Buon pomeriggio, sono Fabrizio Scheda, titolare dellʼagenzia di

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Buon pomeriggio, sono Fabrizio Scheda, titolare dellʼagenzia di
comunicazione | marketing | audio video | web
skeda.com di scheda fabrizio & c sas partita IVA e codice fiscale 02264890399
via casenuove, 26/1 48018 faenza (ra) tel 0546 33011 fax 0546 30273 e-mail: [email protected] www.skeda.com
Buon pomeriggio, sono Fabrizio Scheda, titolare dellʼagenzia di comunicazione e
marketing skeda.com di Faenza, una piccola realtà artigiana nata nel 1985, su consiglio di
un caro amico pubblicitario, oggi presidente di Pubblicità Progresso, che mi disse “Oggi la
comunicazione “tira”: è una buona opportunità di lavoro…”.
Ci occupiamo prevalentemente di consulenza strategica di comunicazione e
marketing, fornendo anche servizi di comunicazione tradizionali e digitali a 360° (abbiamo
anche una casa di produzione video e audio).
Operiamo in numerosi settori di attività dʼimpresa (agroalimentare, bancario,
medico-sanitario, industriale, turistico, politico, istituzionale, del non profit, educativo e
scolastico): ci affianchiamo perciò alle aziende sulle necessità concrete, le seguiamo
passo passo, aiutandole a gestire una complessità di scenari sempre più incerti, in cui è
indispensabile trasformare il rischio in opportunità, cercando sempre di farlo in modo
semplice e sostenibile. Non siamo tuttologi, ma abbiamo scelto, per offrire sempre di più,
di fare network con altri partner di qualità: per quanto riguarda i servizi di comunicazione
digitale siamo affiancati da 77Agency, una delle più importanti società di marketing digitale
e new media, con sedi a Milano, Roma, Riga, Amsterdam, Madrid, New York, Hong Kong
e Sydney.
Ringrazio Alberto Mazzoni della “mia” Confartigianato che mi ha chiesto di
testimoniare la mia esperienza di imprenditore e di “aiutante” dello sviluppo per altre
imprese in questo importante Evento. E ringrazio la Camera di Commercio di Ravenna per
avermi invitato.
Posso dire che abbiamo percorso le strade dellʼinnovazione fin da subito: 30 anni fa
iniziammo ad utilizzare la rivoluzione digitale di quegli anni, quando il più potente e
performante PC, lʼM24 della Olivetti, con i floppy 5” da 128k, era appena giunto sul
mercato e un Hard Disk da 10 Mb (che era un “imponente” sistema di storage) costava
oltre 7 milioni di vecchie lire, circa 2 milioni in più di una Fiat 126 e poco più della nuova
Panda 750 appena uscita.
Il digital divide era soprattutto un costo oltre che una cultura che si affacciava sul
mondo. Siamo stati i secondi in Italia a fare design editoriale su PC, scrivendo in stringhe
codice per dar forma al testo che si voleva rappresentare, anticipando quelli che poi
sarebbero diventati su Windows, o ancora meglio su Apple, i programmi di grafica digitale.
Non dico questo per “nostalgica poesia” ma per raccontarvi lʼesperienza di aver
potuto partecipare, o meglio, di stare attraversando, assieme ai nostri clienti, un processo
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di evoluzione della comunicazione e delle relazioni che in 30 anni non ha eguali in ogni
epoca della storia dellʼuomo.
Se come imprenditori non siamo autoreferenziali, ci accorgiamo che, di anno in
anno (ma meglio dire di mese in mese) il nostro lavoro è in continuo cambiamento. Si
evolve con lʼevolversi dei modelli e dei sistemi della comunicazione e delle dinamiche del
mercato, elementi dominanti nella società di oggi.
