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RASSEGNA STAMPA martedì 16 giugno 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 16/06/15, pag. 6 La normalità dell’accoglienza Filippo Miraglia L’Europa a 28 sembra essersi infranta di fronte alle sue responsabilità internazionali con l’arrivo di poche migliaia di persone in cerca di protezione. I numeri spiegano chiaramente quanto sia strumentale e inaccettabile la reazione dei governi con l’attivazione di misure straordinarie utili solo a consolidare la retorica dell’invasione e ad alimentare il razzismo. Intorno al bacino del Mediterraneo, è vero, c’è un’emergenza umanitaria. Solo guardando i dati della Siria si capisce come la comunità internazionale debba attivare strumenti straordinari per far fronte alle conseguenze di una guerra che dura da più di due anni e costringe milioni di persone a fuggire. Il Libano dal 2014 sta accogliendo più persone da solo di quanto non abbia fatto tutta l’Ue. In tutta l’Unione Europea infatti, nel 2014, sono state presentate meno di 650 mila domande d’asilo, mentre il Libano ha accolto più di un milione di profughi siriani. Persone, famiglie, che usufruiscono dei servizi pubblici, tanto che in alcune scuole sono più numerosi i bambini dei campi profughi che i figli dei libanesi. L’Europa si sta sottraendo dunque alle sue responsabilità e anziché attivare misure adeguate per l’accoglienza, ad esempio applicando la Direttiva 55/2001 che consente il rilascio di un titolo di soggiorno europeo temporaneo in caso di flussi straordinari, reagisce con una ingiustificata rincorsa ad azioni di chiusura. Siamo addirittura alla chiusura delle frontiere interne, con la sospensione dell’accordo di Schengen, per evitare che chi arriva in Italia possa lasciare il Paese e aggirare il regolamento Dublino. In Italia intanto dobbiamo assistere ad episodi vergognosi come quello di ieri alla stazione Tiburtina di Roma. Le reazioni allarmiste dei governi si sommano all’incapacità dell’Italia di far fronte alla gestione di alcune migliaia di arrivi, programmandone per tempo la distribuzione sul territorio, e agli scandali di Mafia Capitale e dintorni, che stanno avvelenando il clima e rischiano di cancellare anche le esperienze positive, molto diffuse, anche se insufficienti, nel nostro Paese. Ma non basta. La situazione reale del sistema d’accoglienza è purtroppo anche peggiore. A Roma, come a Milano, e in molte altre grandi città, migliaia di richiedenti asilo, arrivati nella primavera del 2014, più di un anno fa, non hanno ancora avuto l’appuntamento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le domande d’asilo residue del 2014 sono più di 50 mila, e chi arriva oggi rischia di dover aspettare la fine del 2016 per il colloquio con la commissione . Una situazione che, oltre a determinare ingiustizie e frustrazione tra i profughi (non sapere neanche quando si verrà ascoltati e quindi quando potrà essere avviato un percorso di integrazione determina incertezza e umiliazione), produce uno spreco di risorse e una reazione negativa dei territori che ospitano i profughi in attesa. Tutto diventa così più difficile. L’assenza di una programmazione all’altezza dell’attuale emergenza umanitaria, che riguarda un numero di persone ampiamente prevedibile, rende impossibile organizzare in maniera efficace il sistema d’accoglienza ed apre spazi a comportamenti illegali e alla corruzione. 2 Non si tratta soltanto di evitare affidamenti diretti, di escludere soggetti privi di esperienza, o di predisporre un adeguato sistema di controllo. Tutto questo è necessario ma non basta. È indispensabile innanzitutto uscire dalla gestione emergenziale, che induce a scelte più costose, produce grandi centri senza servizi adeguati e con un impatto sociale negativo, generando nei territori sentimenti di rigetto e rendono sempre più difficile programmare un’accoglienza ordinaria, con risorse sufficienti, strumenti e personale competente. Tutto questo non è frutto del caso, ma dell’incapacità del governo di fare il proprio mestiere. Un’incapacità che sta costando cara al nostro Paese sotto tanti punti di vista, ma che soprattutto penalizza gli uomini e le donne che da noi si aspettano protezione. Una situazione che richiede un cambio di rotta immediato, se non vogliamo essere travolti da un caos che fa comodo solo ai predicatori di odio. Da Rassegna.it del 16/06/15 La manifestazione Migranti: il 20 giugno l'Europa nasce nel Mediterraneo Continua il muro contro muro dei paesi europei sull'immigrazione, ma si registrano anche episodi di solidarietà. Sabato, in occasione della giornata del rifugiato, manifestazione a Roma e in altri Paesi europei e africani. L'adesione della Cgil Mentre continua il drammatico muro contro muro tra Francia e Italia sull’immigrazione, insieme al crescente rifiuto e a spinte xenofobe ed episodi razzisti, la cronaca registra anche molti episodi di solidarietà nei confronti degli immigrati. Si prepara, intanto, la manifestazione di sabato a Roma per fermare la strage di migranti nel Mediterraneo. La Cgil insieme agli altri sindacati e a un cartello di associazioni parteciperà alla manifestazione nazionale che si terrà alle ore 15, in Piazza del Colosseo a Roma. La mobilitazione, indetta nella giornata internazionale del rifugiato, si svolgerà in contemporanea a numerose iniziative in altri Paesi europei e africani, perché “l'Europa nasce o muore nel Mediterraneo”. Tra le molte adesioni, oltre quella del sindacato di Corso d'Italia, ci sono quelle di Acli, Anpi, Arci Auser, Cir, Cisl, Coordinamento universitario, Emergency, Fiom, Legambiente, Medu, Rete della Conoscenza, Rete della pace, Sbilanciamoci e Uil. Di seguito l'appello dei promotori: Pace, sicurezza, benessere sociale ed economico si raggiungono solamente se si rispettano l’universalità dei diritti umani di ogni donna e di ogni uomo. La regione del Mediterraneo è una polveriera ed il mare è oramai un cimitero a cielo aperto. Dall’inizio del 2015 nel mediterraneo sono morte più di1700 persone. L'Europa, per storia, per cultura, per geografia, per il commercio, è parte integrante di questa regione ma sembra averne perso memoria. Il dramma di profughi e migranti, il loro abbandono in mano alle organizzazioni criminali, il dibattito su come, dove e chi colpire per impedire l’arrivo di uomini e donne che cercano rifugio o una vita dignitosa in Europa, non è altro che l'ultimo atto che testimonia l’assenza di visione politica da parte dei governi dell’UE. Questa drammatica situazione ha responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi europei che non consentono nessuna via d'accesso sicura e legale nel territorio dell’UE e costruiscono di fatto quelle barriere che provocano migliaia di morti nel 3 Mediterraneo, nel Sahara, nei paesi di transito, nella sacca senza uscita che si è creata in Libia. Scelte coscienti e volute che configurano un crimine contro l'umanità. La risposta dell’UE, confermata nell’Agenda Europea sull’immigrazione, ripropone soluzioni che hanno già dimostrato di essere miopi e di produrre effetti opposti agli obiettivi dichiarati. Aumentare le risorse per avere più controlli e più mezzi per pattugliare le frontiere, anziché salvare vite umane, è sbagliato e non fermerà le persone che vogliono partire per l’Europa.I conflitti irrisolti e le guerre hanno prodotto ad oggi, oltre 4 milioni di profughi palestinesi, circa 200.000 saharawi accampati nel deserto algerino, 9 milioni di siriani tra sfollati e profughi, 2 milioni di iracheni sfollati. Il flusso di uomini e donne dall’Afghanistan e dall’inferno della Libia, le persone in fuga dalla Somalia, dall'Eritrea, dal Sudan e da altri paesi africani, da anni è continuo. Dietro le storie di queste persone oltre a povertà, malattie, dittature e guerre, ci sono interessi politici ed economici internazionali.Guerre, povertà, saccheggio delle risorse naturali, sfruttamento economico e commerciale, dittature, sono le cause all'origine delle migrazioni contemporanee. Essere liberi di muoversi, migrare, deve essere una conquista dell’umanità non una costrizione. L'Europa deve costruire una risposta di pace, di convivenza, di democrazia, di benessere sociale ed economico, ispirandosi al principio di solidarietà e abbandonando le politiche securitarie, dell'austerità, degli accordi commerciali neolibertisti., di privatizzazione dei beni comuni. L'Europa deve investire sul lavoro dignitoso, sulla giustizia sociale, sulla democrazia e sulla sovranità dei popoli.L'Europa siamo noi. Noi dobbiamo fare l'Europa sociale solidale. Le nostre dieci priorità per uscire dall'emergenza e costruire l'Europa del futuro sono: 1. La UE attivi subito un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo. 2. Si ritiri immediatamente ogni ipotesi di intervento armato contro i barconi che, oltre a non avere alcuna legittimità, come ribadito dal Segretario dell'ONU Ban Ki-Moon, rischia di produrre solo altri morti e alimentare ulteriori conflitti. Si rinunci all’ennesimo strumento di una più ampia strategia di esternalizzazione delle frontiere europee. 3. Si aprano subito canali umanitari e vie d’accesso legali al territorio europeo, unico modo realistico per evitare i viaggi della morte e combattere gli scafisti. Si attivi contestualmente la Direttiva 55/2001, garantendo così uno strumento europeo di protezione che consenta la gestione dei flussi straordinari e la circolazione dei profughi nell’UE. 4. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta ai profughi di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente, con un fondo europeo ad hoc, l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Ciò nella prospettiva di arrivare presto ad un sistema europeo unico d’asilo e accoglienza condiviso da tutti i Paesi membri. 5. In attesa di un sistema unico europeo, si metta in campo, in tutti i Paesi membri, un sistema stabile d’accoglienza, unitario e diffuso, per piccoli gruppi, chiudendo definitivamente la stagione dell’emergenza permanente e dei grandi centri, che ha prodotto e produce corruzione e malaffare. Un sistema pubblico che metta al centro la dignità delle persone, con il coinvolgimento dei territori, dei comuni, con soggetti competenti, procedure trasparenti e controlli indipendenti. 6. Si intervenga nelle tante aree di crisi per trovare soluzioni di pace, senza alimentare ulteriori guerre, o sostenere nuovi e vecchi dittatori, promuovendo concretamente i processi di composizione dei conflitti e le transizioni democratiche, la difesa civile e non armata, le azioni nonviolente, i corpi civili di pace, il dialogo tra le diverse comunità. 7. Si sospendano accordi – come i processi di Rabat e di Khartoum - con governi che non rispettano i diritti umani e le libertà, bloccando subito le forniture di armamenti. 4 8. Si programmino interventi di Cooperazione per lo sviluppo locale sostenibile nelle zone più povere, dove lo spopolamento e la migrazione sono endemici e non si consenta alle multinazionali di usare per interessi privati i programmi europei di aiuto allo sviluppo. 9. Si sostenga un grande piano di investimenti pubblici per l'economia di pace, per il lavoro dignitoso e per la riconversione ecologica. 10. Si sostenga la rinegoziazione dei dei debiti pubblici ed annullamento dei debiti pubblici non esigibili o prodotti da accordi e gestioni clientelari o di corruzione. Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini! Le organizzazioni firmatarie di questo appello invitano a partecipare alla giornata di mobilitazione internazionale il prossimo 20 giugno 2015 a Roma. http://www.rassegna.it/articoli/2015/06/16/122683/migranti-il-20-giugno-leuropa-nasce-nelmediterraneo Da Immezcla.it del 15/06/15 Immigrazione, il 20 giugno a Roma per "proteggere le persone e non i confini" I dati parlano chiaro: nel 2014 delle circa 219mila persone che hanno attraversato il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni gestite dai trafficanti, più di 3500 hanno perso la vittima. Quest'anno, fino a ora, i morti sono stati già almeno 1800 a fronte di 62.500 persone arrivate. Ed allora per fermare la strage, per cercare di risvegliare l'Europa e far sì che si attivino politiche adeguate, ecco che associazioni, sindacati, promuovono una manifestazione nazionale a Roma, il 20 giugno in una data non casuale. Il 20 giugno, infatti, è la Giornata internazionale del rifugiato. Lo slogan è “Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!” La manifestazione è promossa dall'Arci, dalle Acli e da tutte le altre organizzazioni che lo scorso 21 aprile – qualche giorno dopo la strage dei 900 morti a largo delle coste libiche - organizzarono un'analoga protesta. Un lungo elenco che comprendeva i gesuiti del Centro Astalli e Sel, Amnesty International ed Emergency, la Comunità di Sant'Egidio e l'Altra Europa con Tsipras. La raccolta delle adesioni per il 20 giugno è in corso, ma gli organizzatori prevedono che la lista si allungherà molto. Dal 21 aprile è successo che, per la prima volta, ai “vergogna”, ai “mai più” e alle lacrime di circostanza, sono seguiti impegni concreti dell'Europa. E' stata triplicata la dotazione economica delle missioni di Frontex e, pur senza dichiararlo in modo esplicito, si è fatto in modo di spostarne le competenze anche sul fronte del salvataggio. E' stata poi individuata una (piccola) quota di rifugiati di cui dovranno farsi carico, pro quota, tutti i Paesi dell'Unione. Soprattutto si è lavorato - e questo è il dato politico più rilevante – come quando si affronta un problema europeo. Certo ancora c'è molto da fare e da chiarire, come il progetto di distruzione dei barconi. L'Arci definisce l'idea “estremamente pericolosa”: “Il sospetto – denuncia – è che si usi il problema dei trafficanti per ottenere il via libera a un intervento militare in un Paese che oggi è un'autentica polveriera, col rischio di innescare una situazione esplosiva in tutta la regione”. Nella piattaforma della manifestazione del 20 giugno, il secondo punto (dopo la richiesta di ripristino di Mare Nostrum) è il “ritiro immediato” di ogni ipotesi di intervento armato. Operazione che, secondo i promotori, “oltre a non avere alcuna legittimità, come ribadito dal Segretario dell'Onu Ban Ki-Moon, rischia di produrre solo altri morti e alimentare ulteriori conflitti”. Dunque, per far sentire forte il grido occorre essere in tanti il 20 giugno a Roma, al Colosseo, alle tre del pomeriggio per manifestare e cercare di far rimuovere le cause che determinano le morti in mare e tante persone in fuga. L’intera organizzazione dell’evento si va ancora definendo, in alcune capitali europee come 5 Berlino, si terranno contemporaneamente iniziative simili, c’è insomma un fermento, non solo italiano, di fronte ad una tragedia continua ed epocale. Per aderire all’appello è sufficiente inviare una mail all’indirizzo [email protected] . http://www.immezcla.it/component/k2/item/1024-roma-immigrazione-manifestazionegiornata-internazionale-rifugiato-20-giugno-sindacati-associazioni.html Da Redattore Sociale del 15/06/15 Imu e Tasi, enti non profit in difficoltà: “Criteri incerti, confusione cronica” Rispetto al 2014 la normativa non è cambiata: anche quest’anno (scadenza 30 giugno) gli enti non commerciali sono chiamati a farsi largo fra parametri confusi e definizioni ingarbugliate. Inutili le segnalazioni al ministero dell’Economia. Forum terzo settore: “Spazi ristretti” ROMA – Come lo scorso anno, anche in questo 2015 per gli enti del non profit pagare Imu e Tasi sarà un’impresa. Non tanto per il costo effettivo delle due imposte – che comunque c’è e non è indifferente – ma soprattutto per il carico di complicazioni burocratiche che le regole attualmente in vigore si portano dietro. Criteri incerti, parametri confusi, definizioni ingarbugliate, istruzioni complicate: un mix letale che rende la vita difficile a chi deve fare i calcoli esponendo gli enti ad errori che con grande facilità comporteranno poi pesanti sanzioni. Era così già un anno fa, quando il Forum del Terzo Settore aveva chiesto al governo Renzi e al ministero dell’Economia di intervenire per semplificare e chiarire la normativa: non è accaduto niente e la situazione si ripropone tale e quale ora, con gli enti non commerciali chiamati alla cassa entro il prossimo 30 giugno. “Quello di Imu e Tasi è un tema sul quale manteniamo l’attenzione alta sperando che si possa porre rimedio alla questione, ma in realtà – dice il portavoce del Forum Pietro Barbieri – gli spazi sono davvero molto ristretti”. “Ho perso la speranza che ci possa essere qualche intervento sul tema”, dice a sua volta Giuliano Rossi, responsabile dell’Ufficio studi dell’Arci e membro del tavolo tecnico legislativo del Forum Terzo Settore. “Nonostante le sollecitazioni che abbiamo inviato, nonostante le ripetute segnalazioni al ministero dell’Economia, la situazione è assolutamente identica a quella del 2014: la difficile applicabilità delle norme e la grande ambiguità delle regole portano disagio ed esasperazione in tutti coloro che in questi giorni sono alle prese con i conteggi”. Un problema che per la sua complessità riguarda anche commercialisti e fiscalisti ma che colpisce soprattutto quelle realtà del non profit che sono portate avanti dal volontariato o che comunque, non avendo grandi disponibilità finanziarie, non hanno la possibilità di affidarsi ad una figura strutturalmente preparata a compiere gli adempimenti fiscali. In verità, la normativa è talmente farraginosa che neppure la presenza di un fiscalista può mettere al riparo da futuri sanzioni e controlli: “Per il momento non abbiamo notizia di accertamenti fiscali, ma è indubbio che questa è una grana che prima o poi scoppierà, perché i nodi arriveranno al pettine: e a quel punto bisognerà vedere come il tutto sarà affrontato, perché potrebbero esserci pesanti sanzioni per tutto il non profit”. Tutto il tema, come avevamo spiegato già nel corso del 2014, ruota intorno alla farraginosità della normativa sul tema e alla confusione sui criteri e sulle regole che il ministero dell’Economia (con un intervento che non brilla certo per la sua chiarezza) ha indicato come base per calcolare l’imposta dovuta da ogni ente non commerciale. Buona 6 parte del problema sta nell’ambiguo concetto di attività condotta con “modalità” commerciale o non commerciale, a seconda della quale si può invocare o meno l’esonero ai fini Imu e Tasi. L’ente non commerciale può cioè essere esonerato dal pagare l’imposta quando opera con modalità non commerciale o quando, operando con modalità commerciale, il valore dei prezzi praticati non superi il 50% del valore medio di mercato. Un meccanismo, spiegava già mesi fa Rossi, che “è quanto di più discrezionale possa esserci”, visto che “il concetto di valore di mercato su alcune attività è molto labile e indistinguibile”. Si pensi ad un’associazione che nella sua sede ha un bar al quale possono accedere solo i soci, o ad un’altra associazione che organizza corsi di lingua inglese a pagamento per i soci: la definizione dei prezzi medi di mercato non viene fornita dal ministero dell’Economia ma viene lasciata alla responsabilità delle associazioni, che sono chiamate a indicare nella dichiarazione i valori medi di mercato e quelli da loro praticati. Di fatto viene tutto scaricato sulle singole associazioni, chiamate ad assumersi anche responsabilità che non competerebbero loro (come l’indicazione dei prezzi medi di mercato) e sottoposte alla spada di Damocle di futuri controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate. Questa situazione, peraltro, esaspera un grado di complessità che è fisiologico in questo campo, dove è molto probabile trovare immobili di proprietà di un ente non commerciale che sono solo parzialmente esonerati dall’’imposta. Forse cambierà qualcosa con la legge di riforma del terzo settore? Rossi non ci crede: “Ci sono delle linee di tendenza che difficilmente cambieranno e dubito che cambierà qualcosa sul requisito della commercialità”. (ska) 7 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da AskaNews del 15/06/15 Immigrati, sabato manifestazione nazionale a Roma Decine di sigle a marcia "Fermiamo la strage subito!" Roma, 15 giu. (askanews) - "L'Europa nasce o muore nel Mediterraneo. Solo se si rispettano i diritti umani di ogni uomo e di ogni donna è possibile garantire pace, sicurezza e benessere sociale ed economico". Inizia così l'appello delle centinaia di organizzazioni sociali e sindacali, artisti, intellettuali e singoli cittadini che hanno indetto per sabato 20 giugno una manifestazione nazionale a Roma, in piazza del Colosseo alle 15. Il 20 giugno è la giornata internazionale del rifugiato e tante saranno le iniziative promosse non solo in Italia ma anche in tante altre piazze del mondo, con cui è previsto un collegamento durante la manifestazione