rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
martedì 16 giugno 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 16/06/15, pag. 6
La normalità dell’accoglienza
Filippo Miraglia
L’Europa a 28 sembra essersi infranta di fronte alle sue responsabilità internazionali con
l’arrivo di poche migliaia di persone in cerca di protezione. I numeri spiegano chiaramente
quanto sia strumentale e inaccettabile la reazione dei governi con l’attivazione di misure
straordinarie utili solo a consolidare la retorica dell’invasione e ad alimentare il razzismo.
Intorno al bacino del Mediterraneo, è vero, c’è un’emergenza umanitaria. Solo guardando i
dati della Siria si capisce come la comunità internazionale debba attivare strumenti
straordinari per far fronte alle conseguenze di una guerra che dura da più di due anni e
costringe milioni di persone a fuggire.
Il Libano dal 2014 sta accogliendo più persone da solo di quanto non abbia fatto tutta l’Ue.
In tutta l’Unione Europea infatti, nel 2014, sono state presentate meno di 650 mila
domande d’asilo, mentre il Libano ha accolto più di un milione di profughi siriani. Persone,
famiglie, che usufruiscono dei servizi pubblici, tanto che in alcune scuole sono più
numerosi i bambini dei campi profughi che i figli dei libanesi.
L’Europa si sta sottraendo dunque alle sue responsabilità e anziché attivare misure
adeguate per l’accoglienza, ad esempio applicando la Direttiva 55/2001 che consente il
rilascio di un titolo di soggiorno europeo temporaneo in caso di flussi straordinari, reagisce
con una ingiustificata rincorsa ad azioni di chiusura.
Siamo addirittura alla chiusura delle frontiere interne, con la sospensione dell’accordo di
Schengen, per evitare che chi arriva in Italia possa lasciare il Paese e aggirare il
regolamento Dublino.
In Italia intanto dobbiamo assistere ad episodi vergognosi come quello di ieri alla stazione
Tiburtina di Roma.
Le reazioni allarmiste dei governi si sommano all’incapacità dell’Italia di far fronte alla
gestione di alcune migliaia di arrivi, programmandone per tempo la distribuzione sul
territorio, e agli scandali di Mafia Capitale e dintorni, che stanno avvelenando il clima e
rischiano di cancellare anche le esperienze positive, molto diffuse, anche se insufficienti,
nel nostro Paese. Ma non basta. La situazione reale del sistema d’accoglienza è purtroppo
anche peggiore.
A Roma, come a Milano, e in molte altre grandi città, migliaia di richiedenti asilo, arrivati
nella primavera del 2014, più di un anno fa, non hanno ancora avuto l’appuntamento della
Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le domande d’asilo
residue del 2014 sono più di 50 mila, e chi arriva oggi rischia di dover aspettare la fine del
2016 per il colloquio con la commissione .
Una situazione che, oltre a determinare ingiustizie e frustrazione tra i profughi (non sapere
neanche quando si verrà ascoltati e quindi quando potrà essere avviato un percorso di
integrazione determina incertezza e umiliazione), produce uno spreco di risorse e una
reazione negativa dei territori che ospitano i profughi in attesa. Tutto diventa così più
difficile.
L’assenza di una programmazione all’altezza dell’attuale emergenza umanitaria, che
riguarda un numero di persone ampiamente prevedibile, rende impossibile organizzare in
maniera efficace il sistema d’accoglienza ed apre spazi a comportamenti illegali e alla
corruzione.
2
Non si tratta soltanto di evitare affidamenti diretti, di escludere soggetti privi di esperienza,
o di predisporre un adeguato sistema di controllo. Tutto questo è necessario ma non
basta. È indispensabile innanzitutto uscire dalla gestione emergenziale, che induce a
scelte più costose, produce grandi centri senza servizi adeguati e con un impatto sociale
negativo, generando nei territori sentimenti di rigetto e rendono sempre più difficile
programmare un’accoglienza ordinaria, con risorse sufficienti, strumenti e personale
competente.
Tutto questo non è frutto del caso, ma dell’incapacità del governo di fare il proprio
mestiere. Un’incapacità che sta costando cara al nostro Paese sotto tanti punti di vista, ma
che soprattutto penalizza gli uomini e le donne che da noi si aspettano protezione. Una
situazione che richiede un cambio di rotta immediato, se non vogliamo essere travolti da
un caos che fa comodo solo ai predicatori di odio.
Da Rassegna.it del 16/06/15
La manifestazione
Migranti: il 20 giugno l'Europa nasce nel
Mediterraneo
Continua il muro contro muro dei paesi europei sull'immigrazione, ma si
registrano anche episodi di solidarietà. Sabato, in occasione della
giornata del rifugiato, manifestazione a Roma e in altri Paesi europei e
africani. L'adesione della Cgil
Mentre continua il drammatico muro contro muro tra Francia e Italia sull’immigrazione,
insieme al crescente rifiuto e a spinte xenofobe ed episodi razzisti, la cronaca registra
anche molti episodi di solidarietà nei confronti degli immigrati. Si prepara, intanto, la
manifestazione di sabato a Roma per fermare la strage di migranti nel Mediterraneo. La
Cgil insieme agli altri sindacati e a un cartello di associazioni parteciperà alla
manifestazione nazionale che si terrà alle ore 15, in Piazza del Colosseo a Roma.
La mobilitazione, indetta nella giornata internazionale del rifugiato, si svolgerà in
contemporanea a numerose iniziative in altri Paesi europei e africani, perché “l'Europa
nasce o muore nel Mediterraneo”. Tra le molte adesioni, oltre quella del sindacato di
Corso d'Italia, ci sono quelle di Acli, Anpi, Arci Auser, Cir, Cisl, Coordinamento
universitario, Emergency, Fiom, Legambiente, Medu, Rete della Conoscenza, Rete della
pace, Sbilanciamoci e Uil.
Di seguito l'appello dei promotori:
Pace, sicurezza, benessere sociale ed economico si raggiungono solamente se si
rispettano l’universalità dei diritti umani di ogni donna e di ogni uomo.
La regione del Mediterraneo è una polveriera ed il mare è oramai un cimitero a cielo
aperto. Dall’inizio del 2015 nel mediterraneo sono morte più di1700 persone. L'Europa, per
storia, per cultura, per geografia, per il commercio, è parte integrante di questa regione ma
sembra averne perso memoria.
Il dramma di profughi e migranti, il loro abbandono in mano alle organizzazioni criminali, il
dibattito su come, dove e chi colpire per impedire l’arrivo di uomini e donne che cercano
rifugio o una vita dignitosa in Europa, non è altro che l'ultimo atto che testimonia l’assenza
di visione politica da parte dei governi dell’UE.
Questa drammatica situazione ha responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei
governi europei che non consentono nessuna via d'accesso sicura e legale nel territorio
dell’UE e costruiscono di fatto quelle barriere che provocano migliaia di morti nel
3
Mediterraneo, nel Sahara, nei paesi di transito, nella sacca senza uscita che si è creata in
Libia. Scelte coscienti e volute che configurano un crimine contro l'umanità.
La risposta dell’UE, confermata nell’Agenda Europea sull’immigrazione, ripropone
soluzioni che hanno già dimostrato di essere miopi e di produrre effetti opposti agli obiettivi
dichiarati.
Aumentare le risorse per avere più controlli e più mezzi per pattugliare le frontiere, anziché
salvare vite umane, è sbagliato e non fermerà le persone che vogliono partire per
l’Europa.I conflitti irrisolti e le guerre hanno prodotto ad oggi, oltre 4 milioni di profughi
palestinesi, circa 200.000 saharawi accampati nel deserto algerino, 9 milioni di siriani tra
sfollati e profughi, 2 milioni di iracheni sfollati. Il flusso di uomini e donne dall’Afghanistan e
dall’inferno della Libia, le persone in fuga dalla Somalia, dall'Eritrea, dal Sudan e da altri
paesi africani, da anni è continuo.
Dietro le storie di queste persone oltre a povertà, malattie, dittature e guerre, ci sono
interessi politici ed economici internazionali.Guerre, povertà, saccheggio delle risorse
naturali, sfruttamento economico e commerciale, dittature, sono le cause all'origine delle
migrazioni contemporanee. Essere liberi di muoversi, migrare, deve essere una conquista
dell’umanità non una costrizione.
L'Europa deve costruire una risposta di pace, di convivenza, di democrazia, di benessere
sociale ed economico, ispirandosi al principio di solidarietà e abbandonando le politiche
securitarie, dell'austerità, degli accordi commerciali neolibertisti., di privatizzazione dei beni
comuni. L'Europa deve investire sul lavoro dignitoso, sulla giustizia sociale, sulla
democrazia e sulla sovranità dei popoli.L'Europa siamo noi. Noi dobbiamo fare l'Europa
sociale solidale.
Le nostre dieci priorità per uscire dall'emergenza e costruire l'Europa del futuro sono:
1. La UE attivi subito un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del
Mediterraneo.
2. Si ritiri immediatamente ogni ipotesi di intervento armato contro i barconi che, oltre a
non avere alcuna legittimità, come ribadito dal Segretario dell'ONU Ban Ki-Moon, rischia di
produrre solo altri morti e alimentare ulteriori conflitti. Si rinunci all’ennesimo strumento di
una più ampia strategia di esternalizzazione delle frontiere europee.
3. Si aprano subito canali umanitari e vie d’accesso legali al territorio europeo, unico modo
realistico per evitare i viaggi della morte e combattere gli scafisti. Si attivi contestualmente
la Direttiva 55/2001, garantendo così uno strumento europeo di protezione che consenta
la gestione dei flussi straordinari e la circolazione dei profughi nell’UE.
4. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta ai profughi di scegliere il Paese dove
andare sostenendo economicamente, con un fondo europeo ad hoc, l’accoglienza in quei
Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Ciò nella prospettiva di arrivare presto ad
un sistema europeo unico d’asilo e accoglienza condiviso da tutti i Paesi membri.
5. In attesa di un sistema unico europeo, si metta in campo, in tutti i Paesi membri, un
sistema stabile d’accoglienza, unitario e diffuso, per piccoli gruppi, chiudendo
definitivamente la stagione dell’emergenza permanente e dei grandi centri, che ha
prodotto e produce corruzione e malaffare. Un sistema pubblico che metta al centro la
dignità delle persone, con il coinvolgimento dei territori, dei comuni, con soggetti
competenti, procedure trasparenti e controlli indipendenti.
6. Si intervenga nelle tante aree di crisi per trovare soluzioni di pace, senza alimentare
ulteriori guerre, o sostenere nuovi e vecchi dittatori, promuovendo concretamente i
processi di composizione dei conflitti e le transizioni democratiche, la difesa civile e non
armata, le azioni nonviolente, i corpi civili di pace, il dialogo tra le diverse comunità.
7. Si sospendano accordi – come i processi di Rabat e di Khartoum - con governi che non
rispettano i diritti umani e le libertà, bloccando subito le forniture di armamenti.
4
8. Si programmino interventi di Cooperazione per lo sviluppo locale sostenibile nelle zone
più povere, dove lo spopolamento e la migrazione sono endemici e non si consenta alle
multinazionali di usare per interessi privati i programmi europei di aiuto allo sviluppo.
9. Si sostenga un grande piano di investimenti pubblici per l'economia di pace, per il lavoro
dignitoso e per la riconversione ecologica.
10. Si sostenga la rinegoziazione dei dei debiti pubblici ed annullamento dei debiti pubblici
non esigibili o prodotti da accordi e gestioni clientelari o di corruzione.
Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!
Le organizzazioni firmatarie di questo appello invitano a partecipare alla giornata di
mobilitazione internazionale il prossimo 20 giugno 2015 a Roma.
http://www.rassegna.it/articoli/2015/06/16/122683/migranti-il-20-giugno-leuropa-nasce-nelmediterraneo
Da Immezcla.it del 15/06/15
Immigrazione, il 20 giugno a Roma per
"proteggere le persone e non i confini"
I dati parlano chiaro: nel 2014 delle circa 219mila persone che hanno attraversato il
Mediterraneo a bordo di imbarcazioni gestite dai trafficanti, più di 3500 hanno perso la
vittima. Quest'anno, fino a ora, i morti sono stati già almeno 1800 a fronte di 62.500
persone arrivate.
Ed allora per fermare la strage, per cercare di risvegliare l'Europa e far sì che si attivino
politiche adeguate, ecco che associazioni, sindacati, promuovono una manifestazione
nazionale a Roma, il 20 giugno in una data non casuale. Il 20 giugno, infatti, è la Giornata
internazionale del rifugiato. Lo slogan è “Salvare vite umane, proteggere le persone, non i
confini!” La manifestazione è promossa dall'Arci, dalle Acli e da tutte le altre organizzazioni
che lo scorso 21 aprile – qualche giorno dopo la strage dei 900 morti a largo delle coste
libiche - organizzarono un'analoga protesta. Un lungo elenco che comprendeva i gesuiti
del Centro Astalli e Sel, Amnesty International ed Emergency, la Comunità di Sant'Egidio
e l'Altra Europa con Tsipras. La raccolta delle adesioni per il 20 giugno è in corso, ma gli
organizzatori prevedono che la lista si allungherà molto. Dal 21 aprile è successo che, per
la prima volta, ai “vergogna”, ai “mai più” e alle lacrime di circostanza, sono seguiti impegni
concreti dell'Europa. E' stata triplicata la dotazione economica delle missioni di Frontex e,
pur senza dichiararlo in modo esplicito, si è fatto in modo di spostarne le competenze
anche sul fronte del salvataggio. E' stata poi individuata una (piccola) quota di rifugiati di
cui dovranno farsi carico, pro quota, tutti i Paesi dell'Unione. Soprattutto si è lavorato - e
questo è il dato politico più rilevante – come quando si affronta un problema europeo.
Certo ancora c'è molto da fare e da chiarire, come il progetto di distruzione dei barconi.
L'Arci definisce l'idea “estremamente pericolosa”: “Il sospetto – denuncia – è che si usi il
problema dei trafficanti per ottenere il via libera a un intervento militare in un Paese che
oggi è un'autentica polveriera, col rischio di innescare una situazione esplosiva in tutta la
regione”. Nella piattaforma della manifestazione del 20 giugno, il secondo punto (dopo la
richiesta di ripristino di Mare Nostrum) è il “ritiro immediato” di ogni ipotesi di intervento
armato. Operazione che, secondo i promotori, “oltre a non avere alcuna legittimità, come
ribadito dal Segretario dell'Onu Ban Ki-Moon, rischia di produrre solo altri morti e
alimentare ulteriori conflitti”. Dunque, per far sentire forte il grido occorre essere in tanti il
20 giugno a Roma, al Colosseo, alle tre del pomeriggio per manifestare e cercare di far
rimuovere le cause che determinano le morti in mare e tante persone in fuga. L’intera
organizzazione dell’evento si va ancora definendo, in alcune capitali europee come
5
Berlino, si terranno contemporaneamente iniziative simili, c’è insomma un fermento, non
solo italiano, di fronte ad una tragedia continua ed epocale. Per aderire all’appello è
sufficiente inviare una mail all’indirizzo [email protected] .
http://www.immezcla.it/component/k2/item/1024-roma-immigrazione-manifestazionegiornata-internazionale-rifugiato-20-giugno-sindacati-associazioni.html
Da Redattore Sociale del 15/06/15
Imu e Tasi, enti non profit in difficoltà: “Criteri
incerti, confusione cronica”
Rispetto al 2014 la normativa non è cambiata: anche quest’anno
(scadenza 30 giugno) gli enti non commerciali sono chiamati a farsi
largo fra parametri confusi e definizioni ingarbugliate. Inutili le
segnalazioni al ministero dell’Economia. Forum terzo settore: “Spazi
ristretti”
ROMA – Come lo scorso anno, anche in questo 2015 per gli enti del non profit pagare Imu
e Tasi sarà un’impresa. Non tanto per il costo effettivo delle due imposte – che comunque
c’è e non è indifferente – ma soprattutto per il carico di complicazioni burocratiche che le
regole attualmente in vigore si portano dietro. Criteri incerti, parametri confusi, definizioni
ingarbugliate, istruzioni complicate: un mix letale che rende la vita difficile a chi deve fare i
calcoli esponendo gli enti ad errori che con grande facilità comporteranno poi pesanti
sanzioni. Era così già un anno fa, quando il Forum del Terzo Settore aveva chiesto al
governo Renzi e al ministero dell’Economia di intervenire per semplificare e chiarire la
normativa: non è accaduto niente e la situazione si ripropone tale e quale ora, con gli enti
non commerciali chiamati alla cassa entro il prossimo 30 giugno. “Quello di Imu e Tasi è
un tema sul quale manteniamo l’attenzione alta sperando che si possa porre rimedio alla
questione, ma in realtà – dice il portavoce del Forum Pietro Barbieri – gli spazi sono
davvero molto ristretti”.
“Ho perso la speranza che ci possa essere qualche intervento sul tema”, dice a sua volta
Giuliano Rossi, responsabile dell’Ufficio studi dell’Arci e membro del tavolo tecnico
legislativo del Forum Terzo Settore. “Nonostante le sollecitazioni che abbiamo inviato,
nonostante le ripetute segnalazioni al ministero dell’Economia, la situazione è
assolutamente identica a quella del 2014: la difficile applicabilità delle norme e la grande
ambiguità delle regole portano disagio ed esasperazione in tutti coloro che in questi giorni
sono alle prese con i conteggi”. Un problema che per la sua complessità riguarda anche
commercialisti e fiscalisti ma che colpisce soprattutto quelle realtà del non profit che sono
portate avanti dal volontariato o che comunque, non avendo grandi disponibilità
finanziarie, non hanno la possibilità di affidarsi ad una figura strutturalmente preparata a
compiere gli adempimenti fiscali.
In verità, la normativa è talmente farraginosa che neppure la presenza di un fiscalista può
mettere al riparo da futuri sanzioni e controlli: “Per il momento non abbiamo notizia di
accertamenti fiscali, ma è indubbio che questa è una grana che prima o poi scoppierà,
perché i nodi arriveranno al pettine: e a quel punto bisognerà vedere come il tutto sarà
affrontato, perché potrebbero esserci pesanti sanzioni per tutto il non profit”.
Tutto il tema, come avevamo spiegato già nel corso del 2014, ruota intorno alla
farraginosità della normativa sul tema e alla confusione sui criteri e sulle regole che il
ministero dell’Economia (con un intervento che non brilla certo per la sua chiarezza) ha
indicato come base per calcolare l’imposta dovuta da ogni ente non commerciale. Buona
6
parte del problema sta nell’ambiguo concetto di attività condotta con “modalità”
commerciale o non commerciale, a seconda della quale si può invocare o meno l’esonero
ai fini Imu e Tasi. L’ente non commerciale può cioè essere esonerato dal pagare l’imposta
quando opera con modalità non commerciale o quando, operando con modalità
commerciale, il valore dei prezzi praticati non superi il 50% del valore medio di mercato.
Un meccanismo, spiegava già mesi fa Rossi, che “è quanto di più discrezionale possa
esserci”, visto che “il concetto di valore di mercato su alcune attività è molto labile e
indistinguibile”.
Si pensi ad un’associazione che nella sua sede ha un bar al quale possono accedere solo
i soci, o ad un’altra associazione che organizza corsi di lingua inglese a pagamento per i
soci: la definizione dei prezzi medi di mercato non viene fornita dal ministero
dell’Economia ma viene lasciata alla responsabilità delle associazioni, che sono chiamate
a indicare nella dichiarazione i valori medi di mercato e quelli da loro praticati. Di fatto
viene tutto scaricato sulle singole associazioni, chiamate ad assumersi anche
responsabilità che non competerebbero loro (come l’indicazione dei prezzi medi di
mercato) e sottoposte alla spada di Damocle di futuri controlli da parte dell’Agenzia delle
Entrate. Questa situazione, peraltro, esaspera un grado di complessità che è fisiologico in
questo campo, dove è molto probabile trovare immobili di proprietà di un ente non
commerciale che sono solo parzialmente esonerati dall’’imposta. Forse cambierà qualcosa
con la legge di riforma del terzo settore? Rossi non ci crede: “Ci sono delle linee di
tendenza che difficilmente cambieranno e dubito che cambierà qualcosa sul requisito della
commercialità”. (ska)
7
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da AskaNews del 15/06/15
Immigrati, sabato manifestazione nazionale a
Roma
Decine di sigle a marcia "Fermiamo la strage subito!"
Roma, 15 giu. (askanews) - "L'Europa nasce o muore nel Mediterraneo. Solo se si
rispettano i diritti umani di ogni uomo e di ogni donna è possibile garantire pace, sicurezza
e benessere sociale ed economico". Inizia così l'appello delle centinaia di organizzazioni
sociali e sindacali, artisti, intellettuali e singoli cittadini che hanno indetto per sabato 20
giugno una manifestazione nazionale a Roma, in piazza del Colosseo alle 15. Il 20 giugno
è la giornata internazionale del rifugiato e tante saranno le iniziative promosse non solo in
Italia ma anche in tante altre piazze del mondo, con cui è previsto un collegamento
durante la manifestazione di Roma.
Nell'appello vendono indicate 10 priorità per superare l'emergenza, dall'apertura di canali
di ingresso umanitari alla pianificazione di un sistema efficace d'accoglienza, dalla
sospensione degli accordi - come il processo di Karthoum - con paesi che non rispettano i
diritti umani all'apertura immediata di un programma di ricerca e salvataggio nel
mediterraneo. Al primo posto va messa infatti la salvaguardia della vita delle persone, la
loro sopravvivenza in condizioni dignitose. Dal palco del 20 giugno si alterneranno alle
voci degli aderenti, la lettura di storie di rifugiati, performance artistiche e musicali, il tutto
affidato alla conduzione di Massimo Cirri e Sara Zambotti, di Caterpillar Radio2. In allegato
l'appello, l'elenco degli aderenti e la locandina.
Da PiuCulture.it del 15/06/15
Fermiamo la strage subito!: mobilitazione
nazionale il 20 giugno
Fermiamo la strage subito! manifestazione 20 giugno Roma“Salvare vite umane,
proteggere le persone, non i confini!”: è questo l’appello al centro della giornata di
mobilitazione internazionale prevista per il prossimo 20 giugno. Alla luce dell’emergenza
immigrazione e delle tragedie sempre più frequenti nel Mediterraneo, nell’ambito
dell’iniziativa Fermiamo la strage subito!, le organizzazioni firmatarie invitano a partecipare
alla manifestazione nazionale a Roma. Questa prenderà avvio alle ore 15 nei pressi del
Colosseo.
Per aderire [email protected].
Per conoscere nei dettagli l’iniziativa visita il sito:
http://fermiamolastragesubito.blogspot.it/p/blog-page_27.html.
http://www.piuculture.it/2015/06/fermiamo-la-strage-subito-mobilitazione-nazionale-il-20giugno/
8
ESTERI
del 16/06/15, pag. 17
Incubo Grexit,i timori di Draghi
Il presidente della Bce: ci avviamo verso acque inesplorate, ma il default
si può gestire. Giù le Borse, Atene - 4,7% Scontro tra Tsipras e la Ue:
“Creditori poco realisti”. “No, siamo flessibili, travisate le nostre
posizioni”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES . Nel breve periodo la zona euro «dispone degli strumenti per affrontare al
meglio» un eventuale default della Grecia. Ma con un simile evento. Per la prima volta il
presidente della Bce, Mario Draghi, accenna pubblicamente alla possibilità di una
bancarotta della Grecia accettando ieri di rispondere ad una domanda su questo tema nel
corso della sua audizione davanti al Parlamento europeo. E ne trae anche un’indicazione
per il futuro: «è piuttosto chiaro che quello che accade dimostra che l’area euro è una
costruzione da completare e che se vogliamo gestire le conseguenze di eventi non previsti
dovremo fare un balzo enorme nel nostro processo di integrazione».
Draghi ha tenuto a limitare il perimetro delle competenze della Bce nella vicenda. «Voglio
che sia estremamente chiaro che la decisione sulla conclusione dell’attuale programma e
sulla concessione di ulteriori finanziamenti per aiutare la Grecia spetta interamente
all’Eurogruppo e dunque ai membri dell’area euro. E’ una decisione politica che deve
essere presa dai politici liberamente eletti e non dai banchieri centrali». Tuttavia ha invitato
le parti ad avvicinarsi «ancora un miglio » per trovare un accordo «nell’interesse non solo
della Grecia ma di tutta l’Eurozona», anche se «la palla è indiscutibilmente nel campo
greco, che deve prendere le misure necessarie. Serve un accordo forte molto presto, la
situazione è drammatica».
Dopo la brusca interruzione dei negoziati tra Atene e i suoi creditori domenica pomeriggio
l’ipotesi di un default della Grecia non è più un tabù. Le Borse hanno reagito con una
brusca caduta. Quella greca ha perso il 4,7 per cento, Milano il 2,4 per cento. Il nostro
spread è risalito a quota 160 per poi ripiegare un po’.
La rottura sembra aver spinto le parti ad arroccarsi sulle rispettive posizioni. Dopo aver
accusato i creditori di “opportunismo politico“, il premier greco Tsipras ostenta sicurezza:
«aspetteremo pazientemente che le istituzioni europee si allineino al realismo».
Ma anche la Commissione europea dà segni di impazienza. E ieri una sua portavoce ha
definito “fuorvianti“ le dichiarazioni rilasciate da Atene sulle richieste degli europei. «La
nostra posizione è flessibile, ed è un travisamento della posizione dei creditori affermare
che abbiano chiesto un taglio delle pensioni individuali in Grecia. Non proponiamo tagli
alle pensioni individuali ma una eliminazione progressiva dei prepensionamenti,
l’innalzamento dell’età pensionabile e l’abolizione degl incentivi agli stessi
prepensionamenti, anche per rendere finanziariamente sostenibile nel lungo termine il
regime pensionistico», ha spiegato Annika Breidthardt. «Il sistema previdenziale greco è
tra i più costosi d’Europa». Bruxelles chiede che si realizzi un risparmio pari all’1% del Pil.
Il governo di Atene, finora, ha proposto tagli pari allo 0,04 per cento.
9
del 16/06/15, pag. 8
Tsipras ai creditori: «Difenderò il popolo»
Grecia. Le istituzioni chiedono 1,8 miliardi di tagli alle pensioni. Il
governo greco resiste. Il premier di Syriza: «Dopo cinque anni di
saccheggi, è una questione di democrazia»
Dimitri Deliolanes
Che cosa sta succedendo tra Atene e Bruxelles? Non è facile capirlo. Ieri Tsipras ha fatto
una dichiarazione di inusuale durezza. Ha attribuito a «finalità politiche l’insistenza delle
istituzioni a imporre nuovi tagli alle pensioni», particolarmente oltraggiose in quanto
emergono «dopo cinque anni di saccheggi». «Il governo greco partecipa ai negoziati
avendo con sé un piano con controproposte pienamente valutate. Aspetteremo
pazientemente che le istituzioni adottino uno spirito realista. Ma se alcuni scambiano per
debolezza il nostro sincero desiderio di trovare una soluzione e i passi che abbiamo fatto
per coprire le differenze, deve avere in testa questo: non portiamo sulle nostre spalle solo
una pesante storia di lotte. Portiamo sulle spalle la dignità di un popolo ma anche le
speranze dei popoli europei. E’ un carico troppo pesante per essere ignorato».
Per Tsipras, l’atteggiamento del governo greco non dipende da presunte «fissazioni
ideologiche», è «una questione di democrazia. Non abbiamo il diritto di seppellire la
democrazia nel paese in cui è nata».Una dichiarazione che mette al centro il problema
politico: l’ex trojka continua a insistere su questioni che sa di non poter ottenere.
