2 GINEVRA
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2 GINEVRA
Journée d’étude et table ronde Criminalité organisée et lutte anti-mafia Intervento di LINO BUSA’ Presidente di SOS IMPRESA Président de l’Association des Entreprises Italiennes Contre le Racket undi 1 8 avril2011 1 La storia del movimento antiracket italiano ha una data d’inizio il 29 agosto 1991. E’ il giorno dell’omicidio di Libero Grassi. Quell’omicidio fece comprendere all’Italia tutta, alle Istituzioni, alla politica, all’opinione pubblica che l’estorsione, il “pizzo” come viene chiamato da Cosa Nostra, era una realtà tanto mai diffusa quanto sommersa e che di “ pizzo” si poteva anche morire. Fino allora ( e questo sensazione sta oggi riproponendosi), l’estorsione era considerata una cosa normale a cui adattarsi, con cui convivere e veniva considerata ne più ne meno che una delle tante “ tasse” che i commercianti, gli imprenditori sono costretti a pagare. Quella data in qualche modo segna una demarcazione: un “prima” e un “dopo”. Intendiamoci: anche prima di Libero c’erano stati imprenditori che avevano denunciato pressioni mafiose, ma il termine “antiracket” come espressione caratterizzante un movimento, costituito prevalentemente di commercianti e piccoli imprenditori, che ha impostato in termini organizzati la denuncia, nasce proprio intorno alla tragica esperienza di Libero Grassi e a quella parallela dei commercianti di Capo d’Orlando. Capo d’Orlando è un piccolo centro in provincia di Messina nei primi giorni di dicembre del 1990 a seguito di numerosi attentati ed altri fatti intimidatori i commercianti di quella città costituiscono un’associazione per discutere il dar farsi ciò farà determinare all’intera vicenda, che era chiaramente estortiva, un esito diverso di quello solitamente diffuso in Sicilia: pagare per non avere problemi. Infatti, nel segreto delle riunioni svolte in Parrocchia matura, giorno dopo giorno, una decisione coraggiosa: non piegarsi al ricatto, denunciarli per farli arrestare tutti. Ed in effetti sulla base della denuncia di numerosi commercianti vengono arrestati una ventina di mafiosi. A quel punto l’Associazione antiracket venne pubblicizzata ed ad essa aderì, nel giro di pochi mesi, la stragrande maggioranza dei commercianti orlandini. In seguito il processo portò alla condanna degli estortori: l’associazione si costituì parte civile, partecipò attivamente al processo, determinò intorno ai testimoni, dentro e fuori il tribunale, un clima di solidarietà, di sostegno, si mobilitarono mass media, forze politiche e opinione pubblica. Prima di continuare questa breve storia dell’esperienza del movimento antiracket è bene sottolineare cos’è l’estorsione e perché assume una rilevanza strategica tanto da essere una delle caratteristiche fondanti delle organizzazioni mafiose, connaturale ad esse. Una famiglia mafiosa può essere ricca al punto da ritenere che il “pizzo” possa essere considerato un’attività marginale sull’insieme degli affari, si pensi al traffico di droga, ma niente conferisce prestigio, autorevolezza e potere quanto il “pizzo”. 2 Il pentito Gaspare Mutolo è chiaro al riguardo: “ Il discorso dell’estorsione più che altro è un prestigio”. Il racket contiene per intero e nel suo concreto esercizio, tutte le componenti della fenomenologia mafiosa. E’ un delitto che può essere consumato soltanto se chi lo esercita ha fama di essere “uomo d’onore”, necessita di una forte capacità di intimidazione, la vittima deve avvertire che è in gioco la sua sicurezza personale, che non ha altre alternative che pagare. Un altro pentito, il più famoso, Tommaso Buscetta ci ha descritto l’ atmosfera che si crea : “Quando mi presento a lei, lei, deve sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non verrò mai a minacciarla, verrò sempre sorridente e lei sa che dietro quel sorriso c’è una minaccia che incombe sulla sua testa. Io non verrò a dirle: le farò questo. Se lei mi capirà, bene! Se no, lei ne soffrirà le conseguenze”. Il "pizzo" quindi non è solo un metodo criminale per procurarsi illeciti guadagni ma anche una delle principali modalità con cui viene esercitato il controllo del territorio ed attraverso questo imporre l’omertà. Il "pizzo" diventa allora una specie di tassa che gli operatori economici pagano alla sovranità mafiosa per avere il permesso