di Roma. Nell'appello vendono indicate 10 priorità per superare l'emergenza, dall'apertura di canali di ingresso umanitari alla pianificazione di un sistema efficace d'accoglienza, dalla sospensione degli accordi - come il processo di Karthoum - con paesi che non rispettano i diritti umani all'apertura immediata di un programma di ricerca e salvataggio nel mediterraneo. Al primo posto va messa infatti la salvaguardia della vita delle persone, la loro sopravvivenza in condizioni dignitose. Dal palco del 20 giugno si alterneranno alle voci degli aderenti, la lettura di storie di rifugiati, performance artistiche e musicali, il tutto affidato alla conduzione di Massimo Cirri e Sara Zambotti, di Caterpillar Radio2. In allegato l'appello, l'elenco degli aderenti e la locandina. Da PiuCulture.it del 15/06/15 Fermiamo la strage subito!: mobilitazione nazionale il 20 giugno Fermiamo la strage subito! manifestazione 20 giugno Roma“Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!”: è questo l’appello al centro della giornata di mobilitazione internazionale prevista per il prossimo 20 giugno. Alla luce dell’emergenza immigrazione e delle tragedie sempre più frequenti nel Mediterraneo, nell’ambito dell’iniziativa Fermiamo la strage subito!, le organizzazioni firmatarie invitano a partecipare alla manifestazione nazionale a Roma. Questa prenderà avvio alle ore 15 nei pressi del Colosseo. Per aderire [email protected]. Per conoscere nei dettagli l’iniziativa visita il sito: http://fermiamolastragesubito.blogspot.it/p/blog-page_27.html. http://www.piuculture.it/2015/06/fermiamo-la-strage-subito-mobilitazione-nazionale-il-20giugno/ 8 ESTERI del 16/06/15, pag. 17 Incubo Grexit,i timori di Draghi Il presidente della Bce: ci avviamo verso acque inesplorate, ma il default si può gestire. Giù le Borse, Atene - 4,7% Scontro tra Tsipras e la Ue: “Creditori poco realisti”. “No, siamo flessibili, travisate le nostre posizioni” ANDREA BONANNI BRUXELLES . Nel breve periodo la zona euro «dispone degli strumenti per affrontare al meglio» un eventuale default della Grecia. Ma con un simile evento. Per la prima volta il presidente della Bce, Mario Draghi, accenna pubblicamente alla possibilità di una bancarotta della Grecia accettando ieri di rispondere ad una domanda su questo tema nel corso della sua audizione davanti al Parlamento europeo. E ne trae anche un’indicazione per il futuro: «è piuttosto chiaro che quello che accade dimostra che l’area euro è una costruzione da completare e che se vogliamo gestire le conseguenze di eventi non previsti dovremo fare un balzo enorme nel nostro processo di integrazione». Draghi ha tenuto a limitare il perimetro delle competenze della Bce nella vicenda. «Voglio che sia estremamente chiaro che la decisione sulla conclusione dell’attuale programma e sulla concessione di ulteriori finanziamenti per aiutare la Grecia spetta interamente all’Eurogruppo e dunque ai membri dell’area euro. E’ una decisione politica che deve essere presa dai politici liberamente eletti e non dai banchieri centrali». Tuttavia ha invitato le parti ad avvicinarsi «ancora un miglio » per trovare un accordo «nell’interesse non solo della Grecia ma di tutta l’Eurozona», anche se «la palla è indiscutibilmente nel campo greco, che deve prendere le misure necessarie. Serve un accordo forte molto presto, la situazione è drammatica». Dopo la brusca interruzione dei negoziati tra Atene e i suoi creditori domenica pomeriggio l’ipotesi di un default della Grecia non è più un tabù. Le Borse hanno reagito con una brusca caduta. Quella greca ha perso il 4,7 per cento, Milano il 2,4 per cento. Il nostro spread è risalito a quota 160 per poi ripiegare un po’. La rottura sembra aver spinto le parti ad arroccarsi sulle rispettive posizioni. Dopo aver accusato i creditori di “opportunismo politico“, il premier greco Tsipras ostenta sicurezza: «aspetteremo pazientemente che le istituzioni europee si allineino al realismo». Ma anche la Commissione europea dà segni di impazienza. E ieri una sua portavoce ha definito “fuorvianti“ le dichiarazioni rilasciate da Atene sulle richieste degli europei. «La nostra posizione è flessibile, ed è un travisamento della posizione dei creditori affermare che abbiano chiesto un taglio delle pensioni individuali in Grecia. Non proponiamo tagli alle pensioni individuali ma una eliminazione progressiva dei prepensionamenti, l’innalzamento dell’età pensionabile e l’abolizione degl incentivi agli stessi prepensionamenti, anche per rendere finanziariamente sostenibile nel lungo termine il regime pensionistico», ha spiegato Annika Breidthardt. «Il sistema previdenziale greco è tra i più costosi d’Europa». Bruxelles chiede che si realizzi un risparmio pari all’1% del Pil. Il governo di Atene, finora, ha proposto tagli pari allo 0,04 per cento. 9 del 16/06/15, pag. 8 Tsipras ai creditori: «Difenderò il popolo» Grecia. Le istituzioni chiedono 1,8 miliardi di tagli alle pensioni. Il governo greco resiste. Il premier di Syriza: «Dopo cinque anni di saccheggi, è una questione di democrazia» Dimitri Deliolanes Che cosa sta succedendo tra Atene e Bruxelles? Non è facile capirlo. Ieri Tsipras ha fatto una dichiarazione di inusuale durezza. Ha attribuito a «finalità politiche l’insistenza delle istituzioni a imporre nuovi tagli alle pensioni», particolarmente oltraggiose in quanto emergono «dopo cinque anni di saccheggi». «Il governo greco partecipa ai negoziati avendo con sé un piano con controproposte pienamente valutate. Aspetteremo pazientemente che le istituzioni adottino uno spirito realista. Ma se alcuni scambiano per debolezza il nostro sincero desiderio di trovare una soluzione e i passi che abbiamo fatto per coprire le differenze, deve avere in testa questo: non portiamo sulle nostre spalle solo una pesante storia di lotte. Portiamo sulle spalle la dignità di un popolo ma anche le speranze dei popoli europei. E’ un carico troppo pesante per essere ignorato». Per Tsipras, l’atteggiamento del governo greco non dipende da presunte «fissazioni ideologiche», è «una questione di democrazia. Non abbiamo il diritto di seppellire la democrazia nel paese in cui è nata».Una dichiarazione che mette al centro il problema politico: l’ex trojka continua a insistere su questioni che sa di non poter ottenere. Sembrerebbe che il suo scopo sia quello di arrivare allo scontro. O almeno fare la faccia feroce fino all’ultimo istante, sperando di poter destabilizzare i «ribelli di Atene». Il tentativo va avanti da mesi ma Tsipras, finché resiste, rimane sempre un grande «eroe» popolare. Mentre l’Europa fa figure sempre più penose anche su questioni non riguardanti la crisi, come i flussi migratori. Ha ragione Tsipras a pensare a un attacco politico contro il suo governo? Vediamo i fatti. Secondo le dichiarazioni del vice premier greco Dragasakis, domenica pomeriggio a Bruxelles i negoziatori greci si sono visti respingere le proprie proposte, semplicemente perché non includevano nuovi tagli per 1,8 miliardi a un sistema pensionistico come quello greco in cui il 68,1% non supera i 483 euro. Non sappiamo (Dragasakis non ne ha fatto riferimento) se si continua anche a insistere sul pareggio di bilancio delle casse pensionistiche, quando la disoccupazione greca da anni ha il primato europeo rimanendo fissa sul 26%. Si chiede anche di aumentare di 10 punti l’Iva sui generi alimentari e sulla corrente elettrica. Non solo. Berlino continua a spargere la voce che la Grecia avrebbe bisogno di un «terzo prestito» di cui si sa già anche l’ammontare (40–50 miliardi). Ovviamente, Atene rifiuta un nuovo prestito perché non vuole essere un paese indebitato all’infinito. Piuttosto, chiede con insistenza che si ristrutturi quello che ha già e che la opprime: in termini assoluti non è una cifra iperbolica, circa 325 miliardi, ma rappresentano il 177% del Pil ellenico. Nell’intreccio tra rivendicazioni paradossali e proposte oscene sul debito, si direbbe che le forze più intransigenti del fronte dei creditori abbiano ottenuto maggiore spazio, probabilmente mediando tra Fmi e gli europei. Tutto indica quindi che a livello «tecnocratico» si stia preparando una rottura degli equilibri, rischiando perfino uno scontro dagli esiti traumatici. Lo ha in qualche modo annunciato il vice cancelliere tedesco dell’Spd, annunciando paternamente di «aver perso la pazienza» con i greci. 10 Ma questo non allarma Atene né la popolazione greca che non ha nulla da perdere. Quello che sentono i greci è un profondo senso di offesa dal trattamento ricevuto finora dagli europei. Domani potrebbe essere convocata una manifestazione popolare ad Atene. A sostegno del governo. Dovrebbe invece allarmare qualcun’altro in Europa che avrebbe molto da perdere dall’instabilità che si sta provocando. Qualcuno che avrebbe interesse a che Tsipras esca, con tutti i compromessi del caso, dalla trappola della recessione e della miseria, perché così potrebbe aprire la strada ad altri paesi indebitati. Cosa succede invece? Succede che questo qualcuno crede di fare bella figura dicendo imprecisioni a ripetizione. Mi riferisco al premier italiano che domenica ha ripetuto al Corriere della Sera la frasetta sui «baby pensionati greci», malgrado lo stesso Tsipras, sulle pagine di quello stesso giornale, gli abbia detto qualche giorno prima che non ha alcun riscontro. A meno che a palazzo Chigi non si riferiscano al famigerato rapporto del Fmi sulle pensioni greche. È da marzo che ad Atene tutti ridono su quei dati balordi che danno le pensioni costare il 40% del Pil greco, tutti i greci in pensione da 57 anni e altre amenità. Sono dati che lo stesso Fmi ha riconosciuto come «non accurati» perché basati su quelli del precedente governo. Piuttosto che tassare i ricchi Samaras era disposto a tutto. Del 16/06/2015, pag. 13 Accordo, referendum o elezioni? I dilemmi che angosciano Tsipras Il premier greco teme il crac e rilancia sulla riforma di pensioni e Iva Tonia Mastrobuoni Umori più volubili di una giornata di aprile. Dopo l’ennesimo round negoziale fallito a Bruxelles, mentre si contano le ore prima delle scadenze fatidiche oltre le quali un’intesa potrebbe diventare impossibile, ieri mattina Atene si è svegliata con la sensazione orribile di una partita chiusa. E per molti, l’intervista di Alexis Tsipras al quotidiano di sinistra «Efimerída ton Syntaktón» è stata la conferma di una situazione ormai disperata. Siccome i creditori insistono su un taglio delle pensioni, sosteneva il premier greco, la Grecia aspetterà «pazientemente» finché non arriveranno pretese «più realistiche». Tuttavia, a fronte di un tracollo delle Borse e un clima ormai avvelenato anche in Germania, dove si moltiplicano i segnali di impazienza e le richieste esplicite di chiudere la partita accettando l’ipotesi di una Grexit, un comunicato del governo si è affrettato a puntualizzare che «stiamo aspettando l’invito delle istituzioni per riprendere il negoziato in qualsiasi momento». E il portavoce dell’esecutivo, Gabriel Sakellaridis ha aggiunto che «l’unico scopo del governo è un accordo». Il partito di Tsipras Anche il clima nel partito di Tsipras continua ad essere incandescente. Ieri Alexis Mitropoulos, vicepresidente del Parlamento, membro del partito di Tsipras, ha detto a chiare lettere che senza un accordo, bisogna decidere se indire un referendum o elezioni anticipate. Ieri si è fatto sentire anche il capo dell’Ente del turismo Sete, Andreas Andreadis, preoccupato «per questa totale follia. Perderemo tra il 30 e il 50 per cento dei nostri stipendi per non tagliare le spese pubbliche dell’1 per cento», ha twittato. Il turismo rappresenta quasi il 20 per cento del Pil ellenico. In un’intervista al tabloid Bild, Yanis Varoufakis ha smentito le voci su un presunto 11 irrigidimento della Grecia sulle proprie posizioni. Atene avrebbe fatto diverse proposte di riforma e i creditori insisterebbero sul taglio alle pensioni cui la Grecia non potrà mai cedere. L’economista ha insistito sul quotidiano più venduto in Germania che bisogna tagliare il debito e che l’accordo con Bruxelles si può fare «in una notte», ma che ci deve essere Angela Merkel. Il greco si ritroverà altrimenti giovedì dinanzi ai suoi omologhi europei e a Wolfgang Schäuble e l’eurogruppo non potrà far altro che ratificare il fallimento della trattativa. I conti pubblici Ma a metà giornata, per fortuna, è arrivata una timida schiarita. Da Bruxelles la portavoce della Commissione ha rivelato che Atene avrebbe ceduto su uno dei punti di maggiore frizione: l’avanzo primario. I greci insistono da settimane su un obiettivo dello 0,75%, l’ex troika chiede l’1%. E non è un dettaglio, in particolare per il Fmi è un punto importante: minori i margini di differenza tra entrate e uscite dello Stato (al netto degli interessi), minori le possibilità di ripagare l’immenso debito pubblico. Ecco perché il Fondo ha sempre insistito su quell’obiettivo, legandolo ai dubbi sulla sostenibilità del debito. Il nodo delle pensioni La Commissione ha detto che Atene avrebbe accettato l’1% in cambio di una rinuncia ai tagli «su singole pensioni», anche se il sistema previdenziale va riformato, ha aggiunto. Il nodo è, ovviamente: come raggiungere quell’obiettivo? L’ultimo documento del governo, anticipato dal quotidiano ellenico Kathimerini, parla di tagli alle spese militari per 200 milioni di euro, un aumento delle tasse sulle imprese dal 26 al 29% e un’imposta straordinaria del 12% sui profitti sopra il milione di euro. Una riforma dell’Iva, inoltre, del 16/06/15, pag. 17 Dopo il fallimento delle trattative il Fondo monetario offre una sponda al premier greco Che intanto sonda gli altri partiti nel caso di uno scontro all’interno di Syriza Fmi: “Sacrifici da tutti” Ma Brasile e Russia ora puntano i piedi DAL NOSTRO INVIATO ETTORE LIVINI ATENE . Il Fondo Monetario indica la strada per un compromesso tra Atene e i creditori. Ma nessuno, per ora, sembra avere intenzione di imboccarla. Anche perché intorno alla Grecia si sta giocando una più ampia partita geopolitica, con protagonisti Brasile e soprattutto Russia, che utilizzano questo tema per ottenere un peso maggiore nella governance del Fondo, e stanno alzando la posta. La guerra di nervi per il salvataggio della Grecia si prepara a un doppio showdown: l’Eurogruppo di giovedì prossimo dove sul palcoscenico dei negoziati tornerà un caricatissimo Yanis Varoufakis (“Noi abbiamo fatto il possibile, tocca all’Europa muovere” ha detto ieri) e il summit dei leader Ue del 25—26 giugno, l’ultima spiaggia per un intesa che salvi il paese dal default prima del 30 giugno, quando il governo Tsipras dovrà restituire all’Fmi 1,6 miliardi di euro che oggi, senza aiuti dall’ex Troika, non ha. La strategia dell’esecutivo ellenico, a questo punto, è abbastanza chiara. Tener duro, prendere tempo e non fare nuove concessioni. Sperando che alla fine siano Ue, Bce e Fmi a capitolare. “Bruxelles aspetta nostre proposte? Ci sono già e sono quelle che abbiamo 12 presentato domenica. Non capisco per quale motivo non le accettino visto che rispettano tutti gli obiettivi che ci hanno imposto”, è il mantra di Gavril Sakellaridis, portavoce del Governo. I toni, dopo il flop del vertice del week—end, sono duri. Dietro le quinte però i pontieri sono già al lavoro per provare a far ripartire la macchina dei negoziati. Il percorso per tentare il compromesso in extremis l’ha dettato ieri il Fondo: “Per arrivare a un accordo credibile servono ancora sacrifici da entrambe le parti”, ha scritto in uno studio il capoeconomista di Washington Olivier Blanchard. Atene, spiega, deve intervenire sulle pensioni, difendendo quelle più basse ma tagliando le altre, visto che la spesa previdenziale è al 16% del Pil, troppo. Un passo indietro devono farlo però anche i creditori garantendo subito un taglio del debito “attraverso un allungamento delle scadenze e una riduzione dei tassi”, sapendo da prima che in caso di peggioramento del quadro economico potrebbe essere necessario anche un taglio in conto capitale. “ Se c’è volontà di approfondire questi due punti, l’intesa si chiude in una notte”, assicura uno dei negoziatori ellenici. I prossimi giorni saranno però lo stesso molto difficili. E il rischio che un banale incidente di percorso faccia deragliare i negoziati è altissimo. Tsipras non a caso sta iniziando a serrare le fila sul fronte domestico per tenere aperto non solo il piano A (l’accordo finale) ma anche quello B e quello C. Oggi incontrerà il gruppo parlamentare di Syriza in vista della volata finale delle trattative. L’ala più radicale del partito è evidentemente soddisfatta della durezza del braccio di ferro, ma il premier sa che va preparato il terreno con la dissidenza interna in vista delle concessioni che, inevitabilmente, dovrà fare all’ultimo minuto. In mattinata sono fissati due appuntamenti con Fofi Gennimata, neo segretario del Pasok e con Stavros Theodorakis, leader di To Potami, terzo partito in tutti i sondaggi con il 7—8% circa. Un doppio meeting figlio della necessità di tenersi una via di fuga in caso di necessità di sfidare il possibile no della minoranza di Syriza. Tsipras del resto non ha archiviato nemmeno il piano R, inteso come Russia. Giovedì, mentre tutti i fari saranno concentrati sull’Eurogruppo, lui sarà a San Pietroburgo per un foro economico dove incontrerà Putin (che nelle ultime ore forse non a caso starebbe ostacolando eventuali concessioni del Fmi). Pecunia non olet. E se i finanziamenti non arriveranno dalla Troika, Atene è pronta ad andare a cercarli altrove. del 16/06/15, pag. 25 La guerra al terrorismo. Un raid dell’aviazione americana avrebbe eliminato il leader jihadista Belmokhtar L’Isis riporta gli Usa in Libia È il primo intervento dalla campagna internazionale contro Gheddafi Dei tanti soprannomi affibbiatigli “Laaouar,” vale a dire “il Guercio”, era quello più utilizzato. Un ricordo di quando, dopo esser stato addestrato in un campo di al-Qaeda a soli 19 anni, fu poi ferito da una scheggia mentre combatteva nella feroce guerra civile afghana seguita al ritiro delle truppe sovietiche. Ma Mokhtar Belmokhtar, il noto leader jihadista algerino ucciso – secondo il governo libico di Tobruk - nella notte tra sabato e domenica da un bombardamento dell’aviazione americana nella Libia orientale, era conosciuto dai suoi simpatizzanti anche come “Mr. Marlboro”; un chiaro riferimento alla grande rete di contrabbando di sigarette (ma anche di droga, pietre preziose, oltre alla tratta di esseri umani) da lui creata nella regione desertica del Sahel. O anche l’”inafferrabile”, soprannome coniato dall’Intelligence francese che non riusciva a catturarlo e dagli eserciti 13 dei Paesi africani che in almeno due occasioni ne rivendicarono, trionfanti, l’uccisione per poi essere smentiti. Il fatto che il Pentagono non abbia ancora confermato ufficialmente la sua morte impone dunque cautela. Probabilmente defunto, o forse ancora vivo, pochi personaggi nell’immensa galassia qaedista possono vantare un curriculum come il suo; sia per anzianità (per quanto avesse solo 42 anni ha combattuto in Afghanistan, nella guerra civile algerina in Niger ed in Mali) sia per numero di attentati e obiettivi “illustri”. Al di là dell’impressionante serie di rapimenti ai danni di stranieri, anche turisti europei, l’operazione che lo consacrò come un principe della jihad mondiale fu l’attentato da lui orchestrato (gennaio 2013) contro l’installazione di gas di In Amenas, nell’Algeria orientale, quando un commando armato di miliziani islamici prese in ostaggio 800 persone, uccidendo 38 stranieri. Il raid americano contro Belmokthar segna dunque una svolta. Perché è la prima volta dalla campagna internazionale contro Muammar Gheddafi (2011) che l’aviazione americana bombarda il territorio libico, anche se solo per eliminare un pericoloso jihadista. Seconda, ma forse ancor più importante informazione, è il luogo dell’uccisione di Belmokthar. Ajdabiya, cittadina della Cirenaica, la regione orientale della Libia da cui nel febbraio 2011 è partita la rivolta contro Gheddafi, divenuta roccaforte dei gruppi estremisti. Dallo scorso agosto, quando la coalizione islamica Alba libica ha conquistato Tripoli, il Paese si è spaccato in due, con due Governi che si fanno la guerra: la Tripolitania è in mano al governo ombra degli islamici che si ispirano ai Fratelli musulmani. L’Esecutivo riconosciuto dalla comunità internazionale, ma di fatto esiliato nella città di Tobruk, a ridosso dell’Egitto, controlla invece la Cirenaica, e nemmeno tutta. Un vuoto di potere che ha facilitato l’ascesa dell’Isis. E se nell’ottobre del 2014 veniva annunciata la nascita di un Califfato nella città costiera di Derna, mese dopo mese i jihadisti hanno guadagnato terreno fino a impadronirsi di Sirte, città natale di Gheddafi. Consolidando le posizioni, di recente