2 GINEVRA

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2 GINEVRA
Journée d’étude et table ronde
Criminalité organisée et
lutte anti-mafia
Intervento di
LINO BUSA’
Presidente di SOS IMPRESA
Président de l’Association des Entreprises Italiennes Contre le
Racket
undi
1 8 avril2011
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La storia del movimento antiracket italiano ha una data d’inizio il 29 agosto 1991.
E’ il giorno dell’omicidio di Libero Grassi.
Quell’omicidio fece comprendere all’Italia tutta, alle Istituzioni, alla politica, all’opinione pubblica
che l’estorsione, il “pizzo” come viene chiamato da Cosa Nostra, era una realtà tanto mai diffusa
quanto sommersa e che di “ pizzo” si poteva anche morire.
Fino allora ( e questo sensazione sta oggi riproponendosi), l’estorsione era considerata una cosa
normale a cui adattarsi, con cui convivere e veniva considerata ne più ne meno che una delle tante “
tasse” che i commercianti, gli imprenditori sono costretti a pagare.
Quella data in qualche modo segna una demarcazione: un “prima” e un “dopo”.
Intendiamoci: anche prima di Libero c’erano stati imprenditori che avevano denunciato pressioni
mafiose, ma il termine “antiracket” come espressione caratterizzante un movimento, costituito
prevalentemente di commercianti e piccoli imprenditori, che ha impostato in termini organizzati la
denuncia, nasce proprio intorno alla tragica esperienza di Libero Grassi e a quella parallela dei
commercianti di Capo d’Orlando.
Capo d’Orlando è un piccolo centro in provincia di Messina nei primi giorni di dicembre del 1990
a seguito di numerosi attentati ed altri fatti intimidatori i commercianti di quella città costituiscono
un’associazione per discutere il dar farsi ciò farà determinare all’intera vicenda, che era chiaramente
estortiva, un esito diverso di quello solitamente diffuso in Sicilia: pagare per non avere problemi.
Infatti, nel segreto delle riunioni svolte in Parrocchia matura, giorno dopo giorno, una decisione
coraggiosa: non piegarsi al ricatto, denunciarli per farli arrestare tutti.
Ed in effetti sulla base della denuncia di numerosi commercianti vengono arrestati una ventina di
mafiosi.
A quel punto l’Associazione antiracket venne pubblicizzata ed ad essa aderì, nel giro di pochi mesi,
la stragrande maggioranza dei commercianti orlandini.
In seguito il processo portò alla condanna degli estortori: l’associazione si costituì parte civile,
partecipò attivamente al processo, determinò intorno ai testimoni, dentro e fuori il tribunale, un
clima di solidarietà, di sostegno, si mobilitarono mass media, forze politiche e opinione pubblica.
Prima di continuare questa breve storia dell’esperienza del movimento antiracket è bene sottolineare
cos’è l’estorsione e perché assume una rilevanza strategica tanto da essere una delle caratteristiche
fondanti delle organizzazioni mafiose, connaturale ad esse.
Una famiglia mafiosa può essere ricca al punto da ritenere che il “pizzo” possa essere considerato
un’attività marginale sull’insieme degli affari, si pensi al traffico di droga, ma niente conferisce
prestigio, autorevolezza e potere quanto il “pizzo”.
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Il pentito Gaspare Mutolo è chiaro al riguardo: “ Il discorso dell’estorsione più che altro è un
prestigio”.
Il racket contiene per intero e nel suo concreto esercizio, tutte le componenti della fenomenologia
mafiosa. E’ un delitto che può essere consumato soltanto se chi lo esercita ha fama di essere “uomo
d’onore”, necessita di una forte capacità di intimidazione, la vittima deve avvertire che è in gioco la
sua sicurezza personale, che non ha altre alternative che pagare. Un altro pentito, il più famoso,
Tommaso Buscetta ci ha descritto l’ atmosfera che si crea : “Quando mi presento a lei, lei, deve
sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non verrò mai a minacciarla, verrò sempre
sorridente e lei sa che dietro quel sorriso c’è una minaccia che incombe sulla sua testa. Io non verrò
a dirle: le farò questo. Se lei mi capirà, bene! Se no, lei ne soffrirà le conseguenze”.
Il "pizzo" quindi non è solo un metodo criminale per procurarsi illeciti guadagni ma anche una delle
principali modalità con cui viene esercitato il controllo del territorio ed attraverso questo imporre
l’omertà. Il "pizzo" diventa allora una specie di tassa che gli operatori economici pagano alla
sovranità mafiosa per avere il permesso di esercitare la loro attività. Vittime del "pizzo" sono
quindi, di norma, coloro che svolgono un'attività imprenditoriale.