di esercitare la loro attività. Vittime del "pizzo" sono quindi, di norma, coloro che svolgono un'attività imprenditoriale. Ma non solo è altresì l’attività mafiosa in cui si esercitano le giovani leve della mafia e nella quale avviene la loro selezione criminale. I suoi introiti servono a dare uno stipendio ai “picciotti”, pagano le spese legali, sostengono le famiglie dei mafiosi detenuti. Per la società si è rilevato che il pizzo è uno degli elementi di maggior ostacolo alla libertà delle imprese e, quindi, allo sviluppo proprio perché comprime la libertà di fare impresa. Ma torniamo alla storia. L’esperienza di Capo d’Orlando diventa un modello da seguire: in molti comuni della Sicilia orientale altri imprenditori danno vita ad altre associazioni antiracket, l’esperienza si diffonde in Puglia e in Calabria facendo assumere al movimento una dimensione sovraregionale. In quegli anni si colloca anche la nascita di SOS Impresa. Costituita nel 1992 intorno all’idea maturata dalla Confesercenti di Palermo di mettere a disposizione delle vittime un numero verde per raccogliere denunce. Il modello appare vincente perché per la prima volta si possono denunciare gli estortori senza mettere a rischio la propria vita, grazie alla denuncia collettiva. Il sanguinoso epilogo palermitano diventa per tutti una amara lezione: si è uccisi quando si è soli e isolati, e fu questa la condizione in cui venne a trovarsi Libero Grassi. Una lezione da mettere a frutto nel migliore dei modi: bisogna sempre sottrarre chi si espone dalla solitudine e dall’isolamento, in questo risiede la forza dell’associazionismo. 3 Purtroppo l’antiracket tornerà a confrontarsi con altri omicidi di imprenditori, a partire da quella terribile settimana del novembre 1992 quando a distanza di pochi giorni vengono uccisi a Foggia Giovanni Panunzio e a Gela Gaetano Giordano, entrambi in situazioni di solitudine e di isolamento. Questi due delitti a oltre un anno di distanza da quello di Libero Grassi segnano anche il limite territoriale del movimento: ci sono aree nelle quali con grande difficoltà si prova a costruire l’associazionismo antiracket. Laddove è più antico il radicamento mafioso e sono più estese le modalità estorsive, si riscontrano meno denunce e associazioni. Le province della Sicilia diventano da subito il più importante avamposto del movimento proprio in quelle zone di più recente insediamento mafioso. La demarcazione storica segnata dalla nascita dell’”antiracket” ha immediati riflessi su più campi. In primo luogo si registra una impennata nel numero delle denunce per estorsione. Negli anni successivi al 1991 sale notevolmente il numero degli imprenditori che si rivolgono con fiducia alle forze dell’ordine e alla magistratura; e, comunque, dopo la prima impennata si stabilisce una tendenza positiva che permane per tutto il decennio successivo e che in alcuni momenti vende anche ulteriori crescite. Una tendenza ancora più positiva se confrontata alle denunce per usura che, invece, dopo un’analoga impennata (anni 1994-95), ha fatto registrare cadute verticali. Un altro elemento positivo è stato rappresentato dalla conoscenza del fenomeno che si è fatta viva via più adeguata: se prima il “pizzo” veniva considerato qualcosa di secondario nelle dinamiche criminali e, quindi, un reato di serie B, si è affermata la consapevolezza che questo è un fenomeno fondamentale sia dal punto di vista mafioso che da quello della società civile. Nel tempo si sono succeduti diversi interventi normativi anche sulla base delle modifiche assunte dal fenomeno. Ad esempio, con l’introduzione del Fondo di solidarietà si riesce a garantire il risarcimento di tutti i danni subiti da un imprenditore per essersi opposto al racket, non sempre i tempi sono brevi. Oggi il movimento antiracket è un reticolo di associazioni, gruppi, personalità presenti soprattutto nel mezzogiorno d’Italia. Inutile aggiungere che le Associazioni non sono un “club antimafia”, la loro originalità e presenza si giustifica nel produrre fatti penali: denunce, processi, condanne. Per questo la costituzione di “parte civile” , stare cioè accanto ai testimoni e alle vittime nelle aule dei tribunali, è uno degli aspetti qualificanti della loro azione. Purtroppo resta ancora un’avanguardia rispetto il grandissimo numero di imprenditori che ancora pagano in silenzio e nel silenzio generale. Un’avanguardia, però, che da fastidio, perché dimostra concretamente, com’è avvenuto in molte zone, che ribellarsi al “pizzo” è possibile. Ed è possibile farlo in condizioni di sicurezza. 