Sembrerebbe che il suo scopo sia quello di arrivare allo scontro. O almeno fare la faccia
feroce fino all’ultimo istante, sperando di poter destabilizzare i «ribelli di Atene».
Il tentativo va avanti da mesi ma Tsipras, finché resiste, rimane sempre un grande «eroe»
popolare. Mentre l’Europa fa figure sempre più penose anche su questioni non riguardanti
la crisi, come i flussi migratori.
Ha ragione Tsipras a pensare a un attacco politico contro il suo governo? Vediamo i fatti.
Secondo le dichiarazioni del vice premier greco Dragasakis, domenica pomeriggio a
Bruxelles i negoziatori greci si sono visti respingere le proprie proposte, semplicemente
perché non includevano nuovi tagli per 1,8 miliardi a un sistema pensionistico come quello
greco in cui il 68,1% non supera i 483 euro. Non sappiamo (Dragasakis non ne ha fatto
riferimento) se si continua anche a insistere sul pareggio di bilancio delle casse
pensionistiche, quando la disoccupazione greca da anni ha il primato europeo rimanendo
fissa sul 26%.
Si chiede anche di aumentare di 10 punti l’Iva sui generi alimentari e sulla corrente
elettrica.
Non solo. Berlino continua a spargere la voce che la Grecia avrebbe bisogno di un «terzo
prestito» di cui si sa già anche l’ammontare (40–50 miliardi). Ovviamente, Atene rifiuta un
nuovo prestito perché non vuole essere un paese indebitato all’infinito. Piuttosto, chiede
con insistenza che si ristrutturi quello che ha già e che la opprime: in termini assoluti non è
una cifra iperbolica, circa 325 miliardi, ma rappresentano il 177% del Pil ellenico.
Nell’intreccio tra rivendicazioni paradossali e proposte oscene sul debito, si direbbe che le
forze più intransigenti del fronte dei creditori abbiano ottenuto maggiore spazio,
probabilmente mediando tra Fmi e gli europei. Tutto indica quindi che a livello
«tecnocratico» si stia preparando una rottura degli equilibri, rischiando perfino uno scontro
dagli esiti traumatici. Lo ha in qualche modo annunciato il vice cancelliere tedesco
dell’Spd, annunciando paternamente di «aver perso la pazienza» con i greci.
10
Ma questo non allarma Atene né la popolazione greca che non ha nulla da perdere. Quello
che sentono i greci è un profondo senso di offesa dal trattamento ricevuto finora dagli
europei. Domani potrebbe essere convocata una manifestazione popolare ad Atene. A
sostegno del governo.
Dovrebbe invece allarmare qualcun’altro in Europa che avrebbe molto da perdere
dall’instabilità che si sta provocando. Qualcuno che avrebbe interesse a che Tsipras esca,
con tutti i compromessi del caso, dalla trappola della recessione e della miseria, perché
così potrebbe aprire la strada ad altri paesi indebitati.
Cosa succede invece? Succede che questo qualcuno crede di fare bella figura dicendo
imprecisioni a ripetizione. Mi riferisco al premier italiano che domenica ha ripetuto al
Corriere della Sera la frasetta sui «baby pensionati greci», malgrado lo stesso Tsipras,
sulle pagine di quello stesso giornale, gli abbia detto qualche giorno prima che non ha
alcun riscontro. A meno che a palazzo Chigi non si riferiscano al famigerato rapporto del
Fmi sulle pensioni greche. È da marzo che ad Atene tutti ridono su quei dati balordi che
danno le pensioni costare il 40% del Pil greco, tutti i greci in pensione da 57 anni e altre
amenità. Sono dati che lo stesso Fmi ha riconosciuto come «non accurati» perché basati
su quelli del precedente governo. Piuttosto che tassare i ricchi Samaras era disposto a
tutto.
Del 16/06/2015, pag. 13
Accordo, referendum o elezioni?
I dilemmi che angosciano Tsipras
Il premier greco teme il crac e rilancia sulla riforma di pensioni e Iva
Tonia Mastrobuoni
Umori più volubili di una giornata di aprile. Dopo l’ennesimo round negoziale fallito a
Bruxelles, mentre si contano le ore prima delle scadenze fatidiche oltre le quali un’intesa
potrebbe diventare impossibile, ieri mattina Atene si è svegliata con la sensazione orribile
di una partita chiusa. E per molti, l’intervista di Alexis Tsipras al quotidiano di sinistra
«Efimerída ton Syntaktón» è stata la conferma di una situazione ormai disperata. Siccome
i creditori insistono su un taglio delle pensioni, sosteneva il premier greco, la Grecia
aspetterà «pazientemente» finché non arriveranno pretese «più realistiche».
Tuttavia, a fronte di un tracollo delle Borse e un clima ormai avvelenato anche in
Germania, dove si moltiplicano i segnali di impazienza e le richieste esplicite di chiudere la
partita accettando l’ipotesi di una Grexit, un comunicato del governo si è affrettato a
puntualizzare che «stiamo aspettando l’invito delle istituzioni per riprendere il negoziato in
qualsiasi momento». E il portavoce dell’esecutivo, Gabriel Sakellaridis ha aggiunto che
«l’unico scopo del governo è un accordo».
Il partito di Tsipras
Anche il clima nel partito di Tsipras continua ad essere incandescente. Ieri Alexis
Mitropoulos, vicepresidente del Parlamento, membro del partito di Tsipras, ha detto a
chiare lettere che senza un accordo, bisogna decidere se indire un referendum o elezioni
anticipate. Ieri si è fatto sentire anche il capo dell’Ente del turismo Sete, Andreas
Andreadis, preoccupato «per questa totale follia. Perderemo tra il 30 e il 50 per cento dei
nostri stipendi per non tagliare le spese pubbliche dell’1 per cento», ha twittato. Il turismo
rappresenta quasi il 20 per cento del Pil ellenico.
In un’intervista al tabloid Bild, Yanis Varoufakis ha smentito le voci su un presunto
11
irrigidimento della Grecia sulle proprie posizioni. Atene avrebbe fatto diverse proposte di
riforma e i creditori insisterebbero sul taglio alle pensioni cui la Grecia non potrà mai
cedere. L’economista ha insistito sul quotidiano più venduto in Germania che bisogna
tagliare il debito e che l’accordo con Bruxelles si può fare «in una notte», ma che ci deve
essere Angela Merkel. Il greco si ritroverà altrimenti giovedì dinanzi ai suoi omologhi
europei e a Wolfgang Schäuble e l’eurogruppo non potrà far altro che ratificare il fallimento
della trattativa.
I conti pubblici
Ma a metà giornata, per fortuna, è arrivata una timida schiarita. Da Bruxelles la portavoce
della Commissione ha rivelato che Atene avrebbe ceduto su uno dei punti di maggiore
frizione: l’avanzo primario. I greci insistono da settimane su un obiettivo dello 0,75%, l’ex
troika chiede l’1%. E non è un dettaglio, in particolare per il Fmi è un punto importante:
minori i margini di differenza tra entrate e uscite dello Stato (al netto degli interessi), minori
le possibilità di ripagare l’immenso debito pubblico. Ecco perché il Fondo ha sempre
insistito su quell’obiettivo, legandolo ai dubbi sulla sostenibilità del debito.
Il nodo delle pensioni
La Commissione ha detto che Atene avrebbe accettato l’1% in cambio di una rinuncia ai
tagli «su singole pensioni», anche se il sistema previdenziale va riformato, ha aggiunto. Il
nodo è, ovviamente: come raggiungere quell’obiettivo? L’ultimo documento del governo,
anticipato dal quotidiano ellenico Kathimerini, parla di tagli alle spese militari per 200
milioni di euro, un aumento delle tasse sulle imprese dal 26 al 29% e un’imposta
straordinaria del 12% sui profitti sopra il milione di euro. Una riforma dell’Iva, inoltre,
del 16/06/15, pag. 17
Dopo il fallimento delle trattative il Fondo monetario offre una sponda al
premier greco Che intanto sonda gli altri partiti nel caso di uno scontro
all’interno di Syriza
Fmi: “Sacrifici da tutti” Ma Brasile e Russia
ora puntano i piedi
DAL NOSTRO INVIATO
ETTORE LIVINI
ATENE . Il Fondo Monetario indica la strada per un compromesso tra Atene e i creditori.
Ma nessuno, per ora, sembra avere intenzione di imboccarla. Anche perché intorno alla
Grecia si sta giocando una più ampia partita geopolitica, con protagonisti Brasile e
soprattutto Russia, che utilizzano questo tema per ottenere un peso maggiore nella
governance del Fondo, e stanno alzando la posta.
La guerra di nervi per il salvataggio della Grecia si prepara a un doppio showdown:
l’Eurogruppo di giovedì prossimo dove sul palcoscenico dei negoziati tornerà un
caricatissimo Yanis Varoufakis (“Noi abbiamo fatto il possibile, tocca all’Europa muovere”
ha detto ieri) e il summit dei leader Ue del 25—26 giugno, l’ultima spiaggia per un intesa
che salvi il paese dal default prima del 30 giugno, quando il governo Tsipras dovrà
restituire all’Fmi 1,6 miliardi di euro che oggi, senza aiuti dall’ex Troika, non ha.
La strategia dell’esecutivo ellenico, a questo punto, è abbastanza chiara. Tener duro,
prendere tempo e non fare nuove concessioni. Sperando che alla fine siano Ue, Bce e Fmi
a capitolare. “Bruxelles aspetta nostre proposte? Ci sono già e sono quelle che abbiamo
12
presentato domenica. Non capisco per quale motivo non le accettino visto che rispettano
tutti gli obiettivi che ci hanno imposto”, è il mantra di Gavril Sakellaridis, portavoce del
Governo.
I toni, dopo il flop del vertice del week—end, sono duri. Dietro le quinte però i pontieri sono
già al lavoro per provare a far ripartire la macchina dei negoziati.
Il percorso per tentare il compromesso in extremis l’ha dettato ieri il Fondo: “Per arrivare a
un accordo credibile servono ancora sacrifici da entrambe le parti”, ha scritto in uno studio
il capoeconomista di Washington Olivier Blanchard. Atene, spiega, deve intervenire sulle
pensioni, difendendo quelle più basse ma tagliando le altre, visto che la spesa
previdenziale è al 16% del Pil, troppo. Un passo indietro devono farlo però anche i
creditori garantendo subito un taglio del debito “attraverso un allungamento delle
scadenze e una riduzione dei tassi”, sapendo da prima che in caso di peggioramento del
quadro economico potrebbe essere necessario anche un taglio in conto capitale. “ Se c’è
volontà di approfondire questi due punti, l’intesa si chiude in una notte”, assicura uno dei
negoziatori ellenici. I prossimi giorni saranno però lo stesso molto difficili. E il rischio che
un banale incidente di percorso faccia deragliare i negoziati è altissimo. Tsipras non a
caso sta iniziando a serrare le fila sul fronte domestico per tenere aperto non solo il piano
A (l’accordo finale) ma anche quello B e quello C. Oggi incontrerà il gruppo parlamentare
di Syriza in vista della volata finale delle trattative. L’ala più radicale del partito è
evidentemente soddisfatta della durezza del braccio di ferro, ma il premier sa che va
preparato il terreno con la dissidenza interna in vista delle concessioni che,
inevitabilmente, dovrà fare all’ultimo minuto. In mattinata sono fissati due appuntamenti
con Fofi Gennimata, neo segretario del Pasok e con Stavros Theodorakis, leader di To
Potami, terzo partito in tutti i sondaggi con il 7—8% circa. Un doppio meeting figlio della
necessità di tenersi una via di fuga in caso di necessità di sfidare il possibile no della
minoranza di Syriza. Tsipras del resto non ha archiviato nemmeno il piano R, inteso come
Russia. Giovedì, mentre tutti i fari saranno concentrati sull’Eurogruppo, lui sarà a San
Pietroburgo per un foro economico dove incontrerà Putin (che nelle ultime ore forse non a
caso starebbe ostacolando eventuali concessioni del Fmi). Pecunia non olet. E se i
finanziamenti non arriveranno dalla Troika, Atene è pronta ad andare a cercarli altrove.
del 16/06/15, pag. 25
La guerra al terrorismo. Un raid dell’aviazione americana avrebbe
eliminato il leader jihadista Belmokhtar
L’Isis riporta gli Usa in Libia
È il primo intervento dalla campagna internazionale contro Gheddafi
Dei tanti soprannomi affibbiatigli “Laaouar,” vale a dire “il Guercio”, era quello più utilizzato.
Un ricordo di quando, dopo esser stato addestrato in un campo di al-Qaeda a soli 19 anni,
fu poi ferito da una scheggia mentre combatteva nella feroce guerra civile afghana seguita
al ritiro delle truppe sovietiche. Ma Mokhtar Belmokhtar, il noto leader jihadista algerino
ucciso – secondo il governo libico di Tobruk - nella notte tra sabato e domenica da un
bombardamento dell’aviazione americana nella Libia orientale, era conosciuto dai suoi
simpatizzanti anche come “Mr. Marlboro”; un chiaro riferimento alla grande rete di
contrabbando di sigarette (ma anche di droga, pietre preziose, oltre alla tratta di esseri
umani) da lui creata nella regione desertica del Sahel. O anche l’”inafferrabile”,
soprannome coniato dall’Intelligence francese che non riusciva a catturarlo e dagli eserciti
13
dei Paesi africani che in almeno due occasioni ne rivendicarono, trionfanti, l’uccisione per
poi essere smentiti. Il fatto che il Pentagono non abbia ancora confermato ufficialmente la
sua morte impone dunque cautela.
Probabilmente defunto, o forse ancora vivo, pochi personaggi nell’immensa galassia
qaedista possono vantare un curriculum come il suo; sia per anzianità (per quanto avesse
solo 42 anni ha combattuto in Afghanistan, nella guerra civile algerina in Niger ed in Mali)
sia per numero di attentati e obiettivi “illustri”. Al di là dell’impressionante serie di rapimenti
ai danni di stranieri, anche turisti europei, l’operazione che lo consacrò come un principe
della jihad mondiale fu l’attentato da lui orchestrato (gennaio 2013) contro l’installazione di
gas di In Amenas, nell’Algeria orientale, quando un commando armato di miliziani islamici
prese in ostaggio 800 persone, uccidendo 38 stranieri.
Il raid americano contro Belmokthar segna dunque una svolta. Perché è la prima volta
dalla campagna internazionale contro Muammar Gheddafi (2011) che l’aviazione
americana bombarda il territorio libico, anche se solo per eliminare un pericoloso jihadista.
Seconda, ma forse ancor più importante informazione, è il luogo dell’uccisione di
Belmokthar. Ajdabiya, cittadina della Cirenaica, la regione orientale della Libia da cui nel
febbraio 2011 è partita la rivolta contro Gheddafi, divenuta roccaforte dei gruppi estremisti.
Dallo scorso agosto, quando la coalizione islamica Alba libica ha conquistato Tripoli, il
Paese si è spaccato in due, con due Governi che si fanno la guerra: la Tripolitania è in
mano al governo ombra degli islamici che si ispirano ai Fratelli musulmani. L’Esecutivo
riconosciuto dalla comunità internazionale, ma di fatto esiliato nella città di Tobruk, a
ridosso dell’Egitto, controlla invece la Cirenaica, e nemmeno tutta.
Un vuoto di potere che ha facilitato l’ascesa dell’Isis. E se nell’ottobre del 2014 veniva
annunciata la nascita di un Califfato nella città costiera di Derna, mese dopo mese i
jihadisti hanno guadagnato terreno fino a impadronirsi di Sirte, città natale di Gheddafi.
Consolidando le posizioni, di recente avrebbero conquistato l’aeroporto della città e una
centrale elettrica.
Cosa ci faceva in Cirenaica Belmokhtar? Forse si era unito anche lui alle cellule legate
all’Isis. Anche perchè se fino a poco fa “il Guercio” era il Leader di al-Murabitoun, feroce
gruppo qaedista fedele ad Ayman al-Zawahiri, voci sempre più insistenti avrebbero
segnalato una sua rottura con al- Qaeda e un suo - controverso - avvicinamento allo Stato
Islamico. Ma se le indiscrezioni circolate ieri sera - secondo cui i raid Usa hanno colpito
una riunione dei leader di al-Qaeda e dell’Isis - sono vere,il Guercio poteva anche
rappresentare una sorta di ambasciatore del network qaedista giunto in Libia per cercare
una pericolosa saldatura tra due gruppi estremisti di fatto in guerra tra loro.
Resta il atto che da alcuni mesi lo Stato islamico ha cambiato strategia. Anziché usare la
Libia come fucina di aspiranti jihadisti da inviare sul fronte siriano-iracheno, ha invitato i
suoi luogotenenti in Libia a concentrare gli attacchi in loco. L’obiettivo è creare una testa di
ponte in Nord Africa, in un paese che dista poche centinaia di miglia dalle coste italiane e
greche. Già all’inizio di quest’anno il Dipartimento di Stato Usa aveva stimato tra mille e
tremila i miliziani affiliati all’Isis.I due governi rivali sembrano incapaci di arginare l’ascesa
dell’Isis. L’unica soluzione per fermarla sarebbe quel Governo di unità nazionale tante
volte dato per imminente dagli inviati dell’Onu ma mai venuto alla luce.
Roberto Bongiorni
del 16/06/15, pag. 9
Alla riconquista di Tel Abyad
14
Reportage. Offensiva kurda (con i «ribelli» siriani e i raid della
coalizione occidentale) contro l’Is. La città ha un alto valore strategico
per riunificare i cantoni di Kobane e Jezira
Giuseppe Acconcia
KOBANE
«È iniziata l’offensiva. Ypg e Ypj si sono visti dai due lati del fronte». Sono le parole di
gioia del comandante Raugin delle Ypj (Unità di protezione delle donne), le combattenti
kurde che con il sostegno delle brigate unite Burkan al-Furat (Vulcano dell’Eufrate) stanno
avanzando su Tel Abyad. La sconfitta dei miliziani dello Stato islamico (Is) nella città del
Kurdistan siriano avrebbe una funzione strategica essenziale perché permetterebbe la
riunificazione del cantone di Kobane con quello di Jezira, mentre si continua a combattere
a ovest nel cantone di Efrine. Migliaia di kurdi stanno in queste ore tentando di
attraversare il confine turco, sarebbero almeno 50 mila, inclusi combattenti sparsi di Is
che, sconfitti sul campo, cercano e trovano rifugio nel paese vicino. Ma la frontiera di
Ackale resta blindata e continua così l’assedio dei kurdi siriani per mano turca.
Siamo saliti sulla collina Abu Serra alla vigilia dell’offensiva quando domenica sera è
arrivato il via libera agli attacchi dal quartier generale dei Ypg di Koshkar. Per ora i
combattenti kurdi sono fermi a nord di Ayn al-Issa in attesa che l’intera area da est a ovest
sia liberata dopo giorni in cui Ypg e Ypj hanno guadagnato terreno lungo i 20 chilometri di
strada ancora controllata da Is. I kurdi hanno preso Soluc e aperto un corridoio nel Sud di
Tel Abyad tagliando una strada di comunicazione essenziale per i jihadisti a 78 km dalla
città di Raqqa, loro roccaforte. Ma qui tra i villaggi divisi da sterminati campi di grano della
provincia di Raqqa prima che un’area possa considerarsi liberata, la battaglia va avanti per
giorni. I jihadisti hanno provato a far esplodere due ponti verso Tel Abyad ma questo non
ha fermato i combattenti kurdi e di Burkan nella loro avanzata. Esmat Hassan, il ministro
della Difesa del cantone di Kobane, formatosi con gli insegnamenti di Abdullah Ocalan
quando era in Siria, ha dato il via libera simbolico alle operazioni.
Al ritorno a Kobane, tra le macerie dove sopravvivono poche migliaia di uomini e donne
che hanno deciso di rientrare dopo mesi rocamboleschi in Turchia, incontriamo un gruppo
di giovani e donne che danzano balli tradizionali con in mano la bandiera di Ocalan nella
piazzetta della città. Qui sorge l’unico giardino scampato ai bombardamenti di Is e della
coalizione e più avanti l’unico ristorante che ha un generatore in funzione durante il giorno.
A due passi dal confine la stessa folla ha salutato due giorni fa Keath Brunfield, 36 anni, il
primo martire statunitense al fianco dei Ypg, ucciso nei combattimenti a Tel Abyad.
Questa volta l’attacco dei Ypg-Ypj è stato effettuato in coordinamento con i
bombardamenti della coalizione anti-Is, guidata dagli Usa, nonostante il governo turco si
ostini a non concedere le sue basi. Il comandante della coalizione internazionale, Brett
McGurk ha ammesso che i combattenti kurdi stanno davvero «sconfiggendo Is». Ma il
presidente turco Recep Tayyip Erdogan, reduce dalla sconfitta elettorale del 7 giugno, ha
ribadito che l’avanzata dei kurdi potrebbe essere una minaccia per i confini turchi.
«Ormai Is non ha più la forza del passato, non hanno grande esperienza», ci spiega
Diane, comandante dei Ypg sul fronte di Koshkar. «L’ultimo attacco dell’offensiva si è
verificato nel villaggio di Corek dove 25 Ypg sono stati uccisi», aggiunge. Secondo Diane
la presa di Tel Abyad è cosa complessa per il sostegno che gli abitanti dei villaggi a
maggioranza araba hanno assicurato fin qui allo Stato islamico. «Nella loro ritirata i
miliziani di Is continuano a vendicarsi sui civili. Ieri abbiamo trovato 20 corpi senza vita.
Abbiamo documentato tutto nei video che sta andando in onda sulla televisione di Kobane
(Ronahi Tv, ndr)», rivela Diane. Eppure anche secondo la co-comandante delle Ypj
Ariane, che incontriamo nello stesso villaggio sulla linea del fronte, la coalizione potrebbe
fare molto di più per sostenere la loro lotta.
15
In questa fase di avanzata nei villaggi arabi per i siriani si sta rivelando importante il
sostegno militare dei battaglioni della brigata Burkan. Da Twar Raqqa (i ribelli di Raqqa) a
Jabal el-aqrat (prima linea kurda), da al-Liwa al-Tahrir (brigata della liberazione) al
battaglione 15 dell’Esercito libero siriano. In una piccola casa sulla strada verso il fronte
alloggia il comandante della brigata 15, Nidal Abu Ali Abdel Wahab. In tutto la brigata
conta su 170 uomini e ha soldati sia qui che a Raqqa. «Veniamo dalle montagne di Idlib.
Lì Jabat el-Nusra ha tentato in ogni modo di sottrarci degli uomini. Ma noi abbiamo
rifiutato». Abdel è qui da tre mesi ma ha partecipato alla liberazione di 50 villaggi intorno a
Kobane. Ma ora è tempo di liberare Tel Abyad.
Del 16/06/2015, pag. 14
Civili in fuga e battaglie si allarga il caos
dell’Isis
Per i jihadisti sconfitte in Siria e Libia: altre migliaia di profughi
Maurizio Molinari
L’arrivo di sedicimila profughi siriani in Turchia in meno di 96 ore e 700 mila drusi che
minacciano di riversarsi sulle frontiere di Israele e Giordania sono le ultime emergenze
umanitarie innescate dagli sconvolgimenti in atto in Medio Oriente mentre in Maghreb la
Libia è teatro della sanguinosa faida islamica a Derna.
La caduta di Tal Abyad
I ribelli curdi siriani delle Unità popolari (Ypg) hanno circondato Tal Abyad, cittadina ai
confini con la Turchia, dove è asserragliato un contingente di miliziani dello Stato Islamico
(Isis). L’assedio preannuncia una feroce resa dei conti, strada per strada, ripetendo quanto
avvenuto a Kobane in autunno, e i civili fuggono riversandosi sul piccolo centro turco di
Akçakale. Da sabato sono almeno 16 mila gli abitanti di Tal Abyad arrivati in Turchia.
L’esercito di Ankara prima li ha fatti passare, poi ha usato i cannoni d’acqua per
allontanarli ed ora gli consente di entrare, tenendoli a ridosso del confine. Abdülhakim
Ayhan, sindaco di Akçakale, accusa i ribelli curdi di «spingere alla fuga arabi e i
turcomanni» sfruttando la battaglia anti-Isis «a fini di pulizia etnica». Per i curdi controllare
Tal Abyad significa continuità territoriale fra Qamishi e Kobane, le enclave che controllano
lungo i confini turchi. I raid Usa li sostengono perché Tal Abyad dista appena 80 km da
Raqqa, la principale città siriana nelle mani di Isis. Per Brett McGurk, inviato Usa, «i curdi
stanno bastonando Isis». Ma il presidente turco Erdogan ammonisce: «L’avanzata curda
crea un’area che ci minaccia».
L’incubo dei drusi
Circa 700 mila drusi temono il genocidio per mano dei miliziani islamici: Israele e
Giordania ritengono che potrebbero riversarsi sui loro confini. L’epicentro della nuova crisi
umanitaria è la regione del Monte Druso, a 60 km dalla Giordania e 50 da Israele. I drusi
che la popolano sono stati per decenni sostenitori degli Assad ed ora temono la vendetta
sanguinosa degli islamici, Al Nusra come Isis. È stato il raid jihadista in un villaggio druso
ad avere causato 20 vittime, innescando il timore di quello che Moafaq Tarif, leader
spirituale dei drusi israeliani, definisce «Olocausto druso». Per scongiurarlo i leader drusi
dei Paesi confinanti si mobilitano: in Libano si dicono pronti a formare una milizia di 100
mila uomini per difendere i confratelli siriani e in Israele sono scesi in piazza, guidati dal
viceministro Ayoub Kara, chiedendo di «intervenire per evitare un genocidio». La scelta
del premier è stata di chiedere al Pentagono di proteggere Monte Druso ma il «Jerusalem
16
Post» scrive che l’esercito israeliano sta preparando ogni sorta di piani: anche la
creazione di un ombrello aereo sui villaggi drusi del Golan per scongiurare una fuga di
massa verso i propri confini. Nella difesa dei drusi c’è una convergenza di interessi fra
Israele e gli acerrimi nemici Hezbollah, alleati di Assad da proteggere a ogni costo.
Libia, faida a Derna
È giallo sulla presunta eliminazione a Ajdabiya, in Libia, di Mokhtar Belmokhtar, leader di
Al Qaeda in Maghreb, da parte di jet Usa. Per il governo di Tobruk il super-terrorista è
stato eliminato da gruppi islamici, ma da Tripoli smentiscono. Il Pentagono conferma
l’obiettivo del blitz ma chiede «tempo» per confermare l’identità delle vittime. Intanto a
Derna le milizie «Abu Salim Martyr Brigate», espressione di Al Qaeda, affermano di aver
strappato il controllo della città di Isis, aggiungendo un nuovo tassello alla guerra civile
libica: la faida fra jihadisti.
del 16/06/15, pag. 9
Artisti in rivolta, «è maccartismo»
Tel Aviv. La nuova ministra della Cultura vuole censurare le opere che
«delegittimano» il Paese
Michele Giorgio
Erano in centinaia domenica a Giaffa, riuniti per dire no al «maccartismo». Alcuni sono
personaggi noti, gli altri no. Tutti artisti comunque, decisi a protestare con forza contro la
minaccia del ministero della Cultura di revocare il sostegno, ossia censurare, le produzioni
culturali che, secondo la ministra Miri Regev, «delegittimano» Israele.
È la realizzazione concreta della linea, ampiamente prevista dopo la formazione del nuovo
governo Netanyahu, di attacco a coloro che all’interno del Paese danno spazio alle voci
dissidenti e politicamente scomode nell’arte e nella cultura. Ma nessuno si aspettava che
arrivasse tanto presto la sfida di Regev e anche del suo collega all’istruzione Naftali
Bennett, leader del partito ultranazionalista Casa ebraica.