avrebbero conquistato l’aeroporto della città e una centrale elettrica. Cosa ci faceva in Cirenaica Belmokhtar? Forse si era unito anche lui alle cellule legate all’Isis. Anche perchè se fino a poco fa “il Guercio” era il Leader di al-Murabitoun, feroce gruppo qaedista fedele ad Ayman al-Zawahiri, voci sempre più insistenti avrebbero segnalato una sua rottura con al- Qaeda e un suo - controverso - avvicinamento allo Stato Islamico. Ma se le indiscrezioni circolate ieri sera - secondo cui i raid Usa hanno colpito una riunione dei leader di al-Qaeda e dell’Isis - sono vere,il Guercio poteva anche rappresentare una sorta di ambasciatore del network qaedista giunto in Libia per cercare una pericolosa saldatura tra due gruppi estremisti di fatto in guerra tra loro. Resta il atto che da alcuni mesi lo Stato islamico ha cambiato strategia. Anziché usare la Libia come fucina di aspiranti jihadisti da inviare sul fronte siriano-iracheno, ha invitato i suoi luogotenenti in Libia a concentrare gli attacchi in loco. L’obiettivo è creare una testa di ponte in Nord Africa, in un paese che dista poche centinaia di miglia dalle coste italiane e greche. Già all’inizio di quest’anno il Dipartimento di Stato Usa aveva stimato tra mille e tremila i miliziani affiliati all’Isis.I due governi rivali sembrano incapaci di arginare l’ascesa dell’Isis. L’unica soluzione per fermarla sarebbe quel Governo di unità nazionale tante volte dato per imminente dagli inviati dell’Onu ma mai venuto alla luce. Roberto Bongiorni del 16/06/15, pag. 9 Alla riconquista di Tel Abyad 14 Reportage. Offensiva kurda (con i «ribelli» siriani e i raid della coalizione occidentale) contro l’Is. La città ha un alto valore strategico per riunificare i cantoni di Kobane e Jezira Giuseppe Acconcia KOBANE «È iniziata l’offensiva. Ypg e Ypj si sono visti dai due lati del fronte». Sono le parole di gioia del comandante Raugin delle Ypj (Unità di protezione delle donne), le combattenti kurde che con il sostegno delle brigate unite Burkan al-Furat (Vulcano dell’Eufrate) stanno avanzando su Tel Abyad. La sconfitta dei miliziani dello Stato islamico (Is) nella città del Kurdistan siriano avrebbe una funzione strategica essenziale perché permetterebbe la riunificazione del cantone di Kobane con quello di Jezira, mentre si continua a combattere a ovest nel cantone di Efrine. Migliaia di kurdi stanno in queste ore tentando di attraversare il confine turco, sarebbero almeno 50 mila, inclusi combattenti sparsi di Is che, sconfitti sul campo, cercano e trovano rifugio nel paese vicino. Ma la frontiera di Ackale resta blindata e continua così l’assedio dei kurdi siriani per mano turca. Siamo saliti sulla collina Abu Serra alla vigilia dell’offensiva quando domenica sera è arrivato il via libera agli attacchi dal quartier generale dei Ypg di Koshkar. Per ora i combattenti kurdi sono fermi a nord di Ayn al-Issa in attesa che l’intera area da est a ovest sia liberata dopo giorni in cui Ypg e Ypj hanno guadagnato terreno lungo i 20 chilometri di strada ancora controllata da Is. I kurdi hanno preso Soluc e aperto un corridoio nel Sud di Tel Abyad tagliando una strada di comunicazione essenziale per i jihadisti a 78 km dalla città di Raqqa, loro roccaforte. Ma qui tra i villaggi divisi da sterminati campi di grano della provincia di Raqqa prima che un’area possa considerarsi liberata, la battaglia va avanti per giorni. I jihadisti hanno provato a far esplodere due ponti verso Tel Abyad ma questo non ha fermato i combattenti kurdi e di Burkan nella loro avanzata. Esmat Hassan, il ministro della Difesa del cantone di Kobane, formatosi con gli insegnamenti di Abdullah Ocalan quando era in Siria, ha dato il via libera simbolico alle operazioni. Al ritorno a Kobane, tra le macerie dove sopravvivono poche migliaia di uomini e donne che hanno deciso di rientrare dopo mesi rocamboleschi in Turchia, incontriamo un gruppo di giovani e donne che danzano balli tradizionali con in mano la bandiera di Ocalan nella piazzetta della città. Qui sorge l’unico giardino scampato ai bombardamenti di Is e della coalizione e più avanti l’unico ristorante che ha un generatore in funzione durante il giorno. A due passi dal confine la stessa folla ha salutato due giorni fa Keath Brunfield, 36 anni, il primo martire statunitense al fianco dei Ypg, ucciso nei combattimenti a Tel Abyad. Questa volta l’attacco dei Ypg-Ypj è stato effettuato in coordinamento con i bombardamenti della coalizione anti-Is, guidata dagli Usa, nonostante il governo turco si ostini a non concedere le sue basi. Il comandante della coalizione internazionale, Brett McGurk ha ammesso che i combattenti kurdi stanno davvero «sconfiggendo Is». Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, reduce dalla sconfitta elettorale del 7 giugno, ha ribadito che l’avanzata dei kurdi potrebbe essere una minaccia per i confini turchi. «Ormai Is non ha più la forza del passato, non hanno grande esperienza», ci spiega Diane, comandante dei Ypg sul fronte di Koshkar. «L’ultimo attacco dell’offensiva si è verificato nel villaggio di Corek dove 25 Ypg sono stati uccisi», aggiunge. Secondo Diane la presa di Tel Abyad è cosa complessa per il sostegno che gli abitanti dei villaggi a maggioranza araba hanno assicurato fin qui allo Stato islamico. «Nella loro ritirata i miliziani di Is continuano a vendicarsi sui civili. Ieri abbiamo trovato 20 corpi senza vita. Abbiamo documentato tutto nei video che sta andando in onda sulla televisione di Kobane (Ronahi Tv, ndr)», rivela Diane. Eppure anche secondo la co-comandante delle Ypj Ariane, che incontriamo nello stesso villaggio sulla linea del fronte, la coalizione potrebbe fare molto di più per sostenere la loro lotta. 15 In questa fase di avanzata nei villaggi arabi per i siriani si sta rivelando importante il sostegno militare dei battaglioni della brigata Burkan. Da Twar Raqqa (i ribelli di Raqqa) a Jabal el-aqrat (prima linea kurda), da al-Liwa al-Tahrir (brigata della liberazione) al battaglione 15 dell’Esercito libero siriano. In una piccola casa sulla strada verso il fronte alloggia il comandante della brigata 15, Nidal Abu Ali Abdel Wahab. In tutto la brigata conta su 170 uomini e ha soldati sia qui che a Raqqa. «Veniamo dalle montagne di Idlib. Lì Jabat el-Nusra ha tentato in ogni modo di sottrarci degli uomini. Ma noi abbiamo rifiutato». Abdel è qui da tre mesi ma ha partecipato alla liberazione di 50 villaggi intorno a Kobane. Ma ora è tempo di liberare Tel Abyad. Del 16/06/2015, pag. 14 Civili in fuga e battaglie si allarga il caos dell’Isis Per i jihadisti sconfitte in Siria e Libia: altre migliaia di profughi Maurizio Molinari L’arrivo di sedicimila profughi siriani in Turchia in meno di 96 ore e 700 mila drusi che minacciano di riversarsi sulle frontiere di Israele e Giordania sono le ultime emergenze umanitarie innescate dagli sconvolgimenti in atto in Medio Oriente mentre in Maghreb la Libia è teatro della sanguinosa faida islamica a Derna. La caduta di Tal Abyad I ribelli curdi siriani delle Unità popolari (Ypg) hanno circondato Tal Abyad, cittadina ai confini con la Turchia, dove è asserragliato un contingente di miliziani dello Stato Islamico (Isis). L’assedio preannuncia una feroce resa dei conti, strada per strada, ripetendo quanto avvenuto a Kobane in autunno, e i civili fuggono riversandosi sul piccolo centro turco di Akçakale. Da sabato sono almeno 16 mila gli abitanti di Tal Abyad arrivati in Turchia. L’esercito di Ankara prima li ha fatti passare, poi ha usato i cannoni d’acqua per allontanarli ed ora gli consente di entrare, tenendoli a ridosso del confine. Abdülhakim Ayhan, sindaco di Akçakale, accusa i ribelli curdi di «spingere alla fuga arabi e i turcomanni» sfruttando la battaglia anti-Isis «a fini di pulizia etnica». Per i curdi controllare Tal Abyad significa continuità territoriale fra Qamishi e Kobane, le enclave che controllano lungo i confini turchi. I raid Usa li sostengono perché Tal Abyad dista appena 80 km da Raqqa, la principale città siriana nelle mani di Isis. Per Brett McGurk, inviato Usa, «i curdi stanno bastonando Isis». Ma il presidente turco Erdogan ammonisce: «L’avanzata curda crea un’area che ci minaccia». L’incubo dei drusi Circa 700 mila drusi temono il genocidio per mano dei miliziani islamici: Israele e Giordania ritengono che potrebbero riversarsi sui loro confini. L’epicentro della nuova crisi umanitaria è la regione del Monte Druso, a 60 km dalla Giordania e 50 da Israele. I drusi che la popolano sono stati per decenni sostenitori degli Assad ed ora temono la vendetta sanguinosa degli islamici, Al Nusra come Isis. È stato il raid jihadista in un villaggio druso ad avere causato 20 vittime, innescando il timore di quello che Moafaq Tarif, leader spirituale dei drusi israeliani, definisce «Olocausto druso». Per scongiurarlo i leader drusi dei Paesi confinanti si mobilitano: in Libano si dicono pronti a formare una milizia di 100 mila uomini per difendere i confratelli siriani e in Israele sono scesi in piazza, guidati dal viceministro Ayoub Kara, chiedendo di «intervenire per evitare un genocidio». La scelta del premier è stata di chiedere al Pentagono di proteggere Monte Druso ma il «Jerusalem 16 Post» scrive che l’esercito israeliano sta preparando ogni sorta di piani: anche la creazione di un ombrello aereo sui villaggi drusi del Golan per scongiurare una fuga di massa verso i propri confini. Nella difesa dei drusi c’è una convergenza di interessi fra Israele e gli acerrimi nemici Hezbollah, alleati di Assad da proteggere a ogni costo. Libia, faida a Derna È giallo sulla presunta eliminazione a Ajdabiya, in Libia, di Mokhtar Belmokhtar, leader di Al Qaeda in Maghreb, da parte di jet Usa. Per il governo di Tobruk il super-terrorista è stato eliminato da gruppi islamici, ma da Tripoli smentiscono. Il Pentagono conferma l’obiettivo del blitz ma chiede «tempo» per confermare l’identità delle vittime. Intanto a Derna le milizie «Abu Salim Martyr Brigate», espressione di Al Qaeda, affermano di aver strappato il controllo della città di Isis, aggiungendo un nuovo tassello alla guerra civile libica: la faida fra jihadisti. del 16/06/15, pag. 9 Artisti in rivolta, «è maccartismo» Tel Aviv. La nuova ministra della Cultura vuole censurare le opere che «delegittimano» il Paese Michele Giorgio Erano in centinaia domenica a Giaffa, riuniti per dire no al «maccartismo». Alcuni sono personaggi noti, gli altri no. Tutti artisti comunque, decisi a protestare con forza contro la minaccia del ministero della Cultura di revocare il sostegno, ossia censurare, le produzioni culturali che, secondo la ministra Miri Regev, «delegittimano» Israele. È la realizzazione concreta della linea, ampiamente prevista dopo la formazione del nuovo governo Netanyahu, di attacco a coloro che all’interno del Paese danno spazio alle voci dissidenti e politicamente scomode nell’arte e nella cultura. Ma nessuno si aspettava che arrivasse tanto presto la sfida di Regev e anche del suo collega all’istruzione Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista Casa ebraica. La ministra della cultura qualche giorno fa ha scritto sulla sua pagina Facebook che «il confine deve essere chiaro. «Non intendo sostenere le produzioni culturali che delegittimano Israele». Poco prima Regev aveva minacciato di tagliare i fondi a un teatro, gestito da un regista arabo, perché non vuole portare le sue produzioni anche nelle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. A far salire la tensione ha contribuito la recente decisione del ministro Bennett di revocare i finanziamenti assegnati a una rappresentazione per le scuole del teatro al Midan di Haifa, ispirata alla vicenda di un detenuto arabo, Walid Daka, che ha ucciso nel 1984 un soldato israeliano, Moshe Tamam. Domenica, in un’atmosfera incandescente, la ministra Regev era al centro delle accuse degli artisti a Giaffa. Il più duro è stato l’attore di teatro Oded Kottler che, qualche ora prima aveva scatenato un putiferio paragonando a un gregge di bestie gli elettori del Likud, il partito del primo ministro e della stessa Regev. Molto applaudito l’intervento di Michael Gurevitch, il direttore artistico del teatro Khan di Gerusalemme – dove un paio d’anni fa fu rappresentato in ebraico Il mio nome è Rachel Corrie, diretto da Ari Remez, con l’attrice israeliana Sivane Kretchner nei panni dell’attivista americana travolta e uccisa nel 2003 da un bulldozer militare israeliano a Rafah – che è stato accolto con un lungo applauso quando ha proposto uno sciopero di tutte le istituzioni culturali. «Non ci può essere alcun dialogo con Regev finché cercherà di influenzare le opere d’arte. Perché non può determinare lei ciò che danneggia o meno sicurezza e immagine dello Stato», ha detto Gurevitch. Gli artisti rinnovano l’appello a 17 sottoscrivere la petizione online contro le «misure antidemocratiche adottate da esponenti del governo per uomini di cultura le cui opere e opinioni non sono conformi con quelle ministeriali». Regev ha negato l’accusa di «maccartismo». Da parte sua il ministro Bennett ha smentito l’intenzione di voler interferire nella produzione culturale ma ha difeso la decisione di impedire uno spettacolo teatrale che «mostra simpatia per un assassino». Ben-Dror Yemini columnist del quotidiano Yediot Ahronot, che nei giorni scorsi aveva duramente attaccato il movimento Bds che chiede il boicottaggio di Israele, da un lato ha riconosciuto che la libertà di espressione e di provocazione sono «il cuore e l’anima della democrazia» ma dall’altro ha appoggiato pienamente i tagli. «Certi artisti vogliono proclamare che Israele è criminale, lasciateli fare. Vogliono fare del teatro ispirato a un assassino, fateli fare…ma non si capisce perchè i cittadini israeliani dovrebbero finanziare la denigrazione dello Stato», ha scritto. Per Bashar Murkus, autore e regista dello spettacolo teatrale bloccato, la mossa del ministro Bennett confermerebbe le forti contraddizioni «di uno Stato che si definisce democratico». Nello spettacolo, ha detto Murkus, «cerco solo di rendere evidente l’aspetto umano del prigioniero… Nessuno lo tratta come un essere umano e sul palco è bello e importante guardare e ascoltare la profondità umana». Il ministro dell’Istruzione invece non trova in alcun modo sconveniente che al prossimo Jerusalem Film Festival (in parte finanziato dallo Stato) ci sarà un docu film su Yigal Amir, in cui l’assassino del primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, è rappresentato con un volto molto umano. In questo caso la libertà di espressione è pienamente garantita. del 16/06/15, pag. 9 Crimini a Gaza, assoluzione «preventiva» di Tel Aviv Michele Giorgio Può essere considerata una mossa preventiva, in anticipo sulla pubblicazione del rapporto del Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani e delle eventuali azioni della Corte penale internazionale, la decisione presa dal governo Netanyahu di presentare due giorni fa oltre 200 pagine dettagliate per spiegare che la scorsa estate Israele si è mosso sempre all’interno del diritto internazionale durante l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza. Gli oltre 2.200 morti e migliaia di feriti palestinesi e le decine di migliaia di abitazioni distrutte e danneggiate, per Tel Aviv sono esclusiva responsabilità del movimento islamico Hamas. Israele non ha alcuna, anche la più piccola, colpa per la morte di tanti civili palestinesi. Anzi si afferma nel rapporto che gran parte di quei civili erano in realtà miliziani armati. Una descrizione dell’accaduto che contrasta fortemente con le testimonianze offerte da soldati e ufficiali israeliani all’ong “Breaking di Silence” che riferivano dell’intenzione, espressa in numerose occasioni, di colpire anche obiettivi civili. del 16/06/15, pag. 16 Il vento del cambiamento spira nelle piazze 18 Honduras. Manifestazioni a Tegucigalpa e a Città del Guatemala Geraldina Colotti Piazze in ebollizione anche in Centroamerica, ma da opposte sponde e per opposte ragioni. Honduras e Guatemala sono attraversati da ripetute manifestazioni contro la corruzione e il malgoverno. A Tegucigalpa, gli «indignados» sono scesi in piazza seguendo una modalità di autoconvocazione attraverso le reti sociali: senza bandiere di partiti, ma per esigere la fine dell’impunità per i corrotti che si annidano fin nelle più alte sfere di governo. La base dei partiti socialisti di opposizione — riunita nel Frente Nacional de Resistencia Popular (Fnrp) o nel Partido Libertad y Refundacion (Libre) — era però ben visibile in piazza: per denunciare «il narcostato» e la drammatica situazione in cui versano i ceti popolari. Oltre il 72% dei citttadini vive in povertà, il 53% in povertà estrema, mentre 10 famiglie controllano oltre il 90% dell’economia e il flusso di circa 2.050 imprese strategiche. Dall’Honduras passa oltre il 90% della cocaina proveniente dalla Colombia e diretta negli Stati uniti. Cifre aumentate dopo il «golpe istituzionale» del 2009, compiuto contro l’allora presidente Manuel Zelaya, il quale, pur essendo un moderato, aveva «osato» volgere lo sguardo ai paesi dell’Alba. Col pretesto della lotta al narcotraffico è così ulteriormente aumentata la presenza militare Usa nelle tre basi militari presenti. Le sinistre honduregne hanno denunciato il recente rafforzamento di contingenti militari riscontrando un piano di aggressione contro il Nicaragua e il Venezuela. L’Honduras è infatti stato storicamente il territorio da cui contenere i processi di cambiamento della regione: a partire dal colpo di stato organizzato contro il governo progressista di Jacobo Arbenz in Guatemala, nel 1954. Nel 1965 le truppe nordamericane sono partite dall’Honduras per far cadere il governo di Juan Bosch nella Repubblica Dominicana. Stesse modalità vennero dispiegate contro il Frente Farabundo Marti in Salvador e contro la rivoluzione sandinista in Nicaragua, L’Honduras è anche uno degli stati più violenti dell’America latina. A fare le spese dei 23 omicidi che si commettono ogni giorno sono spesso sindacalisti, contadini e giornalisti. La città di San Pedro Sula è considerata la più violenta del mondo per essere uno dei principali centri del narcotraffico. Come in Colombia e in Messico — denunciano le sinistre honduregne — i militari Usa sono i garanti del flusso del narcotraffico. La quantità di denaro che circola nel paese, gestita dai centri del capitale finanziario internazionale è gigantesca. La Banca mondiale prevede che il Prodotto interno lordo cresca quest’anno del 3,2%, ma 6 su 10 famiglie che vivono nelle zone rurali sono in stato di indigenza. «Rinuncia Joh», gridano allora le piazze riferendosi al presidente Juan Orlando Hernandez. Il Commissario nazionale per i diritti umani, Roberto Herrera Caceres gli ha chiesto di aprire un dialogo con i manifestanti e di rispettare i diritti umani. Il presidente ha detto di «essere pronto al dialogo» con i diversi settori della protesta per mettere fine alla crisi politica. Anche le piazze guatemalteche esigono le dimissioni del presidente Otto Pérez Molina, un ex generale dei tempi della dittatura soprannominato Mano dura. Anche in questo caso sono scesi in campo gli «indignados»: con un accento ancora più «apartitico» che in Honduras, dato lo stato di debolezza delle sinistre guatemalteche e la persistente chiusura di spazi per l’opposizione. Anche in questo caso, le numerose fiaccolate che si svolgono in diverse parti del paese chiedono la fine della corruzione, che ha coinvolto i più alti vertici di governo e le cerchie più vicine a Molina. Ma lui, dopo aver fatto cadere qualche testa, ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e ha gridato al complotto. La Corte suprema ha dato il via libera a un’indagine parlamentare nei suoi confronti, ma gli Stati uniti stanno brigando affinché mantenga l’immunità parlamentare. 