4 Denunciare senza più paura Ma quali sono le novità introdotte dalle associazioni antiracket? I due pilastri di un’associazione sono rappresentati, da un lato, dalla denuncia collettiva, dall’esposizione di più commercianti: in tal modo si garantisce la sicurezza di chi denuncia rispetto alle rappresaglie, perché se si è in tanti non ha alcun senso l’atto di violenza (se a opporsi è uno solo, si colpisce quello e il problema per la mafia è risolto); dall’altro lato, dalla collaborazione con le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria: senza questa condizione qualunque iniziativa non solo diventa velleitaria ma anche pericolosa. Si incide solo se si riesce a stabilire quella relazione virtuosa che consente, sulla base della reciproca fiducia, la circolazione di informazioni e la migliore strategia di protezione per chi si espone e per il territorio dove agisce un’associazione. Non solo: d’intesa con le forze dell’ordine sono state sperimentate modalità collaborative che, in alcuni casi, hanno ridotto il livello di esposizione personale degli imprenditori. Inoltre, quando si costituisce un’associazione per tutelare quegli imprenditori che denunciano, l’associazione diventa uno strumento per promuovere il consenso della comunità e degli altri imprenditori. Questo consenso permette a chi si espone di resistere anche nei momenti più difficili. Purtroppo ci sono stati casi in cui in situazioni di denuncia solitaria si è pagato un alto prezzo sotto il profilo della redditività dell’azienda: diminuisce il numero dei clienti che vanno a comprare in quel negozio determinando la chiusura o l’allontanamento del commerciante. Bisogna anche considerare che quando si è in tanti si acquista una capacità contrattuale con le istituzioni sia locali che nazionali, cosa fondamentale in momenti difficili. La Legge n. 44 del 1999, ad esempio, è stata il risultato di una forte battaglia del momento. L’associazione, infine, risolve un problema che nessuna legge potrebbe mai risolvere: la paura di chi riceve l’intimidazione mafiosa. La paura è l’elemento di maggiore forza per la mafia e di maggiore debolezza per il commerciante . Quando si subisce un attentato la paura raggiunge un livello altissimo; ma se questa sensazione può essere condivisa con altri colleghi, la paura a poco a poco ritorna alla sua dimensione fisiologica, si acquista forza ed è più facile denunciare. Oggi le associazioni sono riconosciute da una legge del Parlamento (n. 44 del 1999) e non a caso il legislatore ha indicato come condizione per ricoprire l’incarico di “Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura” quella di avere una “comprovata esperienza nell’attività di contrasto al fenomeno dell’estorsione e dell’usura e di solidarietà nei confronti delle vittime” (art. 19). 5 Quella del movimento antiracket è ormai un’esperienza più che decennale che è riuscita a confrontarsi con vari momenti politici e con tante oscillazioni. Le fasi di crescita sono inevitabilmente legate alle attenzioni favorevoli di istituzioni e opinione pubblica: maggiore è l’impegno dello Stato e più si denuncia: se una vittima sente il sostegno delle istituzioni, per questa persona sarà più facile esporsi. In questi anni non sono mancati confronti anche duramente polemici con le istituzioni, come avviene in questi tempi, di fronte alle scelte politiche soprattutto in materia di giustizia, dell’attuale Governo, ma il fronte della polemica è sempre rivolto a recuperare cognizioni di fiducia senza le quali non possono esistere le esperienze antiracket. Come si può chiedere ad un commerciante di denunciare se non avverte la possibilità di incontrare le istituzioni? Le associazioni sono sempre state un’esperienza apartitica: e questa connotazione non è mai venuta meno anche di fronte alle più aspre polemiche politiche Non solo “pizzo” Oggi assistiamo a processi sempre più complessi di penetrazione mafiosa nell’economia. “Cosa nostra” non abbandona certo il “pizzo”, ma al tempo stesso affina la capacità di fare ed essere impresa facendo saltare la netta distinzione, a dire il vero un po’ scolastica, fra economia legale ed economia illegale. Gli esasperanti processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione rendono ormai labile questa distinzione ed è evidente che le mafie si muovono a tutto campo in un’economia ormai globalizzata: acquistano società, giocano in borsa, si avvalgono di alte professionalità, dimostrano una forte capacità di saper utilizzare la leva finanziaria avvalendosi anche di connivenze nel mondo della finanza internazionale. E come avviene per la finanza e l’economia, anche nelle attività criminali, globale e locale si intrecciano. Nel momento in cui si spostano miliardi nei Paesi off-shore, resta forte la capacità della criminalità di infiltrarsi nel quotidiano della vita delle nostre aziende e delle nostre città, di condizionare il mercato e l’impresa. Le nuove mafie si inseriscono nel mercato rilevando aziende che loro stessi “stressano” rendendole incapaci di risollevarsi, o addirittura utilizzano i capitali strappati a queste ultime per avviare attività nuove di zecca ed espandersi in maniera tentacolare nei piu’ redditizi settori economici. 6 Siamo di fronte ad una situazione paradossale quanto preoccupante in cui con il passare del tempo il saldo tra il numero di imprese legali cessate per effetto delle mafie e quello delle imprese illegali nate dalle loro ceneri o grazie ai loro ‘versamenti’, si va sempre piu’ sbilanciando a favore delle seconde. Oggi ogni attività economica-imprenditoriale viene “avvicinata” dai “signori del pizzo” con il volto “conveniente” della collusione, piuttosto che quello spietato della minaccia, per evitare forme d’allarme sociale e di ribellione. Dal quartiere Brancaccio di Palermo, dai quartieri bene del Vomero e dell’Arenella a Napoli, da Gela alla Locride, dall’Agro aversano al triangolo Andria.Barletta-Trani, chiunque voglia fare impresa in queste aree deve fare i conti con la criminalità organizzata. Ma il pizzo è fenomeno diffuso innanzi tutto nelle grandi città metropolitane del sud. In Sicilia sono colpiti l’80% dei negozi di Catania e Palermo. Pagano il pizzo il 70% delle imprese di Reggio Calabria, il 50% di quelle di Napoli, del nord Barese e del Foggiano con punte, nelle periferie e nell’hinterland di queste città, che toccano la quasi totalità delle attività commerciali, della ristorazione, dell’edilizia. Si può affermare che in queste zone a non pagare il “pizzo” sono le imprese già di proprietà dei mafiosi o con cui essi hanno stabilito rapporti collusivi e affaristici. La richiesta del “pizzo” è diventata “soft”, ma non per questo meno opprimente e generalizzata, inoltre con l’avvento dell’euro si segnala un sensibile aumento del denaro richiesto facendo lievitare di non poco i soldi versati nelle casse della criminalità, secondo una stima di SOS Impresa, si aggirano intorno ai 9 miliardi di euro l’anno e coinvolgono circa 160.000 commercianti. Una cifra enorme neppure scalfita dal calo del numero degli esercizi commerciali per effetto dalla crisi dei consumi, dalla pressione fiscale e dagli insediamenti di grande distribuzione, non deve far pensare ad una diminuzione del giro d’affari del “pizzo”. Si è estesa la platea dei soggetti entrati nel mirino degli estortori includendo attività per tutta una fase sostanzialmente immuni al fenomeno (studi professionali, attività di servizio, farmacie) compensando così le quote perse per la chiusura dei negozi Il comparto dell’edilizia in tutte le sue fasi (movimentazione di materiali inerti, cave, appalti e costruzioni). Quello della ristorazione e delle attività turistiche, le concessionarie di automobili e le autorimesse, i grandi negozi di elettrodomestici e HI FI, magazzini all’ingrosso sono i settori su cui con più virulenza si esercitano le pressioni estortive. 