La ministra della cultura qualche giorno fa ha scritto sulla sua pagina Facebook che «il
confine deve essere chiaro. «Non intendo sostenere le produzioni culturali che
delegittimano Israele». Poco prima Regev aveva minacciato di tagliare i fondi a un teatro,
gestito da un regista arabo, perché non vuole portare le sue produzioni anche nelle
colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. A far salire la tensione ha contribuito la
recente decisione del ministro Bennett di revocare i finanziamenti assegnati a una
rappresentazione per le scuole del teatro al Midan di Haifa, ispirata alla vicenda di un
detenuto arabo, Walid Daka, che ha ucciso nel 1984 un soldato israeliano, Moshe Tamam.
Domenica, in un’atmosfera incandescente, la ministra Regev era al centro delle accuse
degli artisti a Giaffa. Il più duro è stato l’attore di teatro Oded Kottler che, qualche ora
prima aveva scatenato un putiferio paragonando a un gregge di bestie gli elettori del
Likud, il partito del primo ministro e della stessa Regev.
Molto applaudito l’intervento di Michael Gurevitch, il direttore artistico del teatro Khan di
Gerusalemme – dove un paio d’anni fa fu rappresentato in ebraico Il mio nome è Rachel
Corrie, diretto da Ari Remez, con l’attrice israeliana Sivane Kretchner nei panni
dell’attivista americana travolta e uccisa nel 2003 da un bulldozer militare israeliano a
Rafah – che è stato accolto con un lungo applauso quando ha proposto uno sciopero di
tutte le istituzioni culturali. «Non ci può essere alcun dialogo con Regev finché cercherà di
influenzare le opere d’arte. Perché non può determinare lei ciò che danneggia o meno
sicurezza e immagine dello Stato», ha detto Gurevitch. Gli artisti rinnovano l’appello a
17
sottoscrivere la petizione online contro le «misure antidemocratiche adottate da esponenti
del governo per uomini di cultura le cui opere e opinioni non sono conformi con quelle
ministeriali».
Regev ha negato l’accusa di «maccartismo». Da parte sua il ministro Bennett ha smentito
l’intenzione di voler interferire nella produzione culturale ma ha difeso la decisione di
impedire uno spettacolo teatrale che «mostra simpatia per un assassino».
Ben-Dror Yemini columnist del quotidiano Yediot Ahronot, che nei giorni scorsi aveva
duramente attaccato il movimento Bds che chiede il boicottaggio di Israele, da un lato ha
riconosciuto che la libertà di espressione e di provocazione sono «il cuore e l’anima della
democrazia» ma dall’altro ha appoggiato pienamente i tagli. «Certi artisti vogliono
proclamare che Israele è criminale, lasciateli fare. Vogliono fare del teatro ispirato a un
assassino, fateli fare…ma non si capisce perchè i cittadini israeliani dovrebbero finanziare
la denigrazione dello Stato», ha scritto.
Per Bashar Murkus, autore e regista dello spettacolo teatrale bloccato, la mossa del
ministro Bennett confermerebbe le forti contraddizioni «di uno Stato che si definisce
democratico». Nello spettacolo, ha detto Murkus, «cerco solo di rendere evidente l’aspetto
umano del prigioniero… Nessuno lo tratta come un essere umano e sul palco è bello e
importante guardare e ascoltare la profondità umana». Il ministro dell’Istruzione invece
non trova in alcun modo sconveniente che al prossimo Jerusalem Film Festival (in parte
finanziato dallo Stato) ci sarà un docu film su Yigal Amir, in cui l’assassino del primo
ministro Yitzhak Rabin nel 1995, è rappresentato con un volto molto umano. In questo
caso la libertà di espressione è pienamente garantita.
del 16/06/15, pag. 9
Crimini a Gaza, assoluzione «preventiva» di
Tel Aviv
Michele Giorgio
Può essere considerata una mossa preventiva, in anticipo sulla pubblicazione del rapporto
del Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani e delle eventuali azioni della Corte penale
internazionale, la decisione presa dal governo Netanyahu di presentare due giorni fa oltre
200 pagine dettagliate per spiegare che la scorsa estate Israele si è mosso sempre
all’interno del diritto internazionale durante l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza.
Gli oltre 2.200 morti e migliaia di feriti palestinesi e le decine di migliaia di abitazioni
distrutte e danneggiate, per Tel Aviv sono esclusiva responsabilità del movimento islamico
Hamas.
Israele non ha alcuna, anche la più piccola, colpa per la morte di tanti civili palestinesi.
Anzi si afferma nel rapporto che gran parte di quei civili erano in realtà miliziani armati.
Una descrizione dell’accaduto che contrasta fortemente con le testimonianze offerte da
soldati e ufficiali israeliani all’ong “Breaking di Silence” che riferivano dell’intenzione,
espressa in numerose occasioni, di colpire anche obiettivi civili.
del 16/06/15, pag. 16
Il vento del cambiamento spira nelle piazze
18
Honduras. Manifestazioni a Tegucigalpa e a Città del Guatemala
Geraldina Colotti
Piazze in ebollizione anche in Centroamerica, ma da opposte sponde e per opposte
ragioni. Honduras e Guatemala sono attraversati da ripetute manifestazioni contro la
corruzione e il malgoverno. A Tegucigalpa, gli «indignados» sono scesi in piazza
seguendo una modalità di autoconvocazione attraverso le reti sociali: senza bandiere di
partiti, ma per esigere la fine dell’impunità per i corrotti che si annidano fin nelle più alte
sfere di governo. La base dei partiti socialisti di opposizione — riunita nel Frente Nacional
de Resistencia Popular (Fnrp) o nel Partido Libertad y Refundacion (Libre) — era però ben
visibile in piazza: per denunciare «il narcostato» e la drammatica situazione in cui versano
i ceti popolari. Oltre il 72% dei citttadini vive in povertà, il 53% in povertà estrema, mentre
10 famiglie controllano oltre il 90% dell’economia e il flusso di circa 2.050 imprese
strategiche. Dall’Honduras passa oltre il 90% della cocaina proveniente dalla Colombia e
diretta negli Stati uniti.
Cifre aumentate dopo il «golpe istituzionale» del 2009, compiuto contro l’allora presidente
Manuel Zelaya, il quale, pur essendo un moderato, aveva «osato» volgere lo sguardo ai
paesi dell’Alba. Col pretesto della lotta al narcotraffico è così ulteriormente aumentata la
presenza militare Usa nelle tre basi militari presenti. Le sinistre honduregne hanno
denunciato il recente rafforzamento di contingenti militari riscontrando un piano di
aggressione contro il Nicaragua e il Venezuela. L’Honduras è infatti stato storicamente il
territorio da cui contenere i processi di cambiamento della regione: a partire dal colpo di
stato organizzato contro il governo progressista di Jacobo Arbenz in Guatemala, nel 1954.
Nel 1965 le truppe nordamericane sono partite dall’Honduras per far cadere il governo di
Juan Bosch nella Repubblica Dominicana. Stesse modalità vennero dispiegate contro il
Frente Farabundo Marti in Salvador e contro la rivoluzione sandinista in Nicaragua,
L’Honduras è anche uno degli stati più violenti dell’America latina. A fare le spese dei 23
omicidi che si commettono ogni giorno sono spesso sindacalisti, contadini e giornalisti. La
città di San Pedro Sula è considerata la più violenta del mondo per essere uno dei
principali centri del narcotraffico. Come in Colombia e in Messico — denunciano le sinistre
honduregne — i militari Usa sono i garanti del flusso del narcotraffico. La quantità di
denaro che circola nel paese, gestita dai centri del capitale finanziario internazionale è
gigantesca. La Banca mondiale prevede che il Prodotto interno lordo cresca quest’anno
del 3,2%, ma 6 su 10 famiglie che vivono nelle zone rurali sono in stato di indigenza.
«Rinuncia Joh», gridano allora le piazze riferendosi al presidente Juan Orlando
Hernandez. Il Commissario nazionale per i diritti umani, Roberto Herrera Caceres gli ha
chiesto di aprire un dialogo con i manifestanti e di rispettare i diritti umani. Il presidente ha
detto di «essere pronto al dialogo» con i diversi settori della protesta per mettere fine alla
crisi politica.
Anche le piazze guatemalteche esigono le dimissioni del presidente Otto Pérez Molina, un
ex generale dei tempi della dittatura soprannominato Mano dura. Anche in questo caso
sono scesi in campo gli «indignados»: con un accento ancora più «apartitico» che in
Honduras, dato lo stato di debolezza delle sinistre guatemalteche e la persistente chiusura
di spazi per l’opposizione. Anche in questo caso, le numerose fiaccolate che si svolgono in
diverse parti del paese chiedono la fine della corruzione, che ha coinvolto i più alti vertici di
governo e le cerchie più vicine a Molina. Ma lui, dopo aver fatto cadere qualche testa, ha
dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e ha gridato al complotto. La Corte
suprema ha dato il via libera a un’indagine parlamentare nei suoi confronti, ma gli Stati
uniti stanno brigando affinché mantenga l’immunità parlamentare.
19
INTERNI
del 16/06/15, pag. 15
La scorsa estate il leader celebrava la storica vittoria alle Europee ora è
alle prese con le prime sconfitte
Il tallone di Matteo a un anno dal 40% cade il
mito dell’invincibilità
FILIPPO CECCARELLI
OH, insidia beffarda degli anniversari! Giusto un anno fa (14 giugno del 2014), quando
all’hotel Ergife venne riunita l’Assemblea nazionale del Pd, qualcuno ebbe la scenografica
ideona di piazzare al posto d’onore, stampata a caratteri televisivi sul fondale del palco, la
cifra magica della recente vittoria europea: quel 40,8 per cento che per dodici mesi è poi
risuonato in ogni possibile sede come il dogma dell’invincibilità di Matteo Renzi.
Il giovane leader volle quel giorno definirlo: «Una sconvolgente attestazione di speranza ».
Sempre alle sue spalle si leggeva risolutamente: «Adesso tocca a noi» e, preceduto
dall’immancabile cancelletto, «#Italiariparte».
Vero è che insieme a una memoria a scartamento piuttosto ridotto, gli italiani hanno una
storica tendenza a esaltare i vincitori, talvolta fino alla divinizzazione. Ma nel giugno dello
scorso anno, per il premier, tutto andava molto meglio di oggi - anzi troppo.
Qualche giorno prima, al Festival dell’Economia di Trento, Renzi si era abbandonato
all’enfasi inscrivendo il risultato europeo nello statuto del Prodigioso: «C’è un allineamento
di fattori astrali irripetibili». Messi anche così a tacere i gufi, in un costante tripudio di selfie
e « gimmefive » raccoglieva ovunque lodi e ammirazione. Un giornò benedì la folla
affacciandosi in maglietta bianca da una finestra di Palazzo Chigi; di lì a poco quei
simpaticoni del Pd di Roma annunciarono la Festa dell’Unità con un manifesto che
ammiccava studiatamente a Fonzie; e sempre in quel mese, per restare al trionfo dello
stile Renzi, venne notato che a Pitti Uomo molte linee della kermesse fiorentina
sembravano «ispirate al premier, prevalendo i suoi colori preferiti, il blu e i toni
dell’azzurro, le giacche di lino, le camicie extra slim per fisici allenati, i pantaloni a sigaretta
ma non troppo corti»... e vabbè.
Sembrava di cogliere un che di fanciullesco, ma insieme di già visto e torvo, in questo
correre « in servitium », come scriveva il professor Zagrebelsky, del vincitore. Però era
quasi indiscutibile che su di lui, più di ogni altro nella politica italiana, si fosse posata l’ala
della vittoria: «Veni, vidi, Renzi - titolava Le Monde - Un sogno di Rinascimento italiano».
Evvài.
Si potrebbe continuare a lungo, con malizia tanto più allegra quanto mesta risulta l’odierna
atmosfera sia al Nazareno che a Palazzo Chigi (oltre che a Genova, a Venezia, in Sicilia,
eccetera). Rimane appena da dire che nella realtà, o se si preferisce nella storia anche
recente, nessuno è per sempre invincibile.
Non lo fu Craxi, battuto prima dal diabete e poi dalla scoppola referendaria («Io i miracoli
non li faccio»); non lo fu Andreotti i cui portenti, teorizzava Baget Bozzo, «apprenderemo
nella Valle di Giosafat»; e poi fu sconfitto Bossi e infine anche Berlusconi, che diceva:
«Ogni volta che perdo, triplico le mie forze». Quanto all’invulnerabilità, con un salto al
tempo stesso ragionevole e temerario, si può concludere che perfino Achille aveva il suo
proverbialissimo tallone.
20
La mitologia, al riguardo, è tortuosa. Omero, Igino, Stazio, le Etiopiche , l’ Eneide , le
Metamorfosi di Ovidio al libro XII... Quasi certamente c’entra il Fato, oppure un dio Apollo? - che comunque deviano il corso della freccia avvelenata di Paride, e zàcchete ,
addio Achille!
Ora, più la politica si rivela inconcludente e più si alimenta di miti, di suggestioni e di
chiacchiere. La mimetica indossata dal premier ad Erat non ha funzionato. Così, specie
dopo il secondo turno, lo storytelling renziano sembra di colpo in debito di fantasia e
creatività.
In questi casi i capi concedono di solito il minimo indispensabile: il vecchio e caro «errore
di comunicazione», il «non siamo riusciti a trasmettere» e così via. Ma quando la dea
Nike, la Vittoria, comincia a fare i capricci, beh, in un tempo di procurati incanti, visioni
artificiali e leaderismi carismatici, il guaio è più serio di quanto i numeri e gli spin doctor si
sforzino di dimostrare.
Ecco, c’è davvero qualcosa che non va più nel renzismo, quando si placa il sindaco
Marino nominando un «coordinatore » invece che un «commissario » del Giubileo; così
come l’aver «asfaltato» la minoranza democratica sull’Italicum lascia all’improvviso il
tempo che trova di fronte alle ingenuità, alle incertezze e agli errori messi in vetrina per
l’emergenza immigrazione - a parte il ruolo non proprio influente esercitato da Federica
Mogherini in sede europea.
La Buona Scuola impantanata; quella della Pubblica amministrazione quasi dimenticata; le
unioni civili ormai in ritardo; il fisco amico che amico non è; la Rai te la saluto... Ridotto a
ornamento scenografico e a litania da talk- show, il 40,8 per cento è durato come un
sospiro.
del 16/06/15, pag. 1/37
MATTEO SENZATERRA
EZIO MAURO
MATTEO senzaterra. Questa la nuova immagine del presidente del Consiglio e soprattutto
del segretario del Pd, man mano che i Democratici cedono terreno a Grillo e alla destra
perdendo Nuoro, Fano, Arezzo, Gela, Augusta, Enna e soprattutto Venezia, capitale
simbolica di questa sconfitta incubata nei municipi e nei territori, proprio dov’era nata la
sfida renziana.
Avevamo avvertito che le regionali erano una vittoria numerica, ma una chiara sconfitta
politica. Adesso la crisi del Pd, nonostante i successi a Mantova, Lecco, Segrate, Trani e
Macerata, è anche numerica ed è davanti agli occhi di tutti: negarla è impossibile per
cinque ragioni evidenti.
L’astensione che supera il 50 per cento anche in elezioni comunali conferma che
l’incantamento è rotto e il renzismo si deve guadagnare il pane nella lotta di tutti i giorni,
senza rendite di posizione: diventa uguale agli altri. L’inseguimento del partito della
nazione ha lasciato sguarnito il fianco di sinistra, e la disaffezione si vede e soprattutto si
conta. La rincorsa al centro arranca perché il cambiamento ristagna.
Il Pd è il luogo del conflitto e non delle idee, del risentimento e non del sentimento di una
sinistra moderna.
LO SCANDALO ininterrotto di Roma e gli impresentabili ammucchiati attorno
all’impresentabile De Luca in Campania entrano in contraddizione con la retorica della
rottamazione e la annullano: soprattutto quando il vertice tace, e come dice il proverbio in
qualche modo acconsente.
21
O Renzi fa il Capo del governo e libera l’autonomia del Pd, trasformandolo in quel
soggetto politico che non è, oppure deve occuparsi del partito, dotandolo del fondamento
culturale che ancora manca, e che è la base e la fonte sicura di ogni scelta politica
consapevole: com’è possibile ad esempio che sui migranti non sia ancora nata una
moderna cultura di sinistra, capace di coniugare la domanda di sicurezza con la civiltà
italiana dei nostri padri e delle nostre madri, lasciando invece il campo libero al pensiero
unico e feroce di Salvini? E non sarebbe questo il miglior terreno di protagonismo e di
sfida per la sinistra interna, invece del ruolo meccanico e subalterno che si limita a dire no
a ogni proposta del premier?
Il test amministrativo conferma che la destra è ormai una presenza fissa sulla scena
italiana — così come l’antipolitica grillina — anche quando è allo stato gassoso, senza un
recipiente e un’etichetta. Berlusconi non lascia un erede perché non lascia una cultura, ma
ha evocato un mondo, che continuerà ad essere abitato a destra dopo di lui.
Ma a ben guardare, il test dice qualcosa di più. Paradossalmente gli sfidanti in crescita,
M5S e destra, oggi non hanno leadership nazionale ma hanno un’identità politica e la
radicalità di una proposta, due elementi che in politica creano un “campo” riconoscibile e
riconosciuto. Il Pd ha leadership, e poco altro. In un Paese frastornato, non basta più.
del 16/06/15, pag. 1/4
Nel deserto delle urne
Matteo Renzi al voto per la regione Toscana
Norma Rangeri
Se dopo le elezioni regionali erano suonati i campanelli d’allarme, dopo il voto comunale si
sono messe all’opera proprio tutte le campane. Innanzitutto per Renzi e per il suo partito,
che adesso non prova neppure a minimizzare e parla apertamente di «una sconfitta».
La doppia batosta di Venezia e Arezzo, ventennali roccaforti del centrosinistra, colpisce il
premier-segretario sia come presidente del consiglio che come leader di partito. Né
Casson, un candidato che avrebbe dovuto fare il pieno dei voti di sinistra, né il
renzianissimo Braccialli che avrebbe dovuto sfondare nel campo avverso, hanno avuto il
consenso degli elettori. Al contrario, in Laguna come nella provincia toscana, sono stati
premiati un imprenditore e un ingegnere, due portabandiera delle forze di centrodestra,
esponenti della società utili a nascondere i partiti sotto il tappeto. Ha poco di che
rallegrarsi il vivace Brunetta con Forza Italia che a Venezia non arriva nemmeno al 4%, e
hanno poco da recriminare sulle divisioni quelli del Pd se proprio il partito è stato
abbondantemente superato dalla lista di Casson.
L’altro elemento rilevante del voto è l’errore di sottovalutare l’avversario dandolo per
sconfitto in partenza o considerandolo facilmente battibile. Come sempre, come fin
dall’esordio del berlusconismo, a destra non trova casa il virus del tafazzismo, tipica
patologia della sinistra, e quando è il momento le divisioni si annullano e il cartello si
mostra compatto.
Il tafazzismo, invece, ha contagiato il Movimento dei 5Stelle, conquistato dal tanto peggio
tanto meglio. Nella speranza di raccogliere i frutti che gli avversari (tutto il Parlamento) non
sono in grado di riprendere. Ma questo riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S
strappa qualche importante comune segnando un’altra tappa del suo radicamento, resta
che il Movimento soprattutto si distingue per fare da spalla al centro-destra. Come
dimostra in pieno il caso Venezia.
22
Non votare Casson significa non sostenere un personaggio — un magistrato — e una
politica — onestà e mani pulite — che rientra perfettamente nella cultura pentastellata. Se
le scelte avvenute alle regionali erano oltremodo legittime — un’organizzazione che
raccoglie un consenso ampio, deve essere ambiziosa — quella di non partecipare al
ballottaggio veneziano è distruttiva e autodistruttiva.
Ma chi deve preoccuparsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo questo importante voto
amministrativo Renzi dovrebbe prestare meno attenzione alla grancassa mediatica che gli
suona la serenata e avere maggior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd
perde sia con un candidato di sinistra che con uno di destra, vuol dire che lo sfondamento
al centro è una chimera e la riconquista di un consenso a sinistra un’illusione. Anche
perché l’unico dato nazionale incontrovertibile, indiscutibile e apparentemente anche
invincibile resta l’astensionismo. Che colpisce tutti, politica e antipolitica, destra e sinistra.
La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smentiscono le magnifiche sorti delle
furbizie costituzionali (l’Italicum) e delle scorciatoie liberiste (jobs act). Del resto la tragedia
delle migrazioni, che attraversa i nostri territori mettendo in forse persino la frontiera
dell’umana solidarietà, è testimonianza sufficiente per consigliare di tornare con i piedi per
terra.
del 16/06/15, pag. 3
Il Pd reale bussa al Nazareno
Democrack. «Si guarda avanti», ma i renzisti debbono ammettere: il
partito è malmesso. Ddl scuola, la sinistra avverte: serve l’unità. Ma ora
rischia di accollarsi il ritardo
Daniela Preziosi
«Diciamola tutta una buona volta: raccontarsi che il Pd perde nei territori perché lì è
mancata la famosa innovazione che invece c’è al centro, cioè dire che gli intelligenti
stanno solo al partito nazionale e gli altri sono tutti scemi, può essere una favola buona
per dormire un po’ più tranquilli, ma resta , appunto, una favola, una storiella». Nico
Stumpo, ex responsabile organizzazione del Pd, oggi colonna della sinistra dem coté poco
accomodante, mette le mani avanti. Stavolta i risultati dei ballottaggi non consentono
grandi margini interpretativi neanche ai fantasisti della squadra renzista. Il segretario con i
suoi ammette «la sconfitta», pur stando attento a non far filtrare scoramenti o depressioni
da perdente. Il suo numero due Lorenzo Guerini articola il concetto dicendo che la
sconfitta veneziana «brucia», come pure quella di Arezzo, la città della ministra Boschi, e
quella della roccaforte marchigiana di Fermo, e poi quelle di Matera e di Nuoro: il Pd
resterà anche «il primo partito» ma questo «non è sufficiente a farci brindare».
Ma la ricerca di facili capri espiatori resta una tentazione forte per il Nazareno. Stumpo la
vede, per esempio, in Debora Serracchiani che butta la croce sulle federazioni, ree di non
essersi adeguate al renzismo centrale: «Il Pd vince quando offre fiducia e speranza ai
cittadini, e in alcuni casi sui territori ciò non accade», dice la presidente friulana. Tradotto:
non si è vinto perché la renzizzazione del partito non è ancora completa. Ma è
un’argomentazione ormai inutilizzabile. «Un’analisi così autoconsolatoria come quella fatta
da Renzi in direzione non regge la prova della realtà», attacca Alfredo D’Attorre. «È il
momento di riaprire il confronto per un cantiere del centrosinistra largo: altro che partito
della nazione o partito di Renzi. Se il Pd non torna a ricostruire il centrosinistra allargando
la voragine a sinistra, rischia di restare isolato in una terra di nessuno e andare incontro a
23
disastri elettorali». Il guaio è che anche questa lettura del voto rischia di essere superata. Il
Pd non incassa il voto dei moderati, ma perde anche dove si propone con un’offerta ’di
sinistra’, come il civatiano ex pm Casson a Venezia. Il campo della sinistra è ormai
desertificato dalla tenaglia Renzi-5stelle.
Alle scorse regionali le uniche vittorie piene sono state quelle di De Luca in Campania e di
Emiliano in Puglia: due candidati che hanno realizzato il ’partito della nazione’ che piace a
Renzi, ma certo senza grande ’innovazione’. Tanto più che entrambe le regioni per ora
sono nella palude: De Luca è in attesa dell’impossibile proclamazione, Emiliano è
inceppato da un problema applicativo della legge elettorale regionale, peraltro modificata
in fretta e furia alla vigilia del voto.
Nei luoghi delle sconfitte il Pd bordeggia l’implosione: in Liguria tutto il gruppo dirigente è
dimissionario. E non solo perché ha perso, ma anche perché l’ex candidata Paita ora
spara a 360 gradi, dal ministro Orlando a tutto il Pd locale che in campagna elettorale si
sarebbe impegnato «in un’opera di demolizione dell’amministrazione uscente», quella del
suo padrino politico Burlando. A Roma il sindaco Marino traballa. Il rinnovato sostegno di
Renzi non basta, visto che Sel ieri ha fatto mancare i suoi voti in Campidoglio e in queste
ore sta decidendo se continuare a sostenere la giunta. Intanto al Nazareno la
commissione che doveva mettere mano allo statuto e alle primarie che hanno fallito un po’
ovunque, è ferma. La discussione non è mai iniziata perché il segretario non ha ancora
deciso che fare.
Ultime ma non ultime, le due camere. Dove per la maggioranza non bella aria per Renzi.
Al senato l’umore dell’Ncd dipende dall’esito dell’autorizzazione all’arresto di Azzolini.
Intanto il ddl scuola va avanti, ma la sinistra Pd dà battaglia e il soccorso verdiniano ormai
è una chimera del passato. Il bersaniano Gotor spiega che se si vuole portare a casa la
riforma «la strada obbligata è l’unità del Pd». I giorni passano, sarebbe meglio «procedere
con uno stralcio e assumere subito per decreto i precari delle graduatorie a esaurimento»,
e se non lo si fa è per «scaricare sul parlamento la responsabilità di un’eventuale mancata
assunzione». Anche alla camera i guai non mancano. Oggi i deputati voteranno Ettore
Rosato al posto del dimissionario Roberto Speranza. Ma il voto segreto potrebbe
condizionare il risultato, molti voti mancheranno all’appello.
Renzi ostenta tranquillità. «Si va avanti solo se si ha il coraggio di fare riforme
coraggiose», ha detto ieri dopo aver visto il presidente messicano Enrique Pena Nieto. Ma
si va avanti solo se si hanno i numeri. E i numeri sono un’incognita, ora che il ricatto delle
elezioni anticipate, mai stato verosimile, è definitivamente scomparso dallo spin di
palazzo. Con tutte le conseguenze del caso.
del 16/06/15, pag. 2
Renzi: “Farò un partito modello Usa ma basta
primarie”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA. «Basta con le primarie», dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori in una giornata
occupata più dal problema profughi che dal passo falso dei ballottaggi. Non significa che il
Pd abolirà la selezione popolare dei candidati. Significa però che cercherà di limitarne
l’uso, che proverà a guidare la scelta dei candidati in altri modi, anche più tradizionali, per
non incorrere negli errori decisivi di Raffaela Paita in Liguria e Felice Casson a Venezia.
Un vero stop che nelle parole del presidente del Pd Matteo Orfini diventa un’abolizione:
24
«Senza primarie avremmo vinto in Liguria e a Venezia. Così come abbiamo vinto nel Lazio
e in Piemonte con Zingaretti e Chiamparino che non sono passati attraverso i gazebo». A
Largo del Nazareno hanno quindi individuato la prima correzione da fare in vista delle
amministrative 2016, di peso specifico ancora maggiore. Milano, Torino e Napoli tornano
alle urne e una sconfitta sarebbe bruciante per il Pd.
