ha
fatto la guerra fin dagli anni Novanta. E poi il mio partito salterebbe per aria. Non ci
pensi?» aveva ribattuto Berlusconi alle insistenze di Renzi sul giudice costituzionale,
quando si sono ritrovati l’uno di fronte all’altro. Si rivedranno o forse si risentiranno oggi.
Ma il premier appare irremovibile. Si ripete quanto accaduto una settimana fa sul premio di
lista all’Italicum. Prendere o lasciare. «Amato o Casini saranno presidenti, no?», ironizza
Raffaele Fitto quando tiene a rapporto i suoi 36 alla Camera. E incalza: «Sapevamo che
sarebbe finita così». Aria da resa dei conti. Angelino Alfano riunisce il centinaio di grandi
elettori di Area popolare e si dice intanto soddisfatto perché con Berlusconi (col quale si è
sentito) regge il patto di consultazione e resta fermo l’intento di votare insieme. «Lo
ringraziamo perché a Renzi ha proposto un nostro parlamentare, cioè Casini», oltre che
Amato, spiega ai parlamentari. Sul Colle, a sentire lui, non c’è asse di governo che tenga.
Sarà così fino alla fine?
del 29/01/15, pag. 21
Via al processo per le dichiarazioni sugli assalti al cantiere in Valsusa
La difesa subito all’attacco: “Non si può condannare qualcuno solo per
avere espresso un’opinione”. Un primo assaggio della vera questione
che terrà banco nelle prossime udienze: i limiti della libertà di pensiero
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La sfida di Erri De Luca scrittore alla sbarra
“Difendo il mio no alla Tav sabotare è verbo
nobile”
MAURIZIO CROSETTI
TORINO .
Timidissimo, magrissimo. «Ho una protesi, suonerà al metal detector? » domanda Erri De
Luca alla guardia che sorride invece di rispondere. Uno scrittore in tribunale insieme alle
sue parole. Lui e loro alla sbarra, sul banco degli imputati che è un lucido legno di ciliegio.
Enrico De Luca detto Erri di anni sessantaquattro, ritto in piedi, mani giunte, un maglione
grigio, il reticolo ancora più pronunciato di rughe sul volto, forse una smorfia, forse
incredulità. Il poeta spaesato, il biblista autodidatta, il traduttore dall’ebraico. Oppure
l’ideologo dell’eversione no Tav, l’istigatore a delinquere a colpi di verbi, aggettivi e
sostantivi? Perché a volte piovono pietre, insieme alle parole.
Si è beccato una denuncia per aver detto, in un’intervista del settembre 2013, «la Tav va
sabotata». Non ha ritrattato, non ha scelto una seconda edizione per le sue idee, così
l’azienda che scava (o vuole scavare) il tunnel dentro le montagne della Valsusa l’ha
portato qui, davanti al giudice. Nell’aula 52 c’è un pubblico di lettori, a occhio non
pericolosi attivisti dei centri sociali, in mano hanno pagine e non cesoie, copertine e non
pietre. Mostrano cartelli, sopra c’è scritto “Je suis Errì”, magari un po’ troppo: il giudice li fa
levare. Fuori dal tribunale, altri come loro stanno leggendo da cima a fondo, in coro, con
megafoni e microfoni, “La parola contraria”, il pamphlet in libreria da un paio di settimane
che racconta il perché e il percome di questa vicenda. Viene regalato ai passanti, non
pochi lo lasciano lì.
«Non ho istigato nessuno, anzi sono stato istigato a difendere questa gente », sussurra De
Luca prima di entrare in aula. «I fatti di Parigi non sono accostabili alla mia piccola,
balorda vicenda giudiziaria, là ci sono stati i morti. Anche se l’idea in fondo è quella. E se
l’opinione è un reato, continuerò a ripe- terlo. Io qui sono solo, ma fuori dal tribunale
isolata è l’accusa, imputata è l’accusa. Diciamo che io sono sotto processo ma l’aula è
sotto osservazione».
Come camminare sull’orlo del precipizio, l’appassionato alpinista De Luca lo sa bene. A
volte opinione fa rima con istigazione, ed è questo che rimarca il procuratore Andrea
Beconi: «Non processiamo la libertà di pensiero, ci mancherebbe, tuttavia questo
sacrosanto diritto non è un valore assoluto. Cosa significa sabotaggio? Per noi vuol dire
danneggiamento. Le parole dell’imputato possono avere invitato gli incerti al sabotaggio
violento. Nel nostro ordinamento l’istigazione a delinquere esiste e dobbiamo farci i conti».
Eccolo, il punto. Sta dentro il vocabolario come il gheriglio nella noce. «Sabotare è un
verbo nobile, lo usava anche Gandhi», dice invece lo scrittore.
«Non significa solo danneggiare materialmente. Nella mia accezione anche uno sciopero
è sabotaggio, anche l’ostruzionismo parlamentare. Qui non di discute la libertà di parola,
ma la libertà di parola contraria. Che io considero un dovere, non solo un diritto». Però un
professionista delle lettere non può ignorare la loro forza contagiosa, prodigiosa e a volte
diabolica, una forza che sa anche plagiare, nel caso. «E qui non siamo a trattare questioni
di semiologia », incalza infatti l’avvocato Alberto Mittone che rappresenta la parte civile,
cioè la ditta Ltf, costruttrice e denunciante: «Si possono commettere reati anche con le
labbra, e le parole dell’imputato avevano un peso concreto». L’avvocato vorrebbe allegare
agli atti una vecchia dichiarazione di De Luca, che presentando il libro di una brigatista
rossa definì la lotta armata “non terrorismo ma guerra civile”. Un’enormità, che tuttavia il
giudice Immacolata Iadeluca lascia fuori dal processo perché qui si parla d’altro.
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«Nessuna circostanza della mia vita può servire a farmi passare da mandante o da
mandato », scrive De Luca nel pamphlet. Vero, ma fino a un certo punto. Esistono menti
fragili, condizionabilissime, ed è per questo che lo scrittore rischia davvero la condanna:
«In tal caso, non sono sicuro che eviterei il carcere da uno a cinque anni. Comunque
possono fare a meno di applicarmi la condizionale, perché ripeterò il reato».
Il suo pubblico fa il tifo, grida grazie, una donna si avvicina e lo accarezza. L’udienza viene
rinviata al 16 marzo e tra i testimoni della procura non ci sarà Mario Virano, presidente
dell’Osservatorio sulla Torino-Lione: accolta la richiesta della difesa, uno a zero per De
Luca ma la partita è ancora lunga. «Per lo meno si dibatterà solo sulle mie parole e non
sulla Tav, non dovrebbe dunque diventare un processo politico». L’avvocato dello
scrittore, Gianluca Vitale, dopo le richieste della procura aveva sbottato: «Non si
processano le opinioni, a questo punto inventiamo un processo sulla colpa d’autore!» Non
ci sarà bisogno di arrivare a tanto, ma anche così rimane un bel garbuglio.
«Vorrei conoscere chi avrei istigato, i nomi e i cognomi intendo, ma si dà il caso che non
mi sia stato presentato nessuno. Io, al massimo, posso istigare alla lettura e alla scrittura.
E comunque la Tav si sabota da sé, perché non ci sono i soldi per farla». La gente, fuori,
applaude e continua a leggere il libretto a una voce sola, con una cadenza un po’ da
corteo, un po’ da comizio. Il poeta si congeda con una citazione ebraica dal libro dei
Profeti: “Ptàkh pìkha le illèn”, che vuol dire “apri la tua bocca per il muto”. Suggestivo. Ma
nelle battaglie campali di Chiomonte non si giocava mica a guardie e ladri, non si faceva
letteratura: si menava di brutto. E un giudice potrebbe anche dire che è meglio restare
muti, se poi una parola fa grandinare i sassi.
Del 29/01/2015, pag. 18
DE LUCA: “HO DIFESO LE PAROLE DEGLI
ALTRI, OGGI TOCCA A ME”
LO SCRITTORE SOTTO PROCESSO A TORINO PER UNA FRASE DETTA
DOPO L’ARRESTO DEI NO-TAV: “IL VERBO SABOTARE LO USAVA
ANCHE GANDHI”
Stavo lì come quando scalo le pareti delle montagne”. Sospeso nell’aria, ma senza timore.
È la sensazione provata da Erri De Luca durante l’udienza del processo per istigazione a
delinquere ieri mattina al Tribunale di Torino. “Sotto ho il vuoto che non mi spaventa.
L’accusa è quel vuoto, io lo guardo e so che non mi avrà”. NON È IL SUO primo processo
da imputato, ma è la prima volta che finisce sotto accusa per qualcosa che ha detto o
scritto e non ne è troppo fiero: “Non è motivo d’orgoglio, ma fa parte della mia professione
– spiega al Fatto –. Nel corso della mia carriera ho difeso le parole di altri. Ora tocca alle
mie”. Ribadisce l’uso di quella frase, “Il Tav va sabotato”, detta all ’ Huffington Post il primo
settembre 2013 per commentare l’arresto per detenzione di molotov e cesoie di due No
Tav: “Sabotare è un verbo nobile che è stato reso concreto da una quantità di lotte civili
nel mondo. Lo usava pure Gandhi”. In quell’aula 52, piccola e stracolma, lo scrittore non
era solo a difendersi. Con lui c’erano pure gli avvocati, Gianluca Vitale e Alessandra
Ballerini, e molti sostenitori coi cartelli “Je suis Errì”, tra cui alcuni No Tav: “Condivido e
supporto la lotta ventennale di quella vallata da una sera del dicembre 2005, quando è
stato attaccato e distrutto l’accampamento di Venaus. Curiosamente poche ore prima ero
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lì: mi trovavo a Torino per degli spettacoli teatrali e mi avevano accompagnato a vedere il
presidio”. Altri sostenitori sono arrivati da Napoli, come l’amica ricercatrice universitaria
Silvia Acocella e il libraio Raimondo Di Maio. C’era anche lo scrittore torinese Fabio Geda.