19 INTERNI del 16/06/15, pag. 15 La scorsa estate il leader celebrava la storica vittoria alle Europee ora è alle prese con le prime sconfitte Il tallone di Matteo a un anno dal 40% cade il mito dell’invincibilità FILIPPO CECCARELLI OH, insidia beffarda degli anniversari! Giusto un anno fa (14 giugno del 2014), quando all’hotel Ergife venne riunita l’Assemblea nazionale del Pd, qualcuno ebbe la scenografica ideona di piazzare al posto d’onore, stampata a caratteri televisivi sul fondale del palco, la cifra magica della recente vittoria europea: quel 40,8 per cento che per dodici mesi è poi risuonato in ogni possibile sede come il dogma dell’invincibilità di Matteo Renzi. Il giovane leader volle quel giorno definirlo: «Una sconvolgente attestazione di speranza ». Sempre alle sue spalle si leggeva risolutamente: «Adesso tocca a noi» e, preceduto dall’immancabile cancelletto, «#Italiariparte». Vero è che insieme a una memoria a scartamento piuttosto ridotto, gli italiani hanno una storica tendenza a esaltare i vincitori, talvolta fino alla divinizzazione. Ma nel giugno dello scorso anno, per il premier, tutto andava molto meglio di oggi - anzi troppo. Qualche giorno prima, al Festival dell’Economia di Trento, Renzi si era abbandonato all’enfasi inscrivendo il risultato europeo nello statuto del Prodigioso: «C’è un allineamento di fattori astrali irripetibili». Messi anche così a tacere i gufi, in un costante tripudio di selfie e « gimmefive » raccoglieva ovunque lodi e ammirazione. Un giornò benedì la folla affacciandosi in maglietta bianca da una finestra di Palazzo Chigi; di lì a poco quei simpaticoni del Pd di Roma annunciarono la Festa dell’Unità con un manifesto che ammiccava studiatamente a Fonzie; e sempre in quel mese, per restare al trionfo dello stile Renzi, venne notato che a Pitti Uomo molte linee della kermesse fiorentina sembravano «ispirate al premier, prevalendo i suoi colori preferiti, il blu e i toni dell’azzurro, le giacche di lino, le camicie extra slim per fisici allenati, i pantaloni a sigaretta ma non troppo corti»... e vabbè. Sembrava di cogliere un che di fanciullesco, ma insieme di già visto e torvo, in questo correre « in servitium », come scriveva il professor Zagrebelsky, del vincitore. Però era quasi indiscutibile che su di lui, più di ogni altro nella politica italiana, si fosse posata l’ala della vittoria: «Veni, vidi, Renzi - titolava Le Monde - Un sogno di Rinascimento italiano». Evvài. Si potrebbe continuare a lungo, con malizia tanto più allegra quanto mesta risulta l’odierna atmosfera sia al Nazareno che a Palazzo Chigi (oltre che a Genova, a Venezia, in Sicilia, eccetera). Rimane appena da dire che nella realtà, o se si preferisce nella storia anche recente, nessuno è per sempre invincibile. Non lo fu Craxi, battuto prima dal diabete e poi dalla scoppola referendaria («Io i miracoli non li faccio»); non lo fu Andreotti i cui portenti, teorizzava Baget Bozzo, «apprenderemo nella Valle di Giosafat»; e poi fu sconfitto Bossi e infine anche Berlusconi, che diceva: «Ogni volta che perdo, triplico le mie forze». Quanto all’invulnerabilità, con un salto al tempo stesso ragionevole e temerario, si può concludere che perfino Achille aveva il suo proverbialissimo tallone. 20 La mitologia, al riguardo, è tortuosa. Omero, Igino, Stazio, le Etiopiche , l’ Eneide , le Metamorfosi di Ovidio al libro XII... Quasi certamente c’entra il Fato, oppure un dio Apollo? - che comunque deviano il corso della freccia avvelenata di Paride, e zàcchete , addio Achille! Ora, più la politica si rivela inconcludente e più si alimenta di miti, di suggestioni e di chiacchiere. La mimetica indossata dal premier ad Erat non ha funzionato. Così, specie dopo il secondo turno, lo storytelling renziano sembra di colpo in debito di fantasia e creatività. In questi casi i capi concedono di solito il minimo indispensabile: il vecchio e caro «errore di comunicazione», il «non siamo riusciti a trasmettere» e così via. Ma quando la dea Nike, la Vittoria, comincia a fare i capricci, beh, in un tempo di procurati incanti, visioni artificiali e leaderismi carismatici, il guaio è più serio di quanto i numeri e gli spin doctor si sforzino di dimostrare. Ecco, c’è davvero qualcosa che non va più nel renzismo, quando si placa il sindaco Marino nominando un «coordinatore » invece che un «commissario » del Giubileo; così come l’aver «asfaltato» la minoranza democratica sull’Italicum lascia all’improvviso il tempo che trova di fronte alle ingenuità, alle incertezze e agli errori messi in vetrina per l’emergenza immigrazione - a parte il ruolo non proprio influente esercitato da Federica Mogherini in sede europea. La Buona Scuola impantanata; quella della Pubblica amministrazione quasi dimenticata; le unioni civili ormai in ritardo; il fisco amico che amico non è; la Rai te la saluto... Ridotto a ornamento scenografico e a litania da talk- show, il 40,8 per cento è durato come un sospiro. del 16/06/15, pag. 1/37 MATTEO SENZATERRA EZIO MAURO MATTEO senzaterra. Questa la nuova immagine del presidente del Consiglio e soprattutto del segretario del Pd, man mano che i Democratici cedono terreno a Grillo e alla destra perdendo Nuoro, Fano, Arezzo, Gela, Augusta, Enna e soprattutto Venezia, capitale simbolica di questa sconfitta incubata nei municipi e nei territori, proprio dov’era nata la sfida renziana. Avevamo avvertito che le regionali erano una vittoria numerica, ma una chiara sconfitta politica. Adesso la crisi del Pd, nonostante i successi a Mantova, Lecco, Segrate, Trani e Macerata, è anche numerica ed è davanti agli occhi di tutti: negarla è impossibile per cinque ragioni evidenti. L’astensione che supera il 50 per cento anche in elezioni comunali conferma che l’incantamento è rotto e il renzismo si deve guadagnare il pane nella lotta di tutti i giorni, senza rendite di posizione: diventa uguale agli altri. L’inseguimento del partito della nazione ha lasciato sguarnito il fianco di sinistra, e la disaffezione si vede e soprattutto si conta. La rincorsa al centro arranca perché il cambiamento ristagna. Il Pd è il luogo del conflitto e non delle idee, del risentimento e non del sentimento di una sinistra moderna. LO SCANDALO ininterrotto di Roma e gli impresentabili ammucchiati attorno all’impresentabile De Luca in Campania entrano in contraddizione con la retorica della rottamazione e la annullano: soprattutto quando il vertice tace, e come dice il proverbio in qualche modo acconsente. 21 O Renzi fa il Capo del governo e libera l’autonomia del Pd, trasformandolo in quel soggetto politico che non è, oppure deve occuparsi del partito, dotandolo del fondamento culturale che ancora manca, e che è la base e la fonte sicura di ogni scelta politica consapevole: com’è possibile ad esempio che sui migranti non sia ancora nata una moderna cultura di sinistra, capace di coniugare la domanda di sicurezza con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, lasciando invece il campo libero al pensiero unico e feroce di Salvini? E non sarebbe questo il miglior terreno di protagonismo e di sfida per la sinistra interna, invece del ruolo meccanico e subalterno che si limita a dire no a ogni proposta del premier? Il test amministrativo conferma che la destra è ormai una presenza fissa sulla scena italiana — così come l’antipolitica grillina — anche quando è allo stato gassoso, senza un recipiente e un’etichetta. Berlusconi non lascia un erede perché non lascia una cultura, ma ha evocato un mondo, che continuerà ad essere abitato a destra dopo di lui. Ma a ben guardare, il test dice qualcosa di più. Paradossalmente gli sfidanti in crescita, M5S e destra, oggi non hanno leadership nazionale ma hanno un’identità politica e la radicalità di una proposta, due elementi che in politica creano un “campo” riconoscibile e riconosciuto. Il Pd ha leadership, e poco altro. In un Paese frastornato, non basta più. del 16/06/15, pag. 1/4 Nel deserto delle urne Matteo Renzi al voto per la regione Toscana Norma Rangeri Se dopo le elezioni regionali erano suonati i campanelli d’allarme, dopo il voto comunale si sono messe all’opera proprio tutte le campane. Innanzitutto per Renzi e per il suo partito, che adesso non prova neppure a minimizzare e parla apertamente di «una sconfitta». La doppia batosta di Venezia e Arezzo, ventennali roccaforti del centrosinistra, colpisce il premier-segretario sia come presidente del consiglio che come leader di partito. Né Casson, un candidato che avrebbe dovuto fare il pieno dei voti di sinistra, né il renzianissimo Braccialli che avrebbe dovuto sfondare nel campo avverso, hanno avuto il consenso degli elettori. Al contrario, in Laguna come nella provincia toscana, sono stati premiati un imprenditore e un ingegnere, due portabandiera delle forze di centrodestra, esponenti della società utili a nascondere i partiti sotto il tappeto. Ha poco di che rallegrarsi il vivace Brunetta con Forza Italia che a Venezia non arriva nemmeno al 4%, e hanno poco da recriminare sulle divisioni quelli del Pd se proprio il partito è stato abbondantemente superato dalla lista di Casson. L’altro elemento rilevante del voto è l’errore di sottovalutare l’avversario dandolo per sconfitto in partenza o considerandolo facilmente battibile. Come sempre, come fin dall’esordio del berlusconismo, a destra non trova casa il virus del tafazzismo, tipica patologia della sinistra, e quando è il momento le divisioni si annullano e il cartello si mostra compatto. Il tafazzismo, invece, ha contagiato il Movimento dei 5Stelle, conquistato dal tanto peggio tanto meglio. Nella speranza di raccogliere i frutti che gli avversari (tutto il Parlamento) non sono in grado di riprendere. Ma questo riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S strappa qualche importante comune segnando un’altra tappa del suo radicamento, resta che il Movimento soprattutto si distingue per fare da spalla al centro-destra. Come dimostra in pieno il caso Venezia. 22 Non votare Casson significa non sostenere un personaggio — un magistrato — e una politica — onestà e mani pulite — che rientra perfettamente nella cultura pentastellata. Se le scelte avvenute alle regionali erano oltremodo legittime — un’organizzazione che raccoglie un consenso ampio, deve essere ambiziosa — quella di non partecipare al ballottaggio veneziano è distruttiva e autodistruttiva. Ma chi deve preoccuparsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo questo importante voto amministrativo Renzi dovrebbe prestare meno attenzione alla grancassa mediatica che gli suona la serenata e avere maggior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd perde sia con un candidato di sinistra che con uno di destra, vuol dire che lo sfondamento al centro è una chimera e la riconquista di un consenso a sinistra un’illusione. Anche perché l’unico dato nazionale incontrovertibile, indiscutibile e apparentemente anche invincibile resta l’astensionismo. Che colpisce tutti, politica e antipolitica, destra e sinistra. La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smentiscono le magnifiche sorti delle furbizie costituzionali (l’Italicum) e delle scorciatoie liberiste (jobs act). Del resto la tragedia delle migrazioni, che attraversa i nostri territori mettendo in forse persino la frontiera dell’umana solidarietà, è testimonianza sufficiente per consigliare di tornare con i piedi per terra. del 16/06/15, pag. 3 Il Pd reale bussa al Nazareno Democrack. «Si guarda avanti», ma i renzisti debbono ammettere: il partito è malmesso. Ddl scuola, la sinistra avverte: serve l’unità. Ma ora rischia di accollarsi il ritardo Daniela Preziosi «Diciamola tutta una buona volta: raccontarsi che il Pd perde nei territori perché lì è mancata la famosa innovazione che invece c’è al centro, cioè dire che gli intelligenti stanno solo al partito nazionale e gli altri sono tutti scemi, può essere una favola buona per dormire un po’ più tranquilli, ma resta , appunto, una favola, una storiella». Nico Stumpo, ex responsabile organizzazione del Pd, oggi colonna della sinistra dem coté poco accomodante, mette le mani avanti. Stavolta i risultati dei ballottaggi non consentono grandi margini interpretativi neanche ai fantasisti della squadra renzista. Il segretario con i suoi ammette «la sconfitta», pur stando attento a non far filtrare scoramenti o depressioni da perdente. Il suo numero due Lorenzo Guerini articola il concetto dicendo che la sconfitta veneziana «brucia», come pure quella di Arezzo, la città della ministra Boschi, e quella della roccaforte marchigiana di Fermo, e poi quelle di Matera e di Nuoro: il Pd resterà anche «il primo partito» ma questo «non è sufficiente a farci brindare». Ma la ricerca di facili capri espiatori resta una tentazione forte per il Nazareno. Stumpo la vede, per esempio, in Debora Serracchiani che butta la croce sulle federazioni, ree di non essersi adeguate al renzismo centrale: «Il Pd vince quando offre fiducia e speranza ai cittadini, e in alcuni casi sui territori ciò non accade», dice la presidente friulana. Tradotto: non si è vinto perché la renzizzazione del partito non è ancora completa. Ma è un’argomentazione ormai inutilizzabile. «Un’analisi così autoconsolatoria come quella fatta da Renzi in direzione non regge la prova della realtà», attacca Alfredo D’Attorre. «È il momento di riaprire il confronto per un cantiere del centrosinistra largo: altro che partito della nazione o partito di Renzi. Se il Pd non torna a ricostruire il centrosinistra allargando la voragine a sinistra, rischia di restare isolato in una terra di nessuno e andare incontro a 23 disastri elettorali». Il guaio è che anche questa lettura del voto rischia di essere superata. Il Pd non incassa il voto dei moderati, ma perde anche dove si propone con un’offerta ’di sinistra’, come il civatiano ex pm Casson a Venezia. Il campo della sinistra è ormai desertificato dalla tenaglia Renzi-5stelle. Alle scorse regionali le uniche vittorie piene sono state quelle di De Luca in Campania e di Emiliano in Puglia: due candidati che hanno realizzato il ’partito della nazione’ che piace a Renzi, ma certo senza grande ’innovazione’. Tanto più che entrambe le regioni per ora sono nella palude: De Luca è in attesa dell’impossibile proclamazione, Emiliano è inceppato da un problema applicativo della legge elettorale regionale, peraltro modificata in fretta e furia alla vigilia del voto. Nei luoghi delle sconfitte il Pd bordeggia l’implosione: in Liguria tutto il gruppo dirigente è dimissionario. E non solo perché ha perso, ma anche perché l’ex candidata Paita ora spara a 360 gradi, dal ministro Orlando a tutto il Pd locale che in campagna elettorale si sarebbe impegnato «in un’opera di demolizione dell’amministrazione uscente», quella del suo padrino politico Burlando. A Roma il sindaco Marino traballa. Il rinnovato sostegno di Renzi non basta, visto che Sel ieri ha fatto mancare i suoi voti in Campidoglio e in queste ore sta decidendo se continuare a sostenere la giunta. Intanto al Nazareno la commissione che doveva mettere mano allo statuto e alle primarie che hanno fallito un po’ ovunque, è ferma. La discussione non è mai iniziata perché il segretario non ha ancora deciso che fare. Ultime ma non ultime, le due camere. Dove per la maggioranza non bella aria per Renzi. Al senato l’umore dell’Ncd dipende dall’esito dell’autorizzazione all’arresto di Azzolini. Intanto il ddl scuola va avanti, ma la sinistra Pd dà battaglia e il soccorso verdiniano ormai è una chimera del passato. Il bersaniano Gotor spiega che se si vuole portare a casa la riforma «la strada obbligata è l’unità del Pd». I giorni passano, sarebbe meglio «procedere con uno stralcio e assumere subito per decreto i precari delle graduatorie a esaurimento», e se non lo si fa è per «scaricare sul parlamento la responsabilità di un’eventuale mancata assunzione». Anche alla camera i guai non mancano. Oggi i deputati voteranno Ettore Rosato al posto del dimissionario Roberto Speranza. Ma il voto segreto potrebbe condizionare il risultato, molti voti mancheranno all’appello. Renzi ostenta tranquillità. «Si va avanti solo se si ha il coraggio di fare riforme coraggiose», ha detto ieri dopo aver visto il presidente messicano Enrique Pena Nieto. Ma si va avanti solo se si hanno i numeri. E i numeri sono un’incognita, ora che il ricatto delle elezioni anticipate, mai stato verosimile, è definitivamente scomparso dallo spin di palazzo. Con tutte le conseguenze del caso. del 16/06/15, pag. 2 Renzi: “Farò un partito modello Usa ma basta primarie” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA. «Basta con le primarie», dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori in una giornata occupata più dal problema profughi che dal passo falso dei ballottaggi. Non significa che il Pd abolirà la selezione popolare dei candidati. Significa però che cercherà di limitarne l’uso, che proverà a guidare la scelta dei candidati in altri modi, anche più tradizionali, per non incorrere negli errori decisivi di Raffaela Paita in Liguria e Felice Casson a Venezia. Un vero stop che nelle parole del presidente del Pd Matteo Orfini diventa un’abolizione: 24 «Senza primarie avremmo vinto in Liguria e a Venezia. Così come abbiamo vinto nel Lazio e in Piemonte con Zingaretti e Chiamparino che non sono passati attraverso i gazebo». A Largo del Nazareno hanno quindi individuato la prima correzione da fare in vista delle amministrative 2016, di peso specifico ancora maggiore. Milano, Torino e Napoli tornano alle urne e una sconfitta sarebbe bruciante per il Pd. Renzi dice anche che serve «un modello di partito diverso». Più moderno, «più Obama, meno Mastella o Pajetta», spiega agli interlocutori. Ovvero, che non viva sui pacchetti di voti e nemmeno sulla diffusione capillare che portò il Partito comunista a essere fortissimo tanto da sfiorare la maggioranza relativa. Alla sinistra interna il premier attribuisce una bella quota di responsabilità nella sconfitta. Ma ammette che si parte da un dato di fatto storico e culturale. «L’Italia è un paese di destra - confida - . Se poi, all’interno della sinistra, si discute continuamente e su tutto, questo ci indebolisce. Ed è quel che è accaduto ». Le diatribe infinite e la lotta intestina hanno creato uno stato dell’arte in cui «il Pd ha smesso di essere novità». Soprattutto il Pd renziano, intende naturalmente il segretario. «Dobbiamo continuare a dire come cambiamo - osserva il segretario - . Da oggi si torna al Pd che mi ha eletto». Sono parole che hanno un tono di sfida verso la minoranza. I dissidenti sono convinti di avere adesso l’occasione per contare di più, per condizionare l’attività di governo e i provvedimenti del premier. A cominciare dalla riforma della scuola su cui si comincia a votare stamattina in commissione al Senato. C’è chi mette nel mirino persino l’Italicum, una legge ormai approvata in via definitiva. «Con l’Italicum - ribatte Renzi alle critiche che avanzano dopo i ballottaggi, meccanismo che regola anche la nuova legge elettorale sono sicuro di vincere contro Salvini, contro Berlusconi e contro un grillino». Diverso è il pronostico che nascerebbe dalla comparsa di un mister X della destra in grado di unire queste forze e contrapporsi al centrosinistra. «Se spunta un signor Rossi, il discorso è diverso », è il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi. Ma per fronteggiare anche quello che non c’è, bisogna prepararsi subito. Lo stop parziale alle primarie, che verrebbero ridimensionate per le elezioni locali e mantenute per la segreteria del Pd e per la carica di candidato premier, non basta. «Quando mi riferisco a Obama - si sente dire nei discorsi del premier - penso a un partito organizzato in maniera nuova. Con un esperto di big data che lavori al fianco di giovani iscritti e militanti. Giovani che sappiano farsi portatori dei valori su diritti anche mo- derni: smart city, talento, sostenibilità, lotta alla fame e i diritti sociali, certo». Si parte da qui e non c’è traccia, nelle parole del presidente del Consiglio, di un’apertura alle critiche dei dissidenti. Ad esempio, quella di una maggiore ricerca di unità il cosiddetto metodo Mattarella che ricompattò il Pd e decise le elezione del presidente della Repubblica. Renzi considera il lavoro della minoranza soprattutto nella chiave di una voglia di rivincita. «Chi vuole guidare il Pd mi deve sconfiggere e lo deve fare al congresso che si terrà nel 2017. Non mi deve convincere», avverte il premier nei colloqui riservati. Ma per guidare il processo di avvicinamento alle elezioni di Milano, Napoli e Torino è impossibile fare a meno del contributo della sinistra e in alcuni casi anche della sinistra radicale. Tanto più se le scelte vanno fatte senza le primarie ma con l’individuazione di un nome che raccolga consensi a sinistra e oltre quel recinto. «I discorsi tecnici sulle primarie servono a poco - spiega Alfredo D’Attorre - . Non riusciamo a unire l’area del centrosinistra, questo è il problema. Esattamente il contrario di ciò che avveniva in passato. Quando vincevamo i ballottaggi proprio per la capacità di creare un clima positivo nella nostra area». Nico Stumpo si prende una sua rivincita personale ora che qualcuno parla di primarie regolate meglio. Con un albo degli iscritti «che va fatto volta per volta, un albo per ogni voto. Con l’online si fa in maniera semplice». 