Renzi dice anche che serve «un modello di partito diverso». Più moderno, «più Obama,
meno Mastella o Pajetta», spiega agli interlocutori. Ovvero, che non viva sui pacchetti di
voti e nemmeno sulla diffusione capillare che portò il Partito comunista a essere fortissimo
tanto da sfiorare la maggioranza relativa. Alla sinistra interna il premier attribuisce una
bella quota di responsabilità nella sconfitta. Ma ammette che si parte da un dato di fatto
storico e culturale. «L’Italia è un paese di destra - confida - . Se poi, all’interno della
sinistra, si discute continuamente e su tutto, questo ci indebolisce. Ed è quel che è
accaduto ». Le diatribe infinite e la lotta intestina hanno creato uno stato dell’arte in cui «il
Pd ha smesso di essere novità». Soprattutto il Pd renziano, intende naturalmente il
segretario. «Dobbiamo continuare a dire come cambiamo - osserva il segretario - . Da
oggi si torna al Pd che mi ha eletto».
Sono parole che hanno un tono di sfida verso la minoranza. I dissidenti sono convinti di
avere adesso l’occasione per contare di più, per condizionare l’attività di governo e i
provvedimenti del premier. A cominciare dalla riforma della scuola su cui si comincia a
votare stamattina in commissione al Senato. C’è chi mette nel mirino persino l’Italicum,
una legge ormai approvata in via definitiva. «Con l’Italicum - ribatte Renzi alle critiche che
avanzano dopo i ballottaggi, meccanismo che regola anche la nuova legge elettorale sono sicuro di vincere contro Salvini, contro Berlusconi e contro un grillino». Diverso è il
pronostico che nascerebbe dalla comparsa di un mister X della destra in grado di unire
queste forze e contrapporsi al centrosinistra. «Se spunta un signor Rossi, il discorso è
diverso », è il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi. Ma per fronteggiare anche quello
che non c’è, bisogna prepararsi subito.
Lo stop parziale alle primarie, che verrebbero ridimensionate per le elezioni locali e
mantenute per la segreteria del Pd e per la carica di candidato premier, non basta.
«Quando mi riferisco a Obama - si sente dire nei discorsi del premier - penso a un partito
organizzato in maniera nuova. Con un esperto di big data che lavori al fianco di giovani
iscritti e militanti. Giovani che sappiano farsi portatori dei valori su diritti anche mo- derni:
smart city, talento, sostenibilità, lotta alla fame e i diritti sociali, certo».
Si parte da qui e non c’è traccia, nelle parole del presidente del Consiglio, di un’apertura
alle critiche dei dissidenti. Ad esempio, quella di una maggiore ricerca di unità il cosiddetto
metodo Mattarella che ricompattò il Pd e decise le elezione del presidente della
Repubblica. Renzi considera il lavoro della minoranza soprattutto nella chiave di una
voglia di rivincita. «Chi vuole guidare il Pd mi deve sconfiggere e lo deve fare al congresso
che si terrà nel 2017. Non mi deve convincere», avverte il premier nei colloqui riservati. Ma
per guidare il processo di avvicinamento alle elezioni di Milano, Napoli e Torino è
impossibile fare a meno del contributo della sinistra e in alcuni casi anche della sinistra
radicale. Tanto più se le scelte vanno fatte senza le primarie ma con l’individuazione di un
nome che raccolga consensi a sinistra e oltre quel recinto. «I discorsi tecnici sulle primarie
servono a poco - spiega Alfredo D’Attorre - . Non riusciamo a unire l’area del
centrosinistra, questo è il problema. Esattamente il contrario di ciò che avveniva in
passato. Quando vincevamo i ballottaggi proprio per la capacità di creare un clima positivo
nella nostra area». Nico Stumpo si prende una sua rivincita personale ora che qualcuno
parla di primarie regolate meglio. Con un albo degli iscritti «che va fatto volta per volta, un
albo per ogni voto. Con l’online si fa in maniera semplice».
25
È un confronto tutto da costruire, quello della selezione dei candidati. Il destino, se ben
gestito, può dare una mano a Torino. I vertici del Pd sperano che Piero Fassino smentisca
il proposito di limitarsi a un solo mandato e accetti la ricandidatura. Per risparmiarsi una
competizione al gazebo. Ma Napoli e Milano restano questioni aperte
del 16/06/15, pag. 12
Berlusconi incassa “Ma non voglio il voto
anticipato”
“Renzi dovrà fare i conti con questo vecchietto” E prepara un tour per
rilanciare Forza Italia
TOMMASO CIRIACO
ROMA . «Renzi è andato a sbattere e adesso è chiaro a tutti che con questo vecchietto
bisogna ancora fare i conti…». Come un miracolo, così il tonfo del Pd viene accolto da
Silvio Berlusconi. Perché a tutto pensava il leader del centrodestra alla vigilia delle
amministrative, ma non di ritrovarsi con una chance di riscossa. E se anche il
«centrodestra ha vinto a sua insaputa», come ironizza Gianfranco Rotondi, è comunque
un fatto che il “vecchietto” resta in campo. Ora però arriva il difficile. «Non dobbiamo
cercare elezioni anticipate — è la linea dettata dal capo dopo i ballottaggi — Anzi, se cade
Renzi è possibile che Mattarella ci coinvolga per un nuovo governo di unità nazionale. A
noi serve tempo per ricominciare a crescere, con l’obiettivo di tornare al 22%».
Per scalare la montagna è già pronto un piano di rinascita berlusconiana, che diventerà
esecutivo i primi giorni di luglio (si ipotizza il 2 o il 3 di quel mese). Tre tappe — una al
Nord, una al Centro e una al Sud — per mostrarsi di nuovo in tv, migliorare i sondaggi e
porsi come interlocutore credibile di Matteo Salvini. Una sorta di predellino itinerante (i
primi appuntamenti nelle Marche e in Puglia), sperando che funzioni.
Forza Italia, a dire il vero, non gode di buona salute. A Venezia, sulla carta l’epicentro
della riscossa berlusconiana, il logo dell’ex Cavaliere ha raccolto al primo turno un misero
3,76%. E quasi ovunque la Lega di Matteo Salvini ha sorpassato l’alleato. Come rialzarsi,
adesso che il Pd traballa e Renzi è «un pugile suonato prossimo a crollare » (copyright
Brunetta)? Di sgambettare il governo senza un piano B non se ne parla, perché le elezioni
anticipate somigliano a un mezzo disastro. «Dobbiamo ricostruire il centrodestra e
riconquistare i nostri elettori. E io devo trattare con la Lega». Ecco allora l’idea del tour
nelle cento province, partorita dal cerchio magico. L’antipasto di luglio assomiglia a un test
di mercato, insomma, per individuare facce nuove e mostrarsi pronti a qualunque
scenario. Per ridurre Forza Italia a una bad company, invece, ci sarà tempo.
Contemporaneamente, l’ex premier si appresta a ricevere il leader del Carroccio. Presto,
molto presto: «Ancora non abbiamo fissato l’incontro — spiega Salvini — ma non è
escluso un faccia a faccia prima di Pontida».
Berlusconi, in privato, ha già in mente uno schema per rilanciare il centrodestra. Lui
ricopre il ruolo di “padre nobile”, l’allenatore di un giovane leader che lo garantisca anche
in futuro. Peccato che al momento di questo profilo non esista traccia. E Salvini?
Berlusconi continuerà a proporgli la poltrona di sindaco di Milano, in modo da rinsaldare
l’asse con la Lega e liberarsi contemporaneamente di un competitor scomodo. Il problema
è che il successore di Bossi si tiene aperte tutte le soluzioni: «Intanto dobbiamo capire
cosa pensa FI di Europa, trattati e Maastricht — sostiene il leader leghista — E poi per
non perdere tempo dobbiamo iniziare a ragionare anche della leadership ». Lui, insomma,
26
è in campo. Ed è pronto a restarci finché le elezioni anticipate resteranno sul tappeto. Nel
week end Berlusconi volerà in Sardegna. Tre giorni di relax prima di dedicarsi alla mission
territoriale nelle cento province d’Italia. Nel frattempo è chiamato a risolvere anche la
grana Verdini. Un ultimo, decisivo incontro tra i due era stato fissato per stasera, ma il
numero uno di FI tornerà a Roma solo domani. Possibile allora che sia il ras toscano a
recarsi stasera ad Arcore per un faccia a faccia da cui dipende il destino del partito. Le
premesse non favoriscono la colomba azzurra, perché le amministrative hanno rafforzato il
cerchio magico e reso il suo strappo più rischioso. E infatti è possibile che alla fine i
verdiniani decidano di restare dentro, attendendo gli eventi e disponibili a sostenere Renzi
nei passaggi parlamentari più delicati che già si profilano all’orizzonte. «Ma chi vuole che
vada con Renzi proprio adesso? — domanda Renato Brunetta, sorridente — Al massimo
Denis e quelli con cui cena da “Fortunato al Pantheon”…».
Del 16/06/2015, pag. 11
Il passo del centrodestra e quei nuovi piccoli
leader «sbucati» nei Comuni
La metamorfosi sul territorio, le ricadute sulle strategie
Il successo dei moderati alle Comunali di domenica ricorda la stagione dei sindaci di
sinistra di ventidue anni fa.
Certo, i candidati vincenti di allora erano rappresentanti del ceto politico, mentre oggi per
la maggior parte sono espressione della società civile. Ma le condizioni in cui si registrò
quel risultato somigliano al contesto attuale: così come il voto del ‘93 annunciò la fine della
Prima Repubblica e anticipò un modello di alleanze nel fronte progressista, dal test del
2015 — e sulle macerie della Seconda Repubblica — emerge l’embrione di un progetto
che potrebbe mutare radicalmente il profilo dell’area moderata nel sistema che verrà.
È un sorta di big bang, perciò è impossibile stabilire oggi quale forma prenderà il caos, ma
non c’è dubbio che si tratti della prima vittoria post berlusconiana costruita in quel territorio
chiamato finora centrodestra. Se Venezia va considerato il progetto-pilota e Brugnaro ne è
il testimonial, si nota intanto che l’eletto non è frutto dei famosi casting, non rappresenta
cioè il prototipo del candidato che ha caratterizzato un’era. E soprattutto, nel corso della
campagna elettorale, ha tenuto a marcare la distanza. Di più: Brugnaro ha vinto al primo
turno la sfida con la Lega nella sua roccaforte regionale, e poi ha battuto l’esponente del
Pd per il quale Renzi era sceso in campo, sostenendo che «a me Renzi piace»...
«C’è in effetti un centrodestra un po’ renziano», dice il coordinatore di Ncd, Quagliariello:
«Ma siccome Renzi finora non ha fatto Kadima — il partito che in Israele ha unito un
pezzo di laburisti e un pezzo di conservatori — allora ha deciso di mettersi
autonomamente in movimento». Sarà, ma vincere sul candidato di Renzi inneggiando a
Renzi è un paradosso che produce un altro paradosso. Perché la vittoria dei sindaci
moderati — a Venezia come ad Arezzo, a Chieti come a Nuoro — ha fatto cadere il (falso)
mito dell’unità del centrodestra: una formula a cui molti — subito dopo il voto — si sono
aggrappati per considerarsi parte del successo.
«Uniti si vince» più che una parola d’ordine è parso ieri un logoro refrain, visto che è stato
smentito dagli stessi che lo pronunciavano. A livello nazionale, infatti, lo scontro è
proseguito senza sosta. Salvini — inneggiando alle primarie — ha ribadito il suo progetto a
trazione leghista, «e poi vedremo se Berlusconi ci starà». Berlusconi — deciso a non
subire — ha evocato il modello sarkozista per l’unità del fronte moderato, proprio mentre
27
l’ex ministro Gelmini esortava l’Ncd lombardo a scindersi da Alfano. E per tutta risposta
Quagliariello ha ricordato agli «amici di Forza Italia» per la seconda volta in pochi giorni
che in Liguria la nuova giunta regionale si regge sul voto del consigliere centrista...
Il punto è che, venuta meno la leadership berlusconiana a livello nazionale, si fa strada
l’idea che siano le realtà locali a caricarsi di un compito gravoso e dall’esito tutt’altro che
scontato. Come se l’infarto politico del vecchio centrodestra avesse dato origine a un
circolo sanguigno collaterale. I sindaci del 2015 sembrano i rappresentanti di quel popolo
che ha subito la diaspora e che per larga parte si è rifugiato nell’astensionismo. Si vedrà
se saranno capaci di governare il caos, se davvero — come dice Alfano richiamandosi a
Brugnaro — saranno il prototipo di «una forza moderata vincente che guida e non si fa
guidare, e a cui Salvini al massimo si può accodare».
Ma appena due settimane fa alle Regionali l’affermazione di Zaia in Veneto e di Toti in
Liguria, insieme all’avanzata prorompente della Lega hanno messo in mostra un altro
modello di centrodestra. Di qui un conflitto che pare insanabile, sebbene Berlusconi si
proponga come mediatore tra le parti, convinto che si debba e si possa intercettare quel
«vento che è cambiato» — come dice l’azzurra Bergamini — e che non gonfia più le vele
di Renzi. L’offensiva dell’ex premier su economia e immigrazione ha scoperto il fianco
debole del leader democratico ma allo stesso tempo sta ulteriormente allargando il fossato
tra Forza Italia e Ncd. Ed è sulla «innaturale posizione» di Alfano nel governo che
Berlusconi insiste, certo di aver la meglio in prospettiva, malgrado le difficoltà e le
contraddizioni che attraversano il suo partito: l’«unità» che sul territorio si rivela un fattore
«vincente», si scontra non solo con la modestia delle cifre elettorali di Forza Italia ma
anche con la frammentazione in Parlamento dei gruppi, alla vigilia di un passaggio che
potrebbe segnare una nuova scissione. C’è poi un altro bivio che attende Berlusconi:
quello sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale, tornata al centro del dibattito. Per
esser parte attiva nel progetto di revisione della Carta e dell’Italicum, dovrebbe però
cambiare la posizione assunta alla Camera. «Sta ancora riflettendo sul da farsi», spiegano
i fedelissimi, come a sottolineare la difficoltà della scelta, il rischio cioè di creare una
frattura con la Lega, alleato di cui Berlusconi non può nè vuole fare a meno. Il big bang nel
centrodestra è in corso, e la durata della legislatura — che nessuno vuol mettere in
discussione — non fa ancora capire cosa verrà dopo il caos.
Francesco Verderami
del 16/06/15, pag. 2
Casson affonda un’altra volta
Venezia. Storica vittoria del centrodestra con Luigi Brugnaro. Come nel
2005 l’ex pm sconfitto al ballottaggio, nonostante 1.540 voti in più
rispetto al primo turno. E nel Pd si apre la caccia ai «traditori»
Ernesto Milanesi
VENEZIA
La storia si ripete: Felice Casson affonda un’altra volta nel ballottaggio. E se nel 2005 era
un «derby» con la filosofia amministrativa di Massimo Cacciari targato Margherita,
domenica la sconfitta dell’intero centrosinistra ha spalancato le porte di Ca’ Farsetti a Luigi
Brugnaro, alla Lega Nord, al “civismo” di Francesca Zaccariotto e ai rigurgiti di fascismo.
L’ex pm e senatore Pd “dissonante” è stato condannato dalle urne la seconda volta senza
appello. Una notte da incubo, fin dai primissimi risultati.
28
Un verdetto che brucia ogni certezza e squaderna l’abisso. Con Casson che va k.o. dieci
anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità rossoverde e perfino il popolo della
sinistra. Nel deserto di Zaialand ci si può a mala pena arroccare nei municipi periferici
(Treviso, Vicenza, Belluno), perché l’«effetto Bitonci» è dilagato da Padova a Rovigo
mentre la «catastrofe Moretti» ha travolto anche Venezia.
Il risultato del ballottaggio è impietoso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette
repliche. Solo la marcia trionfale di Brugnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di
Umana, della Reyer, della Misericordia e della città…) dal quartier generale in Calle del
Sale fino alla stanza dei bottoni sul Canal Grande. E il silenzio di Casson che via Twitter
ringrazia i sostenitori e si eclissa.
È davvero l’ammainabandiera di Venezia “rossa” con Giovanni Battista Gianquinto, poi
“riformista” con Gianni Pellicani e “democratica” con Cacciari, Paolo Costa e Giorgio
Orsoni. È una svolta davvero storica, perché bisogna risalire al 1990–93 per ritrovare un
sindaco diverso: Ugo Bergamo, notabile Dc, non a caso riemerso fra i supporter di
Brugnaro.
In due settimane, laguna e terraferma hanno maturato il drastico cambio di scenario, non
solo politico. Brugnaro ha convinto perfino sestrieri come Castello, “roccaforti” come
Marghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la
coalizione di centrodestra si è paradossalmente imposta senza nemmeno fare il pieno dei
propri consensi. Brugnaro ha chiuso con 54.405 preferenze contro le 47.838 di Casson.
Ma sulla carta gli apparentamenti avrebbero dovuto sommare ai 34.790 voti fucsia, i
14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zaccariotto per un totale di 57.564.
Al contrario, lo schieramento Civica Casson, Pd, Verdi, Sel, Socialisti e Cd partiva dai
46.298 voti del primo turno. Ma è lampante che quei 1.540 elettori in più di domenica non
hanno compensato gli astensionisti incalliti e nemmeno i «traditori» nel segreto dell’urna. I
primi incarnano forse l’effetto Mose, ma anche la disillusione nei confronti del Pd nazionale
e lagunare. Ma gli altri rivelano il bizantinismo business oriented di lobby, salotti e
mandarini che fin dalle Primarie hanno messo sabbia nel motore di Casson.
Non è un mistero per nessuno che a Venezia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse
sulla concertazione formato Consorzio Venezia Nuova. Da almeno un anno erano al
lavoro, su opposte sponde, i vecchi “referenti” dei nuovi equilibri. Hanno sbaragliato il
campo e si preparano ad un lustro all’insegna della sintonia fra il governatore post-leghista
Luca Zaia e il sindaco post-berlusconiano Brugnaro. Forse, non è un caso che i rispettivi
“partiti elettorali” abbiano monopolizzato i consensi tanto alle Regionali come alle
Comunali…
Venezia, poi, riassume la più devastante deriva demokrac. Il partito collassato ben prima e
peggio di Ale Moretti e Casson. L’eredità europea dissipata ad ogni angolo del Nord Est
(sintomatico Portogruaro, dove Maria Teresa Senatore umilia il designato Pd che aveva 17
punti di vantaggio). E la deriva impazzita dei sindaci anti-migranti, sceriffi e decisionisti che
riduce a simulacro iscritti, circoli e dirigenti.
«Il Pd a Venezia ha raccolto quel che ha seminato» sintetizza Tommaso Cacciari, attivista
del laboratorio Morion e del Comitato No Grandi Navi. Tant’è che in terraferma, nel centro
storico e nelle isole nessuno punta l’indice su Casson e tutti preferiscono aprire la caccia
ai «battitori liberi» targati Pd. Sussurri e grida su vendette personalizzate, indicazioni
eretiche alla guardia imperiale dell’ex Pci, addirittura voti di scambio nel ballottaggio di
project, appalti e cantieri.
Intanto, a Venezia si riparte dalle municipalità (5 di centrosinistra, solo Favaro con
Brugnaro). E dalle 883 preferenze di Nicola Pellicani, sconfitto alle Primarie da Casson e
poi capolista della sua lista civica.
29
del 16/06/15, pag. 2
Augusta e Gela pentastellate
Sicilia. I 5 Stelle conquistano anche il comune guidato per due mandati
dall'attuale governatore. A Enna sconfitto il Barone rosso Crisafulli
Adriana Pollice
A Gela Domenico Messinese del Movimento 5 Stelle ha battuto con il 65% il sindaco
uscente Angelo Fasulo. L’esponente dem correva come candidato renziano con il
sostegno del governatore Rosario Crocetta (due volte sindaco di Gela). La vittoria grillina è
stata conquistata con molta spregiudicatezza. Alla vigilia del ballottaggio il terzo
classificato del primo turno, Enzo Greco, esponente di Ncd, ha organizzato un comizio in
piazza Umberto (con tanto di foto dei due insieme) per sancire il sostegno al candidato
grillino contro il Pd, nonostante l’alleanza di ferro in parlamento e i guai piovuti sul partito
di Angelino Alfano con l’inchiesta Mafia capitale. Nessun imbarazzo tra i pentastellati, che
preferiscono parlare di endorsement e non di accordo.
Le strane alleanze hanno funzionato anche a Enna. Lo ha spiegato il coordinatore
regionale di Forza Italia, Vincenzo Gibiino: «A Gela il popolo di Fi ha l’interesse a
sostenere al ballottaggio il candidato grillino Domenico Messinese. A Enna invece i grillini
hanno l’interesse a rompere il sistema Crisafulli votando per il candidato moderato
Maurizio Dipietro». Una strategia che ha affondato la macchina da guerra di Vladimiro
Crisafulli, noto come «il Barone rosso», battuto da Dipietro che ha totalizzato il 51,8%. Una
vittoria a sorpresa, ottenuta con il sostegno del centrodestra, per l’ex esponente dem
espulso dal partito dopo una battaglia interna proprio contro Crisafulli. Il Barone rosso era
finito nella lista degli impresentabili alle politiche 2013 per le sue grane giudiziarie (un
processo per abuso d’ufficio e un’indagine per mafia), il nuovo corso renziano aveva
provato a metterlo da parte ma nessun nome nuovo ha interrotto la disfida tra i due.
Con i pentastellati che vincono anche ad Augusta, Crocetta fa autocritica: «Collaborerò
lealmente con tutti i sindaci a prescindere dalla loro collocazione politica. Sono pronto ad
avviare una politica di investimenti nelle aree industriali di crisi».
L’exploit dei 5 Stelle è, secondo Crocetta, l’espressione del malcontento dei lavoratori e
dei disoccupati ma è anche «un campanello d’allarme per il governo nazionale. Occorre
che il Pd faccia una profonda riflessione».
del 16/06/15, pag. 3
Lamezia a destra. In consiglio entra Casa
Pound
Calabria. Paolo Mascaro, penalista ed ex presidente della Vigor, è il
nuovo sindaco. E non vuole parlare troppo di mafia
Silvio Messinetti
La restaurazione a Lamezia ha il volto soddisfatto di Mimmo Gianturco. Lui un record lo ha
già in tasca. E’ il primo consigliere comunale di Casa Pound in una città medio-grande. Lo
scivolamento a destra di questa grossa cittadina adagiata su una piana, stritolata negli
anni da estorsioni e ‘ndrine, è palpabile. La restaurazione a Lamezia è la bandiera tricolore
30
sventolata con ardore sul palco domenica notte da Paolo Mascaro, il neosindaco,
penalista ed ex presidente della Vigor, squadra di calcio di serie C coinvolta nell’inchiesta
sul calcio-scommesse. La restaurazione a Lamezia è nelle parole di Mascaro che così dà
il benvenuto a Trame.5, il festival di cultura antimafia che si apre il 17 giugno nei palazzi
storici della città: «Parlare cinque giorni di mafia è troppo. Basterebbe mezza giornata».
Insomma, da Lamezia la destra inizia la sua revanche contro una sinistra immobile e
pavida. A queste latitudini in questi dieci anni si era sperimentato un nuovo modo di far
politica, una grammatica antindrangheta declinata in cultura e attivismo sociale che aveva
fatto di Lamezia la capitale della lotta alla criminalità, con il sindaco uscente Gianni
Speranza, Sel. Al quale il Pd ha provato in tutti i modi a fare le scarpe. Il risultato è sotto gli
occhi di tutti: venti punti di distacco tra la destra e la coalizione di centrosinistra, guidata
dall’indipendente del Pd Tommaso Sonni.
Ora la destra ha una prateria davanti a sé. Il Pd è dilaniato, Sel conquista un solo seggio,
Rifondazione non ha neanche partecipato alle elezioni. E così Gianturco può fare il
gradasso martellando contro il suo chiodo fisso: i rom. La giunta uscente aveva messo in
agenda un insediamento abitativo per 25 famiglie: 20 villette a schiera in muratura, 8
villette prefabbricate e 150 rom del vecchio campo di Scordovillo finalmente con un tetto
sopra la testa. Casa Pound è insorta e ha gridato allo scandalo: «Una rapina contro gli
italiani». Come se i rom non fossero cittadini italiani e lametini a tutti gli effetti. Ma la
propaganda ha pagato eccome: 7% alle elezioni e un posto in consiglio comunale. E il
neoconsigliere di Cp chiede che le case siano ora date agli «italiani».
Speranza intanto cede il testimone e si commiata: «Sono stati anni difficili ma Lamezia è
stata percepita come un buon esempio di Calabria e di sud che provava a cambiare e a
riscattarsi». Le elezioni sono andate male anche a Gioia Tauro, per un Pd che da quando
ha vinto a mani basse le regionali, ha perso completamente la bussola. Il sindaco uscente,
Aldo Alessio, è sprofondato 15 punti sotto il suo avversario di Fi, Carlo Iedà.
del 16/06/15, pag. 3
A Quarto vince la 5 Stelle Capuozzo
Campania. Prima volta degli M5S in un comune della regione
Adriana Pollice
Quarto è il primo comune campano conquistato dai 5 Stelle: 40mila abitanti alle porte di
Napoli, è stato sciolto a ripetizione per infiltrazioni camorristiche, l’ultima volta nel 2013.
Rosa Capuozzo, avvocato quarantenne, con quasi 10mila voti (70,79%) è il primo sindaco
donna del centro flegreo. Ha battuto l’ex primo cittadino del centrodestra, Gabriele Di
Criscio sostenuto da due civiche (Forza Gabriele e Insieme per Quarto). Alla vigilia del
voto Marcello Taglialatela di Fratelli d’Italia aveva dichiarato: «Da parlamentare e da
componente della commissione Antimafia, se fossi cittadino di Quarto non avrei dubbi nel
votare Capuozzo». Una presa di distanza che è suonata come un’accusa. I 5S si sono
scontrati solo con civiche e Fdi: 7 liste e 3 aspiranti sindaci sono stati esclusi dal Consiglio
di Stato, su ricorso dei grillini, per irregolarità nella presentazione delle candidature.
In passato Quarto e Marano avevano un’amministrazione unica e il clan dominante era
quello dei Nuvoletta, poi c’è stata la scissione amministrativa e il centro è finito sotto
l’influenza dei Polverino della vicina Pianura. La commissione d’accesso ha sancito i
legami tra camorra e politica locale, la commissione Antimafia ha messo sotto la lente le
autorizzazioni edilizie e gli allacci abusivi. Nelle mani dei Polverino c’era persino la
31
squadra di calcio locale: oggi è affidata alle associazioni anticamorra, che subiscono i raid
vandalici comandati dal clan.
Persino gli ultimi commissari prefettizi hanno agito oltre i loro compiti affidando il servizio
idrico ai privati: la Acquedotti Scpa controllata da Ottogas Srl dell’imprenditore Luca Rivelli,
amico del chiacchierato parlamentare forzista Luigi Cesaro. «Quarto sarà un laboratorio di
democrazia partecipata — spiega la neosindaco -, cambieremo la macchina comunale,
impediremo che l’acqua finisca ai privati. Abbiamo partecipato come movimento al ricorso
contro l’affidamento alla Acquedotti Scpa. Vigileremo per impedire sversamenti e roghi di
rifiuti. Nessuna paura, i cittadini non sono più disposti a subire».
del 16/06/15, pag. 3
M5S conquista Porto Torres
Festa fino a tarda notte a Porto Torres, uno dei comuni della Sardegna al ballottaggio:
Sean Christian Wheeler, alla guida di una lista di soli militanti di M5S, ha sconfitto Luciano
Mura del Pd, lasciandolo indietro di ben 45 punti. Ribaltato l’esito del primo turno, con
Wheeler arrivato tre punti sotto Mura, che era sostenuto da Pd, Sel, Cd, Partito dei sardi e
una lista civica. Wheeler ha chiuso con il 72,74%, Mura si è fermato a 27,26%. Affluenza
al 61,69%. Wheeler è il secondo sindaco M5S eletto in Sardegna dopo Mario Puddu ad
Assemini. Il centrosinistra, con Stefano Delunas (Pd), conquista invece il comune di
Quartu Sant’Elena, terza città della Sardegna, con il 51,6% dei voti. Sconfitto il sindaco
uscente Mauro Contini (Fi). A Nuoro Andrea Soddu (civica di centrosinistra) conquista il
68,3% dei voti e sconfigge l’uscente Alessandro Bianchi, del Pd (31,6%). A Sestu
(Cagliari) vince Maria Paola Secci (Fi-Riformatori) contro Annetta Crisponi (Pd,
centrosinistra).
del 16/06/15, pag. 3
Arezzo e non solo, i “toscani” rottamati
Elezioni comunali. Frana il partito renziano: Arezzo con Alessandro
Ghinelli e Pietrasanta con Massimo Mallegni tornano al centro-destra,
che qui si presentava compatto. Mentre a Viareggio trionfa il candidato
non ufficiale del Pd, Giorgio Del Ghingaro, che quasi doppia il collega di
partito Luca Poletti.