Prima dell’udienza e durante le pause i “fan” chiedono all’autore partenopeo un autografo
de “La parola contraria”, distribuito gratuitamente dall ’ azienda di abbigliamento tecnico
che supporta le sue iniziative: “Non succede spesso che uno scrittore incriminato venga
difeso dai suoi lettori in un movimento spontaneo di decine di persone”, dice una volta
fuori dal Tribunale, vicino al presidio di persone che – con cadenza liturgica – legge il suo
saggio. A differenza da quanto scritto in quel libro i suoi difensori e lui non hanno sollevato
il legittimo sospetto sulle accuse dei pm: “La sede deve essere a Torino, dove sono stati
tutti i processi ai militanti”. VUOLE stare con loro. Avrebbe voluto vedere lo Stato, sedersi
nel banco delle parti civili: “Se non lo fa vuol dire che secondo lo Stato le mie parole
rientrano nel mio diritto”. C’era però il procuratore aggiunto Andrea Beconi che all’inizio
dell’udienza ha premesso: “Ci rendiamo perfettamente conto che il processo è discutibile,
ma il reato esiste nel codice penale e noi operatori del diritto dobbiamo tenerne conto. La
libertà del pensiero è tutelata dalla Costituzione, ma non è un diritto assoluto”. Poi ancora:
“Non è intenzione della procura limitare la libertà di pensiero e non è intenzione della
procura prendere parte nella diatriba sul Tav, ma perseguire reati”. Perché istigare a
commettere un reato – spiega – mette a rischio l’ordine pubblico e per l’accusa c’è il
pericolo che i simpatizzanti del movimento No Tav, in bilico tra movimento popolare e
“frangia avanguardistica”, abbiano fatto una scelta dopo le frasi di De Luca: “Vorrei
conoscere le persone che ho istigato e che cosa hanno fatto spinti dalle mie parole”,
dichiara l’autore. L’avvocato Alberto Mittone per Ltf, da cui è partita la denuncia, ha voluto
sottolineare al giudice il passato dello scrittore con dei documenti sul ruolo di responsabile
del servizio d’ordine di Lotta Continua e sulle sue apologie dei terroristi. “Pensavamo fosse
un processo per istigazione a delinquere – interviene l’avvocato Vitale -, ma
evidentemente non è così. Siamo chiamati a farne un altro. Allora inventiamo un processo
sulla colpa d’autore”, dice al giudice Immacolata Iadeluca. “LE MIE opinioni sul mondo
devono rimanere fuori dal processo”, ribadisce De Luca. Il giudice è d’accordo: quei
documenti sul passato sono esclusi, il processo riguarda solo le sue parole.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 29/01/2015, pag. 18
La rete dei clan in Emilia che rideva del sisma
«I crolli ci danno lavoro»
‘Ndrangheta, 116 arresti. Indagato il sindaco di Mantova
Da felix a infetta. L’ex terra rossa, fucina di modelli, si affaccia sull’abisso della propria
vulnerabilità ed è spettacolo da brividi. Dopo anni di denunce e roghi, minacce e occhi che
non volevano vedere, «quel gran pezzo dell’Emilia» cantato dall’indimenticato Edmondo
Berselli si scopre invasa dalle metastasi della criminalità organizzata, succursale della
‘ndrangheta calabrese, qui cresciuta in un silenzio operosamente criminale.
Di questo contagio, venuto alla luce grazie all’offensiva sferrata all’alba di ieri dalle Dda di
Bologna, Brescia e Catanzaro («Risultato storico» ha detto il procuratore nazionale
Antimafia, Franco Roberti), Reggio Emilia è «l’epicentro». È qui, nella città del Tricolore,
spesso ai vertici della qualità della vita, che la ‘ndrangheta ha allungato i suoi tentacoli,
sfruttando come testa di ponte la massiccia immigrazione avvenuta negli ultimi decenni da
Cutro, paesone del Crotonese dominato dalla famiglia Grande Alacri, per poi espandersi
fino alle sponde lombarde del Po.
È un’offensiva a largo raggio quella sferrata dall’antimafia: 116 ordini di custodia cautelare
firmati da Bologna, altri 46 da Catanzaro e Brescia, più di 200 gli indagati; sequestrati beni
per 100 milioni (un intero quartiere di 200 appartamenti a Sorbolo, nel Parmense). «Un
colpo senza precedenti alla mafia del Nord» ha affermato Roberti. Nella rete
dell’operazione, che ha visto impegnati migliaia di carabinieri, elicotteri e cani addestrati,
sono finiti imprenditori, giornalisti, carabinieri e poliziotti in pensione. E pure politici. In
manette l’esponente di Forza Italia, Giuseppe Pagliani, consigliere comunale reggiano,
protagonista, secondo l’accusa, di una cena nel marzo 2012 durante la quale strinse «un
patto» con il boss Nicolino Sarcone offrendo «una sponda politica in cambio di aiuti
elettorali». Indagato invece il sindaco di Mantova, Nicola Sodano, 56 anni, di Forza Italia,
accusato di favoreggiamento in una vecchia storia di appalti per la costruzione di villette.
Visibilmente scosso, si è detto «a disposizione dei magistrati». Stessa sorte per il collega
di partito, ex uomo forte di Parma, Giovanni Paolo Bernini, già coinvolto nell’inchiesta per
tangenti che fece cadere la giunta Vignali. Sul fronte bresciano, indagato l’ex senatore dc
Franco Bonferroni, ex di Finmeccanica. Una Piovra dal volto inedito. «Ci siamo trovati al
cospetto di una mafia imprenditrice — ha affermato Roberti — capace di infiltrarsi
nell’economia, nell’edilizia e nella ricostruzione del post terremoto». La cellula emiliana,
con lo zoccolo duro reggiano («Qui operavano i capi e gli organizzatori»), pur prendendo
ordini dalla centrale crotonese guidata da Nicolino Grande Aracri (detenuto), «era dotata
— ha scritto il gip Alberto Ziroldi — di autonoma forza di intimidazione» e il suo raggio
d’azione arrivava alla politica: «Numerosi sono stati i tentativi di inquinare elezioni
amministrative — ha spiegato il procuratore di Bologna, Roberto Alfonso — come a Parma
nel 2002, a Salsomaggiore nel 2005, a Sala Baganza nel 2011, a Brescello nel 2009». Tra
le 54 persone a cui è contestata l’associazione di stampo mafioso figurano i fratelli di
Nicolino Grande Aracri, Domenico (avvocato) ed Ernesto, considerati gli emissari al Nord
della cosca, il boss Nicolino Sarcone e altri membri della famiglia. Il pezzo forte della
‘ndrina era l’economia. Ed è in arresto per associazione a delinquere l’imprenditore edile
Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo, campione del mondo.
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Molto ambito il piatto della ricostruzione dopo il terremoto in Emilia del maggio 2012.
Come già all’Aquila, ci fu chi commentò con compiaciuta ilarità la ghiotta occasione.
Intercettati nel pieno del sisma, gli imprenditori Gaetano Blasco e Antonio Valerio così
commentano la situazione secondo l’ordinanza del gip: «È caduto un capannone a
Mirandola…» dice il primo; e l’altro, ridendo, «e allora lavoriamo là…». Commenta il gip:
«La ‘ndrangheta arriva prima dei soccorsi, o in contemporanea». Sorti alterne per i
giornalisti. Marco Gibertini, collaboratore di tv locali, è stato arrestato con l’accusa di aver
aiutato elementi della cosca ad andare sui giornali. Sabrina Pignedoli, cronista del Resto
del Carlino , energicamente invitata da un poliziotto (Domenico Mesiano, ex autista del
questore di Reggio, ora indagato) a non pubblicare notizie sulla famiglia Muto, tenne duro:
«Abbiamo segnalato la cosa all’Antimafia» raccontava ieri. Nelle carte dell’inchiesta,
anche il nome del braccio destro del premier Renzi, il sottosegretario Delrio: «Lo sentimmo
come persona informata dei fatti nel 2012 — ha detto il procuratore Alfonso—, volevamo
capire il rapporto tra Reggio (di cui Delrio è stato sindaco dal 2004 al 2013, ndr ) e la
comunità di Cutro». Strettissima: come testimonia una foto dell’ottobre 2009 che ritrae
Delrio alla processione del patrono di Cutro.
Francesco Alberti
Del 29/01/2015, pag. 19
Il boss, gli amici, i politici arruolati «Questi
voti ti porteranno in cielo»
Il boss e l’intermediario chiamarono il politico un giorno di tre anni fa, il 21 febbraio 2012.