25 È un confronto tutto da costruire, quello della selezione dei candidati. Il destino, se ben gestito, può dare una mano a Torino. I vertici del Pd sperano che Piero Fassino smentisca il proposito di limitarsi a un solo mandato e accetti la ricandidatura. Per risparmiarsi una competizione al gazebo. Ma Napoli e Milano restano questioni aperte del 16/06/15, pag. 12 Berlusconi incassa “Ma non voglio il voto anticipato” “Renzi dovrà fare i conti con questo vecchietto” E prepara un tour per rilanciare Forza Italia TOMMASO CIRIACO ROMA . «Renzi è andato a sbattere e adesso è chiaro a tutti che con questo vecchietto bisogna ancora fare i conti…». Come un miracolo, così il tonfo del Pd viene accolto da Silvio Berlusconi. Perché a tutto pensava il leader del centrodestra alla vigilia delle amministrative, ma non di ritrovarsi con una chance di riscossa. E se anche il «centrodestra ha vinto a sua insaputa», come ironizza Gianfranco Rotondi, è comunque un fatto che il “vecchietto” resta in campo. Ora però arriva il difficile. «Non dobbiamo cercare elezioni anticipate — è la linea dettata dal capo dopo i ballottaggi — Anzi, se cade Renzi è possibile che Mattarella ci coinvolga per un nuovo governo di unità nazionale. A noi serve tempo per ricominciare a crescere, con l’obiettivo di tornare al 22%». Per scalare la montagna è già pronto un piano di rinascita berlusconiana, che diventerà esecutivo i primi giorni di luglio (si ipotizza il 2 o il 3 di quel mese). Tre tappe — una al Nord, una al Centro e una al Sud — per mostrarsi di nuovo in tv, migliorare i sondaggi e porsi come interlocutore credibile di Matteo Salvini. Una sorta di predellino itinerante (i primi appuntamenti nelle Marche e in Puglia), sperando che funzioni. Forza Italia, a dire il vero, non gode di buona salute. A Venezia, sulla carta l’epicentro della riscossa berlusconiana, il logo dell’ex Cavaliere ha raccolto al primo turno un misero 3,76%. E quasi ovunque la Lega di Matteo Salvini ha sorpassato l’alleato. Come rialzarsi, adesso che il Pd traballa e Renzi è «un pugile suonato prossimo a crollare » (copyright Brunetta)? Di sgambettare il governo senza un piano B non se ne parla, perché le elezioni anticipate somigliano a un mezzo disastro. «Dobbiamo ricostruire il centrodestra e riconquistare i nostri elettori. E io devo trattare con la Lega». Ecco allora l’idea del tour nelle cento province, partorita dal cerchio magico. L’antipasto di luglio assomiglia a un test di mercato, insomma, per individuare facce nuove e mostrarsi pronti a qualunque scenario. Per ridurre Forza Italia a una bad company, invece, ci sarà tempo. Contemporaneamente, l’ex premier si appresta a ricevere il leader del Carroccio. Presto, molto presto: «Ancora non abbiamo fissato l’incontro — spiega Salvini — ma non è escluso un faccia a faccia prima di Pontida». Berlusconi, in privato, ha già in mente uno schema per rilanciare il centrodestra. Lui ricopre il ruolo di “padre nobile”, l’allenatore di un giovane leader che lo garantisca anche in futuro. Peccato che al momento di questo profilo non esista traccia. E Salvini? Berlusconi continuerà a proporgli la poltrona di sindaco di Milano, in modo da rinsaldare l’asse con la Lega e liberarsi contemporaneamente di un competitor scomodo. Il problema è che il successore di Bossi si tiene aperte tutte le soluzioni: «Intanto dobbiamo capire cosa pensa FI di Europa, trattati e Maastricht — sostiene il leader leghista — E poi per non perdere tempo dobbiamo iniziare a ragionare anche della leadership ». Lui, insomma, 26 è in campo. Ed è pronto a restarci finché le elezioni anticipate resteranno sul tappeto. Nel week end Berlusconi volerà in Sardegna. Tre giorni di relax prima di dedicarsi alla mission territoriale nelle cento province d’Italia. Nel frattempo è chiamato a risolvere anche la grana Verdini. Un ultimo, decisivo incontro tra i due era stato fissato per stasera, ma il numero uno di FI tornerà a Roma solo domani. Possibile allora che sia il ras toscano a recarsi stasera ad Arcore per un faccia a faccia da cui dipende il destino del partito. Le premesse non favoriscono la colomba azzurra, perché le amministrative hanno rafforzato il cerchio magico e reso il suo strappo più rischioso. E infatti è possibile che alla fine i verdiniani decidano di restare dentro, attendendo gli eventi e disponibili a sostenere Renzi nei passaggi parlamentari più delicati che già si profilano all’orizzonte. «Ma chi vuole che vada con Renzi proprio adesso? — domanda Renato Brunetta, sorridente — Al massimo Denis e quelli con cui cena da “Fortunato al Pantheon”…». Del 16/06/2015, pag. 11 Il passo del centrodestra e quei nuovi piccoli leader «sbucati» nei Comuni La metamorfosi sul territorio, le ricadute sulle strategie Il successo dei moderati alle Comunali di domenica ricorda la stagione dei sindaci di sinistra di ventidue anni fa. Certo, i candidati vincenti di allora erano rappresentanti del ceto politico, mentre oggi per la maggior parte sono espressione della società civile. Ma le condizioni in cui si registrò quel risultato somigliano al contesto attuale: così come il voto del ‘93 annunciò la fine della Prima Repubblica e anticipò un modello di alleanze nel fronte progressista, dal test del 2015 — e sulle macerie della Seconda Repubblica — emerge l’embrione di un progetto che potrebbe mutare radicalmente il profilo dell’area moderata nel sistema che verrà. È un sorta di big bang, perciò è impossibile stabilire oggi quale forma prenderà il caos, ma non c’è dubbio che si tratti della prima vittoria post berlusconiana costruita in quel territorio chiamato finora centrodestra. Se Venezia va considerato il progetto-pilota e Brugnaro ne è il testimonial, si nota intanto che l’eletto non è frutto dei famosi casting, non rappresenta cioè il prototipo del candidato che ha caratterizzato un’era. E soprattutto, nel corso della campagna elettorale, ha tenuto a marcare la distanza. Di più: Brugnaro ha vinto al primo turno la sfida con la Lega nella sua roccaforte regionale, e poi ha battuto l’esponente del Pd per il quale Renzi era sceso in campo, sostenendo che «a me Renzi piace»... «C’è in effetti un centrodestra un po’ renziano», dice il coordinatore di Ncd, Quagliariello: «Ma siccome Renzi finora non ha fatto Kadima — il partito che in Israele ha unito un pezzo di laburisti e un pezzo di conservatori — allora ha deciso di mettersi autonomamente in movimento». Sarà, ma vincere sul candidato di Renzi inneggiando a Renzi è un paradosso che produce un altro paradosso. Perché la vittoria dei sindaci moderati — a Venezia come ad Arezzo, a Chieti come a Nuoro — ha fatto cadere il (falso) mito dell’unità del centrodestra: una formula a cui molti — subito dopo il voto — si sono aggrappati per considerarsi parte del successo. «Uniti si vince» più che una parola d’ordine è parso ieri un logoro refrain, visto che è stato smentito dagli stessi che lo pronunciavano. A livello nazionale, infatti, lo scontro è proseguito senza sosta. Salvini — inneggiando alle primarie — ha ribadito il suo progetto a trazione leghista, «e poi vedremo se Berlusconi ci starà». Berlusconi — deciso a non subire — ha evocato il modello sarkozista per l’unità del fronte moderato, proprio mentre 27 l’ex ministro Gelmini esortava l’Ncd lombardo a scindersi da Alfano. E per tutta risposta Quagliariello ha ricordato agli «amici di Forza Italia» per la seconda volta in pochi giorni che in Liguria la nuova giunta regionale si regge sul voto del consigliere centrista... Il punto è che, venuta meno la leadership berlusconiana a livello nazionale, si fa strada l’idea che siano le realtà locali a caricarsi di un compito gravoso e dall’esito tutt’altro che scontato. Come se l’infarto politico del vecchio centrodestra avesse dato origine a un circolo sanguigno collaterale. I sindaci del 2015 sembrano i rappresentanti di quel popolo che ha subito la diaspora e che per larga parte si è rifugiato nell’astensionismo. Si vedrà se saranno capaci di governare il caos, se davvero — come dice Alfano richiamandosi a Brugnaro — saranno il prototipo di «una forza moderata vincente che guida e non si fa guidare, e a cui Salvini al massimo si può accodare». Ma appena due settimane fa alle Regionali l’affermazione di Zaia in Veneto e di Toti in Liguria, insieme all’avanzata prorompente della Lega hanno messo in mostra un altro modello di centrodestra. Di qui un conflitto che pare insanabile, sebbene Berlusconi si proponga come mediatore tra le parti, convinto che si debba e si possa intercettare quel «vento che è cambiato» — come dice l’azzurra Bergamini — e che non gonfia più le vele di Renzi. L’offensiva dell’ex premier su economia e immigrazione ha scoperto il fianco debole del leader democratico ma allo stesso tempo sta ulteriormente allargando il fossato tra Forza Italia e Ncd. Ed è sulla «innaturale posizione» di Alfano nel governo che Berlusconi insiste, certo di aver la meglio in prospettiva, malgrado le difficoltà e le contraddizioni che attraversano il suo partito: l’«unità» che sul territorio si rivela un fattore «vincente», si scontra non solo con la modestia delle cifre elettorali di Forza Italia ma anche con la frammentazione in Parlamento dei gruppi, alla vigilia di un passaggio che potrebbe segnare una nuova scissione. C’è poi un altro bivio che attende Berlusconi: quello sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale, tornata al centro del dibattito. Per esser parte attiva nel progetto di revisione della Carta e dell’Italicum, dovrebbe però cambiare la posizione assunta alla Camera. «Sta ancora riflettendo sul da farsi», spiegano i fedelissimi, come a sottolineare la difficoltà della scelta, il rischio cioè di creare una frattura con la Lega, alleato di cui Berlusconi non può nè vuole fare a meno. Il big bang nel centrodestra è in corso, e la durata della legislatura — che nessuno vuol mettere in discussione — non fa ancora capire cosa verrà dopo il caos. Francesco Verderami del 16/06/15, pag. 2 Casson affonda un’altra volta Venezia. Storica vittoria del centrodestra con Luigi Brugnaro. Come nel 2005 l’ex pm sconfitto al ballottaggio, nonostante 1.540 voti in più rispetto al primo turno. E nel Pd si apre la caccia ai «traditori» Ernesto Milanesi VENEZIA La storia si ripete: Felice Casson affonda un’altra volta nel ballottaggio. E se nel 2005 era un «derby» con la filosofia amministrativa di Massimo Cacciari targato Margherita, domenica la sconfitta dell’intero centrosinistra ha spalancato le porte di Ca’ Farsetti a Luigi Brugnaro, alla Lega Nord, al “civismo” di Francesca Zaccariotto e ai rigurgiti di fascismo. L’ex pm e senatore Pd “dissonante” è stato condannato dalle urne la seconda volta senza appello. Una notte da incubo, fin dai primissimi risultati. 28 Un verdetto che brucia ogni certezza e squaderna l’abisso. Con Casson che va k.o. dieci anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità rossoverde e perfino il popolo della sinistra. Nel deserto di Zaialand ci si può a mala pena arroccare nei municipi periferici (Treviso, Vicenza, Belluno), perché l’«effetto Bitonci» è dilagato da Padova a Rovigo mentre la «catastrofe Moretti» ha travolto anche Venezia. Il risultato del ballottaggio è impietoso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette repliche. Solo la marcia trionfale di Brugnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di Umana, della Reyer, della Misericordia e della città…) dal quartier generale in Calle del Sale fino alla stanza dei bottoni sul Canal Grande. E il silenzio di Casson che via Twitter ringrazia i sostenitori e si eclissa. È davvero l’ammainabandiera di Venezia “rossa” con Giovanni Battista Gianquinto, poi “riformista” con Gianni Pellicani e “democratica” con Cacciari, Paolo Costa e Giorgio Orsoni. È una svolta davvero storica, perché bisogna risalire al 1990–93 per ritrovare un sindaco diverso: Ugo Bergamo, notabile Dc, non a caso riemerso fra i supporter di Brugnaro. In due settimane, laguna e terraferma hanno maturato il drastico cambio di scenario, non solo politico. Brugnaro ha convinto perfino sestrieri come Castello, “roccaforti” come Marghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la coalizione di centrodestra si è paradossalmente imposta senza nemmeno fare il pieno dei propri consensi. Brugnaro ha chiuso con 54.405 preferenze contro le 47.838 di Casson. Ma sulla carta gli apparentamenti avrebbero dovuto sommare ai 34.790 voti fucsia, i 14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zaccariotto per un totale di 57.564. Al contrario, lo schieramento Civica Casson, Pd, Verdi, Sel, Socialisti e Cd partiva dai 46.298 voti del primo turno. Ma è lampante che quei 1.540 elettori in più di domenica non hanno compensato gli astensionisti incalliti e nemmeno i «traditori» nel segreto dell’urna. I primi incarnano forse l’effetto Mose, ma anche la disillusione nei confronti del Pd nazionale e lagunare. Ma gli altri rivelano il bizantinismo business oriented di lobby, salotti e mandarini che fin dalle Primarie hanno messo sabbia nel motore di Casson. Non è un mistero per nessuno che a Venezia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse sulla concertazione formato Consorzio Venezia Nuova. Da almeno un anno erano al lavoro, su opposte sponde, i vecchi “referenti” dei nuovi equilibri. Hanno sbaragliato il campo e si preparano ad un lustro all’insegna della sintonia fra il governatore post-leghista Luca Zaia e il sindaco post-berlusconiano Brugnaro. Forse, non è un caso che i rispettivi “partiti elettorali” abbiano monopolizzato i consensi tanto alle Regionali come alle Comunali… Venezia, poi, riassume la più devastante deriva demokrac. Il partito collassato ben prima e peggio di Ale Moretti e Casson. L’eredità europea dissipata ad ogni angolo del Nord Est (sintomatico Portogruaro, dove Maria Teresa Senatore umilia il designato Pd che aveva 17 punti di vantaggio). E la deriva impazzita dei sindaci anti-migranti, sceriffi e decisionisti che riduce a simulacro iscritti, circoli e dirigenti. «Il Pd a Venezia ha raccolto quel che ha seminato» sintetizza Tommaso Cacciari, attivista del laboratorio Morion e del Comitato No Grandi Navi. Tant’è che in terraferma, nel centro storico e nelle isole nessuno punta l’indice su Casson e tutti preferiscono aprire la caccia ai «battitori liberi» targati Pd. Sussurri e grida su vendette personalizzate, indicazioni eretiche alla guardia imperiale dell’ex Pci, addirittura voti di scambio nel ballottaggio di project, appalti e cantieri. Intanto, a Venezia si riparte dalle municipalità (5 di centrosinistra, solo Favaro con Brugnaro). E dalle 883 preferenze di Nicola Pellicani, sconfitto alle Primarie da Casson e poi capolista della sua lista civica. 29 del 16/06/15, pag. 2 Augusta e Gela pentastellate Sicilia. I 5 Stelle conquistano anche il comune guidato per due mandati dall'attuale governatore. A Enna sconfitto il Barone rosso Crisafulli Adriana Pollice A Gela Domenico Messinese del Movimento 5 Stelle ha battuto con il 65% il sindaco uscente Angelo Fasulo. L’esponente dem correva come candidato renziano con il sostegno del governatore Rosario Crocetta (due volte sindaco di Gela). La vittoria grillina è stata conquistata con molta spregiudicatezza. Alla vigilia del ballottaggio il terzo classificato del primo turno, Enzo Greco, esponente di Ncd, ha organizzato un comizio in piazza Umberto (con tanto di foto dei due insieme) per sancire il sostegno al candidato grillino contro il Pd, nonostante l’alleanza di ferro in parlamento e i guai piovuti sul partito di Angelino Alfano con l’inchiesta Mafia capitale. Nessun imbarazzo tra i pentastellati, che preferiscono parlare di endorsement e non di accordo. Le strane alleanze hanno funzionato anche a Enna. Lo ha spiegato il coordinatore regionale di Forza Italia, Vincenzo Gibiino: «A Gela il popolo di Fi ha l’interesse a sostenere al ballottaggio il candidato grillino Domenico Messinese. A Enna invece i grillini hanno l’interesse a rompere il sistema Crisafulli votando per il candidato moderato Maurizio Dipietro». Una strategia che ha affondato la macchina da guerra di Vladimiro Crisafulli, noto come «il Barone rosso», battuto da Dipietro che ha totalizzato il 51,8%. Una vittoria a sorpresa, ottenuta con il sostegno del centrodestra, per l’ex esponente dem espulso dal partito dopo una battaglia interna proprio contro Crisafulli. Il Barone rosso era finito nella lista degli impresentabili alle politiche 2013 per le sue grane giudiziarie (un processo per abuso d’ufficio e un’indagine per mafia), il nuovo corso renziano aveva provato a metterlo da parte ma nessun nome nuovo ha interrotto la disfida tra i due. Con i pentastellati che vincono anche ad Augusta, Crocetta fa autocritica: «Collaborerò lealmente con tutti i sindaci a prescindere dalla loro collocazione politica. Sono pronto ad avviare una politica di investimenti nelle aree industriali di crisi». L’exploit dei 5 Stelle è, secondo Crocetta, l’espressione del malcontento dei lavoratori e dei disoccupati ma è anche «un campanello d’allarme per il governo nazionale. Occorre che il Pd faccia una profonda riflessione». del 16/06/15, pag. 3 Lamezia a destra. In consiglio entra Casa Pound Calabria. Paolo Mascaro, penalista ed ex presidente della Vigor, è il nuovo sindaco. E non vuole parlare troppo di mafia Silvio Messinetti La restaurazione a Lamezia ha il volto soddisfatto di Mimmo Gianturco. Lui un record lo ha già in tasca. E’ il primo consigliere comunale di Casa Pound in una città medio-grande. Lo scivolamento a destra di questa grossa cittadina adagiata su una piana, stritolata negli anni da estorsioni e ‘ndrine, è palpabile. La restaurazione a Lamezia è la bandiera tricolore 30 sventolata con ardore sul palco domenica notte da Paolo Mascaro, il neosindaco, penalista ed ex presidente della Vigor, squadra di calcio di serie C coinvolta nell’inchiesta sul calcio-scommesse. La restaurazione a Lamezia è nelle parole di Mascaro che così dà il benvenuto a Trame.5, il festival di cultura antimafia che si apre il 17 giugno nei palazzi storici della città: «Parlare cinque giorni di mafia è troppo. Basterebbe mezza giornata». Insomma, da Lamezia la destra inizia la sua revanche contro una sinistra immobile e pavida. A queste latitudini in questi dieci anni si era sperimentato un nuovo modo di far politica, una grammatica antindrangheta declinata in cultura e attivismo sociale che aveva fatto di Lamezia la capitale della lotta alla criminalità, con il sindaco uscente Gianni Speranza, Sel. Al quale il Pd ha provato in tutti i modi a fare le scarpe. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: venti punti di distacco tra la destra e la coalizione di centrosinistra, guidata dall’indipendente del Pd Tommaso Sonni. Ora la destra ha una prateria davanti a sé. Il Pd è dilaniato, Sel conquista un solo seggio, Rifondazione non ha neanche partecipato alle elezioni. E così Gianturco può fare il gradasso martellando contro il suo chiodo fisso: i rom. La giunta uscente aveva messo in agenda un insediamento abitativo per 25 famiglie: 20 villette a schiera in muratura, 8 villette prefabbricate e 150 rom del vecchio campo di Scordovillo finalmente con un tetto sopra la testa. Casa Pound è insorta e ha gridato allo scandalo: «Una rapina contro gli italiani». Come se i rom non fossero cittadini italiani e lametini a tutti gli effetti. Ma la propaganda ha pagato eccome: 7% alle elezioni e un posto in consiglio comunale. E il neoconsigliere di Cp chiede che le case siano ora date agli «italiani». Speranza intanto cede il testimone e si commiata: «Sono stati anni difficili ma Lamezia è stata percepita come un buon esempio di Calabria e di sud che provava a cambiare e a riscattarsi». Le elezioni sono andate male anche a Gioia Tauro, per un Pd che da quando ha vinto a mani basse le regionali, ha perso completamente la bussola. Il sindaco uscente, Aldo Alessio, è sprofondato 15 punti sotto il suo avversario di Fi, Carlo Iedà. del 16/06/15, pag. 3 A Quarto vince la 5 Stelle Capuozzo Campania. Prima volta degli M5S in un comune della regione Adriana Pollice Quarto è il primo comune campano conquistato dai 5 Stelle: 40mila abitanti alle porte di Napoli, è stato sciolto a ripetizione per infiltrazioni camorristiche, l’ultima volta nel 2013. Rosa Capuozzo, avvocato quarantenne, con quasi 10mila voti (70,79%) è il primo sindaco donna del centro flegreo. Ha battuto l’ex primo cittadino del centrodestra, Gabriele Di Criscio sostenuto da due civiche (Forza Gabriele e Insieme per Quarto). Alla vigilia del voto Marcello Taglialatela di Fratelli d’Italia aveva dichiarato: «Da parlamentare e da componente della commissione Antimafia, se fossi cittadino di Quarto non avrei dubbi nel votare Capuozzo». Una presa di distanza che è suonata come un’accusa. I 5S si sono scontrati solo con civiche e Fdi: 7 liste e 3 aspiranti sindaci sono stati esclusi dal Consiglio di Stato, su ricorso dei grillini, per irregolarità nella presentazione delle candidature. In passato Quarto e Marano avevano un’amministrazione unica e il clan dominante era quello dei Nuvoletta, poi c’è stata la scissione amministrativa e il centro è finito sotto l’influenza dei Polverino della vicina Pianura. La commissione d’accesso ha sancito i legami tra camorra e politica locale, la commissione Antimafia ha messo sotto la lente le autorizzazioni edilizie e gli allacci abusivi. Nelle mani dei Polverino c’era persino la 31 squadra di calcio locale: oggi è affidata alle associazioni anticamorra, che subiscono i raid vandalici comandati dal clan. Persino gli ultimi commissari prefettizi hanno agito oltre i loro compiti affidando il servizio idrico ai privati: la Acquedotti Scpa controllata da Ottogas Srl dell’imprenditore Luca Rivelli, amico del chiacchierato parlamentare forzista Luigi Cesaro. «Quarto sarà un laboratorio di democrazia partecipata — spiega la neosindaco -, cambieremo la macchina comunale, impediremo che l’acqua finisca ai privati. Abbiamo partecipato come movimento al ricorso contro l’affidamento alla Acquedotti Scpa. Vigileremo per impedire sversamenti e roghi di rifiuti. Nessuna paura, i cittadini non sono più disposti a subire». del 16/06/15, pag. 3 M5S conquista Porto Torres Festa fino a tarda notte a Porto Torres, uno dei comuni della Sardegna al ballottaggio: Sean Christian Wheeler, alla guida di una lista di soli militanti di M5S, ha sconfitto Luciano Mura del Pd, lasciandolo indietro di ben 45 punti. Ribaltato l’esito del primo turno, con Wheeler arrivato tre punti sotto Mura, che era sostenuto da Pd, Sel, Cd, Partito dei sardi e una lista civica. Wheeler ha chiuso con il 72,74%, Mura si è fermato a 27,26%. Affluenza al 61,69%. Wheeler è il secondo sindaco M5S eletto in Sardegna dopo Mario Puddu ad Assemini. Il centrosinistra, con Stefano Delunas (Pd), conquista invece il comune di Quartu Sant’Elena, terza città della Sardegna, con il 51,6% dei voti. Sconfitto il sindaco uscente Mauro Contini (Fi). A Nuoro Andrea Soddu (civica di centrosinistra) conquista il 68,3% dei voti e sconfigge l’uscente Alessandro Bianchi, del Pd (31,6%). A Sestu (Cagliari) vince Maria Paola Secci (Fi-Riformatori) contro Annetta Crisponi (Pd, centrosinistra). del 16/06/15, pag. 3 Arezzo e non solo, i “toscani” rottamati Elezioni comunali. Frana il partito renziano: Arezzo con Alessandro Ghinelli e Pietrasanta con Massimo Mallegni tornano al centro-destra, che qui si presentava compatto. Mentre a Viareggio trionfa il candidato non ufficiale del Pd, Giorgio Del Ghingaro, che quasi doppia il collega di partito Luca Poletti. Riccardo Chiari FIRENZE Ballottaggi choc per il Pd in Toscana: Arezzo e Pietrasanta tornano al centro-destra – compatto – mentre a Viareggio vince un candidato con la tessera del Pd che ha corso contro il suo partito. “E’ il risultato del ballottaggio ad Arezzo quello che mi ha sorpreso di più – tira le somme Enrico Rossi — perchè pensavo, visti i risultati anche delle elezioni regionali e del grande exploit del Pd alle europee 2014, che ci fosse un risultato assicurato. Invece è interessante capire come lì, al secondo turno, si siano rovesciate le premesse del primo”. Per il Pd toscano e il suo renzianissimo segretario Dario Parrini si tratta di una sconfitta bruciante. Parrini è comunque in buona compagnia, visto che è aretina la ministra Maria 32 Elena Boschi, passata a più riprese in città per sostenere il suo candidato trentenne Massimo Bracciali, fra gli organizzatori delle varie edizioni delle kermesse alla Stazione Leopolda. Il giovane ex Margherita partiva da un rassicurante 44,1%. Ma alla prova dei fatti, nonostante un’affluenza in calo (48,4%) ma non particolarmente bassa rispetto al primo turno (57,4%), Bracciali è stato superato sul filo di lana dall’avversario Alessandro Ghinelli, ingegnere e docente dell’ateneo fiorentino, capace di conquistare il 50,8% delle preferenze. Per Arezzo l’amministrazione di centro-destra non è una novità. Ghinelli era stato assessore con l’ex sindaco Lucherini, eletto all’epoca per due mandati. Solo un nipote d’arte come Giuseppe Fanfani aveva invertito il trend, salvo poi lasciare la carica dopo essere stato eletto al Csm. Discorso analogo per Pietrasanta, dove a sostenere Massimo Mallegni, ex sindaco con trascorsi guai giudiziari e ancora oggi con una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, era arrivato lo stesso Silvio Berlusconi, che poi lo ha chiamato per complimentarsi. Alla chiusura delle urne (affluenza quasi al 60%), Mallegni ha superato con il 54,5% l’avversario Rossano Forassiepi del Pd. Infine Viareggio, il caso forse più interessante. Qui, dopo due commissariamenti in pochi anni e con un’amministrazione in conclamato dissesto finanziario, il “forestiero” Giorgio Del Ghingaro ha battuto il candidato ufficiale del partito Luca Poletti, imposto senza primarie da Parrini e dal commissario versiliese del Pd, Giuseppe Dati. Con un’affluenza ferma a un misero al 30,8%, Del Ghingaro che era stato sindaco di Capannori per dieci anni ha rovesciato il tavolo, imponendosi con un eloquente 60,3%. A sostenerlo fra gli altri la senatrice dem Manuela Granaiola, che osserva: “Ha già dimostrato di saper amministrare, ed è una persona autorevole e competente. Credo sia l’uomo giusto per risollevare Viareggio”. Anche Del Ghingaro ha avuto qualche problema – la Corte dei conti lo accusa di danno erariale – ma è diventato famoso in Toscana anche per aver abbracciato la strategia “rifiuti zero”. Un successo su tutta la linea, tanto che oggi a Capannori il primo cittadino è il suo vecchio vicesindaco. Nel Pd “ufficiale” intanto ci si interroga: “Ora apriremo – anticipa Dario Parrini – con i gruppi dirigenti territoriali, una riflessione minuziosa sulle cause di questa battuta d’arresto”. Che ha portato il Pd renziano da essere rottamatore ad essere rottamato. del 16/06/15, pag. 4 La Consulta apre al ricorso sull’Italicum Leggi Elettorali. Sentenza di chiusura della Corte costituzionale sulle Europee, ma via libera per le norme che riguardano il parlamento nazionale. Esplode il rischio del ballottaggio, il «cuore» del nuovo sistema che ai grillini non dispiace Andrea Fabozzi ROMA Attesa da due mesi, è stata depositata ieri — a ballottaggi conclusi — la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale per le europee. La Corte ha giudicato inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Venezia, che sospettava l’incostituzionalità della soglia di sbarramento del 4% dal momento che per le elezioni del parlamento europeo non esiste un problema di «governabilità». Giudizio assai delicato — e già la Corte costituzionale tedesca aveva fatto cadere lo sbarramento per le liste candidate in Germania — perché con ricadute potenziali sulle elezioni dell’anno scorso 33 (quelle del Pd al 40,8%). Giudizio che la Consulta ha risolto recuperando la sua tradizionale chiusura verso questo genere di questioni: la porta del giudice delle leggi è sbarrata, chi si sentisse penalizzato dallo soglia — dunque un candidato non eletto, non il cittadino elettore — si può rivolgere alla giustizia amministrativa. Nel caso delle elezioni europee, al Tar del Lazio. La sentenza (emessa da una Corte in formazione rimaneggiata, oltre ai due giudici che il parlamento tarda a nominare mancava anche Amato) ha l’effetto di complicare i ricorsi contro leggi elettorali che si ritengono incostituzionali, come ad esempio quelli già avviati contro molte leggi elettorali regionali. Si torna quindi alla giurisprudenza costituzionale precedente al gennaio 2014, quando un po’ a sorpresa fu accolta la questione sollevata contro la legge elettorale nazionale e di conseguenza abbattuto il Porcellum. Ma proprio quel precedente la Consulta non ha potuto ignorare nella sentenza di ieri, e ha spiegato allora che una cosa sono le leggi elettorali per il parlamento nazionale, il cui controllo è rimesso direttamente alla camere (nelle giunte per le elezioni), un’altra cosa sono tutte le altre leggi elettorali (europee, regionali, comunali) per le quali il cittadino può impugnare i risultati. Nel secondo caso, dunque, l’eventuale incostituzionalità delle leggi potrà essere fatta valere solo dopo le elezioni, una volta avviati i ricorsi individuali. Ma nel primo caso non si può chiudere la strada del ricorso «pseudo-diretto» alla Consulta, aperta per il Porcellum. Altrimenti — visto che i cittadini non possono rivolgersi all’autorità giudiziaria — le leggi elettorali per il parlamento nazionale resterebbero, scrive la Corte, una «zona franca sottratta al sindacato costituzionale». E questo non può essere. Ecco allora che una sentenza di non ammissibilità come quella di ieri può non essere una brutta notizia per chi cercherà di portare la nuova legge elettorale nazionale, l’Italicum, davanti alla Consulta. Vuol provarci il Coordinamento per la democrazia costituzionale che ieri si è riunito a Roma, i punti di attacco sono sempre quelli del premio spropositato di maggioranza e dei capilista bloccati. E sono quasi pronti i ricorsi da presentare in tutti i distretti giudiziari in nome della violazione del diritto al voto libero e uguale, che è la strada seguita per abbattere il Porcellum. Bisogna però aspettare che il governo eserciti la delega prevista nell’Italicum per ridisegnare i collegi plurinominali, deve farlo entro il 21 agosto. «Con la sentenza della Consulta i ricorsi contro l’Italicum diventeranno più facili», sostiene l’avvocato Felice Besostri che è stato uno degli ideatori del ricorso contro il Porcellum. Ma aggiunge «l’interesse di un cittadino è quello di andare a votare con leggi costituzionali, non fare annullare le elezioni fatte con leggi incostituzionali». L’altra via per cercare di cancellare l’Italicum è quella dei due referendum — uno per eliminare i capilista bloccati e pluricandidati, un altro per far cadere il turno di ballottaggio — sui quali sono impegnati tanto il Coordinamento quanto Civati che ne aveva parlato immediatamente dopo l’approvazione della legge. Ma, come spiega Domenico Gallo del Coordinamento, raccogliere le firme necessarie entro il prossimo 30 settembre è pressoché impossibile, dunque la campagna va rimandata di un anno, immaginando che possa affiancarsi ad altri referendum (contro il cosiddetto decreto sblocca Italia, o magari la riforma della scuola). Nel frattempo le elezioni amministrative dimostrano come proprio il ballottaggio — quello che diventerà «la norma» dell’Italicum secondo il suo ideatore D’Alimonte — rischi di trasformarsi nel punto debole della nuova legge elettorale. Nei comuni dove si vota per scegliere uno o l’altro sindaco — mentre nelle elezioni nazionali si sceglie tra due liste e blocchi di anonimi candidati — la partecipazione tra primo e secondo turno cala vistosamente. Con punte di meno 30% (a Trani) e affluenze tanto basse da far decidere le elezioni a meno di un elettore su tre (Giugliano). E dove il M5S va al secondo turno vince regolarmente. «Abbiamo enormi possibilità di governare il paese accedendo al ballottaggio», commenta il potenziale candidato premier grillino, De Maio. L’Italicum — che 34 esclude le coalizioni — è tutt’altro che una sciagura per Grillo. I suoi lo hanno contrastato in parlamento, ma hanno già detto che non raccoglieranno le firme per il referendum abrogativo. 35 LEGALITA’DEMOCRATICA del 16/06/15, pag. 2 (Roma) Il blitz / Sequestrati i beni della Sarim controllata da Buzzi e dalla 29 giugno. Al sistema criminale tolti in tutto 360 milioni Mafia capitale d’oro altri 16 milioni sottratti alla gang MARIA ELENA VINCENZI E ORA nel mirino della procura finisce anche il patrimonio immobiliare di Mafia Capitale. Ieri i finanzieri del nucleo di polizia tributaria hanno messo i sigilli ai beni di Salvatore Buzzi, ritenuto dagli inquirenti il braccio imprenditoriale di Massimo Carminati. Sequestrati, su mandato del tribunale di Roma, beni per sedici milioni che comprendono quote societarie, il capitale sociale e l’intero patrimonio aziendale della Sarim Immobiliare Srl, una società di Roma che opera nella locazione immobiliare. Dalle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dai pubblici ministeri Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, è emerso che la società — il cui legale rappresentante è Emanuela Bugitti, anche lei coinvolta nella prima fase della maxinchiesta dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) — era partecipata dalla stessa Bugitti (6%), da Buzzi (6%) e da Carlo Maria Guarany (1%). Inoltre, hanno accertato gli investigatori delle Fiamme Gialle, la Sarim Immobiliare risulta controllata per il 48% dalla Cooperativa 29 giugno e per il 4% dalla cooperativa Formula sociale, entrambe poste sotto sequestro a dicembre scorso quando scattarono i primi arresti. Il patrimonio della Sarim è composto da disponibilità finanziarie, partecipazioni societarie e, soprattutto, da una unità immobiliare di 2.750 metri quadrati a Roma utilizzata dalle cooperative di Buzzi come casa di accoglienza dedicata a categorie protette (donne, minori, rifugiati e richiedenti asilo). Due i progetti in piedi e una settantina gli ospiti del centro, principalmente anziani e ragazze madri. La struttura, comunque, continuerà a funzionare. Con i beni sequestrati oggi, il valore complessivo dei beni messi sotto sigillo nelle due fasi dell’inchiesta — i provvedimenti emessi a dicembre e quelli di inizio giugno — ammonta ad oltre 360 milioni, di cui 126 milioni riferibili alla “galassia Buzzi”. Intanto oggi l’ex capo della 29 giugno è comparso come parte lesa in un processo che vede imputata una sua ex amante per tentata estorsione. La donna, ex dipendente della Cooperativa 29 giugno, aveva minacciato di raccontare della relazione alla moglie di Buzzi dopo che il suo contratto presso la cooperativa non era stato rinnovato. «Devo pagare l’affitto mi devi dare i soldi, se non me li dai dico tutto a tua moglie», questo il tono dei messaggi che la donna inviò al cellulare del ras delle cooperative che decise di denunciare la donna nel settembre del 2011. Sul fronte dell’indagine oggi inizierà davanti al tribunale del Riesame l’esame dei provvedimenti restrittivi scattati una decina di giorni fa. I giudici della Libertà esamineranno i ricorsi di almeno una decina di indagati tra cui lo stesso Buzzi, l’ex dirigente comunale Angelo Scozzafava, l’esponente locale di Forza Italia, Giordano Tredicine, il consigliere comunale Massimo Caprari (esponente di Centro democratico) e l’ex dirigente della Regione Lazio, Guido Magrini. 36 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 16/06/15, pag. 5 Francia e Italia ai ferri corti Migranti. Parigi non apre la frontiera e propone campi profughi in Itala e Grecia Carlo Lania ROMA Lo scontro ormai non potrebbe essere più duro. Da una parte Parigi continua a sbattere porte in faccia alle richieste italiane di far passare i migranti africani che da giorni protestano a Ventimiglia e ribadisce l’intenzione di tenere ben chiusa quella porta. Dall’altra Roma, che risponde all’ostinazione francese minacciando di «fare da sola», con il premier Matteo Renzi che avverte i cugini che «le posizioni muscolari non aiutano» e il ministro degli Interni che minaccia: «Se l’Ue non accetta di accogliere i migranti arrivati qui — dice Alfano -, l’Italia che l’Europa si troverà davanti non sarà più quella solidale che è stata finora, ma ricambieremo lo stesso atteggiamento». A palazzo Chigi la questione immigrazione sta diventando sempre più un problema centrale per il governo, già scosso per lo scarso successo ottenuto nei ballottaggi di domenica. Perdere la faccia su un’emergenza sulla quale si è investito tantissimo potrebbe essere pericoloso anche e soprattutto sul fronte interno. Oggi a Lussemburgo si terrà il vertice dei ministri degli Interni dei 28, preceduto da un mini summit tra il commissario europeo per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e i ministri di Francia, Italia e Germania. In vista dall’appuntamento, ieri Renzi ha convocato Alfano a Palazzo Chigi per mettere a punto la strategia. «Le scene che si sono viste a Ventimiglia rappresentano un pugno in faccia per tutta l’Europa che vuole chiudere gli occhi», aveva spiegato nel pomeriggio Alfano al termine di un vertice alla prefettura di Milano con il sindaco Pisapia. Anche perché la pressione esercitata dai migranti ha solo come primo obiettivo il nostro Paese ma in realtà, è la tesi del governo, «spingono su tutta l’Europa». Questa è il nuovo punto di partenza del ragionamento che Alfano terrà oggi ai partner europei, ai quali ricorderà come nel 2011 fu l’Europa, Francia in testa, a bombardare la Libia dando origine alla situazione di caos nel Paese nordafricano le cui conseguenze si pagano fino in fondo oggi. «E’ ingiusto che a sopportare questo peso sia solo l’Italia», ha ribadito il ministro degli Interni. Quindi, è la conclusione, o si accetta il piano proposto dalla commissione Juncker, che prevede la distribuzione di 40 mila richiedenti asilo eritrei e siriani (24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia) mantenendo l’obbligatorietà dei ricollocamenti, oppure «faremo da soli». E qui ci sarebbe il famoso piano alternativo di cui Renzi parla da giorni ma che ieri una portavoce della commissione europea ha detto di non aver mai visto. Di fatto si tratterebbe di oltrepassare i vincoli imposti dal regolamento di Dublino, per i quali i profughi devono rimanere nel primo Paese in cui sono arrivati, rilasciando permessi temporanei che consentirebbero ai richiedenti asilo di spostarsi in Europa. Provvedimento analogo a quello adottato dal governo Berlusconi con i tunisini. «L’immigrazione, ha spiegato ieri Renzi, è una «vicenda complessa che si gestisce con la solidità di un Paese come il nostro che non può consentire alla Francia di avere navi nel Mediterraneo e lasciare i migranti in Italia». Parole che dall’altra parte delle Alpi non vogliono nemmeno sentire. «Chi sono questi migranti?», ha chiesto il ministro degli Interni Cazeneuve. «Ci sono molti migranti economici irregolari che non sono dunque oggetto di persecuzioni. Non possiamo accoglierli, dobbiamo riaccompagnarli alla frontiera». Cezeneuve ha poi proposto di 37 allestire campo profughi gestiti dall’Onu in Italia e grecia, in modo da poter procedere alla selezione dei migranti e respingere subito quelli economici. Il problema, però, non riguarda solo a Francia. A Bruxelles sono molti i paesi ostili al piano Juncker al punto che in queste ore si starebbe studiando una possibile mediazione accettabile per tutti. Mantenendo fissa la quota di 40 mila profughi da distribuire, l’idea è quella di sostituire l’obbligatorietà a prendere richiedenti asilo con la richiesta agli Stati membri di arrivare a una accordo per un’equa divisione. In questo modo si consentirebbe ai governi — pressati dalla formazioni di destra — di salvaguardare la sovranità nazionale, e quindi la faccia di fronte alle rispettive opinioni pubbliche. Una proposta che potrebbe trovare l’accordo i Paesi baltici, ma anche Spagna, Polonia e Portogallo. Anche se la decisione finale spetterà poi al consiglio dei capi di Stato e di governo del 26 giugno prossimo. Del 16/06/2015, pag. 9 L’Italia pronta a impedire lo sbarco degli immigrati salvati da navi straniere L’ultimatum di Renzi mira però a sbloccare la trattativa con l’Ue sulle quote Guido Ruotolo Carlo Bertini Il telefono «rosso» è a Palazzo Chigi. Solo il premier può decidere la risposta italiana alla chiusura dell’Europa. Al Viminale si studiano tutte le opzioni possibili arricchendo così il dossier che Renzi ha sulla sua scrivania. Arrivando a ipotizzare anche la soluzione tecnica di concedere ai richiedenti asilo dei permessi viaggio validi tre mesi. E di fronte al rifiuto dei Paesi europei delle quote di migranti di cui dovrebbero farsi carico, l’Italia potrebbe decidere di interdire lo sbarco di migranti salvati da navi militari europee nelle acque internazionali vicino a quelle libiche. Sono misure dure, che mettono in discussione anche Triton, l’operazione di Frontex, la polizia europea di frontiera, che certo potrebbero sollevare critiche accese dall’Europa. Ma sia a Roma che nelle capitali europee si spera che un compromesso alla fine si riesca a trovare. «Se non fosse così - spiega un’autorevole fonte di Palazzo Chigi - il piano B sarebbe un piano organico alternativo, invece noi crediamo nella proposta Juncker e quello di Renzi è un ultimatum all’Europa perché si faccia carico del problema e non lasci l’Italia da sola». Perché Renzi alza i toni Dunque il governo sta lavorando per portare a casa il piano A. «Il punto decisivo è il negoziato sulle quote che sta andando avanti con i singoli Paesi europei», spiega una fonte di governo per inquadrare il perché Renzi alzi così i toni. La drammatizzazione in questa fase serve per evitare che dal consiglio europeo di fine mese esca un nulla di fatto: esito che tutti paventano, perché il costo politico di un fallimento sarebbe molto alto per leader politici come Merkel, Juncker, Hollande e Renzi. Significherebbe che l’Europa ha fallito, con