Riccardo Chiari
FIRENZE
Ballottaggi choc per il Pd in Toscana: Arezzo e Pietrasanta tornano al centro-destra –
compatto – mentre a Viareggio vince un candidato con la tessera del Pd che ha corso
contro il suo partito. “E’ il risultato del ballottaggio ad Arezzo quello che mi ha sorpreso di
più – tira le somme Enrico Rossi — perchè pensavo, visti i risultati anche delle elezioni
regionali e del grande exploit del Pd alle europee 2014, che ci fosse un risultato
assicurato. Invece è interessante capire come lì, al secondo turno, si siano rovesciate le
premesse del primo”.
Per il Pd toscano e il suo renzianissimo segretario Dario Parrini si tratta di una sconfitta
bruciante. Parrini è comunque in buona compagnia, visto che è aretina la ministra Maria
32
Elena Boschi, passata a più riprese in città per sostenere il suo candidato trentenne
Massimo Bracciali, fra gli organizzatori delle varie edizioni delle kermesse alla Stazione
Leopolda. Il giovane ex Margherita partiva da un rassicurante 44,1%. Ma alla prova dei
fatti, nonostante un’affluenza in calo (48,4%) ma non particolarmente bassa rispetto al
primo turno (57,4%), Bracciali è stato superato sul filo di lana dall’avversario Alessandro
Ghinelli, ingegnere e docente dell’ateneo fiorentino, capace di conquistare il 50,8% delle
preferenze.
Per Arezzo l’amministrazione di centro-destra non è una novità. Ghinelli era stato
assessore con l’ex sindaco Lucherini, eletto all’epoca per due mandati. Solo un nipote
d’arte come Giuseppe Fanfani aveva invertito il trend, salvo poi lasciare la carica dopo
essere stato eletto al Csm. Discorso analogo per Pietrasanta, dove a sostenere Massimo
Mallegni, ex sindaco con trascorsi guai giudiziari e ancora oggi con una condanna in primo
grado per abuso d’ufficio, era arrivato lo stesso Silvio Berlusconi, che poi lo ha chiamato
per complimentarsi. Alla chiusura delle urne (affluenza quasi al 60%), Mallegni ha
superato con il 54,5% l’avversario Rossano Forassiepi del Pd.
Infine Viareggio, il caso forse più interessante. Qui, dopo due commissariamenti in pochi
anni e con un’amministrazione in conclamato dissesto finanziario, il “forestiero” Giorgio Del
Ghingaro ha battuto il candidato ufficiale del partito Luca Poletti, imposto senza primarie
da Parrini e dal commissario versiliese del Pd, Giuseppe Dati. Con un’affluenza ferma a
un misero al 30,8%, Del Ghingaro che era stato sindaco di Capannori per dieci anni ha
rovesciato il tavolo, imponendosi con un eloquente 60,3%.
A sostenerlo fra gli altri la senatrice dem Manuela Granaiola, che osserva: “Ha già
dimostrato di saper amministrare, ed è una persona autorevole e competente. Credo sia
l’uomo giusto per risollevare Viareggio”. Anche Del Ghingaro ha avuto qualche problema –
la Corte dei conti lo accusa di danno erariale – ma è diventato famoso in Toscana anche
per aver abbracciato la strategia “rifiuti zero”. Un successo su tutta la linea, tanto che oggi
a Capannori il primo cittadino è il suo vecchio vicesindaco. Nel Pd “ufficiale” intanto ci si
interroga: “Ora apriremo – anticipa Dario Parrini – con i gruppi dirigenti territoriali, una
riflessione minuziosa sulle cause di questa battuta d’arresto”. Che ha portato il Pd
renziano da essere rottamatore ad essere rottamato.
del 16/06/15, pag. 4
La Consulta apre al ricorso sull’Italicum
Leggi Elettorali. Sentenza di chiusura della Corte costituzionale sulle
Europee, ma via libera per le norme che riguardano il parlamento
nazionale. Esplode il rischio del ballottaggio, il «cuore» del nuovo
sistema che ai grillini non dispiace
Andrea Fabozzi
ROMA
Attesa da due mesi, è stata depositata ieri — a ballottaggi conclusi — la sentenza della
Corte costituzionale sulla legge elettorale per le europee. La Corte ha giudicato
inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Venezia, che sospettava
l’incostituzionalità della soglia di sbarramento del 4% dal momento che per le elezioni del
parlamento europeo non esiste un problema di «governabilità». Giudizio assai delicato —
e già la Corte costituzionale tedesca aveva fatto cadere lo sbarramento per le liste
candidate in Germania — perché con ricadute potenziali sulle elezioni dell’anno scorso
33
(quelle del Pd al 40,8%). Giudizio che la Consulta ha risolto recuperando la sua
tradizionale chiusura verso questo genere di questioni: la porta del giudice delle leggi è
sbarrata, chi si sentisse penalizzato dallo soglia — dunque un candidato non eletto, non il
cittadino elettore — si può rivolgere alla giustizia amministrativa. Nel caso delle elezioni
europee, al Tar del Lazio.
La sentenza (emessa da una Corte in formazione rimaneggiata, oltre ai due giudici che il
parlamento tarda a nominare mancava anche Amato) ha l’effetto di complicare i ricorsi
contro leggi elettorali che si ritengono incostituzionali, come ad esempio quelli già avviati
contro molte leggi elettorali regionali. Si torna quindi alla giurisprudenza costituzionale
precedente al gennaio 2014, quando un po’ a sorpresa fu accolta la questione sollevata
contro la legge elettorale nazionale e di conseguenza abbattuto il Porcellum. Ma proprio
quel precedente la Consulta non ha potuto ignorare nella sentenza di ieri, e ha spiegato
allora che una cosa sono le leggi elettorali per il parlamento nazionale, il cui controllo è
rimesso direttamente alla camere (nelle giunte per le elezioni), un’altra cosa sono tutte le
altre leggi elettorali (europee, regionali, comunali) per le quali il cittadino può impugnare i
risultati. Nel secondo caso, dunque, l’eventuale incostituzionalità delle leggi potrà essere
fatta valere solo dopo le elezioni, una volta avviati i ricorsi individuali. Ma nel primo caso
non si può chiudere la strada del ricorso «pseudo-diretto» alla Consulta, aperta per il
Porcellum. Altrimenti — visto che i cittadini non possono rivolgersi all’autorità giudiziaria —
le leggi elettorali per il parlamento nazionale resterebbero, scrive la Corte, una «zona
franca sottratta al sindacato costituzionale». E questo non può essere.
Ecco allora che una sentenza di non ammissibilità come quella di ieri può non essere una
brutta notizia per chi cercherà di portare la nuova legge elettorale nazionale, l’Italicum,
davanti alla Consulta.
Vuol provarci il Coordinamento per la democrazia costituzionale che ieri si è riunito a
Roma, i punti di attacco sono sempre quelli del premio spropositato di maggioranza e dei
capilista bloccati. E sono quasi pronti i ricorsi da presentare in tutti i distretti giudiziari in
nome della violazione del diritto al voto libero e uguale, che è la strada seguita per
abbattere il Porcellum. Bisogna però aspettare che il governo eserciti la delega prevista
nell’Italicum per ridisegnare i collegi plurinominali, deve farlo entro il 21 agosto. «Con la
sentenza della Consulta i ricorsi contro l’Italicum diventeranno più facili», sostiene
l’avvocato Felice Besostri che è stato uno degli ideatori del ricorso contro il Porcellum. Ma
aggiunge «l’interesse di un cittadino è quello di andare a votare con leggi costituzionali,
non fare annullare le elezioni fatte con leggi incostituzionali». L’altra via per cercare di
cancellare l’Italicum è quella dei due referendum — uno per eliminare i capilista bloccati e
pluricandidati, un altro per far cadere il turno di ballottaggio — sui quali sono impegnati
tanto il Coordinamento quanto Civati che ne aveva parlato immediatamente dopo
l’approvazione della legge. Ma, come spiega Domenico Gallo del Coordinamento,
raccogliere le firme necessarie entro il prossimo 30 settembre è pressoché impossibile,
dunque la campagna va rimandata di un anno, immaginando che possa affiancarsi ad altri
referendum (contro il cosiddetto decreto sblocca Italia, o magari la riforma della scuola).
Nel frattempo le elezioni amministrative dimostrano come proprio il ballottaggio — quello
che diventerà «la norma» dell’Italicum secondo il suo ideatore D’Alimonte — rischi di
trasformarsi nel punto debole della nuova legge elettorale. Nei comuni dove si vota per
scegliere uno o l’altro sindaco — mentre nelle elezioni nazionali si sceglie tra due liste e
blocchi di anonimi candidati — la partecipazione tra primo e secondo turno cala
vistosamente. Con punte di meno 30% (a Trani) e affluenze tanto basse da far decidere le
elezioni a meno di un elettore su tre (Giugliano). E dove il M5S va al secondo turno vince
regolarmente. «Abbiamo enormi possibilità di governare il paese accedendo al
ballottaggio», commenta il potenziale candidato premier grillino, De Maio. L’Italicum — che
34
esclude le coalizioni — è tutt’altro che una sciagura per Grillo. I suoi lo hanno contrastato
in parlamento, ma hanno già detto che non raccoglieranno le firme per il referendum
abrogativo.
35
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 16/06/15, pag. 2 (Roma)
Il blitz / Sequestrati i beni della Sarim controllata da Buzzi e dalla 29
giugno. Al sistema criminale tolti in tutto 360 milioni
Mafia capitale d’oro altri 16 milioni sottratti
alla gang
MARIA ELENA VINCENZI
E ORA nel mirino della procura finisce anche il patrimonio immobiliare di Mafia Capitale.
Ieri i finanzieri del nucleo di polizia tributaria hanno messo i sigilli ai beni di Salvatore
Buzzi, ritenuto dagli inquirenti il braccio imprenditoriale di Massimo Carminati.
Sequestrati, su mandato del tribunale di Roma, beni per sedici milioni che comprendono
quote societarie, il capitale sociale e l’intero patrimonio aziendale della Sarim Immobiliare
Srl, una società di Roma che opera nella locazione immobiliare. Dalle indagini coordinate
dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dai pubblici ministeri Giuseppe Cascini,
Paolo Ielo e Luca Tescaroli, è emerso che la società — il cui legale rappresentante è
Emanuela Bugitti, anche lei coinvolta nella prima fase della maxinchiesta dei carabinieri
del Raggruppamento operativo speciale (Ros) — era partecipata dalla stessa Bugitti (6%),
da Buzzi (6%) e da Carlo Maria Guarany (1%). Inoltre, hanno accertato gli investigatori
delle Fiamme Gialle, la Sarim Immobiliare risulta controllata per il 48% dalla Cooperativa
29 giugno e per il 4% dalla cooperativa Formula sociale, entrambe poste sotto sequestro a
dicembre scorso quando scattarono i primi arresti.
Il patrimonio della Sarim è composto da disponibilità finanziarie, partecipazioni societarie
e, soprattutto, da una unità immobiliare di 2.750 metri quadrati a Roma utilizzata dalle
cooperative di Buzzi come casa di accoglienza dedicata a categorie protette (donne,
minori, rifugiati e richiedenti asilo). Due i progetti in piedi e una settantina gli ospiti del
centro, principalmente anziani e ragazze madri. La struttura, comunque, continuerà a
funzionare.
Con i beni sequestrati oggi, il valore complessivo dei beni messi sotto sigillo nelle due fasi
dell’inchiesta — i provvedimenti emessi a dicembre e quelli di inizio giugno — ammonta ad
oltre 360 milioni, di cui 126 milioni riferibili alla “galassia Buzzi”. Intanto oggi l’ex capo della
29 giugno è comparso come parte lesa in un processo che vede imputata una sua ex
amante per tentata estorsione. La donna, ex dipendente della Cooperativa 29 giugno,
aveva minacciato di raccontare della relazione alla moglie di Buzzi dopo che il suo
contratto presso la cooperativa non era stato rinnovato. «Devo pagare l’affitto mi devi dare
i soldi, se non me li dai dico tutto a tua moglie», questo il tono dei messaggi che la donna
inviò al cellulare del ras delle cooperative che decise di denunciare la donna nel settembre
del 2011.
Sul fronte dell’indagine oggi inizierà davanti al tribunale del Riesame l’esame dei
provvedimenti restrittivi scattati una decina di giorni fa. I giudici della Libertà esamineranno
i ricorsi di almeno una decina di indagati tra cui lo stesso Buzzi, l’ex dirigente comunale
Angelo Scozzafava, l’esponente locale di Forza Italia, Giordano Tredicine, il consigliere
comunale Massimo Caprari (esponente di Centro democratico) e l’ex dirigente della
Regione Lazio, Guido Magrini.
36
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 16/06/15, pag. 5
Francia e Italia ai ferri corti
Migranti. Parigi non apre la frontiera e propone campi profughi in Itala e
Grecia
Carlo Lania
ROMA
Lo scontro ormai non potrebbe essere più duro. Da una parte Parigi continua a sbattere
porte in faccia alle richieste italiane di far passare i migranti africani che da giorni
protestano a Ventimiglia e ribadisce l’intenzione di tenere ben chiusa quella porta.
Dall’altra Roma, che risponde all’ostinazione francese minacciando di «fare da sola», con
il premier Matteo Renzi che avverte i cugini che «le posizioni muscolari non aiutano» e il
ministro degli Interni che minaccia: «Se l’Ue non accetta di accogliere i migranti arrivati qui
— dice Alfano -, l’Italia che l’Europa si troverà davanti non sarà più quella solidale che è
stata finora, ma ricambieremo lo stesso atteggiamento».
A palazzo Chigi la questione immigrazione sta diventando sempre più un problema
centrale per il governo, già scosso per lo scarso successo ottenuto nei ballottaggi di
domenica. Perdere la faccia su un’emergenza sulla quale si è investito tantissimo
potrebbe essere pericoloso anche e soprattutto sul fronte interno. Oggi a Lussemburgo si
terrà il vertice dei ministri degli Interni dei 28, preceduto da un mini summit tra il
commissario europeo per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e i ministri di Francia, Italia
e Germania. In vista dall’appuntamento, ieri Renzi ha convocato Alfano a Palazzo Chigi
per mettere a punto la strategia. «Le scene che si sono viste a Ventimiglia rappresentano
un pugno in faccia per tutta l’Europa che vuole chiudere gli occhi», aveva spiegato nel
pomeriggio Alfano al termine di un vertice alla prefettura di Milano con il sindaco Pisapia.
Anche perché la pressione esercitata dai migranti ha solo come primo obiettivo il nostro
Paese ma in realtà, è la tesi del governo, «spingono su tutta l’Europa».
Questa è il nuovo punto di partenza del ragionamento che Alfano terrà oggi ai partner
europei, ai quali ricorderà come nel 2011 fu l’Europa, Francia in testa, a bombardare la
Libia dando origine alla situazione di caos nel Paese nordafricano le cui conseguenze si
pagano fino in fondo oggi. «E’ ingiusto che a sopportare questo peso sia solo l’Italia», ha
ribadito il ministro degli Interni. Quindi, è la conclusione, o si accetta il piano proposto dalla
commissione Juncker, che prevede la distribuzione di 40 mila richiedenti asilo eritrei e
siriani (24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia) mantenendo l’obbligatorietà dei
ricollocamenti, oppure «faremo da soli».
E qui ci sarebbe il famoso piano alternativo di cui Renzi parla da giorni ma che ieri una
portavoce della commissione europea ha detto di non aver mai visto. Di fatto si tratterebbe
di oltrepassare i vincoli imposti dal regolamento di Dublino, per i quali i profughi devono
rimanere nel primo Paese in cui sono arrivati, rilasciando permessi temporanei che
consentirebbero ai richiedenti asilo di spostarsi in Europa. Provvedimento analogo a quello
adottato dal governo Berlusconi con i tunisini. «L’immigrazione, ha spiegato ieri Renzi, è
una «vicenda complessa che si gestisce con la solidità di un Paese come il nostro che non
può consentire alla Francia di avere navi nel Mediterraneo e lasciare i migranti in Italia».
Parole che dall’altra parte delle Alpi non vogliono nemmeno sentire. «Chi sono questi
migranti?», ha chiesto il ministro degli Interni Cazeneuve. «Ci sono molti migranti
economici irregolari che non sono dunque oggetto di persecuzioni. Non possiamo
accoglierli, dobbiamo riaccompagnarli alla frontiera». Cezeneuve ha poi proposto di
37
allestire campo profughi gestiti dall’Onu in Italia e grecia, in modo da poter procedere alla
selezione dei migranti e respingere subito quelli economici.
Il problema, però, non riguarda solo a Francia. A Bruxelles sono molti i paesi ostili al piano
Juncker al punto che in queste ore si starebbe studiando una possibile mediazione
accettabile per tutti. Mantenendo fissa la quota di 40 mila profughi da distribuire, l’idea è
quella di sostituire l’obbligatorietà a prendere richiedenti asilo con la richiesta agli Stati
membri di arrivare a una accordo per un’equa divisione. In questo modo si consentirebbe
ai governi — pressati dalla formazioni di destra — di salvaguardare la sovranità nazionale,
e quindi la faccia di fronte alle rispettive opinioni pubbliche. Una proposta che potrebbe
trovare l’accordo i Paesi baltici, ma anche Spagna, Polonia e Portogallo. Anche se la
decisione finale spetterà poi al consiglio dei capi di Stato e di governo del 26 giugno
prossimo.
Del 16/06/2015, pag. 9
L’Italia pronta a impedire lo sbarco degli
immigrati salvati da navi straniere
L’ultimatum di Renzi mira però a sbloccare la trattativa con l’Ue sulle
quote
Guido Ruotolo
Carlo Bertini
Il telefono «rosso» è a Palazzo Chigi. Solo il premier può decidere la risposta italiana alla
chiusura dell’Europa. Al Viminale si studiano tutte le opzioni possibili arricchendo così il
dossier che Renzi ha sulla sua scrivania. Arrivando a ipotizzare anche la soluzione tecnica
di concedere ai richiedenti asilo dei permessi viaggio validi tre mesi. E di fronte al rifiuto
dei Paesi europei delle quote di migranti di cui dovrebbero farsi carico, l’Italia potrebbe
decidere di interdire lo sbarco di migranti salvati da navi militari europee nelle acque
internazionali vicino a quelle libiche. Sono misure dure, che mettono in discussione anche
Triton, l’operazione di Frontex, la polizia europea di frontiera, che certo potrebbero
sollevare critiche accese dall’Europa. Ma sia a Roma che nelle capitali europee si spera
che un compromesso alla fine si riesca a trovare. «Se non fosse così - spiega
un’autorevole fonte di Palazzo Chigi - il piano B sarebbe un piano organico alternativo,
invece noi crediamo nella proposta Juncker e quello di Renzi è un ultimatum all’Europa
perché si faccia carico del problema e non lasci l’Italia da sola».
Perché Renzi alza i toni
Dunque il governo sta lavorando per portare a casa il piano A. «Il punto decisivo è il
negoziato sulle quote che sta andando avanti con i singoli Paesi europei», spiega una
fonte di governo per inquadrare il perché Renzi alzi così i toni. La drammatizzazione in
questa fase serve per evitare che dal consiglio europeo di fine mese esca un nulla di fatto:
esito che tutti paventano, perché il costo politico di un fallimento sarebbe molto alto per
leader politici come Merkel, Juncker, Hollande e Renzi. Significherebbe che l’Europa ha
fallito, con tutto quel che ne consegue. A sentire gli sherpa che seguono le trattative,
qualche margine di successo c’è ancora: «Si punta ad arrivare a quote concordate di
assunzione di richiedenti asilo sulla base di offerte volontarie dei Paesi e non di
imposizione della commissione». In sostanza ci sarebbero ancora chances che alla fine
passi il progetto di 40 mila migranti da ricollocare.
Il messaggio all’Ue
38
«L’Europa deve sapere che l’Italia non sarà inerme rispetto al fenomeno dei flussi
migratori che attraversano il nostro Paese. Noi - sostiene il viceministro dell’Interno, Filippo
Bubbico - rispetteremo sempre la dignità delle persone e il diritto alla protezione
umanitaria. Ma nello stesso tempo, il diritto dei cittadini italiani a sentirsi sicuri e non
assediati». Tra le righe filtra la preoccupazione che se l’Europa dovesse imporre antistorici
Muri di Berlino alle frontiere italiane, il nostro Paese diventerebbe una pentola a pressione
e il problema della gestione dei flussi migratori si trasformerebbe in una questione di
ordine pubblico. Le avvisaglie dei giorni scorsi alle stazioni ferroviarie di Milano e Roma, e
quello che sta accadendo alla frontiera di Ventimiglia sono preoccupanti.
Rimpatri veloci
Roma si aspetta dall’Europa una politica comune nella gestione dei rimpatri veloci. «La
Francia e la Germania - denuncia Bubbico - vorrebbero che l’Italia si trasformasse in un
immenso Cie, Centro di identificazione ed espulsione. Non è nelle nostre corde erigere
campi profughi recintati da fili spinati. È l’Europa unita che deve farsi carico dei rimpatri
veloci e dell’accoglienza e dell’ospitalità dei richiedenti asilo».
È un paradosso che i governi europei che non vogliono farsi carico delle quote di
richiedenti asilo poi rassicurino le rispettive opinioni pubbliche sull’impegno a evitare che si
ripetano naufragi di migranti salvandoli, mandando nel Canale di Sicilia le proprie navi
militari. E se non si troverà un accordo, quei migranti salvati invece di farli sbarcare nei
nostri porti, dovranno essere sbarcati dalle navi militari nei paesi di appartenenza.
del 16/06/15, pag. 19
Piaghe,freddo e il mare per lavarsi così
resiste il popolo degli scogli
DAL NOSTRO INVIATO
MAURIZIO CROSETTI
VENTIMIGLIA. Tra le pietre sotto il sedere e un orizzonte di fragile libertà c’è un gendarme
ragazzino, i capelli a spazzola, lo sguardo fiero e le dita nel giubbotto antiproiettile come
se fosse un gilet. È lui la risposta muscolare della Francia all’Italia o forse dell’Europa
intera a questi poveri cristi che si lavano le ascelle con l’acqua di mare, e poi ci fanno la
pipì dentro. Una candida vela taglia l’orizzonte prima che scenda la notte, la terza
addormentati sui sassi anche se non è mica vero, neppure una bestia può dormire così.
Il popolo degli scogli beve l’acqua portata dalla Croce Rossa, mangia mele e banane
regalate da due ragazze francesi che ne avevano il bagagliaio pieno e guarda il rettilineo
dove l’Italia finisce e niente comincia: la porta chiusa sulla Francia e sul futuro. Un drappo
sbrindellato dell’Unione e un tricolore italico stinto sono i vessilli a presidio del fortino. 150,
ne sono rimasti. Nelle ore del sole giaguaro si sono messi gli scatoloni in testa per
ripararsi, e qualcuno ha cercato un filo d’ombra sotto le palme spelacchiate,
sonnecchiando al rumore delle onde e annusando gli scappamenti di quelli che possono
andare e venire da qui a lì, i liberi, i normali. Ma quando il buio infine è arrivato, quasi tutti
sono tornati a stendersi sopra le pietre aguzze che segnano e rigano carni e pensieri, e
che sono ormai l’acuminato simbolo della resistenza, dolore fisico, tormento che rende più
vivo l’orgoglio. «Vogliamo una risposta politica, e finché non l’avremo non ci sposteremo di
un centimetro ». Hussìn Hissa Jamai, somalo di Mogadiscio, 22 anni. «Ho attraversato a
piedi Sudan, Etiopia e Libia, poi ho pagato 2mila dollari per il barcone e non torno certo
indietro anche se mi fa male la testa. Ho preso troppo sole, fratello». Si leva le scarpe,
39
mostra le piaghe. «Voglio raggiungere Chambery, la prima notte ho dormito sull’aiuola ma
i poliziotti ci hanno mandato via. Rrimango sui sassi e in stazione non entro».
In stazione ci sono anche le docce, l’ambulatorio della Croce Rossa e le donne con i
bambini. Però è qui che si combatte, mostrando le ferite dappertutto — mani, gambe,
schiene — ma non dentro gli occhi, dove i ragazzi custodiscono la fierezza dei combattenti
e degli sconfitti. Il luogo ha un nome gentile, da vacanza in spiaggia. Si chiama Ponte San
Ludovico ed è l’ultimo lembo di Ventimiglia, dunque di Italia. La luce picchia sull’argento
delle onde e obbliga a chiudere gli occhi. Il popolo degli scogli ha sonno, fame, sete. Vuole
lavarsi, deve andare in bagno ma il bagno non c’è, solo qualche cesso chimico sul
piazzale dove c’è pure un baretto con veranda, e i pensionati francesi sorseggiano il loro
pernod . L’insegna del ristorante Balzi Rossi ammicca promesse di grigliate e calamari,
mentre i ragazzi dei sassi sbucciano arance e guardano il mare: quasi tutti voltati verso
l’orizzonte, i più stanchi riposano sul muretto, qualcuno si fa la barba seduto per terra,
guardandosi e forse non riconoscendosi in una scheggia di specchio. Desolazione e luce,
sporcizia e cascate di bouganville. Qui davanti, i poliziotti hanno messo transenne e
delimitato l’area con il nastro , i migranti stanno dietro come in un recinto e si lasciano
guardare, fotografare, poi si avvicinano per dire le loro storie.
Se questo è un uomo si chiama Ahmed, ha 22 anni e una magrezza da brividi. Arriva dal
Sudan. «Ho lasciato mio padre e mia madre, tutta la vita di prima e sono qui perché voglio
diventare medico e aiutare gli altri. Sapevo che l’Europa è terra aperta, senza più frontiere,
allora perché questo?», e indica col dito le camionette della Gendamerie, il blocco che non
avrebbe alcuna ragione di esistere per la legge internazionale e invece c’è, ed è per
questa gente il nuovo muro di Berlino, la muraglia cinese, il filo spinato di Auschwitz,
insomma il segno che di lì non si passa.
Il popolo degli scogli si prepara a un’altra notte dentro il vento che si alza forte, e alla
pioggia che sta arrivando. Ecco di nuovo le coperte termiche che hanno fatto il giro del
mondo dentro foto surreali e tremende, uomini come pezzi di carne nella carta d’alluminio,
però meno male che c’è questo materiale prezioso per difendersi da freddo e spruzzi che
sono come aghi dentro la pelle.