Veniamo da circa 7 anni di “crisi” globale, ma già da circa 20 sapevamo che questo
momento sarebbe arrivato (ne “La fine del lavoro” lʼeconomista Jeremy Rifkin ce lo aveva
anticipato) e non abbiamo fatto niente. Oggi siamo in turbolenza, cioè di fronte ad una
continua instabilità, sorprese inaspettate e disturbi che si ripresentano spesso, come in
uno sciame sismico (proprio come quello che ci ha spaventato, poche settimane fa,
colpendo la nostra provincia) fatto di picchi e ricadute continue, che è e sarà la nuova
normalità.
È un fenomeno frutto della globalizzazione e della digitalizzazione, che porta in sé
due fattori: abbassa il costo della vita e nello stesso tempo evidenzia la “mia fragilità”. La
digitalizzazione permette uno scambio enorme di informazioni e quindi dà più potere al
consumatore rispetto all'azienda.
Aiutare le aziende a non essere fragili di fronte al cambiamento forzato che il
mercato impone e aiutarle a imparare a governarlo è il nostro lavoro. Sostenere il
cambiamento delle imprese è sempre una bella sfida di equilibri, tra valorizzazione delle
persone, esigenze commerciali e obiettivi politici, cercando, allo stesso tempo, di far
crescere una cultura diffusa della comunicazione in tutta lʼorganizzazione aziendale e di
offrire soluzioni che raggiungano risultati nel più breve tempo possibile, ma con una
visione condivisa di lungo periodo.
Allʼinizio, la maggior parte delle imprese che ci chiamano, pensano che per non
perdere terreno basti utilizzare le tecnologie comunicative attuali, ragionando comunque
“alla vecchia”: “Che sia tradizionale o digitale, poco importa, lʼimportante è attirare la
gente; se il marketing sociale punta alla gente e lo fa servendosi di tutti gli strumenti a
disposizione, usiamolo. Cioè… : quanto costa? E: fate voi vero?”.
Lʼatteggiamento comune è quello di muoversi come in un grande supermercato,
dove ognuno prende della realtà solo ciò che serve in base al proprio utilitarismo e usa
delle cose che ha in maniera superficiale, secondo la filosofia del “mordi e fuggi”, senza
nessuna visione di lungo periodo.
Oppure ci sono quelli già conquistati dalla nuova religione dellʼaccessibilità, dello
sharing e dellʼengagement, con unʼidea dʼimpresa e di mercato in cui hanno già chiaro che
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“si dovranno sempre condividere valori ed informazioni, nel rispetto delle regole
fondamentali di ogni convivenza e che lʼinformazione e la formazione digitale dovranno
operare in maniera funzionale ad un sistema economico omnicomprensivo sostenibile e
tollerante”.
Oggi, nel momento di cambiamento radicale che attraversiamo, come si dice qui in
Romagna, “si sta in poco posto”: la sopravvivenza dellʼimpresa è legata soprattutto al
modo in cui si sceglie di produrre innovazione, allʼutilizzo di strumenti nuovi e radicalmente
diversi rispetto al passato, nel ridisegnare i confini del proprio mercato e, soprattutto, alle
capacità di coinvolgimento degli attori che agiscono allʼinterno della propria catena del
valore.
È il concetto di prosumer o di working consumer, che porta con sé lʼidea del
consumatore che collabora attivamente e volontariamente allʼinnovazione assieme
allʼimpresa, secondo una dinamica di co-creazione, per generare e diffondere
unʼesperienza di “consumo” che va oltre allʼoggetto o al servizio stesso e che contiene un
alto valore aggiunto complementare.