Seduto accanto a Nicolino Sarcone — considerato il capo del gruppo di ‘ndrangheta al
centro dell’indagine dei carabinieri, all’epoca già sotto processo per mafia — Alfonso
Paolini, cutrese trapiantato in Emilia, telefonò a Giuseppe Pagliani, reggiano e capogruppo
del Pdl nel consiglio provinciale. «Io ho una cosa per te e per noi... ci dobbiamo vedere
urgentemente — disse Paolini —... Se no qua troviamo un altro cavallo...». Ma Pagliani
era la prima scelta: «Vogliamo te». L’invito fu subito accettato e Paolini promise: «I voti ti
porteranno in cielo... guarda... però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna
fare». Poi ci fu una riunione nell’ufficio di Sarcone, dove Pagliani andò «senza farsi
scrupolo» di incontrare un imputato di ’ndrangheta; finché il 21 marzo non fu organizzata
una cena allargata con Sarcone, altri imprenditori ora accusati di essere «esponenti di
vertice del sodalizio criminoso», Pagliani e altri politici locali. È in quell’occasione, dice
adesso il procuratore di Bologna Roberto Alfonso, che «si consacrò e definì l’accordo tra
la politica e l’organizzazione mafiosa».
«Vogliono usare il Pdl»
Uscito dal ristorante, poco dopo mezzanotte, Pagliani chiamò la fidanzata Sonia: «Mi
hanno raccontato testimonianze pazzesche su tangenti che le cooperative si facevano
dare da loro per raccogliere lavori... Ho saputo più cose stasera che in dieci anni di
racconti sull’edilizia reggiana! Perché questi sono la memoria dell’edilizia degli ultimi
trent’anni... A Reggio han costruito tutto». Poi le raccontò il programma che gli avevano
esposto i commensali: «Vogliono usare il Pdl per andare contro la Masini (Sonia Masini,
all’epoca presidente della Provincia, ndr ), contro la sinistra, anche per la discriminazione.
Dice “fino a ieri noi gli portavamo lavoro, eravamo la ricchezza di Reggio, oggi ci hanno
buttati via come se fossimo dei preservativi usati”. Capito amore?». La fidanzata
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commentò: «Eh, la povera Masini fa meglio a fare le valigie!». E Pagliani: «Adesso gli
faccio una cura come Dio comanda!... La curetta giusta».
Gli inquirenti sottolineano che dopo la cena cominciò una «serie di attacchi» contro la
presidente della Provincia, in particolare per l’affidamento di un appalto; «tema in sé del
tutto lecito — scrive il giudice che ha fatto arrestare l’uomo politico, oggi consigliere
comunale — se non fosse che Pagliani lo solleva violentemente con il l ’arrière pensée (
pensiero segreto, fine recondito ndr ) discendente dalla comunanza di interesse con la
cosca del Sarcone». Consapevolmente, secondo i pubblici ministeri antimafia, «una
battaglia gestita e voluta da un gruppo di criminali» viene trasformata in «battaglia
politica».
Il confino e la faida
Il seguito dell’indagine e l’eventuale processo diranno se questa impostazione, al limite del
dimostrabile, è corretta e reggerà al vaglio di altri giudici. Tuttavia il peso della malavita
calabrese in questo spicchio di Emilia non è una novità e anzi ha radici antiche, che un
politico locale non può non conoscere. Una storia che risale al 1982, quando il tribunale di
Catanzaro spedì un bidello della scuola elementare di Cutro al confino nel comune di
Quattro Castella, provincia di Reggio Emilia; si chiamava Antonio Dragone ed era il capo
della cosca di ‘ndrangheta a Cutro. Prese in affitto una stanza a pensione e cominciò a far
salire dalla Calabria parenti, amici e compari, avviando i traffici più disparati, dalla droga
alle estorsioni, per poi espandersi agli appalti pubblici. Crebbero gli affari, ma anche i
sospetti, che portarono in carcere prima Dragone e poi suo nipote Raffaele, lasciando
mano libera a uomini di fiducia che presto si rivelarono concorrenti, come Nicolino Grande
Aracri, detto «Mano di gomma». Il quale lentamente conquistò una posizione egemone
che divenne incontrastata dopo l’omicidio di Antonio Dragone, assassinato a colpi di
kalashnikov e calibro 38 a Cutro, nel maggio 2004. Con quel delitto finì una faida, e mille
chilometri più a nord la ‘ndrangheta trapiantata nel cuore dell’Emilia poté riprendere i suoi
affari e le sue infiltrazioni nei mondi della politica, dell’imprenditoria, ma anche degli
apparati statali e dell’informazione.
Poliziotti amici
Ambienti non più incontaminati da tempo, notano gli inquirenti sottolineando, fra l’altro,
rapporti degli affiliati con esponenti delle forze dell’ordine. Per esempio un ispettore di
polizia, ora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, che agevolava
pratiche e soffiava informazioni utili; o un agente già autista del questore di Reggio,
accusato di minacce a una giornalista perché non si occupasse più di un paio di
personaggi. Insomma, comportamenti abituali nella Calabria in mano alla ‘ndrangheta
erano diventati tali anche in Emilia dove, scrivono i pm bolognesi, «si potrebbe dire che gli
‘ndranghetisti raramente fanno la fila». Proprio perché «hanno qualcuno che fissa loro
appuntamenti, li “riceve” all’ingresso della Questura, li conduce all’ufficio competente e
cura di accelerare la definizione... Sono “solo cortesie”, pensano evidentemente gli uni e
gli altri, e si frequentano con molta “normalità”, condividendo momenti di svago (pranzi e
cene) e interessi vari (i cavalli)». Come tramite tra ‘ndranghetisti e forze di polizia i pm
citano «Alfonso Paolini, che dispone di una agenda di contatti certamente molto estesa ed
efficace». È lo stesso che telefonò al consigliere provinciale Pagliai. E il cerchio si chiude.
del 29/01/15, pag. 10
La leggenda dei beni sequestrati alla mafia
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Poco personale, nessun registro, abbandono e confusione Viaggio nello
sfascio dell’Agenzia calabrese che dovrebbe gestirli
Ci si potrebbe fermare qui, un passo oltre la porta della Agenzia nazionale per i beni
confiscati alle mafie. Al cospetto delle parole del direttore amministrativo Massimo Nicolò
(165 mila euro di compenso annuo, di cui 14 mila di premio di risultato). «Siamo in pochi»,
dice. «Vede dottore, tutti sparano a zero contro di noi. E ci sono problemi quotidiani, non si
può negarlo. Ma in quanti siamo oggi al lavoro?». Sono in 37, a fronte di 55 mila beni
confiscati in Italia. «Non ce la facciamo - dice - non possiamo farcela. Siamo dentro un
gigantesco imbuto burocratico. In teoria, la legge ci darebbe la possibilità di assumere 100
persone, ma sono costi a carico delle amministrazioni di provenienza. Si rifiutano di darci il
personale. Oppure lo richiamano indietro, quando lo abbiamo appena formato. Non siamo
neppure riusciti a chiedere il bilancio consuntivo del 2013. Siamo pochi e tutti ci additano.
Ma non ci danno i mezzi per lottare. Una scatola vuota? Diciamo che siamo una scatola
da riempire».
Le sorprese
Ci si potrebbe fermare qui. Dentro questa palazzina gialla sgraziata, con le bandiere
arrotolate, i corridoi vuoti, un silenzio spettrale. Ma sarebbe un errore. Ci perderemmo
diverse sorprese. Quelle che un sostituto procuratore di Catanzaro, Vincenzo Luberto,
definisce provvedimenti manifesto. «Sono leggi inventate con l’unico scopo di mettere in
scena delle belle intenzioni, mentre nel concreto si fa esattamente l’opposto». Luberto
sostiene che le cose in Calabria, tutte quelle che riguardano la lotta alla ’ndrangheta, si
ispirino a questa principio: «Fare finta di...». «Voi giornalisti - dice Luberto - guardate
sempre il dito e vi perdete la luna». E quale sarebbe, la luna? «Prendiamo il caso del
processo al clan Muto di Cetraro, il re del pesce: 22 condanne definitive. Grandi titoli sulla
costituzione di parte civile della presidenza del Consiglio. Era la prima volta che
succedeva in Italia. Un segnale forte. Era il 2006». E poi? «Sono passati otto anni.
Nessuno è andato davanti al giudice civile a chiedere l’effettiva quantificazione del
risarcimento. Lo Stato italiano poteva recuperare soldi dalla famiglia in questione, ma non
lo ha fatto».
La Calabria è un pozzo di notizie. Ed è vero quello che ha dichiarato il procuratore
generale di Torino Marcello Maddalena, durante l’apertura dell’anno giudiziario:
«L’impressione è quella di un sistema allo sbando. Riuscire a ripristinare la legalità nei
confronti delle grosse organizzazioni mafiose è impresa quasi impossibile». Su 59 beni
sequestrati a Torino, 58 sono ancora nelle mani degli illegittimi proprietari. Beni che
l’Agenzia con sede a Reggio Calabria nemmeno conosce. Mancano i collegamenti. Il sito
Internet non è aggiornato. Spesso il telefono squilla a vuoto. Il direttore amministrativo
Nicolò è l’unico ad aver accettato di rispondere alle nostre domande: «Al telefono, almeno
nella sede principale di Reggio, io rispondo sempre e fino a tarda sera. Lavoro dodici ore
al giorno. Ma è più che probabile che nelle succursali, i pochissimi impiegati lascino alcuni
orari scoperti. Quanto a sapere, effettivamente, quali siano i beni confiscati, allora... Noi ci
rifacciamo ad una vecchia banca dati del demanio che, senza voler parlare male di
nessuno, beh...». Nessuno sa. Nessuno ha la mappa. I tempi burocratici italiani applicati
alla materia dei beni sequestrati giocano a grande vantaggio dei mafiosi.