Invece le donne e i bambini sono alla stazione ferroviaria. Il magazzino della Cri è pieno di
roba da mangiare. «Questo ci conforta: la gente non ne fa una questione politica ma solo
umana, niente destra o sinistra, qui si aiuta e basta». Fiammetta Cogliolo è la portavoce
della Croce Rossa e lavora con i suoi colleghi di Mentone, una macchina oliata. «È
bellissimo vedere le mamme italiane che portano giocattoli e insieme i loro figli, perché
tengano compagnia ai piccoli migranti. Ora ce ne sono 9, il più piccino ha 6 mesi. Una
turista americana voleva lasciarci soldi ma non possiamo accettarli, noi possiamo solo
ricevere beni materiali». Biscotti e banane, caffè caldo e carta igienica, ai vestiti pensa la
Caritas. All’ora della merenda arrivano da Ventimiglia fette di solidarietà lunghe 15
centimetri e larghe 10, si tratta della tiepida focaccia ligure che queste persone non hanno
mai visto. La annusano circospetti, poi l’assaggiano a piccoli morsi, è salata e morbida,
non ne resterà neppure una briciola.
Tocca a Yousra Jamil, ragazza marocchina di 19 anni («Da 10 vivo in Italia e vorrei
lavorare, a scuola non vado più»), spiegare in arabo agli uomini delle pietre che non è
disdicevole cercare soccorso in stazione, e farsi dare un’occhiata dal medico. «Anche se
hanno paura che così non potranno più andare in Francia: gli ho spiegato che non è vero,
e di avere pazienza». Ieri Yousra ne ha convinti 54. Ma quando infine hanno lasciato il
giaciglio di pietre, gli altri li hanno guardati con disprezzo.
40
del 16/06/15, pag. 21
Marc Augé. “Le nostre paure derivano dalle troppe lacerazioni del
Vecchio continente. E se la politica non sarà in grado di affrontare
l’emergenza, bisognerà rivolgersi all’Onu”
“Solo un Piano Marshall per l’immigrazione
potrà salvare l’Europa”
FABIO GAMBARO
PARIGI
«L’EMERGENZA immigrazione rivela tutte le nostre debolezze e paure». Per l’antropologo
Marc Augé, quello che accade in questi giorni tra il Mediterraneo e l’Europa è il sintomo di
una società in difficoltà, senza più progetti e convinzioni forti. «Le tensioni provocate
dall’arrivo dei migranti rivelano soprattutto il malessere acuto dei nostri paesi», spiega lo
studioso francese autore di diversi saggi, tra cui Le nuove paure (Bollati Boringhieri) e
L’antropologo e il mondo globale
(Raffaello Cortina). «Di conseguenza, la politica interna interferisce con un problema
d’ordine planetario che bisognerebbe affrontare globalmente con la cooperazione di tutti.
Naturalmente sarebbe meglio risolvere la questione alla fonte, nei paesi da cui partono i
migranti, solo che non ne siamo capaci. Anche perché per troppo tempo abbiamo lasciato
deteriorare una situazione le cui conseguenze esplodono oggi, producendo problemi che
non possono essere affrontati con misure improvvisate ».
Cosa bisognerebbe fare?
«Ci vorrebbe una politica europea forte e coraggiosa, ma l’assenza e l’immobilità
dell’Europa è evidente. Da qualche tempo, le divisioni e le paure lacerano il continente,
tanto che alcuni vorrebbero perfino reintrodurre le frontiere interne. Invece, se si
rinunciasse alle reazioni emotive, si potrebbe cercare di valutare i problemi razionalmente
e ipotizzare innanzitutto alcune soluzioni immediate d’ordine umanitario per garantire
l’accoglienza e la protezione dei migranti. Queste soluzioni a breve avrebbero però senso
solo se contemporaneamente si cercassero anche soluzioni di lungo periodo. Ad esempio
immaginando una grande iniziativa collettiva, una sorta di piano Marshall
dell’immigrazione. A un problema d’ordine planetario occorre rispondere con una politica
globale di cui i paesi più ricchi d’Europa dovrebbero farsi promotori».
Per far questo ci vorrebbe un’Europa più sicura di sé...
«Invece l’Europa si scopre debole, divisa e incerta di fronte a un problema che in termini
numerici non è certo insormontabile, se solo ci fosse la volontà politica. Ma un’Europa
senza solidarietà è un’Europa che non ha più senso. Certo, tutto ciò ha un costo, che deve
essere stimato. L’Europa unita è ancora essere sufficientemente forte per provarci. Se
però non è in grado, allora accetti la propria sconfitta e lasci intervenire l’Onu».
Oggi compassione e solidarietà sono spesso considerate un sintomo di ingenuità e
debolezza...
«Sì, ed è disdicevole. Per paesi che si richiamano ai diritti dell’uomo, la solidarietà
dovrebbe essere normale, senza dimenticare che è anche vantaggiosa, visto che una
parte non indifferente del nostro Pil è prodotto dagli immigrati».
Perché i migranti suscitano ancora tanta paura nell’opinione pubblica?
«Prima di tutto perché sono l’esempio vivente dello sradicamento. Hanno lasciato il loro
luogo d’origine e ciò, per noi che viviamo nel culto delle radici, è una sorta di sacrilegio.
Come tutti i nomadi, ci costringono a rimettere in discussione l’idea che un uomo sia
41
legato per sempre alle proprie radici, ricordandoci che un giorno anche noi potremmo
trovarci sradicati. Questa paura dello sradicamento è particolarmente sentita nel mondo
globalizzato di oggi. Da qui le reazione identitarie di coloro che s’identificano
ossessivamente a un luogo, tanto da volerlo preservare a tutti i costi dall’arrivo degli altri».
I migranti sono l’immagine di una vulnerabilità che un giorno potrebbe essere la nostra?
«Certamente. E la presenza pubblica della loro miseria ci terrorizza, perché la crisi la
rende una possibilità concreta anche per noi. Nella loro immagine si rispecchiano le nostre
paure, rivelando tutto il paradosso di una mondializzazione che lascia circolare le merci, il
denaro e le informazione, ma non le persone».
Cosa pensa delle eventuali missioni militari contro i trafficanti?
«Le reti di trafficanti devono essere combattute vigorosamente, ma la risposta non può
essere solo militare. Occorre creare condizioni per viaggi più sicuri, mettendo a
disposizione delle navi e magari organizzando dall’altra parte del Mediterraneo
l’accoglienza dei migranti e la raccolta delle domande d’asilo politico. Occorre trovare
soluzioni nuove all’altezza della fase di transizione in cui ci troviamo, tra la fine del vecchio
mondo e la nascita di un mondo nuovo, quello dell’umanità planetaria. Di fronte a questa
vasta e dolorosa transizione, gli individui si sentono soli, senza strumenti e senza
protezione. Cercano quindi un capro espiatorio cui attribuire le colpe di tali situazione,
aiutati da demagoghi, populisti e xenofobi di ogni tipo che provano a sfruttano le loro
paure. Di fronte a questa situazione, i politici dovrebbe assumersi le loro responsabilità,
invece di correre dietro l’opinione pubblica».
del 16/06/15, pag. 5
The Guardian
“Trattative segrete con l’Eritrea”
Luca Fazio
MILANO
Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il presunto accordo segreto tra alcuni stati
europei e l’Eritrea rivelato ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Di sicuro, se
confermato, sarebbe un piano concordato con uno stato che i funzionari delle Nazioni
Unite e diverse organizzazioni per i diritti umani chiamano “la Corea del Nord dell’Africa”,
tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repressivo e sanguinario
come quello del presidente Isaias Afwerki. Secondo il quotidiano inglese, che spesso
rivela notizie scomode per i governi europei che stanno annaspando di fronte alla
cosiddetta “emergenza” immigrazione — come quando ha reso pubblico un documento in
cui si parlava di operazioni di terra in Libia per distruggere le barche degli scafisti — alcuni
paesi avrebbero avviato delle trattative segrete per convincere il regime eritreo a rinforzare
i controlli alle frontiere. L’obiettivo prefigura un disastro umanitario: blindare i confini per
impedire con la forza la fuga dei cittadini eritrei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un
premio: in cambio arriverebbero soldi oppure un ammorbidimento delle sanzioni.
Per questo motivo è già finito nel mirino il segretario di stato norvegese Joran Kellmyr che
si sarebbe recato in Eritrea per concordare l’ipotesi di poter rispedire indietro i profughi
eritrei, facendo carta straccia del diritto di asilo. La rivelazione per ora avrebbe coinvolto
anche altri due governi europei: quello inglese (il ministero degli Interni di sua Maestà non
ha voluto commentare) e quello presieduto dalla coppia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto
tace). Secondo l’articolo pubblicato ieri, infatti, anche funzionari italiani e britannici
avrebbero viaggiato fino ad Asmara per testare la disponibilità del regime eritreo a
42
collaborare per braccare i migranti sui confini. Una rivelazione piuttosto verosimile visto
che nel 2014 il 22% delle persone arrivate in Italia via mare proveniva proprio dall’Eritrea.
Gli eritrei, dopo i siriani, sono i migranti più numerosi che cercano fortuna sfidando la
morte sulle rive del Mediterraneo per entrare in Europa (circa duecento al giorno lasciano
l’Eritrea). Proprio la settimana scorsa alle Nazioni Unite è stato pubblicato un rapporto
molto esplicito sulla “cultura del terrore” che domina in Eritrea, si parla di arresti sommari,
stupri e torture sistematici, un servizio militare che viene equiparato alla schiavitù,
persecuzioni politiche ed esecuzioni sommarie. Nonostante questa situazione, Norvegia e
Inghilterra nel corso del 2015 hanno già rifiutato molte domande di asilo politico di cittadini
eritrei sostenendo che si trattava di migranti per motivi economici (il tasso di rifiuto è
passato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evidente — ha
dichiarato un funzionario dell’Onu – che in Europa c’è una volontà politica di risolvere la
crisi dei migranti chiedendo la chiusura dei confini dell’Eritrea ed è una tattica molto
pericolosa”. C’è addirittura chi teme che il regime possa sparare ai migranti in fuga.
Secondo un funzionario inglese del ministero degli Interni non ci sarebbero piani immediati
per cambiare politica nei confronti dell’Eritrea. E, comunque, “noi prenderemo in
considerazione con attenzione i risultati del rapporto delle Nazioni Unite”. Speriamo che
Matteo Renzi e Angelino Alfano, nel caso, facciano altrettanto.
del 16/06/15, pag. 7
Il confine “umano” dei Balcani
Grecia. Dalla stazione di Salonicco verso Serbia e Ungheria. E la polizia
è diventata gentile
Pavlos Nerantzis
SALONICCO
Alle 9.30 del mattino nella piccola piazza di fronte alla stazione della ferrovia sono già
radunati decine di migranti. Sono soprattutto siriani, altri vengono dall’Afghanistan e da
paesi subsahariani. Arrivano famiglie intere con bambini e bagagli. Sembrano turisti, ma
sono profughi scappati da zone di guerra.
Fino a un anno fa Salonicco era fuori dagli itinerari che seguono i migranti nel viaggio da
est verso l’Occidente. Ma, a causa dei severi controlli, con l’uso di telecamere, nei porti di
Patrasso e Igoumenitsa, le tappe dei migranti in Grecia sono cambiate e oggi gran parte
dei flussi migratori passano da qui e, attraverso il confine settentrionale, si dirigono verso
la Serbia e l’Ungheria.
Un centro di accoglienza, che offre ospitalità soprattutto a iracheni e afghani e tre mesi fa
ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi, ora è autogestito dall’Iniziativa antirazzista.
Molti profughi, a causa delle temperature alte, trascorrono la notte sdraiati sulle panchine
delle piazze e dei parchi vicini alla stazione centrale, altri invece sono ospitati negli
alberghi intorno alla via Egnatia, la strada che univa l’antica Roma con Costantinopoli e
oggi attraversa l’intera città.
Improvvisamente nella piazza arrivano otto motociclisti armati fino al collo. Appartengono
alla famigerata squadra Delta della polizia greca, considerata un covo di fascisti e spesso
accusata di aver aggredito e picchiato manifestanti. Questa volta sono gentili. Chiedono i
documenti ai migranti, che stranamente non cercano di scappare. Si tratta di un normale
controllo. Tre profughi, provenienti dalla Somalia, non possiedono documenti e vengono
fermati, gli altri si preparano a prendere la corriera dalla stazione centrale oppure a
43
camminare per arrivare fino a Polykastro, una cittadina a una sessantina di chilometri da
Salonicco e appena venti dal confine.
Fino a un anno fa se un extra-comunitario voleva sopravvivere in Grecia, soprattutto ad
Atene, doveva passare inosservato, o meglio essere invisibile agli occhi della polizia e
degli squadroni fascisti. Invece adesso tutto avviene alla luce del sole, senza paura.
Sembra quasi che l’epoca in cui gruppi fascisti attaccavano i migranti sia finita. Nei primi
sei mesi del 2012 erano stati registrati oltre 500 attacchi razzisti – il numero ovviamente è
maggiore, visto che le vittime raramente sporgono denuncia alle autorità per paura di
essere arrestate per mancanza di documenti — mentre nel primo semestre del 2015 la
polizia ha accertato appena 5 casi di violenza contro migranti. Nel 2014 ci sono state 65
denunce, la metà rispetto all’ anno precedente, e 35 di queste si sono concluse con un
processo.
I dati del ministero della Protezione del cittadino, a cui appartiene la polizia greca, sono
confermati da varie organizzazioni non governative, che fanno notare lo stretto rapporto
tra l’organizzazione neonazista Alba dorata e le azioni razziste. Dopo l’ assassinio del
giovane rapper Pavlos Fyssas, l’arresto dei leader di Alba dorata e l’accusa da parte della
giustizia greca di essere un’organizzazione criminale, infatti, le violenze razziste contro i
migranti sono calate vertiginosamente (mentre sono cresciute le violenze contro gli
omosessuali).
Diversa rispetto all’ultima volta che abbiamo visitato la zona, appena un mese fa, è la
situazione al confine, a pochi centinaia di metri dalla stazione di dogana Eidomeni. Gli
arrivi si sono moltiplicati a causa del miglioramento delle condizioni climatiche, ma
nonostante la notte non faccia più freddo i problemi sono aumentati: i bagni non sono
sufficienti per le centinaia che arrivano ogni giorno, aspettando la notte per proseguire in
territorio slavomacedone di solito con l’aiuto di un trafficante, mentre un autogrill mobile
che vende panini e bottiglie d’acqua sta in mezzo ai campi a una cinquantina di metri dalla
linea del confine. Dietro l’angolo, quasi nascosta tra i cespugli e gli alberi, sosta una jeep
della polizia.
Poco tempo fa pure quest’immagine sarebbe stata impensabile. «Siamo la polizia più
umana in Europa», ci dice sorridendo la poliziotta che sta a guardare i migranti che
attraversano il confine. In realtà tutti quelli con i quali abbiamo parlato sono in possesso di
un documento di viaggio (soprattutto i siriani) o della carta rosa (dei richiedenti asilo)
oppure ancora di un foglio di espulsione. Tutti se ne vanno dalla Grecia perché non
vogliono rimanere in un paese in crisi.
A Eidomeni incontriamo anche i Medici senza frontiere, che operano sul posto già da due
mesi con un dottore di origine palestinese. Un gruppo di medici e di infermieri con lo
stemma di Msf visita chi ne ha bisogno. Da una casa abbandonata oltre il confine, che
secondo le testimonianze viene affittata per centinaia di euro al giorno, giungono decine di
migranti, gente di ogni età. Un anziano di origine araba ci affida un ragazzino che ha non
più di otto anni, probabilmente suo nipote, facendoci segno di portarlo dal dottore perché
sembra malato.
Al confine incontriamo anche gente che avevamo visto un mese fa. Ahmad ha tentato tre
volte di arrivare fino in Serbia, ma è stato sfortunato. In territorio slavomacedone è stato
rapito da una banda e altre due volte malmenato dai poliziotti, che l’hanno respinto. Ha
una mano ancora bendata per via delle bastonate ricevute. Autan, di origine afgana, che
avevamo incontrato nel marzo scorso, dice invece di aver deciso di rimanere in Grecia,
proprio al confine, per aiutare chi tenta di andare oltre.
Nega sorridendo di essere un trafficante, ma sa tutto: il viaggio dalla Grecia in Serbia, un
percorso che di solito dura dieci giorni in mezzo a mille difficoltà e pericoli provenienti
44
innanzitutto da bande armate e poliziotti della Macedonia ex jugoslava, che maltrattano e
respingono in territorio ellenico chi cade nelle proprie mani, costa 500 euro.
Intanto Atene, che confida nell’attivazione del meccanismo di emergenza per la
ridistribuzione intra-Ue dei richiedenti asilo non solo perché mancano i soldi per gestire da
sola i flussi migratori ma anche per una distribuzione equa dei neo-arrivati, si trova alle
strette. Il governo greco deve far i conti con la reazione forte di alcuni paesi membri
dell’Ue alla proposta della Commissione, con l’opposizione dei conservatori e dei socialisti
che lo accusano di aver trasformato il Paese in un «luogo di riposo per i clandestini», con
la mancanza di volontà da parte dei comuni di collaborare ad applicare la nuova politica
migratoria e anche con casi di corruzione all’interno della polizia, della Guardia costiera e
dei servizi segreti.
Secondo un’ inchiesta interna alla polizia, si tratta di vicende che superano il livello «di
quelle riferibili alla criminalità organizzata», tanto da potervi intravedere anche «un
complotto contro il governo». La situazione sarebbe talmente grave che pochi giorni fa
Yannis Roubatis, capo dei servizi segreti greci (Eyp), ha avuto un colloquio con il premier
Alexis Tsipras.
Del 16/06/2015, pag. 15
No della Regione alla richiesta di inviare i
suoi volontari
VENTIMIGLIA (Imperia) La Regione Liguria ha rifiutato di inviare dieci uomini della
Protezione civile al confine italo-francese per dare il cambio ai volontari della Croce
Rossa. È quanto trapelato al termine di un vertice tenutosi ieri sera in municipio a
Ventimiglia, riunione alla quale hanno partecipato anche il sindaco Enrico Ioculano e il
prefetto di Imperia. Intanto sono almeno 150 i migranti che ogni giorno continuano ad
attraversare in qualche modo il confine, nonostante i gendarmi schierati alla dogana di
ponte San Lodovico. La stima è della polizia di frontiera italiana, la prova è nelle facce.
Sono sempre un centinaio sugli scogli, ma la maggior parte sono volti nuovi. Lo stesso
vale per la stazione, dove sono accampati da giorni in 250. Come è possibile, visto che
ogni giorno i treni da Roma o Milano ne scaricano oltre un centinaio? «I passeur sono in
piena attività» conferma un inquirente. Li portano in sentieri poco battuti, o dentro furgoni
nei valichi meno controllati, o anche in barca. Di passeur , veri o millantatori, la stazione è
piena. Si allontanano seguiti da piccoli gruppi di profughi. Spesso passano attraverso il
ponte pedonale sul fiume Roja, i migranti attendono in spiaggia, i camioncini in un
parcheggio più a nord. «Cinquanta euro per un passaggio» promette un marocchino che si
fa chiamare Youssuf. A dispetto dei proclami da Parigi, la frontiera è un colabrodo. Il
sindaco di Ventimiglia si sfoga: «Se i migranti attraversano il confine fanno bene. Anzi, se
potessi gli suggerirei io dove andare».
Riccardo Bruno
Del 16/06/2015, pag. 10
Pisapia: “Non mandate nuovi profughi”
45
Il sindaco: “Milano continuerà a fare la sua parte ma i migranti vanno
ridistribuiti” Centinaia di persone stipate nei futuri negozi della
stazione, 4 nuovi casi di scabbia
Fabio Poletti
In stazione Centrale sono ancora decine e decine, rifugiati nei box di vetro foderati di
cartone o per terra nella galleria davanti all’ingresso. Il grosso è già finito nelle 8 strutture
comunali dove la scorsa notte hanno dormito più di 1300 migranti. Basta questo per far
dire con un certo ottimismo al ministro dell’Interno Angelino Alfano «che è stato ripristinato
un contesto e una situazione del completo decoro sia dentro che fuori la stazione
Centrale». Non è ancora così ma dopo giorni di arrivi e i blocchi alle frontiere, il tappo a
Milano rischia di saltare. Il più preoccupato è il sindaco Giuliano Pisapia, il quale chiede
che «non vengano inviati ulteriori profughi in città. Milano ha fatto la sua parte e continuerà
a farla. Ma più di così non può fare. È necessario redistribuire le presenze nelle diverse
regioni proporzionalmente agli abitanti e in base all’effettiva capacità di dare una prima e
dignitosa accoglienza». Nell’attesa già a oggi alla Croce Rossa sarà consegnato il Cara
con oltre 200 posti per l’accoglienza mentre il Cie di via Corelli è stato autorizzato ad
aumentare la capienza per accogliere più migranti.
La stazione è il punto di arrivo a Milano in attesa che diventi il luogo di partenza verso il
Nord Europa. I numeri sono la conferma di flussi continui. Domenica notte, a chiusura del
centro di smistamento allestito sotto la Galleria delle Carrozze, nei box di cristallo non
ancora adibiti a negozi, c’erano 464 persone. Soprattutto siriani, etiopi ed eritrei. I nuclei
familiari con bambini erano 141. Aspettano documenti, che si sblocchi la situazione in
Europa, che si decida che fare di loro in questa specie di limbo dove non accade nulla, se
non quel minimo che garantisce la sopravvivenza. «Il 17 giugno (domani, ndr) incontrerò
Piero Fassino e Sergio Chiamparino con i vertici dell’Anci. Discuteremo dello smistamento
dei migranti. Cosa di cui ho parlato con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia», promette il
ministro Alfano.
In attesa che si muovano le istituzioni si muove tutta la città. In stazione spunta anche uno
striscione grande così: «Refugees welcome». Dall’altre parte un gruppo di leghisti sventola
bandiere verdi. I milanesi che vengono qui a portare generi di prima necessità sono
diventati pure troppi. L’assessore ai servizi sociali Pierfrancesco Majoriono chiede che
pure la solidarietà sia autogestita: «Chi vuole contribuire ad aiutare vada nei centri tipo via
Corelli e via Aldini dove abbiamo la possibilità di smistare tutto». Nel vertice in Prefettura si
è deciso che i box di vetro saranno occupati dai migranti fino a domani notte quando
saranno trasferiti nella comunità Exodus di don Mazzi e poi al Dopolavoro ferroviario vicino
alla stazione.
Un posto dove dormire, cibo e acqua non sono le uniche priorità. C’è pure l’emergenza
salute. Ieri sono stati accertati altri 4 casi di scabbia. Solo da venerdì sono stati visitati
oltre 200 migranti. Mentre Emergency è pronta a far arrivare in stazione un’attrezzata
clinica mobile, come annuncia la sua presidente Cecilia Strada: «Questa non è
un’emergenza ma un fenomeno cronico. Si potrebbe mettere una tensostruttura davanti
alla stazione. Oggi bisogna decidere da che parte stare, se con quelli che vogliono
chiudere le frontiere o con chi decide di accettare la realtà e si dà da fare».
del 16/06/15, pag. 1/5
Democratico razzismo
46
Anna Maria Rivera
Dovevamo aspettarci che, come sempre nel nostro paese, la fase attuale di migrazioni ed
esodi – l’emergenza, come dicono loro – fosse descritta dai media col consueto lessico
degradato (esso sì): «bivacco», per dire della sosta forzata dei profughi, scacciati da ogni
dove, presso stazioni ferroviarie e simili; «assedio», per descrivere l’arrivo in questi luoghi
di gruppi di persone (bambini compresi) provate, traumatizzate, abbandonate al loro
destino oppure trattate come animali in gabbia o pesci d’acquario (è il caso di Milano);
«ripulire» la stazione, per significare liberarla da queste presenze indecenti e dunque
«restituirle un po’ di decoro». Così il sindaco Pisapia, che si lascia scappare perfino una
variante del tipico «Se le piacciono tanto, se li porti a casa sua», rivolta a una giornalista:
«Allora li ospita lei a Sky?»
Per non dire dei lemmi intramontabili che, nonostante la Carta di Roma e altre iniziative
analoghe, in alcuni casi vengono rispolverati per l’occasione, in altri semplicemente
perpetuati: «zingari», «nomadi», «extracomunitari», «clandestini», «degrado», «esodo
biblico» e tutte le varianti della retorica allarmistica, perfino apocalittica…
Non mi riferisco ad ambienti e a mass media di destra o di estrema destra, meno che mai
al gergo salviniano. Parlo, invece, del linguaggio di ciò che quasi un decennio fa con un
po’ d’ironia cominciammo a definire razzismo democratico o rispettabile, riferendolo a
politici e ministri di centrosinistra, ambienti, intellettuali e organi d’informazione democratici
(si veda, per es., Giuseppe Faso, Lessico del razzismo democratico, 2010).
Il lessico, si sa, non è mai innocente. Tant’è che i lemmi che ho citato sostengono
retoriche che solo chi è di memoria corta può pensare siano nuove. Fra queste, torna in
auge la vecchia idea, determinista e in fondo sprezzantemente classista, secondo la quale
la plebe sarebbe naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni
del proprio disagio sociale. Ne discende la tesi, classicamente populista, per la quale al
grido di dolore che si leva dalla ‘plebe’ si debba rispondere con severità e rigore verso i
capri espiatori, in definitiva negando loro diritti umani fondamentali. E’ una tesi che si
fonda (come scrivevo nel lontano 2007) su un principio di tipo omeopatico: per prevenire il
razzismo popolare conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale.
Un’altra vecchia etichetta, rispolverata assai di recente, è quella dell’«antirazzismo facile»
che, coniata a suo tempo da qualche chierico, credevamo non più in uso almeno tra gli
scienziati sociali. Coloro che denunciano «il razzismo più bieco e insopportabile», accusa
Chiara Saraceno in un articoletto recente, in realtà gli fanno «da cassa di risonanza» e
non si occupano delle «condizioni di disagio in cui questo si genera». Un’affermazione
che, tra le altre cose, rivela una lontananza siderale dal mondo dell’antirazzismo militante
(compreso quello dotto), perciò immiserito entro un cliché.
Astratte e stereotipate tornano a essere, pur dopo trent’anni di studi e ricerche su
migrazioni ed esodi, anche le rappresentazioni delle figure, delle biografie, delle storie di
migranti e profughi, in realtà molteplici e complesse ben più delle nostre. Si riaffaccia,
anche sulla bocca di colti, la rigida dicotomia profughi/migranti, fattualmente infondata,
politicamente assai pericolosa. Senza stare a ricordare la storia dell’immigrazione in Italia
e il doppio status reale dei protagonisti degli esodi di massa (gli albanesi degli anni ’90, i
giovani tunisini del 2011…), basta dire questo: se pure fossero migranti “economici”, una
volta rimpatriati un tunisino e un’eritrea, solo per fare due esempi ipotetici, rischiano il
carcere in virtù delle legislazioni in vigore in entrambi i paesi, anche nella Tunisia senza
Ben Ali. In realtà, come ho scritto altrove, sono anzitutto il sistema normativo, le sue
interpretazioni e applicazioni a decidere, in definitiva, chi sia migrante e chi rifugiato.
Ma, infine, basterebbe soffermarsi su alcune immagini odierne, facendo agire
immaginazione ed empatia, per comprendere l’infondatezza di tanti cliché e stereotipi.
Guardate le foto dei giovani eritrei, somali, afghani, più alcuni maghrebini, che a
47
Ventimiglia, a pochi passi dal confine con la Francia, protestano sugli scogli dei Balzi
Rossi. Guardate i loro volti tirati per le notti insonni, la tensione, lo sciopero della fame.
Osservate anche la loro coraggiosa determinazione, riversata nei cartelli che essi
esibiscono, grezzamente approntati eppur così efficaci.