Permettetemi a questo proposito di fare solo questo piccolo esempio, relativo ad un
settore medico, quello dentale, che in questo momento “subisce”. Tra i nostri clienti
abbiamo la più grande associazione di dentisti italiani (oltre 24.000, il 60% di chi opera in
Italia): uno di questi mi ha chiamato recentemente perché vuole aprire il suo nuovo studio
di Bologna. Aveva già tutti i progetti dellʼarchitetto, dove tutti gli spazi erano stati sfruttati al
meglio per ricavare più ambulatori con riuniti e apparecchiature di ultimissima generazione,
cioè più postazioni ultrasofisticate di vendita. Lo abbiamo aiutato a capire che
lʼinnovazione come leva determinante di acquisto non era la rincorsa tecnologica o la
qualità dellʼintervento (cʼè una pressoché omogeinizzazione oggi dei livelli di qualità), ma,
ad esempio, lʼesperienza di utilità necessaria al paziente che sta aspettando il suo turno
(il più delle volte ansioso, che legge giornali, che tiene calmi i bambini, etc), esperienza
che rafforzasse il legame tra medico e paziente, indipendentemente dal costo di intervento.
Allora gli abbiamo proposto di eliminare uno dei 5 ambulatori ed ampliare la sala di
attesa, inserendo una struttura serra con la possibilità per il paziente di avere a
disposizione un sistema di piantine in idrocultura, tra cui scegliere la sua, “attivarla” nella
serra e curarla ogni volta che ritorna. Ma non solo: che da casa, attraverso lʼuso di una
webcam, possa vedere lo sviluppo della sua piantina che abbellisce un luogo di attesa e di
benessere. Da “curato” a “curatore”. Aspettiamo la realizzazione e guardiamo come va.
Già chi mi ha preceduto ha parlato di ciò che va implementato e va fatto se si vuole
competere, quindi non voglio portarvi altri esempi su cosa facciamo per aiutare le imprese
a sfruttare i vantaggi della multicanalità e della convergenza digitale, o di come gestire i
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nuovi processi di acquisto generati dalla social media revolution, o che la nuova frontiera
3.0 è quella dellʼemozione condivisa, quella del lovemark, che rappresenta "la fedeltà alla
marca oltre la ragione", o della portata dellʼITC, ma soprattutto della necessità che
lʼorganizzazione cresca in quella mentalità adattiva, consapevole ed aperta ad un modello
di business fluido e flessibile, in continua evoluzione e con cambiamenti tecnologici
continui.
Voglio invece concludere questa mia testimonianza, cercando di comunicarvi quel
passo che mi interessa prima “del fare”. Perché in questi 30 anni mi sono sempre più reso
conto che la forza di ogni impresa è nel cuore di chi la guida. Un prodotto, una tecnologia
possono essere imitati, il sogno, lo scopo per cui si fa impresa no: è unico e porta sempre
dentro di sé una dinamica educativa, cioè orientata alla verità e alla ragione.
Cioè prima del “fare” è necessario avere coscienza, nel nuovo assetto della
comunicazione globale, con che cosa si ha a che fare, comprendendo le dinamiche
attraverso cui il pensiero dominante rende “collettivo”, e non “comune”, il bene. Bene che
ha a che “fare” con la verità, con la libertà, con la ragione e, via via, con i contenuti di uno
sviluppo a misura di persona, di una cultura.
In questo senso mi hanno “illuminato” questi due dogmi della modernità, esasperati
nella post modernità, “che tutta la realtà sia costruita socialmente ed infinitamente
manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante
della oggettività” (Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012, XI).
In realtà, come nella musica è il silenzio fra le note che ci fa percepire la melodia,
così, anche per tutto quello che ascoltiamo è il silenzio che circonda i “rumori” della
comunicazione che ce li fa cogliere e che dà loro un senso. Se per ansia di emergere
incrementiamo ogni suono, ogni parola, ogni rombo, ripetendolo di continuo senza pause,
senza stacchi non riusciremmo neanche a capirne il valore, sarebbe un frastuono, un
fracasso perenne e fastidioso.
Questo silenzio è il cuore con cui facciamo impresa, mercato, le cose: a me
interessa ancora ascoltarlo con chi ci sta, con chi vuole prendersi questo affascinante
rischio imprenditoriale.
Grazie.
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