Piccole storie calabresi significative. Dopo anni di battaglie giudiziarie, il Comune di
Lamezia Terme era riuscito a farsi assegnare un alloggio sequestrato alla famiglia
Benincasa, nel quartiere ad alta densità ’ndranghetista di Capizzaglie. Lo ha ristrutturato e
dato in gestione alla cooperativa Progetto Sud per ospitare dei rifugiati politici. Ma la corte
d’Appello ha restituito il bene alla famiglia, che ora ci abita con impianti nuovi e infissi
ammodernati con soldi pubblici.
Gli investimenti
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A due passi dal Castello Aragonese di Reggio Calabria, quasi di fronte al Tribunale, c’è un
palazzone lasciato a metà. È lì da cinque anni, come una specie di monumento. Era stato
sequestrato a Gioacchino Campolo, detto il re dei video-poker. Mezzo centro storico era
suo. Il villino che ospitava in affitto la sede di Forza Italia. Il palazzo prestigioso in via
Malacrinò, dove c’era la sede del Tribunale di Sorveglianza. Così come il «Super Cinema»
sul lungomare, ormai chiuso da più di dieci anni e mai riconvertito. Non è facile trovare
imprenditori che vogliano investire soldi su beni dal futuro tanto incerto.
Anche il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, usa parole
definitive: «La gestione non funziona. Manca la cognizione di quali siano i beni sequestrati,
dove si trovino e la destinazione. È una ricchezza che lo Stato lascia nelle mani dei
mafiosi». Ci sono tre proposte di legge per modificare l’Agenzia. Si discute se portare la
sede a Roma o lasciarla a Reggio Calabria. «Il problema è politico» dice un impiegato a
fine turno, con aria abbacchiata. Ecco, ancora la luna. La politica.
del 29/01/15, pag. 9
Sviluppo. Le richieste a quota 544, i riconoscimenti già concessi sono
271 - Edilizia, trasporti e rifiuti i settori in prima linea, Sicilia e
Lombardia le regioni più attive
Rating di legalità a passo accelerato
Antitrust: in un anno aumento di oltre il 180% - Montante
(Confindustria): le banche premino le aziende virtuose
ROMA
Un’onda lunga che inizia a conquistare il tessuto imprenditoriale . Il rating di legalità
avanza a passi rapidi: dalle 142 pratiche del 2013, anno di entrata in vigore del
regolamento dell’Antitrust (Agcm), le richieste sono arrivate alla fine del 2014 a quota 544
(402 quelle dello scorso anno). Numeri che possono sembrare ancora piccoli nel
macrocosmo delle imprese italiane, ma a colpire è la crescita intorno al 180%,
ulteriormente accelerata dal recente protocollo d’intesa tra l’Authority presieduta da
Giovanni Pitruzzella e l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone per collaborare nella
vigilanza sugli appalti.
Il rating di legalità, una sorta di “bollino blu” per gli imprenditori virtuosi, sta già ottenendo
ottime risposte dalle Pubbliche amministrazioni visto l’aumento dei bandi per finanziamenti
nei quali viene riconosciuta una premialità alle aziende che hanno ottenuto il
riconoscimento. Sta procedendo molto meno bene - fa invece notare Antonello Montante,
promotore dello strumento e delegato alla legalità di Confindustria - l’attuazione della
norma da parte delle banche, che dovrebbero tener conto della presenza del rating di
legalità nel processo di istruttoria ai fini di una riduzione dei tempi e dei costi per la
concessione dei finanziamenti.
Ad avanzare, ad ogni modo, è una cultura imprenditoriale che sembra sempre più
sensibile all’argomento. Al 31 dicembre 2014, l’Antitrust ha attribuito complessivamente
271 rating, pari al 50% delle richieste, a fronte di 12 dinieghi, mentre 173 pratiche sono
ancora in esame. Le richieste si stanno distribuendo su tutto il territorio, pur con una
prevalenza del Nord (43,3%), con Mezzogiorno e Centro che sono rispettivamente al
31,7% e Centro 22 per cento. Tra le regioni c’è in testa la Sicilia (14%) davanti a
Lombardia (13,2%), Veneto (13%), Lazio (12,3%) ed Emilia Romagna (10,3%). «Il trend in
forte crescita – commenta il presidente Antitrust Pitruzzella – conferma la validità e
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l’efficacia di un meccanismo premiale in funzione della trasparenza e della libera
concorrenza: questo, insieme alla repressione e alla punizione dei reati, è il miglior
antidoto contro quella tassa occulta che è rappresentata dalla corruzione».
Un quarto delle imprese richiedenti opera nei settori edilizia, costruzioni, trasporto,
smaltimento rifiuti. Le Srl, con il 55,2%, prevalgono sulle Spa (31,4%). Le domande, per le
quali non sono previsti costi amministrativi, possono essere presentate da imprese che
hanno un fatturato superiore ai 2 milioni annui e, come noto, il punteggio attribuito
dall’Agcm può andare da una a tre stelle in base a una lunga serie di requisiti giuridici che
vanno dall’assenza di precedenti penali o tributari alla tracciabilità dei pagamenti. L’ampia
maggioranza delle imprese che hanno richiesto il rating, l’80%, ha un fatturato tra i 2 e i 50
milioni, meno del 3% quelle con ricavi oltre i 300 milioni. Il 78%, invece, ha meno di 100
addetti e solo il 3% ne ha più di mille. «I dati dell’Antitrust testimoniano una rapida
diffusione - commenta Montante - e un’altra spinta decisiva verrà con l’inserimento di
questo strumento in tutti i bandi per gli appalti pubblici come preannunciato da Cantone. A
maggior ragione ora bisognerà vigilare attentamente perché il rating sia attribuito a chi
davvero merita, ma su questo sono certo che sia l’Agcm sia la Commissione rating siano
bene attrezzati». Il vero sforzo adesso spetta alle banche, osserva il delegato di
Confindustria per la legalità. «Sono ancora troppo poche le segnalazioni di imprese che,
pur avendo ottenuto il rating, hanno beneficiato della premialità che la norma riserva loro
in materia di accesso al credito». A regolare questo aspetto è il decreto interministeriale
Mef-Mise del 20 febbraio 2014 in base al quale le banche devono formalizzare procedure
interne per disciplinare l’utilizzo del rating e i suoi riflessi su tempi e costi delle istruttorie.
Procedure che nella maggior parte dei casi sarebbero ancora inattuate. E sulla carta, per
ora, resta anche l’altro punto chiave del decreto, in base al quale le banche considerano il
rating tra le variabili per praticare condizioni di credito più vantaggiose. Su tutto vigila la
Banca d’Italia, alla quale le banche devono trasmettere annualmente, entro il 30 aprile,
una relazione dettagliata sui casi in cui il rating non ha influito su tempi e costi. Pochi mesi
di tempo, dunque, per cambiare passo e premiare il “bollino” della legalità anche con un
credito più favorevole. «Auspico che l’Abi - aggiunge Montante - in modo determinato
intervenga sull’argomento».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 29/01/15, pag. 8
Sicurezza. Minniti: Mare Nostrum era un deterrente contro le infiltrazioni
di terroristi
Immigrati, 3.500 sbarchi da inizio anno
ROMA
Gli sbarchi di immigrati in Italia dall’inizio dell’anno ammontano già a 3.528 persone. È un
dato preoccupante: gli arrivi continuano nonostante ci siano stati diversi giorni di mare
burrascoso. Al 18 gennaio eravamo già a quota 2mila sbarcati e la cifra 2015 raggiunta
finora è persino un po’ più alta di quella del 2014. L’andamento attuale, peraltro, smentisce
chi accusava l’operazione Mare Nostrum - l’impegno dell’Italia con la Marina Militare a
pattugliare il Mediterraneo, poi venuta meno - di essere «pull factor» cioè fattore di
moltiplicazione, dell’afflusso di migranti. Oggi con Triton, struttura europea di vigilanza
coste, non si vedono segni di calo dei viaggi della disperazione. Ieri il sottosegretario
all’intelligence Marco Minniti, in audizione al comitato Schengen, ha detto che i flussi
migratori «possono sicuramente essere un canale per infiltrazioni terroristiche, ma non ci
sono segnali specifici che ciò stia avvenendo, anche se la nostra attenzione è alta». Poi
aggiunge: «Abbiamo di fronte migliaia di foreign fighters che hanno passaporto europeo. E
allora, io che ho passaporto europeo perché devo decidere di passare su una nave della
Marina per essere identificato? È un evento abbastanza improbabile». Lo conferma il
prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale:
«Non ho nessun elemento per poter pensare che terroristi dell’Isis si nascondano tra i
migranti nei barconi che giungono sulle nostre coste». Minniti ha poi smentito l’ipotesi che
dietro allo slittamento del decreto-legge antiterrorismo - doveva avere l’ok ieri, è stato
rinviato a data da destinarsi - ci siano divisioni nel governo. Secondo il sottosegretario
l’approvazione arriverà presto ma «fare un decreto su questi temi mentre sono in corso le
consultazioni per l’elezione del capo dello Stato non ci è sembrato giusto». L’articolato,
concepito a ottobre dai tecnici del ministri dell’Interno Angelino Alfano, della Difesa
Roberta Pinotti e della Giustizia Andrea Orlando, sta avendo un parto travagliato come
non mai. Oltre alle norme anti-Isis definite all’inizio si è poi via via arricchito di una procura
nazionale antiterrorismo; di garanzie funzionali - la possibilità di commettere reati - per gli
agenti segreti; del rinnovo delle missioni militari all’estero; il ripristino dell’operazione
«Strade sicure» con tutte le valutazioni fatte dai tecnici del dipartimento Ps diretto dal
prefetto Alessandro Pansa e del comando generale dell’Arma guidato dal generale Tullio
Del Sette. È ormai un testo complesso e molto ampio, non in tutti gli aspetti garantito nei
requisiti di straordinaria necessità e urgenza necessari per un decreto legge, con diverse
problematiche che potrebbero vederlo nascere ridimensionato. Ma al di là delle
spiegazioni ufficiali sul rinvio a più riprese, il vero scoglio è soprattutto uno: devono essere
ancora trovate le coperture finanziarie. Senza fondi - o finché le somme non saranno
reperite dall’Economia - quasi nessuna di queste norme potrà essere approvata. E lo stallo
su un provvedimento che va avanti da tre mesi continuerà.