tutto quel che ne consegue. A sentire gli sherpa che seguono le trattative, qualche margine di successo c’è ancora: «Si punta ad arrivare a quote concordate di assunzione di richiedenti asilo sulla base di offerte volontarie dei Paesi e non di imposizione della commissione». In sostanza ci sarebbero ancora chances che alla fine passi il progetto di 40 mila migranti da ricollocare. Il messaggio all’Ue 38 «L’Europa deve sapere che l’Italia non sarà inerme rispetto al fenomeno dei flussi migratori che attraversano il nostro Paese. Noi - sostiene il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico - rispetteremo sempre la dignità delle persone e il diritto alla protezione umanitaria. Ma nello stesso tempo, il diritto dei cittadini italiani a sentirsi sicuri e non assediati». Tra le righe filtra la preoccupazione che se l’Europa dovesse imporre antistorici Muri di Berlino alle frontiere italiane, il nostro Paese diventerebbe una pentola a pressione e il problema della gestione dei flussi migratori si trasformerebbe in una questione di ordine pubblico. Le avvisaglie dei giorni scorsi alle stazioni ferroviarie di Milano e Roma, e quello che sta accadendo alla frontiera di Ventimiglia sono preoccupanti. Rimpatri veloci Roma si aspetta dall’Europa una politica comune nella gestione dei rimpatri veloci. «La Francia e la Germania - denuncia Bubbico - vorrebbero che l’Italia si trasformasse in un immenso Cie, Centro di identificazione ed espulsione. Non è nelle nostre corde erigere campi profughi recintati da fili spinati. È l’Europa unita che deve farsi carico dei rimpatri veloci e dell’accoglienza e dell’ospitalità dei richiedenti asilo». È un paradosso che i governi europei che non vogliono farsi carico delle quote di richiedenti asilo poi rassicurino le rispettive opinioni pubbliche sull’impegno a evitare che si ripetano naufragi di migranti salvandoli, mandando nel Canale di Sicilia le proprie navi militari. E se non si troverà un accordo, quei migranti salvati invece di farli sbarcare nei nostri porti, dovranno essere sbarcati dalle navi militari nei paesi di appartenenza. del 16/06/15, pag. 19 Piaghe,freddo e il mare per lavarsi così resiste il popolo degli scogli DAL NOSTRO INVIATO MAURIZIO CROSETTI VENTIMIGLIA. Tra le pietre sotto il sedere e un orizzonte di fragile libertà c’è un gendarme ragazzino, i capelli a spazzola, lo sguardo fiero e le dita nel giubbotto antiproiettile come se fosse un gilet. È lui la risposta muscolare della Francia all’Italia o forse dell’Europa intera a questi poveri cristi che si lavano le ascelle con l’acqua di mare, e poi ci fanno la pipì dentro. Una candida vela taglia l’orizzonte prima che scenda la notte, la terza addormentati sui sassi anche se non è mica vero, neppure una bestia può dormire così. Il popolo degli scogli beve l’acqua portata dalla Croce Rossa, mangia mele e banane regalate da due ragazze francesi che ne avevano il bagagliaio pieno e guarda il rettilineo dove l’Italia finisce e niente comincia: la porta chiusa sulla Francia e sul futuro. Un drappo sbrindellato dell’Unione e un tricolore italico stinto sono i vessilli a presidio del fortino. 150, ne sono rimasti. Nelle ore del sole giaguaro si sono messi gli scatoloni in testa per ripararsi, e qualcuno ha cercato un filo d’ombra sotto le palme spelacchiate, sonnecchiando al rumore delle onde e annusando gli scappamenti di quelli che possono andare e venire da qui a lì, i liberi, i normali. Ma quando il buio infine è arrivato, quasi tutti sono tornati a stendersi sopra le pietre aguzze che segnano e rigano carni e pensieri, e che sono ormai l’acuminato simbolo della resistenza, dolore fisico, tormento che rende più vivo l’orgoglio. «Vogliamo una risposta politica, e finché non l’avremo non ci sposteremo di un centimetro ». Hussìn Hissa Jamai, somalo di Mogadiscio, 22 anni. «Ho attraversato a piedi Sudan, Etiopia e Libia, poi ho pagato 2mila dollari per il barcone e non torno certo indietro anche se mi fa male la testa. Ho preso troppo sole, fratello». Si leva le scarpe, 39 mostra le piaghe. «Voglio raggiungere Chambery, la prima notte ho dormito sull’aiuola ma i poliziotti ci hanno mandato via. Rrimango sui sassi e in stazione non entro». In stazione ci sono anche le docce, l’ambulatorio della Croce Rossa e le donne con i bambini. Però è qui che si combatte, mostrando le ferite dappertutto — mani, gambe, schiene — ma non dentro gli occhi, dove i ragazzi custodiscono la fierezza dei combattenti e degli sconfitti. Il luogo ha un nome gentile, da vacanza in spiaggia. Si chiama Ponte San Ludovico ed è l’ultimo lembo di Ventimiglia, dunque di Italia. La luce picchia sull’argento delle onde e obbliga a chiudere gli occhi. Il popolo degli scogli ha sonno, fame, sete. Vuole lavarsi, deve andare in bagno ma il bagno non c’è, solo qualche cesso chimico sul piazzale dove c’è pure un baretto con veranda, e i pensionati francesi sorseggiano il loro pernod . L’insegna del ristorante Balzi Rossi ammicca promesse di grigliate e calamari, mentre i ragazzi dei sassi sbucciano arance e guardano il mare: quasi tutti voltati verso l’orizzonte, i più stanchi riposano sul muretto, qualcuno si fa la barba seduto per terra, guardandosi e forse non riconoscendosi in una scheggia di specchio. Desolazione e luce, sporcizia e cascate di bouganville. Qui davanti, i poliziotti hanno messo transenne e delimitato l’area con il nastro , i migranti stanno dietro come in un recinto e si lasciano guardare, fotografare, poi si avvicinano per dire le loro storie. Se questo è un uomo si chiama Ahmed, ha 22 anni e una magrezza da brividi. Arriva dal Sudan. «Ho lasciato mio padre e mia madre, tutta la vita di prima e sono qui perché voglio diventare medico e aiutare gli altri. Sapevo che l’Europa è terra aperta, senza più frontiere, allora perché questo?», e indica col dito le camionette della Gendamerie, il blocco che non avrebbe alcuna ragione di esistere per la legge internazionale e invece c’è, ed è per questa gente il nuovo muro di Berlino, la muraglia cinese, il filo spinato di Auschwitz, insomma il segno che di lì non si passa. Il popolo degli scogli si prepara a un’altra notte dentro il vento che si alza forte, e alla pioggia che sta arrivando. Ecco di nuovo le coperte termiche che hanno fatto il giro del mondo dentro foto surreali e tremende, uomini come pezzi di carne nella carta d’alluminio, però meno male che c’è questo materiale prezioso per difendersi da freddo e spruzzi che sono come aghi dentro la pelle. Invece le donne e i bambini sono alla stazione ferroviaria. Il magazzino della Cri è pieno di roba da mangiare. «Questo ci conforta: la gente non ne fa una questione politica ma solo umana, niente destra o sinistra, qui si aiuta e basta». Fiammetta Cogliolo è la portavoce della Croce Rossa e lavora con i suoi colleghi di Mentone, una macchina oliata. «È bellissimo vedere le mamme italiane che portano giocattoli e insieme i loro figli, perché tengano compagnia ai piccoli migranti. Ora ce ne sono 9, il più piccino ha 6 mesi. Una turista americana voleva lasciarci soldi ma non possiamo accettarli, noi possiamo solo ricevere beni materiali». Biscotti e banane, caffè caldo e carta igienica, ai vestiti pensa la Caritas. All’ora della merenda arrivano da Ventimiglia fette di solidarietà lunghe 15 centimetri e larghe 10, si tratta della tiepida focaccia ligure che queste persone non hanno mai visto. La annusano circospetti, poi l’assaggiano a piccoli morsi, è salata e morbida, non ne resterà neppure una briciola. Tocca a Yousra Jamil, ragazza marocchina di 19 anni («Da 10 vivo in Italia e vorrei lavorare, a scuola non vado più»), spiegare in arabo agli uomini delle pietre che non è disdicevole cercare soccorso in stazione, e farsi dare un’occhiata dal medico. «Anche se hanno paura che così non potranno più andare in Francia: gli ho spiegato che non è vero, e di avere pazienza». Ieri Yousra ne ha convinti 54. Ma quando infine hanno lasciato il giaciglio di pietre, gli altri li hanno guardati con disprezzo. 40 del 16/06/15, pag. 21 Marc Augé. “Le nostre paure derivano dalle troppe lacerazioni del Vecchio continente. E se la politica non sarà in grado di affrontare l’emergenza, bisognerà rivolgersi all’Onu” “Solo un Piano Marshall per l’immigrazione potrà salvare l’Europa” FABIO GAMBARO PARIGI «L’EMERGENZA immigrazione rivela tutte le nostre debolezze e paure». Per l’antropologo Marc Augé, quello che accade in questi giorni tra il Mediterraneo e l’Europa è il sintomo di una società in difficoltà, senza più progetti e convinzioni forti. «Le tensioni provocate dall’arrivo dei migranti rivelano soprattutto il malessere acuto dei nostri paesi», spiega lo studioso francese autore di diversi saggi, tra cui Le nuove paure (Bollati Boringhieri) e L’antropologo e il mondo globale (Raffaello Cortina). «Di conseguenza, la politica interna interferisce con un problema d’ordine planetario che bisognerebbe affrontare globalmente con la cooperazione di tutti. Naturalmente sarebbe meglio risolvere la questione alla fonte, nei paesi da cui partono i migranti, solo che non ne siamo capaci. Anche perché per troppo tempo abbiamo lasciato deteriorare una situazione le cui conseguenze esplodono oggi, producendo problemi che non possono essere affrontati con misure improvvisate ». Cosa bisognerebbe fare? «Ci vorrebbe una politica europea forte e coraggiosa, ma l’assenza e l’immobilità dell’Europa è evidente. Da qualche tempo, le divisioni e le paure lacerano il continente, tanto che alcuni vorrebbero perfino reintrodurre le frontiere interne. Invece, se si rinunciasse alle reazioni emotive, si potrebbe cercare di valutare i problemi razionalmente e ipotizzare innanzitutto alcune soluzioni immediate d’ordine umanitario per garantire l’accoglienza e la protezione dei migranti. Queste soluzioni a breve avrebbero però senso solo se contemporaneamente si cercassero anche soluzioni di lungo periodo. Ad esempio immaginando una grande iniziativa collettiva, una sorta di piano Marshall dell’immigrazione. A un problema d’ordine planetario occorre rispondere con una politica globale di cui i paesi più ricchi d’Europa dovrebbero farsi promotori». Per far questo ci vorrebbe un’Europa più sicura di sé... «Invece l’Europa si scopre debole, divisa e incerta di fronte a un problema che in termini numerici non è certo insormontabile, se solo ci fosse la volontà politica. Ma un’Europa senza solidarietà è un’Europa che non ha più senso. Certo, tutto ciò ha un costo, che deve essere stimato. L’Europa unita è ancora essere sufficientemente forte per provarci. Se però non è in grado, allora accetti la propria sconfitta e lasci intervenire l’Onu». Oggi compassione e solidarietà sono spesso considerate un sintomo di ingenuità e debolezza... «Sì, ed è disdicevole. Per paesi che si richiamano ai diritti dell’uomo, la solidarietà dovrebbe essere normale, senza dimenticare che è anche vantaggiosa, visto che una parte non indifferente del nostro Pil è prodotto dagli immigrati». Perché i migranti suscitano ancora tanta paura nell’opinione pubblica? «Prima di tutto perché sono l’esempio vivente dello sradicamento. Hanno lasciato il loro luogo d’origine e ciò, per noi che viviamo nel culto delle radici, è una sorta di sacrilegio. Come tutti i nomadi, ci costringono a rimettere in discussione l’idea che un uomo sia 41 legato per sempre alle proprie radici, ricordandoci che un giorno anche noi potremmo trovarci sradicati. Questa paura dello sradicamento è particolarmente sentita nel mondo globalizzato di oggi. Da qui le reazione identitarie di coloro che s’identificano ossessivamente a un luogo, tanto da volerlo preservare a tutti i costi dall’arrivo degli altri». I migranti sono l’immagine di una vulnerabilità che un giorno potrebbe essere la nostra? «Certamente. E la presenza pubblica della loro miseria ci terrorizza, perché la crisi la rende una possibilità concreta anche per noi. Nella loro immagine si rispecchiano le nostre paure, rivelando tutto il paradosso di una mondializzazione che lascia circolare le merci, il denaro e le informazione, ma non le persone». Cosa pensa delle eventuali missioni militari contro i trafficanti? «Le reti di trafficanti devono essere combattute vigorosamente, ma la risposta non può essere solo militare. Occorre creare condizioni per viaggi più sicuri, mettendo a disposizione delle navi e magari organizzando dall’altra parte del Mediterraneo l’accoglienza dei migranti e la raccolta delle domande d’asilo politico. Occorre trovare soluzioni nuove all’altezza della fase di transizione in cui ci troviamo, tra la fine del vecchio mondo e la nascita di un mondo nuovo, quello dell’umanità planetaria. Di fronte a questa vasta e dolorosa transizione, gli individui si sentono soli, senza strumenti e senza protezione. Cercano quindi un capro espiatorio cui attribuire le colpe di tali situazione, aiutati da demagoghi, populisti e xenofobi di ogni tipo che provano a sfruttano le loro paure. Di fronte a questa situazione, i politici dovrebbe assumersi le loro responsabilità, invece di correre dietro l’opinione pubblica». del 16/06/15, pag. 5 The Guardian “Trattative segrete con l’Eritrea” Luca Fazio MILANO Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il presunto accordo segreto tra alcuni stati europei e l’Eritrea rivelato ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Di sicuro, se confermato, sarebbe un piano concordato con uno stato che i funzionari delle Nazioni Unite e diverse organizzazioni per i diritti umani chiamano “la Corea del Nord dell’Africa”, tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repressivo e sanguinario come quello del presidente Isaias Afwerki. Secondo il quotidiano inglese, che spesso rivela notizie scomode per i governi europei che stanno annaspando di fronte alla cosiddetta “emergenza” immigrazione — come quando ha reso pubblico un documento in cui si parlava di operazioni di terra in Libia per distruggere le barche degli scafisti — alcuni paesi avrebbero avviato delle trattative segrete per convincere il regime eritreo a rinforzare i controlli alle frontiere. L’obiettivo prefigura un disastro umanitario: blindare i confini per impedire con la forza la fuga dei cittadini eritrei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un premio: in cambio arriverebbero soldi oppure un ammorbidimento delle sanzioni. Per questo motivo è già finito nel mirino il segretario di stato norvegese Joran Kellmyr che si sarebbe recato in Eritrea per concordare l’ipotesi di poter rispedire indietro i profughi eritrei, facendo carta straccia del diritto di asilo. La rivelazione per ora avrebbe coinvolto anche altri due governi europei: quello inglese (il ministero degli Interni di sua Maestà non ha voluto commentare) e quello presieduto dalla coppia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto tace). Secondo l’articolo pubblicato ieri, infatti, anche funzionari italiani e britannici avrebbero viaggiato fino ad Asmara per testare la disponibilità del regime eritreo a 42 collaborare per braccare i migranti sui confini. Una rivelazione piuttosto verosimile visto che nel 2014 il 22% delle persone arrivate in Italia via mare proveniva proprio dall’Eritrea. Gli eritrei, dopo i siriani, sono i migranti più numerosi che cercano fortuna sfidando la morte sulle rive del Mediterraneo per entrare in Europa (circa duecento al giorno lasciano l’Eritrea). Proprio la settimana scorsa alle Nazioni Unite è stato pubblicato un rapporto molto esplicito sulla “cultura del terrore” che domina in Eritrea, si parla di arresti sommari, stupri e torture sistematici, un servizio militare che viene equiparato alla schiavitù, persecuzioni politiche ed esecuzioni sommarie. Nonostante questa situazione, Norvegia e Inghilterra nel corso del 2015 hanno già rifiutato molte domande di asilo politico di cittadini eritrei sostenendo che si trattava di migranti per motivi economici (il tasso di rifiuto è passato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evidente — ha dichiarato un funzionario dell’Onu – che in Europa c’è una volontà politica di risolvere la crisi dei migranti chiedendo la chiusura dei confini dell’Eritrea ed è una tattica molto pericolosa”. C’è addirittura chi teme che il regime possa sparare ai migranti in fuga. Secondo un funzionario inglese del ministero degli Interni non ci sarebbero piani immediati per cambiare politica nei confronti dell’Eritrea. E, comunque, “noi prenderemo in considerazione con attenzione i risultati del rapporto delle Nazioni Unite”. Speriamo che Matteo Renzi e Angelino Alfano, nel caso, facciano altrettanto. del 16/06/15, pag. 7 Il confine “umano” dei Balcani Grecia. Dalla stazione di Salonicco verso Serbia e Ungheria. E la polizia è diventata gentile Pavlos Nerantzis SALONICCO Alle 9.30 del mattino nella piccola piazza di fronte alla stazione della ferrovia sono già radunati decine di migranti. Sono soprattutto siriani, altri vengono dall’Afghanistan e da paesi subsahariani. Arrivano famiglie intere con bambini e bagagli. Sembrano turisti, ma sono profughi scappati da zone di guerra. Fino a un anno fa Salonicco era fuori dagli itinerari che seguono i migranti nel viaggio da est verso l’Occidente. Ma, a causa dei severi controlli, con l’uso di telecamere, nei porti di Patrasso e Igoumenitsa, le tappe dei migranti in Grecia sono cambiate e oggi gran parte dei flussi migratori passano da qui e, attraverso il confine settentrionale, si dirigono verso la Serbia e l’Ungheria. Un centro di accoglienza, che offre ospitalità soprattutto a iracheni e afghani e tre mesi fa ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi, ora è autogestito dall’Iniziativa antirazzista. Molti profughi, a causa delle temperature alte, trascorrono la notte sdraiati sulle panchine delle piazze e dei parchi vicini alla stazione centrale, altri invece sono ospitati negli alberghi intorno alla via Egnatia, la strada che univa l’antica Roma con Costantinopoli e oggi attraversa l’intera città. Improvvisamente nella piazza arrivano otto motociclisti armati fino al collo. Appartengono alla famigerata squadra Delta della polizia greca, considerata un covo di fascisti e spesso accusata di aver aggredito e picchiato manifestanti. Questa volta sono gentili. Chiedono i documenti ai migranti, che stranamente non cercano di scappare. Si tratta di un normale controllo. Tre profughi, provenienti dalla Somalia, non possiedono documenti e vengono fermati, gli altri si preparano a prendere la corriera dalla stazione centrale oppure a 43 camminare per arrivare fino a Polykastro, una cittadina a una sessantina di chilometri da Salonicco e appena venti dal confine. Fino a un anno fa se un extra-comunitario voleva sopravvivere in Grecia, soprattutto ad Atene, doveva passare inosservato, o meglio essere invisibile agli occhi della polizia e degli squadroni fascisti. Invece adesso tutto avviene alla luce del sole, senza paura. Sembra quasi che l’epoca in cui gruppi fascisti attaccavano i migranti sia finita. Nei primi sei mesi del 2012 erano stati registrati oltre 500 attacchi razzisti – il numero ovviamente è maggiore, visto che le vittime raramente sporgono denuncia alle autorità per paura di essere arrestate per mancanza di documenti — mentre nel primo semestre del 2015 la polizia ha accertato appena 5 casi di violenza contro migranti. Nel 2014 ci sono state 65 denunce, la metà rispetto all’ anno precedente, e 35 di queste si sono concluse con un processo. I dati del ministero della Protezione del cittadino, a cui appartiene la polizia greca, sono confermati da varie organizzazioni non governative, che fanno notare lo stretto rapporto tra l’organizzazione neonazista Alba dorata e le azioni razziste. Dopo l’ assassinio del giovane rapper Pavlos Fyssas, l’arresto dei leader di Alba dorata e l’accusa da parte della giustizia greca di essere un’organizzazione criminale, infatti, le violenze razziste contro i migranti sono calate vertiginosamente (mentre sono cresciute le violenze contro gli omosessuali). Diversa rispetto all’ultima volta che abbiamo visitato la zona, appena un mese fa, è la situazione al confine, a pochi centinaia di metri dalla stazione di dogana Eidomeni. Gli arrivi si sono moltiplicati a causa del miglioramento delle condizioni climatiche, ma nonostante la notte non faccia più freddo i problemi sono aumentati: i bagni non sono sufficienti per le centinaia che arrivano ogni giorno, aspettando la notte per proseguire in territorio slavomacedone di solito con l’aiuto di un trafficante, mentre un autogrill mobile che vende panini e bottiglie d’acqua sta in mezzo ai campi a una cinquantina di metri dalla linea del confine. Dietro l’angolo, quasi nascosta tra i cespugli e gli alberi, sosta una jeep della polizia. Poco tempo fa pure quest’immagine sarebbe stata impensabile. «Siamo la polizia più umana in Europa», ci