E soffermatevi sulle immagini dei tanti cittadini e cittadine comuni, anche povera gente,
che va a portar loro abiti, cibo, solidarietà. Guardate le lunghe code, a Roma, delle
persone che recano ogni genere di beni di prima necessità per i profughi scacciati dalla
Stazione Tiburtina e accolti dal Centro Baobab. Vi apparirà chiaro – e tale dovrebbe
apparire a tanti soloni – il contrasto tra la ricchezza di una realtà sociale, certo
contraddittoria, difficile, anche a rischio di gravi derive, e l’astratta miseria intellettuale,
morale e politica dei decisori nazionali ed europei, e di alcuni loro interpreti.
del 16/06/15, pag. 18
Rom, l’emergenza prêt-à-porter
di Daniela Ranieri
Nel vernacolo greve di Salvatore Buzzi gli affari relativi alla gestione dei campi rom sono
“l’ennesima telenovela su ‘sti cazzo de zingari”. Non volendolo, l’arrestato per Mafia
Capitale dice una verità: l’eterna emergenza-rom si incancrenisce in assurde spire
burocratiche perché il “mondo di sopra” ha interesse a farla durare, in ciò agevolato dalla
impietosa indifferenza di tutti. Anzi, i rom sono diventati un problema nazionale da quando
ai traffici malavitosi degli speculatori si è aggiunta la narrazione apocalittica che li vede
come agenti principali della rovina.
Di Salvini ormai si sa tutto: che adopera categorie pre-politiche, emotive e indimostrabili,
per sviare l’attenzione dalla totale assenza di proposte; che fa l’ospite televisivo anche se
lo paghiamo per stare in parlamento a Strasburgo; che in quanto a cultura politica non è
superiore a un qualsiasi avventore di un bar del novarese. È perciò inutile fare la
ramanzina a lui e a quelli che condividono il suo background morale e intellettuale di
rozzezza e superficialità, perché è proprio grazie queste qualità che è apprezzato, e
suonerebbe moralista quello che invece è solo morale.
Ma è chiaro che la battente campagna mediatica anti-rom ha seguito un metodo finora
infallibile: facendo leva su luoghi comuni e leggende metropolitane, si è montato un set
emergenziale in cui i rom – impopolari, non remissivi e esteticamente respingenti – sono
stati indicati come usurpatori del benessere a quegli italiani abbattuti dalla crisi e
dall’erosione del welfare non abbastanza forti da scagliarsi contro i veri responsabili dello
sfacelo.
Lo zingaro, quando non è impersonato da attori finti nei talk show di Segrate, viene
presentato come un ingrato che vive nel fango per irredimibile malvagità, anche se
potrebbe pascersi nel lusso, dotato di macchine costose, iPad, wi-fi, soldi sotto il
materasso, antenne paraboliche e una genetica propensione a rubare. Così si è riusciti a
convincere milioni di persone che faccia maggior danno un eventuale furto del portafoglio
da parte di uno zingaro che l’associazione a delinquere continuata e bipartisan tra
malavita e uomini politici di vario ordine e grado, o la frode fiscale da 7 milioni di euro (più
altri prescritti o condonati) messa in atto da un presidente del Consiglio mentre era in
carica.
48
La fandonia regge perché è semplice e assolve tutti dalle responsabilità, anzitutto la Lega,
che è stata al governo e niente ha fatto in merito se non una demenziale legge firmata
Maroni. Prima di finire in mano a Salvini, il partito era infatti talmente vuoto di consensi e
ideologia da poter essere insufflato e resuscitato dall’accozzaglia di provocazioni, ingiurie,
turpiloquio che è sfociata nell’immagine primitiva, infantile e demolitoria delle ruspe.
Ma Salvini ha solo sturato la cloaca dell’ignoranza, e ora il suo metodo – dare una botta al
cerchio (l’Italia non è razzista) e una alla botte (i rom delinquono) – rischia di diventare una
efficace per quanto miserabile strategia di ricerca del consenso tout court. Intanto nel
discorso alla direzione del Pd Renzi si è detto indignato per la scarcerazione del
diciannovenne coinvolto nell’incidente di Roma sottolineandone l’etnia.
La verità è che il mix di segregazione, controllo sociale, discriminazione e
generalizzazione con cui trattiamo i rom si chiama razzismo. Salvini, maneggiando
benissimo la sua immagine fintamente indulgente, rifiuta l’attribuzione e ogni assimilazione
del suo metodo con quello del nazionalsocialismo antisemita; eppure, sempre più persone
che lo seguono si dichiarano orgogliosamente razziste e favorevoli ai roghi e ai forni.
Forse un partito che si chiamasse “Razzisti con Salvini” prenderebbe più voti della
implicitamente violenta Lega, chi sa. E il cinismo di Buzzi non è certo più ributtante di
quello di chi specula su chi non ha niente per ottenere i voti di quelli che hanno ancora
qualcosa.
49
WELFARE E SOCIETA’
del 16/06/15, pag. 27
Italia senza figli, è il record del secolo
L’Istat: più morti che nati, mai così dalla Grande Guerra. Il Paese è a
crescita zero
MICHELE SMARGIASSI
SOLO la Grande Guerra svuotò le culle più di adesso. Fa sapere l’Istat che nel 2014 in
Italia la differenza fra nati e morti, leggi saldo demografico naturale, ha sfiorato quota
meno centomila: un record, la forbice più alta dal 1918 (meno 636 mila), quando però era
la falce delle trincee a squilibrare il bilancio.
Oggi non è che si muore di più, anzi la mortalità è in leggera diminuzione. È il
disinvestimento sui figli che allarga la forbice, perché la voglia di prole frana ormai
costantemente dal 2008. Il Bilancio demografico nazionale rilasciato ieri dall’Istat ha la
forza delle cifre nette: 502.596 neonati l’anno scorso, meno 11.712, ossia meno 2,3%, sul
2013. Altro che crescita zero, è decrescita sottozero, quasi ovunque: solo a Trento e
Bolzano più nascite che funerali.
Crisi economica, mutamento dei costumi e dei progetti familiari. C’entra pure il
contraccolpo del baby-sboom : sono in età fertile oggi i figli dei primi cali demografici degli
anni Ottanta: meno bambini allora, meno potenziali genitori oggi.
Che cosa conta di più, nella retromarcia demografica italiana? Non è facile distinguere. Ma
c’è un indizio che comincia a farsi significativo: calano anche le nascite nelle famiglie degli
immigrati. Nel primo decennio del millennio i bimbi multicolori riempivano le sale parto,
compensando in parte la minor natalità delle famiglie italiane: un boom, da 30 mila nel 200
a 80 mila nel 2012. Bene, l’aria è cambiata anche qui. L’inversione di tendenza timida di
due anni fa, nel 2014 è stata netta: 2638 nati in meno. La crisi colpisce anche famiglie che,
per cultura e tradizione, sarebbero propense a fare più figli della media italiana.
Dunque, nonostante le paure di invasione, in questo paese non stiamo più stretti di prima.
Sommando tutto, arrivi e partenze, nati e morti, siamo appena 12 mila in più del 2013, ma
se scremiamo la burocrazia (correzioni di errori e revisioni anagrafiche) siamo aumentati
solo di duemila persone e rotti, un’inezia. Per chi ama la precisione, in Italia ora siamo
60.795.612 residenti ufficiali. Di cui poco più di 5 milioni sono cittadini stranieri immigrati
(fa l’8,2 per cento, ma attenzione: quasi la metà vengono da paesi europei). Ci sono ormai
nella penisola persone di duecento nazionalità diverse (primi i romeni, 22,6% del totale),
ma le iscrizioni anagrafiche dall’estero (277 mila l’anno scorso) sono addirittura in calo.
Hanno invece ottenuto la cittadinanza italiana 130 mila persone nate altrove.
Insomma, anche l’immigrazione, almeno quella che risulta all’anagrafe, riesce a malapena
a colmare i vuoti di un paese che perde abitanti. Ne perde statisticamente ( per lo sbilancio
fra nati e morti, già detto), ma anche realmente: siamo ancora un paese di emigranti, 90
mila partenze, anche a contare i rimpatri il saldo è negativo di quasi 60 mila unità. Partono
i più giovani, e anche questo aggiunge un grano di sabbia all’inesorabile clessidra
dell’invecchiamento: adesso la nostra età media è di 44,4 anni. Apparentemente non
sembra drammatica, ma è l’incubo della piramide rovesciata a turbare i sonni dei
programmatori sociali: quella massa di anziani inattivi che preme su una minoranza di
giovani produttivi, che può schiantare qualsiasi welfare, non solo in tempi di crisi.
50
del 16/06/15, pag. 10
Istat. Italia sempre più vecchia, con un saldo tra nascite e decessi (a
favore dei secondi) che non si vedeva dalla Grande Guerra
Solo gli immigrati ci salvano dal «gap
demografico»
Roma
In un Paese che inesorabilmente invecchia e nel quale continuano a diminuire le nascite
solo i nuovi migranti in arrivo garantiscono la crescita zero (o quasi) della popolazione
residente. Lo conferma l’ultimo bilancio demografico dell’Istat relativo al 2014. Alla fine
dell’anno scorso secondo l’Istituto di statistica eravamo poco meno di 61 milioni, per la
precisione 60.795.612, in aumento rispetto al 2013 di appena 12.944 unità mentre il saldo
è risultato addirittura negativo per la popolazione femminile (-4.082). In questo contesto la
variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale (nascite e morti) e migratoria, registra
- al netto delle rettifiche dovute alle regolarizzazioni anagrafiche - un aumento di appena
2.075 unità, pari a +0,003%. In pratica gli arrivi dall’estero hanno compensato appena il
calo di popolazione dovuto al saldo naturale. Quello che i demografi definiscono “il
movimento naturale della popolazione”, cioè il saldo tra le nascite e i decessi, ha fatto
registrare nel 2014 un saldo negativo di quasi 100mila unità, che segna un picco mai
raggiunto nel nostro Paese dal biennio 1917-1918, gli anni della Grande Guerra. Se infatti
la mortalità resta stabile, con una lieve diminuzione in valori assoluti (-2.380 decessi),
continua la tendenza - in atto ormai da anni - del calo delle nascite: sono stati infatti
registrati quasi 12mila nati in meno rispetto all’anno precedente. Anche i nati stranieri
continuano a diminuire (-2.638 rispetto al 2013), pur rappresentando il 14,9% del totale dei
nati. In questo quadro non meraviglia che l’età media della popolazione continui a salire: al
31 dicembre 2014 è pari a 44,4 anni, in costante aumento dal 2011 (quando era di 43,8
anni). Con tutte le conseguenze del caso sui rapporti intergenerazionali i cui squilibri
continuano a crescere. A fine 2014 l’indice di dipendenza strutturale, ossia il rapporto tra la
popolazione in età inattiva su quella attiva, è stato pari al 55,1% contro il 53,5% del 2011.
Nello stesso periodo l’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto tra la popolazione over 65
anni e quella con meno di 15 anni, ha registrato un netto incremento, passando dal
148,6% del 2011 al 157,7% del 2014.
Tornando agli stranieri, essi sono aumentati nel 2014 di 92.352 unità (+1,9%), portando il
totale dei cittadini stranieri residenti a 5.014.437, pari all’8,2% dei residenti totali.
Provengono da circa 200 Paesi diversi, ma per oltre il 50% si tratta di cittadini di un Paese
europeo. La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (22,6%) seguita da quella
albanese (9,8%). La popolazione straniera risiede prevalentemente al Nord e al Centro,
anche se nel 2014 il Sud ha visto aumentare di quasi il 30% la sua quota di stranieri.
Rispetto agli anni precedenti diminuisce il numero degli immigrati e aumenta il numero
degli emigrati: il saldo tra i due flussi in entrata e in uscita è pari a 140mila unità circa.
Davide Colombo
51
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 16/06/2015, pag. 18
Due milioni di metri cubi di rifiuti tossici
interrati
Il sito scoperto in Campania dalla Forestale “E’ la più grande discarica
illegale d’Europa”
Guido Ruotolo
L’escavatrice dell’esercito ha trovato un altro contenitore di veleni. A Calvi Risorta,
provincia di Caserta, scatta l’allarme. Il sensore del «Chempro 100» che identifica
sostanze volatili, idrocarburi, alcol, emette un suono ripetuto. «Siamo fortunati. - dice un
forestale, tuta protettiva bianca e mascherina, al suo comandante - perché sull’involucro
c’è il numero della partita. Possiamo risalire al produttore e all’acquirente».
L’involucro è di Pliolite prodotto dalla Good Year, divisione chimica, stock n. 445149. Si
tratta di pitture a base di resine. Ex area industriale «Pozzi Iplave», dove, prima del
fallimento, si producevano vernici, sanitari, Pvc. In un resoconto della Regione Campania
di due anni fa, si accenna a questa area: «Un sito privato censito nel Piano regionale di
bonifica in attesa di indagini. Nei capannoni della azienda fallita, sono stati sequestrati
dall’Arpac amianto, vernici e solventi».
Da appena quattro giorni, le escavatrici dell’esercito, gli uomini della Forestale e dei Vigili
del Fuoco, i tecnici dell’Arpac hanno rivelato la presenza, per dirla con il generale Sergio
Costa, comandante regionale del Corpo Forestale, «della più grande discarica europea di
rifiuti industriali». I tecnici ipotizzano che vi siano interrati oltre due milioni di metri cubi di
rifiuti industriali. Erano stati un giornalisti e un fotografo di «Calvi Risorta News», un
giornale web, a denunciare alla Procura di Santa Maria Capua Vetere, il sospetto che in
questa area fossero stati interrati veleni ndr stirali. Fotografie dall’alto dell’area in diverse
fasi temporali, avevano mostrato delle anomalie. Dove c’erano delle conche, adesso
emergevano delle collinette. La Procura ordinaria - nessun pentito dei Casalesi ha ma mai
parlato di questo «tesoro» di Gomorra - ha avviato le indagini e giovedì scorso sono partiti
i primi rilevamenti, i primi saggi sul terreno.
Ai primi colpi di escavatrice sono emersi due fusti di vernici e fissanti (sacchetti di anidride
ftalica). Poi, altre buche e altri fusti. Anzi, ogni buca, rifiuti industriali stratificati. Dice il
vicequestore aggiunto della Forestale, l’ingegner Michele Capasso: «L’area sequestrata è
di 24 ettari. Nei primi saggi abbiamo trovato rifiuti fino a nove metri di profondità. Perché
poi c’è uno strato di tufo che non lascia filtrare nulla. Ma a valle di questa area c’è un rio, e
ora l’Arpac dovrà fare i rilievi per capire la dimensione eventuale dell’inquinamento della
falda acquifera».
In queste ore, gli uomini della forestale hanno sondato i terreni con il geomagnetometro
individuando diverse aree con «anomalie magnetiche». «al di là di quel boschetto verde indica l’ingegner Capasso - temiamo che vi siano interrati metalli e altre sostanze
pericolose. Adesso l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia picchetterà l’area e
procederà ai campionamenti». La Terra dei fuochi, le indagini a Gomorra per accertare i
racconti dei pentiti che negli anni non avevano portato a nulla. Sembrava solo materia per
scrittori e registi. Poi, il movimento delle mamme dei bambini. Orti di tumore, le proteste, la
mobilitazione.
E ora emerge dal nulla il «tesoro» che avrà fruttato milioni agli industriali in evasione
52
fiscale e in oneri risparmiati per lo smaltimento dei rifiuti. E milioni ai Casalesi (questo è
territorio di Michele Zagaria e degli Schiavone) che hanno fatto il business dei rifiuti.
Del 16/06/2015, pag. 26
L’enciclica di Bergoglio sull’ambiente
«Conversione ecologica universale»
L’appello nella «Laudato si’», tra critiche ai poteri economici e denuncia
dell’iniquità globale
CITTÀ DEL VATICANO «Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data». Papa
Francesco parla della «crisi» attuale e chiede «a tutte le persone di buona volontà» una
«conversione ecologica» e una «nuova solidarietà universale», nell’enciclica Laudato si’
«sulla cura della casa comune» che sarà pubblicata giovedì. Il testo era sotto «embargo»,
il sito dell’ Espresso lo ha pubblicato ieri pomeriggio: «una bozza» e «non il testo finale»,
ha detto padre Lombardi. In Vaticano c’è grande irritazione, la «violazione delle regole di
correttezza» è considerata una mossa deliberata «contro il Papa e contro l’enciclica», per
indebolire la presentazione di un testo che critica lo squilibrio tra Nord e Sud del mondo e
la politica ambientale dei Paesi più potenti, parla della «regola d’oro» della
«subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni», e aveva
subìto un fuoco di sbarramento prima della pubblicazione soprattutto negli ambienti
ultraconservatori statunitensi.
In 192 pagine e 246 paragrafi, il Papa parla di ecologia come studio dell’ oîkos , in greco la
«casa» di tutti. Della responsabilità per il «bene comune» contro il rischio concreto di
autoannientamento. L’incipit cita il Cantico delle Creature del santo di cui Bergoglio ha
preso il nome: San Francesco è «patrono» e «testimone» di una «ecologia integrale», che
ci fa riconoscere nella natura «lo splendido libro nel quale Dio ci parla» e dove ciascuna
creatura ha un valore ed è un fine in sé. L’uomo è un essere «personale» ma non è il
padrone della natura. E la natura non è materia bruta a nostra disposizione, gli esseri
viventi non sono «meri oggetti» di sfruttamento e profitto ma «hanno un valore proprio di
fronte a Dio». Del resto l’ecologia è sempre anche «ecologia umana», nel mondo tutto è
collegato, la fragilità della Terra e dei poveri, gli squilibri ambientali e sociali, la
speculazione finanziaria, le armi e le guerre. Il santo di Assisi parlava della terra come
«madre» e «sorella» e guardava ai poveri. Così Francesco scrive che «un vero approccio
ecologico diventa sempre un approccio sociale e deve integrare la giustizia nelle
discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della Terra quanto il grido dei poveri».
Tra l’altro, scrive: «Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e
selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi».
Bergoglio elenca i guasti della «crisi ecologica»: riscaldamento globale, cambiamento
climatico, inquinamento, innalzamento dei mari, impoverimento della biodiversità,
distribuzione iniqua del cibo, la carenza e il diritto di tutti all’acqua. Denuncia «l’inequità»
planetaria: «il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo»
ma «non accade la stessa cosa» per lo sfruttamento delle risorse e quello che è «un vero
debito ecologico soprattutto tra Nord e Sud del mondo». Punta il dito contro la
«debolezza» della politica internazionale: «È indispensabile creare un sistema normativo
che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove
forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non
solo la politica ma anche libertà e giustizia». Così denuncia la «globalizzazione del
53
paradigma tecnocratico» che si riflette nel «consumismo ossessivo» e «tende ad
esercitare un dominio anche su economia e politica».
Ci sono passaggi durissimi: «I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema
mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che
tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente». E
ancora: «È prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno
scenario favorevole per nuove guerre». Tutti devono avere il coraggio di impostare progetti
a lungo termine anziché cercare il potere. Ne va della nostra sopravvivenza, dell’armonia
del creato: «Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi».
Gian Guido Vecchi
del 16/06/15, pag. 1/29
DA SAN FRANCESCO A FRANCESCO
VITO MANCUSO
DA SAN FRANCESCO a Francesco. Già l’accoppiata di titolo e sottotitolo della nuova
enciclica di Bergoglio è molto significativa: Laudato si’. Sulla cura della casa comune .
Vi compaiono tre concetti decisivi della complessiva interpretazione bergogliana del
cristianesimo come servizio e difesa dell’uomo: 1) la lode, ovvero la dimensione
contemplativa, assolutamente essenziale per la spiritualità gesuita; 2) la cura, la prassi
volta al bene e alla giustizia, tratto peculiare della teologia della liberazione sudamericana;
3) la casa comune, ovvero il bene comune e la dimensione comunitaria della vita umana,
che è sempre vita di un singolo all’interno di un popolo. Precisamente per questa terza
dimensione il papa scrive che con il suo scritto egli non si rivolge solo agli uomini di
Chiesa e ai cattolici, com’è tradizione per il genere letterario dell’enciclica, ma a tutti gli
esseri umani: «Mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla
nostra casa comune».
Francesco tiene a ricordare che la sua particolare attenzione all’ecologia non è una novità
per il papato, in quanto tutti i suoi immediati predecessori l’avevano coltivata prima di lui. E
in effetti leggendo il suo scritto è impossibile non riscontrare forti debiti intellettuali verso
Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, entrambi citatissimi (23 volte il primo, 21 il
secondo). Si ha però anche una sensazione di autentica novità per almeno tre motivi: 1)
per lo stile semplice e immediato che ricorda da vicino quell’acqua di cui il papa scrive che
«ci vivifica e ci ristora»; 2) per l’attenzione prestata a contributi che solitamente non
costituiscono le fonti del magistero papale, come per esempio le opere di altri leader
religiosi tra cui il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, e le analisi di scienziati, di
sociologi, di economisti; 3) per la forza sorprendentemente “laica” degli argomenti e
dell’argomentazione. Nell’enciclica infatti ricorrono termini quali inquinamento,
cambiamenti climatici, rifiuti, cultura dello scarto, questione dell’acqua (qui il papa spende
parole fortissime contro ogni progetto di privatizzazione delle risorse idriche), perdita di
biodiversità, deterioramento della qualità della vita, degradazione sociale, iniquità
planetaria, ogm, per un dettato complessivo che soprattutto nella prima parte non ha
proprio nulla di ciò che tradizionalmente si intende per religioso.
L’enciclica è molto lunga, quasi 200 pagine per 246 paragrafi, e una sua analisi adeguata
richiede tempo e riflessione. Da quanto emerge però a una prima veloce lettura credo che
il concetto decisivo sia quello di “ecologia integrale”, espressione che ricorre otto volte nel
documento e costituisce il titolo del quarto capitolo. Integrale significa in grado di
abbracciare tutte le componenti della vita umana, la quale va riscattata dalla progressiva
54
sottomissione alla tecnologia che nel suo legame con la finanza «pretende di essere
l’unica soluzione dei problemi», ma, scrive il papa, «di fatto non è in grado di vedere il
mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un
problema creandone altri ».
Un grande insegnamento al proposito è l’interconnessione di tutte le cose su cui il papa
ritorna più volte (“tutto è intimamente relazionato”), al fine di comprendere, per fare solo un
esempio, che il surriscaldamento del pianeta provoca la migrazione di animali e di vegetali
e quindi l’impoverimento di determinati territori e di coloro che li abitano, i quali a loro volta
si trovano costretti a emigrare. Così l’ecologia, da mera preoccupazione per l’ambiente
naturale, mostra di essere al contempo cura dell’umanità nel segno ancora una volta
dell’ecologia integrale.
Rimangono però tre domande. 1) È sostenibile affermare che “la crescita demografica è
veramente compatibile con uno sviluppo integrale e sociale”, come scrive il Papa citando
un documento ecclesiastico precedente? Oggi siamo oltre 7 miliardi e già ora i nostri rifiuti
sono superiori alle possibilità di smaltimento, senza contare che lo smaltimento diviene a
sua volta causa di inquinamento. Che cosa avverrà quando nel 2050 la popolazione sarà
di 9,6 miliardi?
2) Nel capitolo biblico-teologico il Papa scrive che “il pensiero ebraico-cristiano ha
demitizzato la natura… non le ha più attribuito un carattere divino”. Non sarebbe
opportuno chiedersi se questo processo di demitizzazione e desacralizzazione, è
all’origine di quello sfruttamento progressivo del pianeta denunciato dal papa?
3) Stupisce l’assenza totale di ogni riferimento alle grandi religioni orientali (induismo,
buddhismo, jainismo, taoismo, shintoismo) da sempre molto attente alla questione
ecologica e alla spiritualità della natura, molto prima del risveglio al riguardo del
cristianesimo. Francesco scrive più volte che “tutto nel mondo è intimamente connesso” e
sicuramente sa che si tratta di un insegnamento originario della sapienza orientale, in
particolare del buddhismo e del taoismo: perché non dirlo e richiamarli? Non sarebbe stato
in linea con il desiderio di “unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo
sostenibile e integrale”, come egli scrive?
del 16/06/15, pag. 62
Startup
A Milano si premiano i migliori progetti di giovani aziende al debutto.
Nell’ambito di Edison Open 4Expo, sei mesi di eventi dedicati alla tutela
dell’ambiente e all’innovazione
Nuove idee per il futuro
ANTONIO CIANCIULLO
Una app per creare parcheggi senza asfaltare un metro quadrato. Piccole pale eoliche che
catturano il vento di città. Un mini idroelettrico per produrre energia all’interno di un porto.
Vestiti tessuti con polpa di arancio. Sono alcuni prodotti inventati dalle dieci startup entrate
nella finale del premio Edison Pulse, promosso dalla società elettrica per rilanciare la
creatività e presentati a Expo 2015 durante l’Innovation Week, settimana dedicata
all’innovazione tecnologica. Una delle iniziative del progetto Edison Open 4Expo, che fino
a ottobre si propone come laboratorio di discussione di idee e soluzioni pratiche per la
tutela dell’ambiente.
55
Da oggi al 21 giugno si discute di geopolitica dell’energia e di cambiamento climatico, di
mobilità sostenibile e di buone pratiche ambientali. Ma soprattutto si prova a intravedere
un futuro possibile, quello creato da una forte spinta innovativa per offrire una maggiore
qualità dei servizi con un minor impatto ambientale. Ci stanno provando i giovani che si
sono rimboccati le mani e hanno messo a punto brevetti per rendere il Paese più
competitivo (i due vincitori riceveranno 100mila euro).Come Adriana Santanocito, una
designer che nel febbraio 2014 ha creato il progetto Orange Fiber per ricavare un tessuto
dagli scarti di lavorazione degli agrumi. «In Italia le industrie che confezionano succhi di
frutta producono ogni anno 700 mila tonnellate di rifiuti»,racconta.«Il pastazzo, come è
chiamato il residuo della lavorazione, oggi è un problema perché le quantità in gioco sono
importanti e lo smaltimento comporta costi non trascurabili. Ma può diventare una risorsa
preziosa se viene trasformato in un tessuto morbido e versatile».
Il ciclo di produzione per il momento è ancora un po’ laborioso. L’idea nasce
nell’incubatore green di Rovereto, il Progetto Manifattura. La prima lavorazione (dal
pastazzo alla cellulosa) avviene in Sicilia. La trasformazione in filato si fa in Spagna e da lì
il semilavorato va a Como per la produzione di tre diverse tipologie di tessuti: l’expappa di
arancio viene intrecciata con la seta per creare vestiti da sera e tailleur, cravatte e abiti
estivi.
Poi ci sono le proposte per migliorare la qualità della vita nelle città. Filippo Caciolli è
l’ideatore di Parksharing, una app per semplificare il momento più critico dello
spostamento urbano, quello in cui bisogna lasciare la macchina. «Noi mettiamo in rete il
più grande parcheggio italiano, la somma di tutti i posti auto privati», spiega Caciolli. «Chi
vuole può inserire sulla nostra mappa il parcheggio che lascia libero la mattina uscendo di
casa per andare al lavoro. Precisando per quanto tempo e in che giorni è da considerare
libero. Chi è interessato lo prenota e lo paga, a un prezzo che è circa un terzo di quello
normale. È come se si liberassero migliaia di posti auto a costo ambientale zero». In Gran
Bretagna un progetto del genere esiste: JustPark ha 250mila utenti e nei parcheggi
possono essere sistemate gratuitamente colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici.
Colonnine che, secondo un altro dei progetti finalisti, potrebbero essere ricaricate
sfruttando il vento urbano. «Abbiamo creato Windcity per riutilizzare una risorsa finora
sprecata:la brezza che penetra in città», dice Tommaso Morbiato, un ingegnere padovano.