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Del 29/01/2015, pag. 28
La legge lombarda «anti moschee» e l’altolà
della Curia
Restrizioni e vincoli sui nuovi luoghi di culto (anche cattolici). «Produce
effetti al di là delle intenzioni»
MILANO Attenzione. Il rischio è quello di «produrre effetti che vadano al di là delle
intenzioni di chi li propone». La curia di Milano prende le distanze dalla legge lombarda sui
luoghi di culto appena approvata dopo mesi di polemiche. Perché resta da capire se le
nuove norme saranno «in grado o meno di garantire un’effettiva libertà di culto nel rispetto
di tutte le leggi vigenti». La nuova legge nasce sulla base della spinta soprattutto leghista
a frenare l’apertura di nuove moschee. In particolare, quella prevista a Milano. Un risultato
certo della legge regionale è che oggi non è chiaro come il bando comunale per la
realizzazione del futuro luogo di culto dovrà essere riscritto. Il provvedimento contiene
infatti disposizioni di tipo urbanistico che prevedono, per tutti i nuovi luoghi di preghiera di
qualsiasi confessione, una serie di prescrizioni affinché i Comuni possano rilasciare le
licenze: dallo spazio per parcheggi grande due volte l’area interessata alla concessione,
fino a un «Piano attrezzature religiose» che dovrà essere sottoposto a Vas (Valutazione
ambientale strategica) con l’acquisizione del parere di comitati, organizzazioni e
rappresentanti delle forze dell’ordine. Ma la norma prevede anche qualcosa di assai
delicato come la possibilità di indire un referendum sul nuovo insediamento religioso.
E allora, la curia milanese comincia cauta. Dato «il cambiamento sociale in atto a Milano e
in Lombardia», si legge in una nota del vicario episcopale Luca Bressan, occorre un
«modo nuovo di affrontare il tema della realizzazione dei luoghi di culto». Però, aggiunge il
monsignore, «vista la rilevanza e la delicatezza del tema, occorre giungere alla
costruzione di questi strumenti legislativi in modo meno frammentario e precipitoso».
Il rischio, conclude la nota, è appunto quello di «produrre effetti che vadano al di là delle
intenzioni di chi li propone». Insomma: il provvedimento rischia di rendere assai più
complicata anche la realizzazione di nuove chiese e oratori.
Del resto, è proprio quello che dice l’associazione dei Comuni, l’Anci lombardo. Lo spiega
il presidente, e sindaco di Monza, Roberto Scanagatti: «La cosiddetta “legge antimoschee”, oltre a contenere ancora dei profili che sollevano dubbi di incostituzionalità,
sicuramente complica ulteriormente l’attività degli enti locali». Inoltre, «lede l’autonomia dei
Comuni nella predisposizione degli strumenti urbanistici, aumenterà i costi e aggraverà i
procedimenti burocratici». Ma a Milano esiste anche un’altra preoccupazione. Quella
espressa dall’amministratore delegato dell’Expo, Giuseppe Sala. E cioè, che non passi
l’idea di un’esposizione in cui i visitatori di religione musulmana potrebbero non essere i
benvenuti. «Dal nostro punto di vista — spiega Sala — ci muoviamo con molta attenzione
per fare sì che passi la percezione di un Expo molto accogliente». Nell’area dell’ormai
imminente manifestazione non ci saranno luoghi di culto: «Fin dall’inizio abbiamo detto
che non avremmo avuto un luogo di culto all’interno del sito, non è proprio nella tradizione
degli Expo». Detto ciò, prosegue Sala, «è chiaro che, pensando ai rapporti commerciali
che stiamo avendo con i tour operator e da dove i flussi arriveranno, avremo grandi flussi
dai Paesi islamici». E dunque, appunto, l’auspicio è perché «passi la percezione di un
Expo molto accogliente». Ma il governatore lombardo Roberto Maroni che pensa
dell’intera vicenda? Che «la nuova legge è stata approvata dal Consiglio regionale, e
dunque è buona e giusta».
Marco Cremonesi
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SOCIETA’
del 29/01/15, pag. 7
Pene domiciliari, tradito l’impegno con l’Ue
Eleonora Martini
Carcere. Il governo Renzi fa scadere la delega sulle riforme promesse a
Strasburgo. Vince la linea Salvini
Il governo Renzi l’aveva presentata al Consiglio d’Europa, nel giugno scorso, come una
delle misure «strutturali» risolutive del problema del sovraffollamento carcerario per il
quale l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Sanzioni evitate
perché il Comitato dei ministri europei, oltre ad apprezzare i «significativi risultati» già
ottenuti, aveva accolto «positivamente l’impegno delle autorità italiane», dimostrate
attraverso «le varie misure strutturali adottate per conformarsi alle sentenze» di
Strasburgo. Ma l’esecutivo ha fatto scadere la delega ricevuta dal Parlamento che lo
obbligava a riformare entro il 17 gennaio 2015 il nostro sistema penale introducendo
l’arresto e la detenzione domiciliare come pena principale, ossia da comminare anche
nella forma preventiva, e potenzialmente applicabile ai reati punibili fino a cinque anni di
reclusione.
Un fatto ritenuto da gran parte del mondo giudiziario italiano di estrema gravità. Tanto più
perché, come spiega l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Unione delle camere
penali italiane, «si evidenzia il carattere politico della scelta, che contraddice peraltro tutte
le aperture fatte su questo tema negli ultimi tempi. E a pensar male — aggiunge Spigarelli
— evidentemente i boatos del leghista Matteo Salvini contro questo tipo di impostazione
fanno breccia anche nel governo Renzi».
A questo punto, governo e parlamento dovranno trovare una soluzione alternativa, perché
l’anno di tempo che il Consiglio d’Europa ha dato all’Italia per verificare che le misure
risolutive promesse siano state davvero applicate scade nel giugno prossimo.
E pensare che alla legge delega 67, approvata dal Parlamento il 28 aprile 2014 ed entrata
in vigore il successivo 17 maggio, che dava all’esecutivo un tempo limitato per «adottare
uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene», si arrivò dopo un lungo
lavoro della Commissione ministeriale composta di magistrati, giuristi e avvocati,
presieduta dal professor Francesco Palazzo, istituita nel giugno 2013 dall’allora ministro di
Giustizia, Anna Maria Cancellieri, e confermata successivamente anche da Orlando. La
legge delega, che ricalcò lo «schema di principi e criteri direttivi» consegnati da quella
Commissione nel febbraio 2014, conteneva due diktat per il governo in materia di giustizia:
la non punibilità delle condotte di lieve entità e una serie di pene alternative tra le quali,
oltre alla messa alla prova, c’erano — molto importanti per l’impatto che avrebbero avuto
sui problemi strutturali del sovraffollamento carcerario — l’introduzione dell’arresto e della
detenzione domiciliare come pene principali, da applicare obbligatoriamente per i reati
punibili con pene edittali fino a tre anni e a discrezione dei giudici per quelli fino a cinque
anni.
Ma il governo Renzi, che per queste norme aveva un tempo limite massimo imposto dalla
legge delega di otto mesi, scaduti appunto il 17 gennaio scorso, si è limitato invece a
varare, nel consiglio dei ministri dell’1 dicembre scorso, solo il decreto legislativo che
incide sulle condotte di «particolare tenuità» e per il quale i termini si allungavano fino a 18
mesi con scadenza prevista a novembre prossimo.