Ma non solo è altresì l’attività mafiosa in cui si esercitano le giovani leve della mafia e nella quale
avviene la loro selezione criminale. I suoi introiti servono a dare uno stipendio ai “picciotti”,
pagano le spese legali, sostengono le famiglie dei mafiosi detenuti.
Per la società si è rilevato che il pizzo è uno degli elementi di maggior ostacolo alla libertà delle
imprese e, quindi, allo sviluppo proprio perché comprime la libertà di fare impresa.
Ma torniamo alla storia.
L’esperienza di Capo d’Orlando diventa un modello da seguire: in molti comuni della Sicilia
orientale altri imprenditori danno vita ad altre associazioni antiracket, l’esperienza si diffonde in
Puglia e in Calabria facendo assumere al movimento una dimensione sovraregionale.
In quegli anni si colloca anche la nascita di SOS Impresa. Costituita nel 1992 intorno all’idea
maturata dalla Confesercenti di Palermo di mettere a disposizione delle vittime un numero verde per
raccogliere denunce.
Il modello appare vincente perché per la prima volta si possono denunciare gli estortori senza
mettere a rischio la propria vita, grazie alla denuncia collettiva. Il sanguinoso epilogo palermitano
diventa per tutti una amara lezione: si è uccisi quando si è soli e isolati, e fu questa la condizione in
cui venne a trovarsi Libero Grassi. Una lezione da mettere a frutto nel migliore dei modi: bisogna
sempre sottrarre chi si espone dalla solitudine e dall’isolamento, in questo risiede la forza
dell’associazionismo.
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Purtroppo l’antiracket tornerà a confrontarsi con altri omicidi di imprenditori, a partire da quella
terribile settimana del novembre 1992 quando a distanza di pochi giorni vengono uccisi a Foggia
Giovanni Panunzio e a Gela Gaetano Giordano, entrambi in situazioni di solitudine e di isolamento.
Questi due delitti a oltre un anno di distanza da quello di Libero Grassi segnano anche il limite
territoriale del movimento: ci sono aree nelle quali con grande difficoltà si prova a costruire
l’associazionismo antiracket. Laddove è più antico il radicamento mafioso e sono più estese le
modalità estorsive, si riscontrano meno denunce e associazioni. Le province della Sicilia diventano
da subito il più importante avamposto del movimento proprio in quelle zone di più recente
insediamento mafioso.
La demarcazione storica segnata dalla nascita dell’”antiracket” ha immediati riflessi su più campi.
In primo luogo si registra una impennata nel numero delle denunce per estorsione. Negli anni
successivi al 1991 sale notevolmente il numero degli imprenditori che si rivolgono con fiducia alle
forze dell’ordine e alla magistratura; e, comunque, dopo la prima impennata si stabilisce una
tendenza positiva che permane per tutto il decennio successivo e che in alcuni momenti vende
anche ulteriori crescite. Una tendenza ancora più positiva se confrontata alle denunce per usura che,
invece, dopo un’analoga impennata (anni 1994-95), ha fatto registrare cadute verticali.
Un altro elemento positivo è stato rappresentato dalla conoscenza del fenomeno che si è fatta viva
via più adeguata: se prima il “pizzo” veniva considerato qualcosa di secondario nelle dinamiche
criminali e, quindi, un reato di serie B, si è affermata la consapevolezza che questo è un fenomeno
fondamentale sia dal punto di vista mafioso che da quello della società civile.
Nel tempo si sono succeduti diversi interventi normativi anche sulla base delle modifiche assunte
dal fenomeno. Ad esempio, con l’introduzione del Fondo di solidarietà si riesce a garantire il
risarcimento di tutti i danni subiti da un imprenditore per essersi opposto al racket, non sempre i
tempi sono brevi.
Oggi il movimento antiracket è un reticolo di associazioni, gruppi, personalità presenti soprattutto
nel mezzogiorno d’Italia.
Inutile aggiungere che le Associazioni non sono un “club antimafia”, la loro originalità e presenza si
giustifica nel produrre fatti penali: denunce, processi, condanne. Per questo la costituzione di “parte
civile” , stare cioè accanto ai testimoni e alle vittime nelle aule dei tribunali, è uno degli aspetti
qualificanti della loro azione.