7 Supermercati, discoteche e locali notturni (compresi i circoli privati) compravendita di auto usate, attività economiche con scarsa specializzazione, commercio all’ingrosso di carni e prodotti ittici sono invece i settori privilegiati della “mafia imprenditrice”. Alle modalità più tradizionali di riscossione del “pizzo”, si aggiungono forme nuove e forse più inquietanti, perché cementano un rapporto collusivo e omertoso quali l’impiego di mano d’opera, o l’imposizione di merce, di forniture, di servizi. Occorre concentrarsi su quest’ultimo aspetto. E’ ormai evidente il proposito, dall’altro confermato dal sempre crescente numero di imprese sequestrate su provvedimenti dell’autorità giudiziaria, da parte del crimine organizzato, di intervenire con proprie imprese nelle relazioni economiche, stabilendo collegamenti collusivi con la politica e la burocrazia soprattutto per il controllo del sistema degli appalti e dei servizi pubblici. I clan mafiosi gestiscono in proprio o avvalendosi di prestanome, le attività di reinvestimento degli utili con particolare attenzione all’industria del divertimento, alla ristorazione veloce, ai supermercati, agli autosaloni, al settore della moda e persino nello sport. Inoltre, sono presenti con proprie imprese nei comparti dell’intermediazione e delle forniture. La nuova strategia messa in atto dai sodalizi criminali più strutturati e agguerriti, per concludere, si fonda su precisi assunti: una scarsa esposizione, un consolidamento degli insediamenti territoriali tradizionali, una capacità di spingersi oltre i confini regionali e nazionali, l’attivazione di imprese pulite. La novità del ciclo mafioso che stiamo attraversando è questa. La mafia che si inabissa e che si fa impresa. Anche l'usura rappresenta un'attività congeniale alle organizzazioni mafiose. Gli uomini delle cosche possiedono infatti di norma una buona liquidità, che attraverso il prestito usuraio viene riciclata e moltiplicata, ricorrendo alla violenza là dove qualcuno non sia più disponibile a sottostare ai fortissimi interessi imposti. Infine, i mafiosi hanno buone relazioni nelle banche e nel tessuto economico in generale e così riescono ad ottenere le informazioni utili per selezionare e tenere sotto ricatto gli usurati. Tutto ciò aiuta a capire meglio come mai questa piaga, così diffusa nel nostro paese, venga sfruttata dalle organizzazioni criminali. Le imprese sequestrate Il racket delle estorsioni e l'usura, il cuore delle tasse mafiose, non esauriscono le criticità nel campo delle concrete politiche contro la criminalità organiz-zata. Altro tema dolente è quello delle imprese sequestrate/confiscate alle ma-fie. Imprese a volte importanti che, spesso allorquando sono 8 avviate all’amministrazione controllata, sono fallite, provocando un immiserimento eco-nomico del territorio, nuova disoccupazione, un danno sociale e d'immagine im-pressionante. E’ evidente che questo rappresenta un segnale controproducente nella lotta alla mafia e nel ripristino della legalità. Sarebbe importante, invece, invertire drasticamente questa tendenza, approntando questa tematica, non so-lo in termini conservativi-giudiziari, come avviene per i beni immobili, ma co-minciando con il pensare a gestioni imprenditoriali coinvolgendo nella gestione soggetti pubblici e privati. Il dottor Raffaele Piccirillo, Giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Napoli, in un articolo evidenzia appieno denuncia come “Alcune imprese mafiose funzionano e rendono soltanto perché seguono uno stile criminale. Il loro utile si collega al risparmio dei costi fiscali, contributivi, ambientali, alla vio-lazione delle misure antinfortunistiche poste a tutela dei lavoratori. I loro profitti fanno affidamento sul patrocinio mafioso nell’accaparramento di appalti pubblici e commesse private, sulla possibilità di reinvestire capitali illeciti e di risparmia-re i costi del credito bancario. Non è detto che, ripristinate condizioni di legalità, quelle imprese continuino a produrre reddito e che dunque convenga per lo Sta-to proseguirne la gestione. Va salutata perciò con favore la previsione dell’ultimo pacchetto sicurezza che connette gli obblighi di gestione dell’amministratore giudiziario alle «concrete prospettive di prosecuzione dell’impresa», tenuto conto «dell’attività economica svolta dall’azienda, della forza lavoro da essa occupata, della sua capacità produttiva e del suo mercato di riferimento». Gli amministratori giudiziari sono insomma chiamati a verificare al più presto la convenienza della gestione dinamica. Quando questa dovesse mancare la soluzione più appropriata non potrà essere che quella di smembrare il complesso aziendale e allocare tempestivamente i beni strumentali, altrimenti soggetti a rapida obsolescenza. Manca ancora però, nella legislazione dedicata all’impiego dei beni confiscati, la consapevolezza del ruolo promozionale» che