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Ma se quelle norme fossero state introdotte, la custodia cautelare domiciliare si sarebbe
potuta applicare ad una platea di circa 14 mila detenuti, portando in questo modo la
popolazione carceraria addirittura al di sotto della capienza massima, secondo i calcoli
riportati ieri da Radio Radicale che ha citato fonti ministeriali. D’altronde è ormai assodato
che un provvedimento di decarcerizzazione efficace non può non partire da quel circa 40%
di detenuti in custodia cautelare che costituiscono il triste record italiano tra i Paesi europei
(la media Ue si ferma al 25%).
del 29/01/15, pag. 28
Hanno firmato le sentenze più innovative degli ultimi anni in tema di
adozioni, affidi, fecondazione assistita, genitori single e omosessuali
Ecco chi sono i giudici che stanno riscrivendo i nostri diritti civili e dove
vogliono arrivare
Il pretore di famiglia
MARIA NOVELLA DE LUCA
HANNO firmato alcune tra le sentenze più innovative degli ultimi anni. Adozioni, affidi,
fecondazione assistita, genitori single, genitori omosessuali, e storie di bambini “nuovi” i
cui diritti sono ancora tutti da scrivere. Giudici e giudici minorili, che oggi raccontano cosa
c’è dietro quelle scelte difficili, controverse, sensibili. Perché da Roma a Catania, da
Bologna a Torino, è nelle aule dei tribunali italiani (e non in Parlamento) che sta
cambiando, sentenza dopo sentenza, il nostro diritto di famiglia. È il 29 agosto scorso, in
piena estate, quando il giudice Melita Cavallo, presidente del tribunale per i minori di
Roma, concede alla mamma non biologica in una coppia lesbica, l’adozione della figlia
della partner. E decide che la bambina avrà il doppio cognome. Scrive Cavallo, una
carriera in prima linea nella difesa dei minori, fuori e dentro le famiglie, prima a Napoli poi
a Roma. «L’omogenitorialità è una genitorialità diversa, ma parimenti sana e meritevole di
essere riconosciuta in quanto tale ». La sentenza viene definita storica, e mentre la legge
promessa da Renzi giace da qualche parte mai discussa, la decisione dei giudici romani
diventa, di fatto, la prima stepchild adoption italiana. Racconta oggi Melita Cavallo: «Per
noi il punto focale è il benessere del minore. E in quella coppia omogenitoriale la serenità
della bambina era evidente, così come era evidente la sua relazione con la mamma non
biologica. L’articolo 44 della legge 184 sulle adozioni lascia la facoltà ai giudici di
inquadrare nei “casi speciali” le situazioni in cui i vincoli affettivi tra bambino e adulto
vanno salvaguardati. Non riconoscere questa possibilità ad una persona, soltanto perché
omosessuale, avrebbe significato una discriminarla, violando la nostra Costituzione».
Ma basta mettere insieme non più di sei o sette sentenze, nel giro di poco più di un anno e
mezzo, per capire ciò che sta accadendo. E il varco che il lavoro dei magistrati sta
aprendo, nella società, nel diritto, nel grande ambito delle nuove famiglie, mentre le leggi
sui diritti civili giacciono abbandonate nelle secche del Palazzo, affossate dai veti politici
incrociati. Se nel 2013 il tribunale per i minori di Bologna, presieduto da Giuseppe Spadaro
riconosce ad una mamma single l’adozione (avvenuta in Usa) di una bambina, e concede
un affido familiare ad una coppia di maschi gay di Parma, nell’aprile del 2014 su spinta dei
tribunali di Catania, Firenze e Milano la Corte Costituzionale abolisce il divieto di
fecondazione eterologa. Per l’Italia è una rivoluzione: cade l’ultimo paletto di una legge
detestata, la legge 40. Francesco Distefano, è stato uno dei giudici che ha rimesso alla
Consulta la decisione sull’illegittimità del divieto di eterologa. Laico convinto, classe 1962,
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lettore di Sciascia e Saramago, dice che quella sentenza è stata un momento di «grande
orgoglio professionale».
«Il tribunale di Catania è stato il primo ad appellarsi alla Corte, eravamo partiti dal caso di
una donna affetta da menopausa precoce, abbiamo sollevato il diritto di uguaglianza, alla
salute. Pensare che oggi in Italia l’eterologa è legale, grazie anche al nostro lavoro, è una
bella soddisfazione». Ex pretore di Bronte, Francesco Distefano dice però che per lui ogni
sentenza è fondamentale. «Dall’autorizzazione ad una minorenne ad abortire, ad un
ragazzo troppo giovane che chiedeva di cambiare sesso, ai diritti di un migrante, ho
sempre la consapevolezza che un giudice può cambiare, con un tratto di penna, il destino
di una persona. Ed è una immensa responsabilità».
Ma è sempre nella primavera del 2014 che la decisione di un altro tribunale, questa volta è
Grosseto, con uno strappo in avanti impone al Comune la trascrizione di un matrimonio
gay avvenuto nel 2012 a New York. La storia di Stefano Bucci e Giuseppe Chigiotti
diventa nazionale e dà il via in tutta Italia alle trascrizioni di nozze celebrate all’estero. Una
stagione che si conclude con l’ happening romano in Campidoglio, quando il sindaco
Marino trascrive i matrimoni di ben 16 coppie. Gran parte di queste trascrizioni vengono
poi cancellate dai prefetti, ma il varco è aperto: quei simil matrimoni restano negli occhi e
nelle immagini di tutti.
Giuseppe Spadaro è dal 2013 il presidente del Tribunale per i minori di Bologna. Tribunale
che ha firmato una serie di sentenze innovative in tema di diritto di famiglia. Calabrese di
Lametia Terme, genitore di quattro figli, dice che essere padre occupandosi di giustizia
minorile «è un valore aggiunto perché ogni decisione deve essere presa partendo dal
punto di vista dei bambini». E il lavoro di giudice «si impara a fare con il tempo, come
quello di padre ». Ma per Giuseppe Spadaro non spetta ai Tribunali disegnare diverse
forme familiari. «È un ruolo che spetta solo al legislatore. Tuttavia, è innegabile che la
società attuale sia alle prese con una nuova concezione di famiglia. In Italia però mancano
leggi per tutelare questi nuclei, spesso con figli, che si sono formati all’estero. E da questo
punto di vista abbiamo sempre cercato finora di mettere in primo piano l’interesse del
minore». Dall’affido di una bambina ad una coppia gay, al riconoscimento di un’adozione a
una mamma single, sono tante le sentenza che a Bologna parlano di “nuove famiglie”.
Spiega Spadaro: «Nel caso dell’affido ad una coppia gay non si è dato vita ad alcun
provvedimento creativo: a differenza dell’adozione, la famiglia affidataria può essere sia un
single sia una coppia. Non si esclude esplicitamente che gli affidatari possano essere una
coppia omosessuale: escluderlo significa discriminare sulla base delle tendenze sessuali e
ciò non è consentito dalla nostra Costituzione».
A differenza di quanto deciso dal Tribunale per i minori di Roma, di fronte alla richiesta di
una stepchild adoption i giudici di Bologna hanno scelto di rinviare gli atti alla Corte
Costituzionale. «Il nostro fine — conclude Spadaro — è di comprendere come un giudice,
in questi casi, possa, anzi debba tutelare i minori coinvolti. Che tipo di tutela possiamo
accordare a bambini nati in altri Stati, dove sono legittimi istituti come l’adozione
omosessuale? I figli dei gay sono o no bambini, ossia doni di Dio come tutti gli altri? Vuole
o no intervenire il legislatore? ».
del 29/01/15, pag. 29
Quando le leggi vanno piano accelerano i
magistrati
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CHIARA SARACENO
ERA già successo nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, quando la
giurisprudenza iniziò a smantellare alcuni capisaldi del diritto di famiglia di origine fascista
che il Parlamento tardava a modificare, nonostante il dettato costituzionale lo obbligasse
teoricamente a farlo. Così, ad esempio, una celebre sentenza del 1968, in nome del
principio costituzionale della parità tra i coniugi, sancì che una moglie che non seguiva il
marito “ovunque questi decidesse di fissare la propria residenza” non poteva essere
considerata colpevole di abbandono di tetto coniugale. I processi di emancipazione
femminile che stavano cambiando la quotidianità dei rapporti uomo-donna, insieme alla
mobilitazione pubblica del movimento delle donne, non consentivano più di risolvere i
conflitti coniugali sulla base di vecchi schemi. Lo stesso sta succedendo oggi per quanto
riguarda sia i rapporti tra persone dello stesso sesso, sia l’accesso alla filiazione. Nel
primo caso, nel perdurare colpevole di un silenzio del legislatore, sono state le corti
internazionali e nazionali a costringere l’Italia a dare riconoscimento di status “famigliare”
alle coppie dello stesso sesso sposate (o unite in unione civile) all’estero, ai fini,
innanzitutto, del diritto al ricongiungimento famigliare del coniuge straniero, ma in linea di
principio anche in altri settori. Nel campo della filiazione, la giurisprudenza è intervenuta su
molti aspetti. Per quanto riguarda la filiazione tramite tecniche di riproduzione
medicalmente assistita, sono state le corti a smantellare l’obbrobrio della legge 40,
riuscendo là dove era fallito il referendum abrogativo. Per quanto riguarda il terreno
dell’adozione, diverse pronunce hanno allargato, in nome dell’interesse del minore, i criteri
che definiscono chi può adottare, consentendolo, in casi sempre precisi e particolari, a
singoli e a coppie dello stesso sesso, fino a consentire al partner dello stesso sesso
l’adozione del figlio/a del proprio compagno/a anche se questo è ancora in vita e non solo
se e quando questi muoia.