Purtroppo resta ancora un’avanguardia rispetto il grandissimo numero di imprenditori che ancora
pagano in silenzio e nel silenzio generale. Un’avanguardia, però, che da fastidio, perché dimostra
concretamente, com’è avvenuto in molte zone, che ribellarsi al “pizzo” è possibile. Ed è possibile
farlo in condizioni di sicurezza.
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Denunciare senza più paura
Ma quali sono le novità introdotte dalle associazioni antiracket?
I due pilastri di un’associazione sono rappresentati, da un lato, dalla denuncia collettiva,
dall’esposizione di più commercianti: in tal modo si garantisce la sicurezza di chi denuncia rispetto
alle rappresaglie, perché se si è in tanti non ha alcun senso l’atto di violenza (se a opporsi è uno
solo, si colpisce quello e il problema per la mafia è risolto); dall’altro lato, dalla collaborazione con
le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria: senza questa condizione qualunque iniziativa non solo
diventa velleitaria ma anche pericolosa. Si incide solo se si riesce a stabilire quella relazione
virtuosa che consente, sulla base della reciproca fiducia, la circolazione di informazioni e la
migliore strategia di protezione per chi si espone e per il territorio dove agisce un’associazione. Non
solo: d’intesa con le forze dell’ordine sono state sperimentate modalità collaborative che, in alcuni
casi, hanno ridotto il livello di esposizione personale degli imprenditori.
Inoltre, quando si costituisce un’associazione per tutelare quegli imprenditori che denunciano,
l’associazione diventa uno strumento per promuovere il consenso della comunità e degli altri
imprenditori. Questo consenso permette a chi si espone di resistere anche nei momenti più difficili.
Purtroppo ci sono stati casi in cui in situazioni di denuncia solitaria si è pagato un alto prezzo sotto
il profilo della redditività dell’azienda: diminuisce il numero dei clienti che vanno a comprare in
quel negozio determinando la chiusura o l’allontanamento
del commerciante. Bisogna anche
considerare che quando si è in tanti si acquista una capacità contrattuale con le istituzioni sia locali
che nazionali, cosa fondamentale in momenti difficili. La Legge n. 44 del 1999, ad esempio, è stata
il risultato di una forte battaglia del momento. L’associazione, infine, risolve un problema che
nessuna legge potrebbe mai risolvere: la paura di chi riceve l’intimidazione mafiosa.
La paura è l’elemento di maggiore forza per la mafia e di maggiore debolezza per il commerciante .
Quando si subisce un attentato la paura raggiunge un livello altissimo; ma se questa sensazione può
essere condivisa con altri colleghi, la paura a poco a poco ritorna alla sua dimensione fisiologica, si
acquista forza ed è più facile denunciare.
Oggi le associazioni sono riconosciute da una legge del Parlamento (n. 44 del 1999) e non a caso il
legislatore ha indicato come condizione per ricoprire l’incarico di “Commissario per il
coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura” quella di avere una “comprovata esperienza
nell’attività di contrasto al fenomeno dell’estorsione e dell’usura e di solidarietà nei confronti delle
vittime” (art. 19).
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Quella del movimento antiracket è ormai un’esperienza più
che decennale che è riuscita a
confrontarsi con vari momenti politici e con tante oscillazioni. Le fasi di crescita sono
inevitabilmente legate alle attenzioni favorevoli di istituzioni e opinione pubblica: maggiore è
l’impegno dello Stato e più si denuncia: se una vittima sente il sostegno delle istituzioni, per questa
persona sarà più facile esporsi.
In questi anni non sono mancati confronti anche duramente polemici con le istituzioni, come
avviene in questi tempi, di fronte alle scelte politiche soprattutto in materia di giustizia, dell’attuale
Governo, ma il fronte della polemica è sempre rivolto a recuperare cognizioni di fiducia senza le
quali non possono esistere le esperienze antiracket. Come si può chiedere ad un commerciante di
denunciare se non avverte la possibilità di incontrare le istituzioni? Le associazioni sono sempre
state un’esperienza apartitica: e questa connotazione non è mai venuta meno anche di fronte alle più
aspre polemiche politiche
Non solo “pizzo”
Oggi assistiamo a processi sempre più complessi di penetrazione mafiosa nell’economia. “Cosa
nostra” non abbandona certo il “pizzo”, ma al tempo stesso affina la capacità di fare ed essere
impresa facendo saltare la netta distinzione, a dire il vero un po’ scolastica, fra economia legale ed
economia illegale.