«Le pale eoliche tradizionali non sono in grado di lavorare con spinte così discontinue. Il
nostro sistema invece può sfruttare i refoli naturali e quelli causati dagli spostamenti di
camion e grandi veicoli. In questo modo il mini eolico si potrebbe diffondere come il
fotovoltaico, sui tetti delle case e degli stabilimenti produttivi».
Sempre sul filone energetico c’è il progetto Wawenergy che punta a utilizzare il moto
ondoso all’interno dei porti. «Siamo nati da uno spinoff dell’università Mediterranea di
Reggio Calabria», precisa Alessandra Romolo. «Il sistema funziona così: si utilizzano,
modificandoli, i grandi parallelepipedi con cui vengono costruite le banchine dei porti. In
pratica all’internodi questa struttura, che viene in parte affondata, deve restare una camera
d’aria intrappolata tra l’acqua e il cemento: le oscillazioni delle onde la comprimono e
questa energia viene trasferita a una turbina che produce elettricità». Un progetto
considerato interessante dal presidente di Assoporti, Pasqualino Monti, che prevede la
partenza del progetto pilota a Civitavecchia entro l’inizio del prossimo anno.
Infine, sempre in ambito urbano,c’è Geteasybike, una app creata per il bike sharing e
testata a Bari. Niente più rastrelliere in pochi punti: le due ruote possono essere lasciate
ovunque in modo da creare una presenza diffusa dei mezzi condivisi, come è avvenuto
per il car sharing che sta avendo un grande successo in molte città italiane. «Con questa
app si può individuare e prenotare con facilità la bicicletta più vicina e il lucchetto viene
sbloccato utilizzando il cellulare», afferma Rita Alessandra Aquilino, ingegnere
56
specializzata in mobilità. «Quando la si vuole lasciare si fa una foto del punto in cui è stata
parcheggiata, la si invia e la bici, geolocalizzata, è di nuovo disponibile».
57
CULTURA E SPETTACOLO
del 16/06/15, pag. 60
A ottocento anni dalla concessione dell’habeas corpus in Inghilterra ci
si chiede se davvero la democrazia iniziò in quel momento
Magna Charta
Il primo diritto o l’ultimo dei privilegi?
RAFFAELLA DE SANTIS
Tra celebrazioni e discussioni, ieri si sono festeggiati gli ottocento anni della Magna
Charta. Il documento che il re inglese Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai
nobili, fu firmato a Runnymede, lungo il Tamigi, il 15 giugno del 1215. Era la prima volta
che il sovrano limitava il proprio potere assoluto e per questo quell’atto viene considerato
come il momento in cui nasce il costituzionalismo inglese. Il fatto che quel patto venga
modificato molte volte nei tempi successivi non fa che attestare la sua importanza.
Da qualche giorno la stampa anglosassone non parla d’altro. Sul Tamigi sono state
organizzate parate e sono arrivate decine di telecamere a riprendere la regina Elisabetta e
il premier David Cameron. La British Library ha inaugurato una grande esposizione, e
perfino Google ieri celebrava sulla homepage l’evento con un doodle animato. Ma tra gli
storici le opinioni divergono. Tutto ruota intorno a una domanda: la Magna Charta è
davvero il documento fondativo delle nostre libertà democratiche e costituzionali? A tanti
secoli di distanza la questione è aperta. Con quel documento il re assicurava ai baroni che
non potevano essere catturati, torturati, sbattuti in prigione indiscriminatamente. In poche
parole non potevano essere spossessati dei loro diritti, né violati nella loro integrità fisica.
Stefano Rodotà che da anni si occupa dei diritti della persona spiega: «È chiaro che la
Magna Charta non è una concessione di diritti a tutti i cittadini ma solo ad alcune
categorie, come ecclesiastici e nobili. Ma ha una simbolicità innegabile, soprattutto per
quanto riguarda l’articolo trentanove, in cui è introdotto l’Habeas corpus, a garanzia del
corpo e dei diritti della persona ». Quell’articolo dice: «Non metteremo le mani su di te. Per
questo fu uno strumento importante della limitazione del potere».
Nel corso degli anni, la Magna Charta è chiamata in causa ogni volta che ci sono lotte per
la libertà degli individui. C’è una Magna Charta dietro Oliver Cromwell, una che attraversa
l’oceano e arriva ad animare la rivoluzione americana, una Magna Charta dietro le lotte
per l’indipendenza di Gandhi e di quelle di Nelson Mandela. Claire Breary, a capo dei
manoscritti medievali della British Library ha detto: «È diventata un simbolo di libertà e di
diritti, è nota in tutto il mondo come il testo che difende da qualunque tirannia». Dunque,
sebbene vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale, la Magna Charta
Libertatum è stata interpretata come il documento che pone le basi per il riconoscimento
universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Non tutti però sono d’accordo. Tra gli studiosi c’è chi considera certi toni esageratamente
celebrativi. «In realtà si tratta solo del risultato di una lotta interna alle élite per i loro
privilegi », ha scritto sul New York Times Tom Ginsburg, professore di diritto
internazionale a Chicago. E Carlo Galli, filosofo politico, chiarisce: «La Magna Charta non
è altro che una delle tante forme di pattuizione che nel Medioevo intercorrono tra monarchi
e nobili, i quali ottengono che il re non possa chiedere loro aiuti economici senza prima
averli consultati. Tutte le altre valutazioni sono costruzioni ideologiche posteriori,
narrazioni, invenzioni ideate nel XVI e XVII secolo e portate avanti nell’Ottocento. Dire che
si fonda sui diritti umani uguali per tutti è come dire che Giulio Cesare andava in bicicletta.
58
Ma così l’Inghilterra ha costruito il suo mito politico». Quindi, non dobbiamo considerare la
democrazia occidentale come figlia della Magna Charta? «La nostra democrazia si fonda
sulla rivoluzione francese e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del
cittadino, in cui il potere appartiene a tutto il popolo». In un articolo sul
New Yorker , Jill Lepore, docente di storia ad Harvard, ha scrit- to che «l’importanza della
Magna Charta è stata sopravvalutata e il suo significato distorto ». Per uno storico del
diritto penale antico attento a questi temi come Adriano Prosperi è invece proprio da
questo documento che prende vita il parlamentarismo, attraverso la nascita delle prime
assemblee dei baroni ed è lì che si pone la «questione decisiva della protezione dei diritti
della persona». Il problema è semmai un altro: il modo in cui noi occidentali siamo riusciti
a dimenticare i sacri principi di quella Charta. Dice Prosperi: «In nome del terrorismo come
nemico assoluto ha prevalso il principio dell’efficacia. Viviamo ormai in uno stato
d’eccezione permanente che erode ogni diritto». Il tema è infinito e nell’era di Internet si
complica. «Oggi avremo bisogno di proteggere il nostro corpo elettronico», dice Rodotà,
che sta coordinando la commissione parlamentare per la “Dichiarazione dei diritti di
Internet”. Il prossimo passaggio sarà la nascita dell’Habeas Data.
del 16/06/15, pag. 11
Festival. Torna “Trame.5”, la mafia narrata
attraverso i libri
a Lamezia Terme, dal 17 al 21 giugno, è dedicata ai «giovani favolosi,
quelli che lottano per riaffermare la libertà»
Silvio Messinetti
Napoli, 23 settembre 1985. A pochi metri da casa, il giornalista Giancarlo Siani viene
freddato dalla camorra con 10 colpi di pistola alla testa. A trent’anni da quell’omicidio, è
proprio dall’omaggio al giovane cronista de Il Mattino, ucciso per le sue inchieste sulla
criminalità organizzata, che riparte Trame.5, il festival dei libri sulle mafie, l’unico in Italia e
nel mondo (dal 17 al 21 giugno) che si svolge nel centro storico di Lamezia. Un’edizione,
spiega il direttore artistico, Gaetano Savatteri, dedicata ai «giovani favolosi, quelle ragazze
e quei ragazzi, che in tutta Italia lottano contro le mafie e per la libertà».
Il festival è prodotto e organizzato dalla fondazione Trame, con la collaborazione
dell’Associazione antiracket Lamezia.
Trame.5 sarà una miscela di incontri, dibattiti, cinema, musica, teatro, letteratura,
fotografia. Una non stop di cinque giorni d’impegno sociale per promuovere, attraverso la
cultura, una forma di lotta alle mafie che passi attraverso la consapevolezza. «Il valore
assoluto del festival è la scelta — spiega Savatteri -, di occupare una sedia in piazza e
mettersi all’ascolto di un racconto, che è scrittura, documento, testimonianza diretta di un
fenomeno sociale che è scritto al vocabolario sotto la voce: mafie».
Autori, artisti, volontari, testimoni, persone, in una città ad alta densità ’ndranghetista che
accoglie, ospita e sostiene da cinque anni un festival di cultura antimafia. Cinque giorni,
sessanta eventi, più di cento volontari che come ogni anno giungeranno da tutta Italia (e a
cui quest’anno si uniranno gli attivisti di Legambiente) sono i numeri dell’edizione 2015
(www.tramefestival.it). La giornata d’apertura sarà dedicata a Siani e un’installazione,
curata dell’artista e docente di scenotecnica Renzo Bellanca, vedrà al centro della scena
la Méhari del giornalista napoletano.
59
Molti i libri in programma dedicati alle vittime di mafia. A tal proposito Massimo Bray,
presidente di Treccani, partner di Trame.5, ha annunciato che «il portale dell’Enciclopedia
Treccani ospiterà anche le biografie di tutte le vittime della mafia: siamo convinti che i libri
siano uno dei modi maggiori per combattere la criminalità organizzata». Ma la produzione
letteraria in tema di mafia non può essere decontestualizzata. Ampio spazio, dunque,
all’attualità politica con la presenza nella giornata inaugurale di Rosy Bindi, presidente
dell’Antimafia, e un approfondimento su Mafia capitale, con Savatteri, Giancarlo De
Cataldo e Michele Prestipino.
Trame.5 prevede anche una incursione nel cinema e nel teatro: al debutto, Buttanissima
Sicilia, spettacolo-evento di Pietrangelo Buttafuoco con la regia di Giuseppe Sottile.
Inoltre, grazie alla collaborazione con il Courmayeur Noir Festival, sarà in cartellone una
maratona di documentari storici sulle mafie, alcuni dei quali inediti, direttamente dagli
archivi dell’Istituto Luce di Cinecittà.
Tra le anteprime di quest’anno spiccano il reading di Luigi Lo Cascio sulle pagine di Pippo
Fava, Impastato e Siani e quello di Maurizio De Giovanni che leggerà brani del suo
prossimo romanzo: Anime di vetro. Falene per il commissario Ricciardi, edito da Einaudi,
mentre Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente, presenterà i dati del Rapporto
sulle Ecomafie, in diffusione pubblica da fine giugno.
del 16/06/15, pag. 17
Il Belgio contro Facebook
Bruxelles, il garante della privacy accusa: rastrellare informazioni
tramite l’attività degli utenti è illegittimo
di Lorenzo Vendemiale
Un annuncio immobiliare nella tua città, il coupon di un centro estetico vicino casa, il volo
low-cost proprio per la località dove stavi pensando di andare in vacanza. È capitato più o
meno a tutti di pensare che le pubblicità su Facebook siano fatte e studiate apposta per
noi. A volte persino troppo. Il sospetto è venuto anche al Garante della Privacy del Belgio,
che ha deciso di portare in tribunale il colosso statunitense dei social network, per vederci
chiaro sulle modalità con cui vengono raccolti i dati sensibili degli utenti.
Sotto accusa sono finiti i metodi di rastrellamento delle informazioni sui siti esterni,
attraverso l’utilizzo di strumenti come i “mi piace” o le “condivisioni”, particolarmente
apprezzati ed utilizzati dagli utenti. Ma forse solo “specchietti per le allodole” per altri fini.
L’ipotesi dell’autorità belga è che i dati vengano utilizzati per mettere appunto post
promozionali con un profilo dettagliato sui consumatori. Anche perché secondo il Garante,
Facebook spierebbe da troppo vicino non soltanto gli utenti iscritti, ma anche i non iscritti.
Senza alcuna richiesta di consenso, dunque. O comunque senza un’adeguata
spiegazione di come verranno utilizzati i dati raccolti. “Anche chi rifiuta esplicitamente di
essere seguito, lo è”, afferma al Wall Street Journal il presidente della Commissione belga,
Willem Debeuckelaere. “Facebook sa quali sono i siti frequentati dalle persone senza che
queste siano state avvertite, ridicolizzando così le norme che proteggono il diritto alla
riservatezza dei consumatori”.
Il sistema di controllo della privacy del social network è già stato oggetto negli ultimi tempi
di proteste da parte di diversi legislatori europei: Olanda, Francia, Italia, Spagna e
Germania stanno indagando sulle polizze di Facebook (e anche di alcuni servizi collaterali,
60
come Whatsapp e Instagram, recentemente acquistati dal colosso fondato da Mark
Zuckerberg). E proprio il Garante del Belgio lo scorso mese aveva pubblicato un duro
rapporto nei confronti dell’azienda americana. Adesso ha deciso di passare dalle parole ai
fatti, con una denuncia ufficiale. Per il momento Facebook ostenta sicurezza. Dagli Stati
Uniti, i portavoce fanno sapere di considerare il caso “infondato”, anche perché già in
passato hanno ribadito di ritenere di dover rispondere solo all’Irlanda, Paese dove
l’azienda ha sede legale in Europa. “Comunque saremo felici di collaborare con le autorità
per venire a capo delle loro preoccupazioni”, conclude il comunicato.
Sul piano più tecnico, la risposta di Facebook era stata che tutti i siti web utilizzano
cookies per controllare il comportamento degli utenti e personalizzare i post promozionali.
E che i consumatori hanno la possibilità di disattivare il servizio se vogliono. Insomma, una
parziale ammissione di colpe per discolparsi.
Chissà come la penseranno i giudici, a cui adesso l’azienda dovrà ripetere le stesse cose.
E dovrà farlo subito, visto che la prima udienza in aula è prevista già per giovedì 18
giugno, quando verrà organizzato l’iter del processo. Il giorno dopo, Facebook e il Garante
avrebbero dovuto incontrarsi per discutere i termini della relazione dello scorso mese. Ma
evidentemente l’Autorità belga ha voluto giocare d’anticipo, aprendo ufficialmente il
contenzioso. E alimentando il tarlo nella testa del milardo e passa di utenti mondiali del
social network: volenti o nolenti, su Facebook siamo tutti “spiati”.
61
ECONOMIA E LAVORO
del 16/06/15, pag. 4
La controffensiva di Landini: Marchionne, Fim
e Uilm ci ascoltino
Metalmeccanici. Finora trionfo Fiom nelle elezioni Rls in Fca. E sul
contratto nazionale propone «uno scambio» sul modello Lamborghini:
aumento produttività ma meno ore e più lavoratori
Massimo Franchi
Sarà vero che si tratta di eleggere solo dei rappresentanti per la sicuezza (Rls). Sarà
anche vero che finora hanno votato solo un terzo dei lavoratori. Che mancano gli
stabilimenti più grossi (Pomigliano, Melfi, Cassino, Atessa). Un fatto però è incontestabile:
nessuno avrebbe mai pensato che dopo 5 anni di apartheid nelle fabbriche di Marchionne
la Fiom fosse il primo sindacato.
I dati per ora sono impressionanti: su circa 20mila aventi diritto hanno votato in 14mila e la
Fiom ha ottenuto il 34,6 per cento («nelle ultime elezioni per le Rsu avevamo il 31,6 per
cento», sottolinea Michele De Palma). Al secondo posto c’è il Fismic di Di Maulo (quello
che ha proposto il sindacato unico prima di Renzi) col 17,7 per cento; l’Associazione
quadri al 16,3 per cento; Uilm al 15,1 per cento; Fim al 14,2 per cento; Ugl al 2 per cento.
E ieri poi è arrivato il risultato della Cnhi di Pregnana milanese (dove si costruiscono i
motori per veicoli industriali): dei 280 aventi diritto al voto hanno votato in 183. Di questi
108 hanno votato per la Fiom, con una percentuale che supera il 60 per cento.
Ecco quindi che il sindacato «che quando fa sciopero a Pomigliano e a Melfi lo seguono in
quattro», come sostenevano molti commentatori, può alzare la voce e far partire la sua
controffensiva: «Se si applicasse l’Italicum anche in Fiat (Landini continua a chiamarla
così, ndr) noi della Fiom saremmo il sindacato unico in molti stabilimenti e in pochi altri
andremmo al ballottaggio con Fismic o Associazione quadri, non con Fim e Uilm, di cui
abbiamo più voti rispetto alla loro somma».
E ancora: «Queste votazioni dimostrano che se si dà la possibilità alle persone di votare
senza ricatti si ha un risultato che nessuno si sarebbe aspettato». E chiedere a buon diritto
a Marchionne «di smetterla di escluderci dalle trattative, come continua a fare sul rinnovo
del contratto aziendale», spiega il segretario generale della Fiom, «perché vuol dire
escludere la maggioranza dei lavoratori e il sindacato maggioritario in molti stabilimenti».
La richiesta riguarda soprattutto «una discussione sulla fusione (voluta e promessa da
Marchionne con Gm o Opel, ndr) perché molti gruppi si rifiutano e quindi serve una
discussione alla luce del sole».
In questa richiesta Landini non è solo. Nel week end scorso la riunione di Torino a cui
hanno partecipato 70 sindacalisti da 10 paesi in cui Fca ha stabilimenti ha prodotto la
stessa richiesta a Marchionne: «Un incontro urgente per discutere della volontà
manifestata dal vertice aziendale di arrivare alla fusione con altre case automobilistiche».
In più la denuncia «di violazione esplicita dei diritti sindacali emerso in particolare nelle
realtà di Turchia, Messico e Brasile». Come dire: tutto il mondo è paese, per Marchionne,
in fatto di libertà sindacali.
Anche la valenza «politica» di questo voto viene sottolineata: «In qualsiasi paese del
mondo il governo convocherebbe l’azienda per discutere del rischio dell’addio definitivo
all’Italia e farebbe notizia il fatto che Fiat è uscita da Confindustria, paga i suoi lavoratori in
62
media 76 euro al mese in meno del contratto nazionale e li fa lavorare di più: altro che gli
stipendi tedeschi promessi da Marchionne», ricorda Landini.
Il discorso poi si allarga alla questione nuovo contratto nazionale. E anche qui il segretario
della Fiom cerca di rilanciare. Dopo la quasi rottura con Fim e Uilm sulla piattaforma
unitaria, sulla richiesta Fiom di «prevedere la certificazione della rappresentanza e il voto
certificato della maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti» sul contratto (Fim e
Uilm chiedevano di limitare agli Rsu, agli iscritti o alle fabbriche dove tutti sono presenti),
Landini chiede di «proseguire il confronto» proponendo «di defiscalizzare gli aumenti
contrattuali nazionali, visto che gli accordi aziendali dal 1993 a oggi sono calati dal 35 al
20 per cento del totale, e di fissare un salario minimo orario che valga per tutti i lavoratori
(erga omnes) e ore di formazione per tutti i lavoratori».
Arriva poi una quasi-svolta utilizzando il modello Lamborghini: «Siamo disponibili ad
maggior utilizzo degli impianti lavorando le notti e i festivi per aumentare la produttività ma
in cambio vogliamo una riduzione di orario e un aumento dell’occupazione».
Al «No» scontato di Fim e Uilm, Landini contrappone la convocazione di un Assemblea
nazionale dei delegati Fiom per il 10 e 11 luglio. Il comitato centrale di ieri ha approvato le
proposte con 103 voti favorevoli (anche i camussiani) e 11 voti contrari (ex Rete 28 aprile).
Del 16/06/2015, pag. 19
Partecipazioni e titoli di Stato, i conti (più
fragili) della Cdp
Chiunque vinca, un risultato è già certo: niente tornerà come prima. Sembra questione di
ore, o al massimo giorni, prima che la Cassa depositi e prestiti sappia se verrà guidata fino
all’anno prossimo dall’amministratore delegato e dal presidente di oggi. Ma che Giovanni
Gorno Tempini e Franco Bassanini resistano fino a fine mandato, o invece siano costretti a
lasciare, neanche loro dovrebbero avere dubbi almeno su un punto: Cdp non sarà più
uguale a se stessa. A questo punto della crisi dell’euro e del lavoro di contenimento della
spesa pubblica in Italia, il modello sul quale la Cassa si è basata fino a ieri non c’è più.
Soprattutto, non rende più abbastanza per essere sostenibile.
A prima vista non dovrebbe essere così, a giudicare dai conti che restano in attivo. L’anno
scorso la Cassa depositi ha guadagnato 1,1 miliardi di euro: un saldo in calo dai due
miliardi e mezzo del 2013, ma sempre notevole. Una seconda occhiata rivela però
l’erosione dei numeri.
È un logoramento di alcune fonti di ricavo tradizionali di quella che, nella diplomazia
finanziaria internazionale, viene definita la «banca di sviluppo» dell’Italia. Ma è anche il
tramonto di un equilibrio durato molti anni fra risparmio degli italiani (specie quelli meno
ricchi), il finanziamento del debito pubblico e la remunerazione della stessa Cdp da parte
dello Stato per la sua attività. Poco importa se effettivamente utile, oppure pletorica.
Basta fare il confronto tra il bilancio del 2013 e quello del 2014, per accorgersi che
qualcosa sta cambiando in profondità. Com’è noto circa tre quarti del finanziamento di cui
gode la Cassa depositi proviene dalla raccolta di risparmio degli sportelli di Poste italiane,
sotto forma di buoni fruttiferi e libretti. Nel 2013 quella massa di risparmio delle famiglie
valeva 242 miliardi in tutto, mentre l’anno scorso la raccolta postale è addirittura salita di
circa altri 10 miliardi. Si tratta di conti per lo più di piccola dimensione, spesso accumulati
da pensionati o da migranti stranieri.
63
Questi risparmi sono e restano assolutamente sicuri e continueranno a produrre un
rendimento piccolo, però garantito. È piuttosto il ruolo di Cassa su di essi che sta entrando
in crisi, e non è affatto detto che sia una cattiva notizia per i contribuenti o per i
risparmiatori stessi. Le differenze fra gli ultimi due anni raccontano del resto questa storia
in modo evidente. Nel 2013, Cassa aveva collocato 173 miliardi di euro provenienti dal
risparmio postale nel suo conto corrente presso la Tesoreria dello Stato. Si è trattato di un
vero e proprio prestito a finanziamento del debito pubblico, per il quale il Tesoro ha
versato a Cdp un interesse più alto di quello che si solito riceve chi compra
un’obbligazione pubblica. Il rendimento riconosciuto a Cdp nel 2013 è stato pari a
«rendistato» (il rendimento medio di un paniere di titoli pubblici), più un gradino al rialzo
che ha portato il rendimento medio al 3,4%. I clienti di Banco Posta hanno dunque ricevuto
un reddito da capitale che ha difeso e accresciuto un po’ il valore del loro patrimonio. Ma
grazie alla differenza che ha trattenuto per sé, Cdp ha potuto realizzare un «margine
d’interesse» (la differenza fra i tassi sul denaro che prende in prestito e quello che presta
essa stessa) davvero notevole: 2,4 miliardi di euro. Quasi tutto l’utile netto di Cdp nel 2013
si spiega così. Avanti veloce al 2014 e il terreno inizia a spostarsi sotto i piedi della «banca
di sviluppo». Per effetto del rischio di deflazione e dell’azione stabilizzante delle banche
centrali, i tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani calano in fretta. Nel frattempo il governo
cerca di accelerare sulla «spending review» e si impegna a tagliare le spese. Con un
decreto ministeriale del 24 maggio 2014, l’esecutivo rivede le modalità di remunerazione
delle giacenze e in particolare del conto di Cdp presso la Tesoreria. I rendimenti non sono
più fissati in base ai tassi del passato più o meno recente ma in linea con quelli presenti,
più bassi. Di fatto è una riduzione del rendimento supplementare che spetta a Cassa per il
suo deposito di fondi dei clienti di Poste presso la Tesoreria. E in fondo sembra logico:
pensionati, lavoratori stranieri e altri piccoli risparmiatori potrebbero comprare direttamente
Buoni ordinari o poliennali del Tesoro o altri titoli pubblici, anziché farlo attraverso Cdp
permettendo a quest’ultima di trattenere per sé un interesse in più.
Chiunque abbia ragione, il panorama per la banca di sviluppo guidata da Bassanini e
Gorno Tempini risulta trasformato. Il margine di interesse nel 2014 crolla del 61,8%. Il
margine di intermediazione, che per una banca equivale al totale dei ricavi finanziari, a
ben vedere va in rosso di 114 milioni: lo trascina verso il basso il saldo negativo per le
commissioni versate dalla Cassa alle Poste in cambio del collocamento di libretti e buoni
fruttiferi. Poste è il venditore dei prodotti di risparmio, Cdp ne è il gestore in quanto banca.
E certo per una banca avere un margine d’intermediazione negativo è un fatto raro e
niente affatto lusinghiero. Poco importa che questo istituto sia proprietà del Tesoro stesso
all’80,1% e delle fondazioni di origine bancaria al 18,4%.
Qui bisogna fermarsi un attimo, perché Cassa depositi e prestiti (legittimamente) non è
d’accordo. Nel riassunto sugli indicatori della propria performance a pagina 21 del
fascicolo di bilancio, Cdp indica un margine di intermediazione positivo per 481 milioni
(benché in netto calo sui 1.159 milioni dell’anno prima). Ma il modo in cui si compone quel
dato, benché non irregolare, suscita perplessità sulla sua tenuta: lì dentro è compreso
anche un effetto positivo per quasi 600 milioni dalle rivalutazioni sulle «partecipazioni a
controllo congiunto e influenza notevole». Si tratta di quote in società come Eni o Trans
Austria Gas, che sono cresciute in valore nel 2014 soprattutto per l’andamento dei mercati
e dunque hanno un impatto positivo sui conti dell’azionista Cdp. Ma non solo si tratta di
effetti «una tantum», difficili da replicare nei prossimi anni. Soprattutto, Cdp include queste
partecipazioni ma esclude invece svalutazioni su crediti e attivi finanziari per 166 milioni
solo nel 2014. C’è poi un secondo interrogativo, che riguarda il rapporto della Cassa con
Poste italiane. Per il collocamento di strumenti di risparmio, come si è visto, Cdp ha
riconosciuto a Poste stesse circa 1,7 miliardi in commissioni. Magari non è una somma
64
esagerata, perché si tratta pur sempre di appena lo 0,7% dell’intera raccolta di risparmio
tramite questo canale. Ma Poste italiane si prepara ad essere privatizzata con un
collocamento in Borsa ed è affamata di ricavi, mentre Cdp è controllata dallo stesso
Tesoro che legittimamente cercherà di vendere le azioni di Poste al prezzo più alto
possibile: il massimo di trasparenza per evitare conflitti d’interessi sarà più che necessario.
In definitiva, l’erosione dei conti della Cassa a causa del calo dei margini sulla gestione di
risparmio rimanda all’interrogativo di fondo: che cos’è oggi questo istituto? Come fornitore
di servizi allo Stato, la sua redditività è limitata. Come assicuratore, l’anno scorso ha
guadagnato quasi mezzo miliardo senza che questa missione appaia fra quelle fondanti
per Cdp. E come banca, non ha quasi più margine per incrementare le proprie
partecipazioni azionarie oltre il valore di un patrimonio netto di 21 miliardi. A meno che in
futuro non cambi lo statuto. Ma questa è davvero un’altra storia, di cui (per ora) non si
vedono le avvisaglie.
65