Come negli anni Sessanta del Novecento, dietro queste decisioni innovative c’è la presa
d’atto dei cambiamenti culturali e sociali in atto da parte di giudici che, senza modificare le
norme, ne offrono una interpretazione adeguata alle circostanze attuali. Se del caso,
sollevano anche problemi di costituzionalità sollecitando a intervenire la magistratura più
alta. Come negli anni Sessanta del Novecento, i movimenti di opinione più o meno
organizzati giocano un ruolo non irrilevante in questo fenomeno, nella misura in cui
sollecitano e insieme rendono visibili nel dibattito pubblico i cambiamenti culturali e di
comportamento cui si riferiscono questi giudici innovatori nelle loro decisioni. Sia chiaro, le
decisioni innovative dei giudici e delle corti in materia di famiglia non possono essere
ricondotte all’esistenza di un movimento o di una iniziativa organizzata entro la
magistratura. Non c’è nessun “complotto” e nessun movimento organizzato dei magistrati
a questo scopo, anche se il dibattito all’interno dei magistrati è vivace e ricco. Aggiungo
che, se le singole decisioni di singoli giudici fanno giurisprudenza, influenzando decisioni
successive, esse possono sempre essere ignorate o rovesciate da un altro giudice, salvo
che non sia intervenuta la Corte Costituzionale (come nel caso della legge 40 sulla
riproduzione assistita). In altri termini, se il legislatore continua a non intervenire, i cittadini
saranno sempre costretti a ricorrere a un giudice per far valere quelli che ritengono loro
diritti, sperando nella forza persuasiva della giurisprudenza innovativa e di non incappare,
invece, in giudici che hanno opinioni diverse e contrarie.
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del 29/01/15, pag. II (Roma)
Comune, sì alle unioni civili Nuovo registro
all’Anagrafe riconosciute le nozze all’estero
Dopo mesi di polemiche, il voto di Pd e M5S. Poi la festa e i cori di
“Bella ciao” Un anno conviventi prima di iscriversi. Vendola in Aula:
fine del buio di Alemanno
GIOVANNA VITALE
SPETTA alla grillina Virginia Raggi la sintesi perfetta di quella che, con una certa enfasi,
l’assessore alle Pari opportunità chiama «giornata storica per i diritti». Dice la consigliera
pentastellata: «È stata una maratona durata 18 mesi, Roma è la centosessantesima città
ad approvare il registro delle unioni civili. Meglio tardi che mai». Esattamente ciò che
pensano le centinaia di attivisti glbt che, all’ora di pranzo, appena il tabellone luminoso
visualizza l’esito della votazione (32 sì, 10 no, un astenuto), esplodono in un boato di urla
e di applausi, baci e abbracci, labbra che si incollano ad altre labbra, Bella ciao cantata a
squarciagola come a volersi liberare di un incubo lungo quasi dieci anni, allorché nel 2006
si fece il primo tentativo e allora quasi più nulla.
Esulta Nichi Vendola sbarcato in Campidoglio per godersi lo spettacolo insieme a Vladimir
Luxuria, si congratula col “suo” capogruppo Peciola, stringe il “compagno” venuto dalla
Regione Smeriglio. «Dopo la stagione cavernicola di Alemanno, Roma è a una svolta,
respira, si riprende il suo profilo di caput mundi», scandisce il leader di Sel, spostando
l’asticella ancora più su: «Ora bisogna battersi per le nozze gay». E pazienza se
monsignor Enrico Solmi, presidente della Commissione per la vita e la famiglia della Cei,
su Radio Vaticana va giù duro: «Ci troviamo davanti ad un attentato al matrimonio inteso
nella forma in cui lo vuole la Costituzione », attacca il vescovo di Parma, «sono altre le
priorità» di cui podopo litici e amministratori dovrebbero occuparsi, «il Comune di Roma ha
calato la maschera e ha mostrato la vera finalità di questi registri delle unioni di fatto:
avallare i cosiddetti matrimoni gay e introdurre in modo indiretto questa possibilità che in
Italia non è data per legge». In aula la festa è già cominciata. Un tripudio di cuori rossi.
Il centrodestra che, a eccezione della Belviso, ha votato compatto contro, è annichilito. La
maggioranza, allargata per l’occasione al M5S, gongola. La vendoliana Imma Battaglia,
promotrice della delibera, salta quasi in braccio al sindaco Marino che non smette di
sorridere, rivendicando urbi et orbi_«un risultato che pone la nostra città sempre più in
prima linea sul fronte dei diritti», un esempio per «sbloccare le titubanze dei legislatori ».
Si rende conto, l’inquilino del Campidoglio, che questo voto è più simbolico che pratico.
Che senza una legge nazionale, il Comune può poco o niente. Ma la battaglia è di
principio e il principio è salvo. Tanto più che anche le trascrizioni delle nozze gay contratte
all’estero, oggetto del braccio di ferro con il prefetto, potranno ora essere “sanate” e
annotate nel nuovo registro. Dove però ci si potrà iscrivere solo dopo aver provato di
convivere da almeno un anno con il proprio partner. In compenso le unioni civili potranno
essere celebrate negli stessi spazi utilizzati per i matrimoni laici: a partire dalla Sala
Rossa. Dopodiché le coppie, formate da persone «dello stesso sesso o di sesso diverso»,
potranno godere «delle agevolazioni, dei benefici e in generale saranno soggette alle
medesime disposizioni previste da Roma Capitale per i soggetti coniugati». Equiparate, ai
fini dell’assistenza sanitaria, a un parente prossimo: in ospedale si verrà perciò
“riconosciuti”. Facilissimo sarà invece “divorziare”: basterà chiedere la cancellazione dal
registro.
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INFORMAZIONE
del 29/01/15, pag. 15
Diffamazione reloaded
di Arturo Di Corinto
“Siete una minaccia di livello accettabile, altrimenti lo sapreste”. Queste parole di Banksy,
street artist londinese, sono perfette per capirci sul tema della diffamazione. Come fa un
giornalista ad accorgersi che ha colto nel giusto? Dal numero di querele che riceve. Come
si fa a far smettere un giornalista che ha trovato una pista efficace per le sue denunce? Gli
si chiede un risarcimento danni dal primo articolo. Secondo l’osservatorio di Ossigeno per
l’informazione il 40% delle richieste di risarcimento verso giornali e giornalisti è legata a
querele per diffamazione.
Chi vince di fronte a una querela per diffamazione? Chi ha più soldi. Cioè chi può
impegnare più tempo e risorse a seguire le lunghe cause che ne possono derivare:
pagando investigatori, scovando testimoni, ottenendo perizie, reclutando gli avvocati più
esperti. Secondo voi tra il giornalista di un foglio locale siciliano e un grande gruppo
imprenditoriale multinazionale, al netto della serietà e competenza di giudici, chi ha
maggiori possibilità di vincere?
I cavilli giuridici e il “potere contrattuale” dei ricorrenti fanno sempre la differenza.
Troppo comodo dire che i giornalisti vogliono garantirsi la libertà di diffamare opponendosi
alla brutta legge di riforma della diffamazione a mezzo stampa. Troppo comodo per gli
stessi giornalisti ergersi a paladini di una stampa degna di questo nome quando dicono
che loro stessi e i colleghi devono “pagare” se hanno scritto il falso. La labilità del confine
tra il diritto alla salvaguardia dell’onore e della reputazione e la libertà di espressione è una
costante per chiunque comunichi, attraverso qualsiasi mezzo. Ogni articolo, servizio,
programma, inchiesta, che faccia nomi e cognomi, calcoli e stime, ipotesi e ricostruzioni, è
potenzialmente diffamatorio.
È diffamazione pubblicare un fatto palesemente falso. Pubblicare un fatto falso con
l’intento di danneggiare qualcuno è peggio. Ma se la notizia di un fatto vero è rilevante per
l’interesse generale, e la notizia è pubblicata o trasmessa senza intento doloso, non c’è
diffamazione anche se si danneggia la reputazione o gli interessi di qualcuno perchè si
considera la libertà di espressione un valore più alto in quanto tutela un interesse collettivo
(alla diffusione dell’informazione e delle idee). E tuttavia anche il racconto di un fatto vero,
riportato senza intento malevole e senza effetti chiaramente dolosi, può riportare degli
errori, offrire diverse angolazioni di lettura che possono o sono oggettivamente lesive della
dignità dell’interessato.
Per questo, siccome il reato di diffamazione è tipicamente contiguo alla libertà
d’informazione, al diritto di cronaca, al diritto di critica e di satira, si configura facilmente
come un reato d’opinione. E un reato d’opinione non può essere perseguito senza
l’intervento di un giudice e il necessario dibattimento.
Perciò sono benvenuti gli emendamenti, proposti in commissione Giustizia alla Camera.
Tra questi più tempo e uni spazio ad hoc per le rettifiche, multe dimezzate o quasi (da 50 a
30 mila euro), cancellazione dell’introduzione del diritto all’oblio. Vedremo se passeranno.