Gli esasperanti processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione rendono ormai labile questa
distinzione ed è evidente che le mafie si muovono a tutto campo in un’economia ormai globalizzata:
acquistano società, giocano in borsa, si avvalgono di alte professionalità, dimostrano una forte
capacità di saper utilizzare la leva finanziaria avvalendosi anche di connivenze nel mondo della
finanza internazionale.
E come avviene per la finanza e l’economia, anche nelle attività criminali, globale e locale si
intrecciano. Nel momento in cui si spostano miliardi nei Paesi off-shore, resta forte la capacità della
criminalità di infiltrarsi nel quotidiano della vita delle nostre aziende e delle nostre città, di
condizionare il mercato e l’impresa.
Le nuove mafie si inseriscono nel mercato rilevando aziende che loro stessi “stressano” rendendole
incapaci di risollevarsi, o addirittura utilizzano i capitali strappati a queste ultime per avviare
attività nuove di zecca ed espandersi in maniera tentacolare nei piu’ redditizi settori economici.
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Siamo di fronte ad una situazione paradossale quanto preoccupante in cui con il passare del tempo
il saldo tra il numero di imprese legali cessate per effetto delle mafie e quello delle imprese
illegali nate dalle loro ceneri o grazie ai loro ‘versamenti’, si va sempre piu’ sbilanciando a favore
delle seconde.
Oggi ogni attività economica-imprenditoriale viene “avvicinata” dai “signori del pizzo” con il volto
“conveniente” della collusione, piuttosto che quello spietato della minaccia, per evitare forme
d’allarme sociale e di ribellione. Dal quartiere Brancaccio di Palermo, dai quartieri bene del
Vomero e dell’Arenella a Napoli, da Gela alla Locride, dall’Agro aversano al triangolo Andria.Barletta-Trani, chiunque voglia fare impresa in queste aree deve fare i conti con la criminalità
organizzata.
Ma il pizzo è fenomeno diffuso innanzi tutto nelle grandi città metropolitane del sud. In Sicilia sono
colpiti l’80% dei negozi di Catania e Palermo.
Pagano il pizzo il 70% delle imprese di Reggio Calabria, il 50% di quelle di Napoli, del nord Barese
e del Foggiano con punte, nelle periferie e nell’hinterland di queste città, che toccano la quasi
totalità delle attività commerciali, della ristorazione, dell’edilizia. Si può affermare che in queste
zone a non pagare il “pizzo” sono le imprese già di proprietà dei mafiosi o con cui essi hanno
stabilito rapporti collusivi e affaristici.
La richiesta del “pizzo” è diventata “soft”, ma non per questo meno opprimente e generalizzata,
inoltre con
l’avvento dell’euro si segnala un sensibile aumento del denaro richiesto facendo
lievitare di non poco i soldi versati nelle casse della criminalità, secondo una stima di SOS
Impresa,
si aggirano intorno ai
9 miliardi di euro l’anno e coinvolgono circa 160.000
commercianti.
Una cifra enorme neppure scalfita dal calo del numero degli esercizi commerciali per effetto dalla
crisi dei consumi, dalla pressione fiscale e dagli insediamenti di grande distribuzione, non deve far
pensare ad una diminuzione del giro d’affari del “pizzo”.
Si è estesa la platea dei soggetti entrati nel mirino degli estortori includendo attività per tutta una
fase sostanzialmente immuni al fenomeno (studi professionali, attività di servizio, farmacie)
compensando così le quote perse per la chiusura dei negozi
Il comparto dell’edilizia in tutte le sue fasi (movimentazione di materiali inerti, cave, appalti e
costruzioni). Quello della ristorazione e delle attività turistiche, le concessionarie di automobili e le
autorimesse, i grandi negozi di elettrodomestici e HI FI, magazzini all’ingrosso sono i settori su cui
con più virulenza si esercitano le pressioni estortive.
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Supermercati, discoteche e locali notturni (compresi i circoli privati) compravendita di auto usate,
attività economiche con scarsa specializzazione, commercio all’ingrosso di carni e prodotti ittici
sono invece i settori privilegiati della “mafia imprenditrice”.
Alle modalità più tradizionali di riscossione del “pizzo”, si aggiungono forme nuove e forse più
inquietanti, perché cementano un rapporto collusivo e omertoso quali l’impiego di mano d’opera, o
l’imposizione di merce, di forniture, di servizi.