l’amministrazione delle imprese mafiose potrebbe esercitare sui contesti economici 9 SOS Impresa condivide questo approccio, ma ritiene utile, affiancare agli amministratori giudiziari e coinvolgere nella gestione forze imprenditoriali sane, abituati a “fare impresa” in contesti ambientali caratterizzati da una forte pre-senza mafiosa. A tale riguardo ci stiamo facendo promotori di un Consorzio nazionale costituito da imprenditori che hanno già dimostrato di avere capacità e cultura nella gestione di unimpresa libera da condizionamenti mafiosi. Un Consorzio nazionale per la gestione delle imprese confiscate, costituito da imprenditori che nel corso della loro esperienza lavorativa si sono distinti per capacità imprenditoria-le e per essersi opposti al ricatto mafioso. Il Consorzio potrebbe far leva su un management industriale e commerciale selezionato attraverso Protocolli con le Confederazioni nazionali degli imprendi-tori le quali potrebbero mettere a disposizione le loro strutture di servizi, il know how imprenditoriale diffuso, e coinvolgendo le Camere di Commercio, il sistema creditizio, gli Enti locali. I Consorzi che all'uopo potrebbero essere impegnati a gestire l’impresa e a rimetterla sul mercato legale in una prospettiva di autogestione da parte delle maestranze interne o da parte di delle stesso Consorzio fino ad una definitiva ricollocazione autonoma sul mercato. L’antimafia delle opportunità e delle convenienze Se questo, sia pure in grandi linee è il quadro che abbiamo di fronte, si comprende come queste pratiche siano ancora più gravi dello stessa estorsione, perché l’impresa che entra in contatto con la mafia, che accetta le forniture di un mafioso, o non riesce a sottrarsi alla imposizione di un video poker è un’impresa che perde la sua libertà, che alimenta la penetrazione di denaro sporco nell’economia pulita, che diventa da omertosa, collusa. Per spezzare questa catena occorre puntare di più alla collaborazione delle vittime, ma su questo frangente gli appelli moralistici contano poco. Bisogna mettere in campo politiche concrete che puntano sulla “ convenienza della denuncia”, che risarciscano, anche sul piano economico, le imprese che si oppongono, rispetto a chi ha atteggiamenti collusivi o solo omertosi. Ecco allora il punto nuovo che noi vogliamo sottolineare. Dentro questo scenario, che ha forti elementi di novità, ci deve essere un interesse generale della collettività ad incoraggiare le imprese a sottrarsi al “pizzo”. Gli imprenditori che non vogliono sottostare alle imposizioni mafiose, e che per questo pagano un costo più alto dei loro colleghi, anche dal punto di vista economico, debbono essere incoraggiati con misure che debbono intervenire dentro le relazioni economiche e producano convenienze. 10 Dobbiamo porre con chiarezza questo tema: l’impresa che non paga il “pizzo” ha uno svantaggio competitivo rispetto l’impresa collusa! Bisogna allora mettere in campo delle misure compensative. Per esempio prevedendo corsie preferenziali nell’aggiudicazione degli appalti per le imprese che si sono sottratte al pagamento del “pizzo”. E’ quella che abbiamo chiamato antimafia delle opportunità e delle convenienze. Questa problematica, affrontata già da alcuni enti locali e da Regioni come la Campania, e oggi la Calabria, assume oggi un carattere di urgenza in relazione alle risorse ed agli interventi che si facendo dalla ricostruzione dell’Aquila all’EXPO di Milano. Si tratta di importanti opere attese da anni che debbono rappresentare una occasione di sviluppo per il sistema mezzogiorno e non un nuovo arricchimento per le mafie. Noi non diciamo non si facciano le opere pubbliche perché c’è la mafia. Diciamo facciamo le grandi opere senza abbassare i controlli di legalità. La nostra esperienza ci convince che non ci sarà un consistente aumento delle denunce senza l’attività di mediazione e di creazione di fiducia da parte delle Associazioni antiracket. Per questo è necessario un investimento della politica verso il movimento antiracket: innanzitutto affermando con forza che pagare il pizzo non è un fatto “normale”, ma anche con una serie di misure in grado di ampliare le politiche di sostegno alle associazioni antiracket e antiusura, che non dimentichiamolo mai sono associazioni di volontariato e debbono rimanere a nostro giudizio, tali. 11