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CULTURA E SCUOLA
Del 29/01/2015, pag. 19
Rizzoli, trasloco a Segrate
LA TRATTATIVA TRA MONDADORI E RCS PER IL GRANDE POLO DEL
LIBRO: INSIEME SFIOREREBBERO IL 40 PER CENTO DEL MERCATO
L a frase è questa: “L’editoria è uno strano mestiere. Usa lo spirito per fare soldi, e i soldi
per fare lo spirito”. Solo che di questi tempi (secondo Nielsen, il 2014 si è chiuso con un 3, 3 %, dato che però non tiene conto di eBook e Amazon) fare soldi è difficile. Non è un
dettaglio (oppure sì, volendo dare retta ad Aby Warburg, “Nei particolari c’è Dio”) chi
quella frase l’ha pronunciata, ovvero Gian Arturo Ferrari, ex ad, reinsediato lunedì scorso
sul trono di Segrate come vicepresidente. Il cambio al vertice esecutivo di Mondadori (fuori
Riccardo Cavallero, dentro Enrico Selva Coddè, ingegnere, filosofo, per sei anni direttore
generale di Einaudi) è il completamento di una manovra iniziata lo scorso autunno con lo
scorporo della divisione libri dell’azienda guidata da Marina Berlusconi. Mossa che è
anche la premessa per una grande operazione di cui si sussurra da qualche mese: non
ancora una trattativa, ma ben più di un pour parler tra Mondadori e Rizzoli. Il primo e il
secondo gruppo editoriale stanno pensando di stringere un’alleanza per rafforzarsi:
insieme sfiorano il 40 per cento del mercato trade, il 25 per cento della scolastica. La
filosofia, si parva licet, è quella che ha portato Random House e Penguin a una megafusione da 2, 5 miliardi di sterline. Nulla che possa preoccupare più di tanto l’Antitrust,
comunque una concentrazione di quote di mercato da tenere d’occhio. La formula di
questa alleanza è naturalmente allo studio. Non è pensabile che Mondadori abbia qualche
interesse a una mera fusione. Lo spin off dell’area libri, il business più redditizio, mira allo
sviluppo. Traduzione: se Mondadori s’imbarca in quest’avventura, lo fa per comandare.
Senza dire che le condizioni di partenza dei due contraenti non sono paragonabili. Nel
2013 i libri Mondadori hanno registrato ricavi per 334, 3 milioni di euro e un margine
operativo lordo di 46, 2 milioni di euro; nello steso anno Rcs libri segna ricavi per 251, 8
milioni di euro, con un margine operativo lordo di 4, 2 milioni di euro. Nei primi nove mesi
dell’anno scorso, ultimo dato parziale, il fatturato di Segrate è stato 238, 9 milioni (con un
margine operativo lordo di 35, 8 milioni), mentre i numeri corrispondenti di Rcs sono 155, 4
milioni e un margine di 1, 3 milioni. Le due redditività non sono comparabili. La cosa
avrebbe anche una conseguenza politica, perché la famiglia Berlusconi diventerebbe
anche il più importante editore di libri. Ma nessun discorso può essere fatto senza
considerare il momento delicatissimo che Rcs mediagroup attraversa (al 30 settembre, il
risultato netto era -93, 1 milioni).
LA BATTAGLIA DI SOLFERINO. Da qui ad aprile si chiariranno molte cose. Intanto la
vexata quaestio sulla governance, chi comanda davvero (e dunque chi ci metterà più
soldi). Le banche premono, chiedono di ridurre le perdite, vendere l’argenteria: sono loro i
maggiori sponsor del “dialogo” con Segrate. Ogni anno bisogna dismettere qualcosa per
tappare i buchi: nel 2012 il gruppo aveva detto adieu a Flammarion, casa editrice
francese, comprata all’alba del millennio e ceduta a Gallimard per oltre 200 milioni. Chi
comanda metterà anche una parola definitiva sulla direzione del Corriere della Sera. Alla
Fiat, che vuol fare la parte del leone e portare Mario Calabresi da Torino a Milano,
potrebbe essere chiesto un ulteriore impegno: vuoi fare il socio di maggioranza, allora sali
al 30 per cento e scegli il direttore (sul tavolo, potrebbe esserci un compromesso con Della
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Valle sulla presidenza, realizzando il sogno di Luca Cordero di Montezemolo). Ipotesi,
questa, che vedrebbe confermato l’ad del gruppo, Pietro Jovane. La vendita dei libri
servirebbe a finanziare lo sviluppo del brand Gazzetta dello Sport, magari in un senso
commercialmente più aggressivo, la produzione di eventi in campo sportivo, dopo
l’operazione GazzaBet. Ma non è affatto detto che Fiat sia intenzionata ad aumentare le
proprie quote. E per quanto riguarda la direzione del Corriere della Sera, tutto può ancora
accadere. Intanto bisognerà capire chi sarà il nuovo inquilino del Colle e pure se sono
fondate le voci di una proroga di Ferruccio de Bortoli, magari come direttore editoriale in
ticket con Luciano Fontana. De Bortoli però sembra irremovibile dall’idea di lasciare a fine
aprile. È comunque da escludere che possa continuare la convivenza forzata con l’attuale
management, che lo ha elegantemente dimissionato con nove mesi d’anticipo. Sul totonomi per via Solferino continuano a fiorire le ipotesi più disparate, peggio che per il
Quirinale (qui è più complicato perché non ci sono più patti, né di sindacato né del
Nazareno). Oltre al direttore de La Stampa Mario Calabresi, si parla di Paolo Mieli (oggi
presidente di Rcs libri), di Enrico Mentana, Carlo Verdelli e di alcune firme del Corriere
come Antonio Polito e Massimo Franco. Insieme al più accreditato di tutti: Aldo Cazzullo.
CESSIONE DEI CARTELLINI. Proprio Cazzullo, autore Mondadori, sta per cambiare
casacca. E passare almeno temporaneamente a Rizzoli (qualcuno dice anche per
rafforzare la sua candidatura alla direzione di via Solferino) con il prossimo saggio sulla
Resistenza, dopo il fortunato La guerra dei nostri nonni (uscito per Le strade blu di Segrate
nel 2014). Ma non è l’unico trasloco: Rcs ha appena presentato alla rete dei venditori il
nuovo libro-omaggio alla regina dei salotti romani, Maria Angiolillo. Qualcuno è saltato
sulla sedia perché il volume è firmato da Candida Morvillo, ex direttrice di Novella 2000 e
autrice Rcs, e da Bruno Vespa, icona dei libri Mondadori: una cosa impensabile fino a
pochi mesi fa.
del 29/01/15, pag. 36
Segreti, attese e paure nei giorni del
sequestro di Giuliana Sgrena
A dieci anni dal rapimento dell’inviata, Gabriele Polo racconta l’incontro
tra Il Manifesto e Nicola Calipari “Due mondi diversi che impararono ad
ascoltarsi”
SILVANA MAZZOCCHI
IL RAPIMENTO di Giuliana Sgrena in Iraq. La sua liberazione, il fuoco amico americano
che, a pochi metri dall’aeroporto di Baghdad, uccide il capo del dipartimento ricerca del
Sismi, Nicola Calipari che la sta accompagnando verso la salvezza.
Mentre ancora si discute sul probabile riscatto pagato dall’Italia per la libertà delle due
giovani cooperanti, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, Il mese più lungo ( Marsilio), scritto
da Gabriele Polo, all’epoca direttore de Il Manifesto , ricostruisce fatti, responsabilità e
retroscena di dieci anni fa e rende omaggio all’amico spezzato. Ed è la prefazione, firmata
dalla moglie del dirigente del Sismi, Rosa Villecco Calipari, a riassumere il senso del libro
quando sottolinea la collaborazione di quei due uomini che «apparentemente lontani,
chiusi in mondi culturalmente diversi…» avevano invece imparato «ad ascoltarsi».
4 febbraio 2005, la notizia del sequestro Sgrena arriva nella redazione de Il Manifesto in
tarda mattinata, ed è subito sgomento e dolore, ma anche mobilitazione. In una
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Intelligence profondamente divisa al suo interno, Calipari riesce a farsi regista di una
difficilissima trattativa e i segreti e i silenzi dettati dalle ragioni dello Stato si trasformano,
per il direttore del “quotidiano comunista”, da notizie da svelare in indicazioni da seguire.
Una necessità dall’alto prezzo: «violentare il mestiere di giornalista» e dover «scegliere
cosa dire e cosa non dire».
In quell’epoca di bipolarismo esasperato, il contesto internazionale rispetto ai sequestri era
simile a quello attuale e l’Italia, come altri paesi europei e al contrario degli inglesi o degli
americani, è sospettata di pagare i riscatti ai rapitori, segretamente e magari triangolando
le somme attraverso soggetti terzi. In quel mese del 2005, però, la stretta alleanza con gli
Stati Uniti genera forti contraddizioni, divide l’opinione pubblica e accende la mai sopita
area pacifista.
Ha il ritmo del thriller, il libro di Polo. Gli incontri quotidiani a Palazzo Chigi dove due mondi
tanto diversi si fronteggiano, l’esigenza della riservatezza che prevale mentre le tensioni
all’interno del Sismi rischiano di vanificare la delicatissima missione di Calipari, i timori per
la vita dell’ostaggio. Infine, quando il 4 marzo arriva la notizia della liberazione, la gioia
dura ben poco. Nicola Calipari è morto e Giuliana Sgrena è ferita a una spalla. Pier Scolari
parte per l’Iraq; riporta a casa la sua compagna la mattina del 5 marzo; in serata su un
Hercules dell’aeronautica, arriva la bara con il corpo del dirigente del Sismi. Seguiranno
indagini e processi e, infine, il cerchio si chiude: la tragedia è stata una fatalità e viene
assolto l’unico soldato americano messo sotto accusa.
Incisiva la riflessione di Gabriele Polo che ricorda come fu dissolta la squadra di Calipari,
già pochi mesi dopo la sua morte. Quando “i calipariani” vengono separati, assegnati a
nuovi incarichi, e sparsi per il mondo; una diaspora che significa lo smantellamento quasi
integrale della rete d’informatori e di conoscenze che il Sismi ha in Medio Oriente. «In
seguito il Servizio verrà travolto, insieme ai suoi vertici, dagli scandali Nigergate, Abu
Omar e Telecom Pirelli».
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