Occorre concentrarsi su quest’ultimo aspetto.
E’ ormai evidente il proposito, dall’altro confermato dal sempre crescente numero di imprese
sequestrate su provvedimenti dell’autorità giudiziaria, da parte del crimine organizzato, di
intervenire con proprie imprese nelle relazioni economiche, stabilendo collegamenti collusivi con la
politica e la burocrazia soprattutto per il controllo del sistema degli appalti e dei servizi pubblici. I
clan mafiosi gestiscono in proprio o avvalendosi di prestanome, le attività di reinvestimento degli
utili con particolare attenzione all’industria del divertimento, alla ristorazione veloce, ai
supermercati, agli autosaloni, al settore della moda e persino nello sport. Inoltre, sono presenti con
proprie imprese nei comparti dell’intermediazione e delle forniture.
La nuova strategia messa in atto dai sodalizi criminali più strutturati e agguerriti, per concludere, si
fonda su precisi assunti: una scarsa esposizione, un consolidamento degli insediamenti territoriali
tradizionali, una capacità di spingersi oltre i confini regionali e nazionali, l’attivazione di imprese
pulite.
La novità del ciclo mafioso che stiamo attraversando è questa. La mafia che si inabissa e che si fa
impresa.
Anche l'usura rappresenta un'attività congeniale alle organizzazioni mafiose. Gli uomini delle
cosche possiedono infatti di norma una buona liquidità, che attraverso il prestito usuraio viene
riciclata e moltiplicata, ricorrendo alla violenza là dove qualcuno non sia più disponibile a sottostare
ai fortissimi interessi imposti. Infine, i mafiosi hanno buone relazioni nelle banche e nel tessuto
economico in generale e così riescono ad ottenere le informazioni utili per selezionare e tenere sotto
ricatto gli usurati. Tutto ciò aiuta a capire meglio come mai questa piaga, così diffusa nel nostro
paese, venga sfruttata dalle organizzazioni criminali.
Le imprese sequestrate
Il racket delle estorsioni e l'usura, il cuore delle tasse mafiose, non esauriscono le criticità nel
campo delle concrete politiche contro la criminalità organiz-zata. Altro tema dolente è quello delle
imprese sequestrate/confiscate alle ma-fie. Imprese a volte importanti che, spesso allorquando sono
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avviate all’amministrazione controllata, sono fallite, provocando un immiserimento eco-nomico del
territorio, nuova disoccupazione, un danno sociale e d'immagine im-pressionante. E’ evidente che
questo rappresenta un segnale controproducente nella lotta alla mafia e nel ripristino della legalità.
Sarebbe importante, invece, invertire drasticamente questa tendenza, approntando questa tematica,
non so-lo in termini conservativi-giudiziari, come avviene per i beni immobili, ma co-minciando
con il pensare a gestioni imprenditoriali coinvolgendo nella gestione soggetti pubblici e privati.
Il dottor Raffaele Piccirillo, Giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Napoli, in un articolo
evidenzia appieno denuncia come “Alcune imprese mafiose funzionano e rendono soltanto perché
seguono uno stile criminale. Il loro utile si collega al risparmio dei costi fiscali, contributivi,
ambientali, alla vio-lazione delle misure antinfortunistiche poste a tutela dei lavoratori. I loro
profitti fanno affidamento sul patrocinio mafioso nell’accaparramento di appalti pubblici e
commesse private, sulla possibilità di reinvestire capitali illeciti e di risparmia-re i costi del credito
bancario. Non è detto che, ripristinate condizioni di legalità, quelle imprese continuino a produrre
reddito e che dunque convenga per lo Sta-to proseguirne la gestione. Va salutata perciò con favore
la
previsione dell’ultimo
pacchetto
sicurezza
che connette gli
obblighi
di gestione
dell’amministratore giudiziario alle «concrete prospettive di prosecuzione dell’impresa», tenuto
conto «dell’attività economica svolta dall’azienda, della forza lavoro da essa occupata, della sua
capacità produttiva e del suo mercato di riferimento». Gli amministratori giudiziari sono insomma
chiamati a verificare al più presto la convenienza della gestione dinamica. Quando questa dovesse
mancare la soluzione più appropriata non potrà essere che quella di smembrare il complesso
aziendale e allocare tempestivamente i beni strumentali, altrimenti soggetti a rapida obsolescenza.
Manca ancora però, nella legislazione dedicata all’impiego dei beni confiscati, la consapevolezza
del ruolo promozionale» che l’amministrazione delle imprese mafiose potrebbe esercitare sui
contesti economici
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SOS Impresa condivide questo approccio, ma ritiene utile, affiancare agli amministratori giudiziari
e coinvolgere nella gestione forze imprenditoriali sane, abituati a “fare impresa” in contesti
ambientali caratterizzati da una forte pre-senza mafiosa.
A tale riguardo ci stiamo facendo promotori di un Consorzio nazionale costituito da imprenditori
che hanno già dimostrato di avere capacità e cultura nella gestione di unimpresa libera da
condizionamenti mafiosi. Un Consorzio nazionale per la gestione delle imprese confiscate,
costituito da imprenditori che nel corso della loro esperienza lavorativa si sono distinti per capacità
imprenditoria-le e per essersi opposti al ricatto mafioso.
Il Consorzio potrebbe far leva su un management industriale e commerciale selezionato attraverso
Protocolli con le Confederazioni nazionali degli imprendi-tori le quali potrebbero mettere a
disposizione le loro strutture di servizi, il know how imprenditoriale diffuso, e coinvolgendo le
Camere di Commercio, il sistema creditizio, gli Enti locali.
I Consorzi che all'uopo potrebbero essere impegnati a gestire l’impresa e a rimetterla sul mercato
legale in una prospettiva di autogestione da parte delle maestranze interne o da parte di delle stesso
Consorzio fino ad una definitiva ricollocazione autonoma sul mercato.
L’antimafia delle opportunità e delle convenienze
Se questo, sia pure in grandi linee è il quadro che abbiamo di fronte, si comprende come queste
pratiche siano ancora più gravi dello stessa estorsione, perché l’impresa che entra in contatto con la
mafia, che accetta le forniture di un mafioso, o non riesce a sottrarsi alla imposizione di un video
poker è un’impresa che perde la sua libertà, che alimenta la penetrazione di denaro sporco
nell’economia pulita, che diventa da omertosa, collusa.
Per spezzare questa catena occorre puntare di più alla collaborazione delle vittime, ma su questo
frangente gli appelli moralistici contano poco.
Bisogna mettere in campo politiche concrete che puntano sulla “ convenienza della denuncia”, che
risarciscano, anche sul piano economico, le imprese che si oppongono, rispetto a chi ha
atteggiamenti collusivi o solo omertosi.
Ecco allora il punto nuovo che noi vogliamo sottolineare. Dentro questo scenario, che ha forti
elementi di novità, ci deve essere un interesse generale della collettività ad incoraggiare le imprese a
sottrarsi al “pizzo”. Gli imprenditori che non vogliono sottostare alle imposizioni mafiose, e che per
questo pagano un costo più alto dei loro colleghi, anche dal punto di vista economico, debbono
essere incoraggiati con misure che debbono intervenire dentro le relazioni economiche e producano
convenienze.
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Dobbiamo porre con chiarezza questo tema: l’impresa che non paga il “pizzo” ha uno svantaggio
competitivo rispetto l’impresa collusa! Bisogna allora mettere in campo delle misure compensative.
Per esempio prevedendo corsie preferenziali nell’aggiudicazione degli appalti per le imprese che si
sono sottratte al pagamento del “pizzo”.
E’ quella che abbiamo chiamato antimafia delle opportunità e delle convenienze.
Questa problematica, affrontata già da alcuni enti locali e da Regioni come la Campania, e oggi la
Calabria, assume oggi un carattere di urgenza in relazione alle risorse ed agli interventi che si
facendo dalla ricostruzione dell’Aquila all’EXPO di Milano. Si tratta di importanti opere attese da
anni che debbono rappresentare una occasione di sviluppo per il sistema mezzogiorno e non un
nuovo arricchimento per le mafie.
Noi non diciamo non si facciano le opere pubbliche perché c’è la mafia.
Diciamo facciamo le grandi opere senza abbassare i controlli di legalità.
La nostra esperienza ci convince che non ci sarà un consistente aumento delle denunce senza
l’attività di mediazione e di creazione di fiducia da parte delle Associazioni antiracket.
Per questo è necessario un investimento della politica verso il movimento antiracket: innanzitutto
affermando con forza che pagare il pizzo non è un fatto “normale”, ma anche con una serie di
misure in grado di ampliare le politiche di sostegno alle associazioni antiracket e antiusura, che
non dimentichiamolo mai sono associazioni di volontariato e debbono rimanere a nostro giudizio,
tali.
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