dice sorridendo la poliziotta che sta a guardare i migranti che attraversano il confine. In realtà tutti quelli con i quali abbiamo parlato sono in possesso di un documento di viaggio (soprattutto i siriani) o della carta rosa (dei richiedenti asilo) oppure ancora di un foglio di espulsione. Tutti se ne vanno dalla Grecia perché non vogliono rimanere in un paese in crisi. A Eidomeni incontriamo anche i Medici senza frontiere, che operano sul posto già da due mesi con un dottore di origine palestinese. Un gruppo di medici e di infermieri con lo stemma di Msf visita chi ne ha bisogno. Da una casa abbandonata oltre il confine, che secondo le testimonianze viene affittata per centinaia di euro al giorno, giungono decine di migranti, gente di ogni età. Un anziano di origine araba ci affida un ragazzino che ha non più di otto anni, probabilmente suo nipote, facendoci segno di portarlo dal dottore perché sembra malato. Al confine incontriamo anche gente che avevamo visto un mese fa. Ahmad ha tentato tre volte di arrivare fino in Serbia, ma è stato sfortunato. In territorio slavomacedone è stato rapito da una banda e altre due volte malmenato dai poliziotti, che l’hanno respinto. Ha una mano ancora bendata per via delle bastonate ricevute. Autan, di origine afgana, che avevamo incontrato nel marzo scorso, dice invece di aver deciso di rimanere in Grecia, proprio al confine, per aiutare chi tenta di andare oltre. Nega sorridendo di essere un trafficante, ma sa tutto: il viaggio dalla Grecia in Serbia, un percorso che di solito dura dieci giorni in mezzo a mille difficoltà e pericoli provenienti 44 innanzitutto da bande armate e poliziotti della Macedonia ex jugoslava, che maltrattano e respingono in territorio ellenico chi cade nelle proprie mani, costa 500 euro. Intanto Atene, che confida nell’attivazione del meccanismo di emergenza per la ridistribuzione intra-Ue dei richiedenti asilo non solo perché mancano i soldi per gestire da sola i flussi migratori ma anche per una distribuzione equa dei neo-arrivati, si trova alle strette. Il governo greco deve far i conti con la reazione forte di alcuni paesi membri dell’Ue alla proposta della Commissione, con l’opposizione dei conservatori e dei socialisti che lo accusano di aver trasformato il Paese in un «luogo di riposo per i clandestini», con la mancanza di volontà da parte dei comuni di collaborare ad applicare la nuova politica migratoria e anche con casi di corruzione all’interno della polizia, della Guardia costiera e dei servizi segreti. Secondo un’ inchiesta interna alla polizia, si tratta di vicende che superano il livello «di quelle riferibili alla criminalità organizzata», tanto da potervi intravedere anche «un complotto contro il governo». La situazione sarebbe talmente grave che pochi giorni fa Yannis Roubatis, capo dei servizi segreti greci (Eyp), ha avuto un colloquio con il premier Alexis Tsipras. Del 16/06/2015, pag. 15 No della Regione alla richiesta di inviare i suoi volontari VENTIMIGLIA (Imperia) La Regione Liguria ha rifiutato di inviare dieci uomini della Protezione civile al confine italo-francese per dare il cambio ai volontari della Croce Rossa. È quanto trapelato al termine di un vertice tenutosi ieri sera in municipio a Ventimiglia, riunione alla quale hanno partecipato anche il sindaco Enrico Ioculano e il prefetto di Imperia. Intanto sono almeno 150 i migranti che ogni giorno continuano ad attraversare in qualche modo il confine, nonostante i gendarmi schierati alla dogana di ponte San Lodovico. La stima è della polizia di frontiera italiana, la prova è nelle facce. Sono sempre un centinaio sugli scogli, ma la maggior parte sono volti nuovi. Lo stesso vale per la stazione, dove sono accampati da giorni in 250. Come è possibile, visto che ogni giorno i treni da Roma o Milano ne scaricano oltre un centinaio? «I passeur sono in piena attività» conferma un inquirente. Li portano in sentieri poco battuti, o dentro furgoni nei valichi meno controllati, o anche in barca. Di passeur , veri o millantatori, la stazione è piena. Si allontanano seguiti da piccoli gruppi di profughi. Spesso passano attraverso il ponte pedonale sul fiume Roja, i migranti attendono in spiaggia, i camioncini in un parcheggio più a nord. «Cinquanta euro per un passaggio» promette un marocchino che si fa chiamare Youssuf. A dispetto dei proclami da Parigi, la frontiera è un colabrodo. Il sindaco di Ventimiglia si sfoga: «Se i migranti attraversano il confine fanno bene. Anzi, se potessi gli suggerirei io dove andare». Riccardo Bruno Del 16/06/2015, pag. 10 Pisapia: “Non mandate nuovi profughi” 45 Il sindaco: “Milano continuerà a fare la sua parte ma i migranti vanno ridistribuiti” Centinaia di persone stipate nei futuri negozi della stazione, 4 nuovi casi di scabbia Fabio Poletti In stazione Centrale sono ancora decine e decine, rifugiati nei box di vetro foderati di cartone o per terra nella galleria davanti all’ingresso. Il grosso è già finito nelle 8 strutture comunali dove la scorsa notte hanno dormito più di 1300 migranti. Basta questo per far dire con un certo ottimismo al ministro dell’Interno Angelino Alfano «che è stato ripristinato un contesto e una situazione del completo decoro sia dentro che fuori la stazione Centrale». Non è ancora così ma dopo giorni di arrivi e i blocchi alle frontiere, il tappo a Milano rischia di saltare. Il più preoccupato è il sindaco Giuliano Pisapia, il quale chiede che «non vengano inviati ulteriori profughi in città. Milano ha fatto la sua parte e continuerà a farla. Ma più di così non può fare. È necessario redistribuire le presenze nelle diverse regioni proporzionalmente agli abitanti e in base all’effettiva capacità di dare una prima e dignitosa accoglienza». Nell’attesa già a oggi alla Croce Rossa sarà consegnato il Cara con oltre 200 posti per l’accoglienza mentre il Cie di via Corelli è stato autorizzato ad aumentare la capienza per accogliere più migranti. La stazione è il punto di arrivo a Milano in attesa che diventi il luogo di partenza verso il Nord Europa. I numeri sono la conferma di flussi continui. Domenica notte, a chiusura del centro di smistamento allestito sotto la Galleria delle Carrozze, nei box di cristallo non ancora adibiti a negozi, c’erano 464 persone. Soprattutto siriani, etiopi ed eritrei. I nuclei familiari con bambini erano 141. Aspettano documenti, che si sblocchi la situazione in Europa, che si decida che fare di loro in questa specie di limbo dove non accade nulla, se non quel minimo che garantisce la sopravvivenza. «Il 17 giugno (domani, ndr) incontrerò Piero Fassino e Sergio Chiamparino con i vertici dell’Anci. Discuteremo dello smistamento dei migranti. Cosa di cui ho parlato con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia», promette il ministro Alfano. In attesa che si muovano le istituzioni si muove tutta la città. In stazione spunta anche uno striscione grande così: «Refugees welcome». Dall’altre parte un gruppo di leghisti sventola bandiere verdi. I milanesi che vengono qui a portare generi di prima necessità sono diventati pure troppi. L’assessore ai servizi sociali Pierfrancesco Majoriono chiede che pure la solidarietà sia autogestita: «Chi vuole contribuire ad aiutare vada nei centri tipo via Corelli e via Aldini dove abbiamo la possibilità di smistare tutto». Nel vertice in Prefettura si è deciso che i box di vetro saranno occupati dai migranti fino a domani notte quando saranno trasferiti nella comunità Exodus di don Mazzi e poi al Dopolavoro ferroviario vicino alla stazione. Un posto dove dormire, cibo e acqua non sono le uniche priorità. C’è pure l’emergenza salute. Ieri sono stati accertati altri 4 casi di scabbia. Solo da venerdì sono stati visitati oltre 200 migranti. Mentre Emergency è pronta a far arrivare in stazione un’attrezzata clinica mobile, come annuncia la sua presidente Cecilia Strada: «Questa non è un’emergenza ma un fenomeno cronico. Si potrebbe mettere una tensostruttura davanti alla stazione. Oggi bisogna decidere da che parte stare, se con quelli che vogliono chiudere le frontiere o con chi decide di accettare la realtà e si dà da fare». del 16/06/15, pag. 1/5 Democratico razzismo 46 Anna Maria Rivera Dovevamo aspettarci che, come sempre nel nostro paese, la fase attuale di migrazioni ed esodi – l’emergenza, come dicono loro – fosse descritta dai media col consueto lessico degradato (esso sì): «bivacco», per dire della sosta forzata dei profughi, scacciati da ogni dove, presso stazioni ferroviarie e simili; «assedio», per descrivere l’arrivo in questi luoghi di gruppi di persone (bambini compresi) provate, traumatizzate, abbandonate al loro destino oppure trattate come animali in gabbia o pesci d’acquario (è il caso di Milano); «ripulire» la stazione, per significare liberarla da queste presenze indecenti e dunque «restituirle un po’ di decoro». Così il sindaco Pisapia, che si lascia scappare perfino una variante del tipico «Se le piacciono tanto, se li porti a casa sua», rivolta a una giornalista: «Allora li ospita lei a Sky?» Per non dire dei lemmi intramontabili che, nonostante la Carta di Roma e altre iniziative analoghe, in alcuni casi vengono rispolverati per l’occasione, in altri semplicemente perpetuati: «zingari», «nomadi», «extracomunitari», «clandestini», «degrado», «esodo biblico» e tutte le varianti della retorica allarmistica, perfino apocalittica… Non mi riferisco ad ambienti e a mass media di destra o di estrema destra, meno che mai al gergo salviniano. Parlo, invece, del linguaggio di ciò che quasi un decennio fa con un po’ d’ironia cominciammo a definire razzismo democratico o rispettabile, riferendolo a politici e ministri di centrosinistra, ambienti, intellettuali e organi d’informazione democratici (si veda, per es., Giuseppe Faso, Lessico del razzismo democratico, 2010). Il lessico, si sa, non è mai innocente. Tant’è che i lemmi che ho citato sostengono retoriche che solo chi è di memoria corta può pensare siano nuove. Fra queste, torna in auge la vecchia idea, determinista e in fondo sprezzantemente classista, secondo la quale la plebe sarebbe naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni del proprio disagio sociale. Ne discende la tesi, classicamente populista, per la quale al grido di dolore che si leva dalla ‘plebe’ si debba rispondere con severità e rigore verso i capri espiatori, in definitiva negando loro diritti umani fondamentali. E’ una tesi che si fonda (come scrivevo nel lontano 2007) su un principio di tipo omeopatico: per prevenire il razzismo popolare conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale. Un’altra vecchia etichetta, rispolverata assai di recente, è quella dell’«antirazzismo facile» che, coniata a suo tempo da qualche chierico, credevamo non più in uso almeno tra gli scienziati sociali. Coloro che denunciano «il razzismo più bieco e insopportabile», accusa Chiara Saraceno in un articoletto recente, in realtà gli fanno «da cassa di risonanza» e non si occupano delle «condizioni di disagio in cui questo si genera». Un’affermazione che, tra le altre cose, rivela una lontananza siderale dal mondo dell’antirazzismo militante (compreso quello dotto), perciò immiserito entro un cliché. Astratte e stereotipate tornano a essere, pur dopo trent’anni di studi e ricerche su migrazioni ed esodi, anche le rappresentazioni delle figure, delle biografie, delle storie di migranti e profughi, in realtà molteplici e complesse ben più delle nostre. Si riaffaccia, anche sulla bocca di colti, la rigida dicotomia profughi/migranti, fattualmente infondata, politicamente assai pericolosa. Senza stare a ricordare la storia dell’immigrazione in Italia e il doppio status reale dei protagonisti degli esodi di massa (gli albanesi degli anni ’90, i giovani tunisini del 2011…), basta dire questo: se pure fossero migranti “economici”, una volta rimpatriati un tunisino e un’eritrea, solo per fare due esempi ipotetici, rischiano il carcere in virtù delle legislazioni in vigore in entrambi i paesi, anche nella Tunisia senza Ben Ali. In realtà, come ho scritto altrove, sono anzitutto il sistema normativo, le sue interpretazioni e applicazioni a decidere, in definitiva, chi sia migrante e chi rifugiato. Ma, infine, basterebbe soffermarsi su alcune immagini odierne, facendo agire immaginazione ed empatia, per comprendere l’infondatezza di tanti cliché e stereotipi. Guardate le foto dei giovani eritrei, somali, afghani, più alcuni maghrebini, che a 47 Ventimiglia, a pochi passi dal confine con la Francia, protestano sugli scogli dei Balzi Rossi. Guardate i loro volti tirati per le notti insonni, la tensione, lo sciopero della fame. Osservate anche la loro coraggiosa determinazione, riversata nei cartelli che essi esibiscono, grezzamente approntati eppur così efficaci. E soffermatevi sulle immagini dei tanti cittadini e cittadine comuni, anche povera gente, che va a portar loro abiti, cibo, solidarietà. Guardate le lunghe code, a Roma, delle persone che recano ogni genere di beni di prima necessità per i profughi scacciati dalla Stazione Tiburtina e accolti dal Centro Baobab. Vi apparirà chiaro – e tale dovrebbe apparire a tanti soloni – il contrasto tra la ricchezza di una realtà sociale, certo contraddittoria, difficile, anche a rischio di gravi derive, e l’astratta miseria intellettuale, morale e politica dei decisori nazionali ed europei, e di alcuni loro interpreti. del 16/06/15, pag. 18 Rom, l’emergenza prêt-à-porter di Daniela Ranieri Nel vernacolo greve di Salvatore Buzzi gli affari relativi alla gestione dei campi rom sono “l’ennesima telenovela su ‘sti cazzo de zingari”. Non volendolo, l’arrestato per Mafia Capitale dice una verità: l’eterna emergenza-rom si incancrenisce in assurde spire burocratiche perché il “mondo di sopra” ha interesse a farla durare, in ciò agevolato dalla impietosa indifferenza di tutti. Anzi, i rom sono diventati un problema nazionale da quando ai traffici malavitosi degli speculatori si è aggiunta la narrazione apocalittica che li vede come agenti principali della rovina. Di Salvini ormai si sa tutto: che adopera categorie pre-politiche, emotive e indimostrabili, per sviare l’attenzione dalla totale assenza di proposte; che fa l’ospite televisivo anche se lo paghiamo per stare in parlamento a Strasburgo; che in quanto a cultura politica non è superiore a un qualsiasi avventore di un bar del novarese. È perciò inutile fare la ramanzina a lui e a quelli che condividono il suo background morale e intellettuale di rozzezza e superficialità, perché è proprio grazie queste qualità che è apprezzato, e suonerebbe moralista quello che invece è solo morale. Ma è chiaro che la battente campagna mediatica anti-rom ha seguito un metodo finora infallibile: facendo leva su luoghi comuni e leggende metropolitane, si è montato un set emergenziale in cui i rom – impopolari, non remissivi e esteticamente respingenti – sono stati indicati come usurpatori del benessere a quegli italiani abbattuti dalla crisi e dall’erosione del welfare non abbastanza forti da scagliarsi contro i veri responsabili dello sfacelo. Lo zingaro, quando non è impersonato da attori finti nei talk show di Segrate, viene presentato come un ingrato che vive nel fango per irredimibile malvagità, anche se potrebbe pascersi nel lusso, dotato di macchine costose, iPad, wi-fi, soldi sotto il materasso, antenne paraboliche e una genetica propensione a rubare. Così si è riusciti a convincere milioni di persone che faccia maggior danno un eventuale furto del portafoglio da parte di uno zingaro che l’associazione a delinquere continuata e bipartisan tra malavita e uomini politici di vario ordine e grado, o la frode fiscale da 7 milioni di euro (più altri prescritti o condonati) messa in atto da un presidente del Consiglio mentre era in carica. 48 La fandonia regge perché è semplice e assolve tutti dalle responsabilità, anzitutto la Lega, che è stata al governo e niente ha fatto in merito se non una demenziale legge firmata Maroni. Prima di finire in mano a Salvini, il partito era infatti talmente vuoto di consensi e ideologia da poter essere insufflato e resuscitato dall’accozzaglia di provocazioni, ingiurie, turpiloquio che è sfociata nell’immagine primitiva, infantile e demolitoria delle ruspe. Ma Salvini ha solo sturato la cloaca dell’ignoranza, e ora il suo metodo – dare una botta al cerchio (l’Italia non è razzista) e una alla botte (i rom delinquono) – rischia di diventare una efficace per quanto miserabile strategia di ricerca del consenso tout court. Intanto nel discorso alla direzione del Pd Renzi si è detto indignato per la scarcerazione del diciannovenne coinvolto nell’incidente di Roma sottolineandone l’etnia. La verità è che il mix di segregazione, controllo sociale, discriminazione e generalizzazione con cui trattiamo i rom si chiama razzismo. Salvini, maneggiando benissimo la sua immagine fintamente indulgente, rifiuta l’attribuzione e ogni assimilazione del suo metodo con quello del nazionalsocialismo antisemita; eppure, sempre più persone che lo seguono si dichiarano orgogliosamente razziste e favorevoli ai roghi e ai forni. Forse un partito che si chiamasse “Razzisti con Salvini” prenderebbe più voti della implicitamente violenta Lega, chi sa. E il cinismo di Buzzi non è certo più ributtante di quello di chi specula su chi non ha niente per ottenere i voti di quelli che hanno ancora qualcosa. 49 WELFARE E SOCIETA’ del 16/06/15, pag. 27 Italia senza figli, è il record del secolo L’Istat: più morti che nati, mai così dalla Grande Guerra. Il Paese è a crescita zero MICHELE SMARGIASSI SOLO la Grande Guerra svuotò le culle più di adesso. Fa sapere l’Istat che nel 2014 in Italia la differenza fra nati e morti, leggi saldo demografico naturale, ha sfiorato quota meno centomila: un record, la forbice più alta dal 1918 (meno 636 mila), quando però era la falce delle trincee a squilibrare il bilancio. Oggi non è che si muore di più, anzi la mortalità è in leggera diminuzione. È il disinvestimento sui figli che allarga la forbice, perché la voglia di prole frana ormai costantemente dal 2008. Il Bilancio demografico nazionale rilasciato ieri dall’Istat ha la forza delle cifre nette: 502.596 neonati l’anno scorso, meno 11.712, ossia meno 2,3%, sul 2013. Altro che crescita zero, è decrescita sottozero, quasi ovunque: solo a Trento e Bolzano più nascite che funerali. Crisi economica, mutamento dei costumi e dei progetti familiari. C’entra pure il contraccolpo del baby-sboom : sono in età fertile oggi i figli dei primi cali demografici degli anni Ottanta: meno bambini allora, meno potenziali genitori oggi. Che cosa conta di più, nella retromarcia demografica italiana? Non è facile distinguere. Ma c’è un indizio che comincia a farsi significativo: calano anche le nascite nelle famiglie degli immigrati. Nel primo decennio del millennio i bimbi multicolori riempivano le sale parto, compensando in parte la minor natalità delle famiglie italiane: un boom, da 30 mila nel 200 a 80 mila nel 2012. Bene, l’aria è cambiata anche qui. L’inversione di tendenza timida di due anni fa, nel 2014 è stata netta: 2638 nati in meno. La crisi colpisce anche famiglie che, per cultura e tradizione, sarebbero propense a fare più figli della media italiana. Dunque, nonostante le paure di invasione, in questo paese non stiamo più stretti di prima. Sommando tutto, arrivi e partenze, nati e morti, siamo appena 12 mila in più del 2013, ma se scremiamo la burocrazia (correzioni di errori e revisioni anagrafiche) siamo aumentati solo di duemila persone e rotti, un’inezia. Per chi ama la precisione, in Italia ora siamo 60.795.612 residenti ufficiali. Di cui poco più di 5 milioni sono cittadini stranieri immigrati (fa l’8,2 per cento, ma attenzione: quasi la metà vengono da paesi europei). Ci sono ormai nella penisola persone di duecento nazionalità diverse (primi i romeni, 22,6% del totale), ma le iscrizioni anagrafiche dall’estero (277 mila l’anno scorso) sono addirittura in calo. Hanno invece ottenuto la cittadinanza italiana 130 mila persone nate altrove. Insomma, anche l’immigrazione, almeno quella che risulta all’anagrafe, riesce a malapena a colmare i vuoti di un paese che perde abitanti. Ne perde statisticamente ( per lo sbilancio fra nati e morti, già detto), ma anche realmente: siamo ancora un paese di emigranti, 90 mila partenze, anche a contare i rimpatri il saldo è negativo di quasi 60 mila unità. Partono i più giovani, e anche questo aggiunge un grano di sabbia all’inesorabile clessidra dell’invecchiamento: adesso la nostra età media è di 44,4 anni. Apparentemente non sembra drammatica, ma è l’incubo della piramide rovesciata a turbare i sonni dei programmatori sociali: quella massa di anziani inattivi che preme su una minoranza di giovani produttivi, che può schiantare qualsiasi welfare, non solo in tempi di crisi. 50 del 16/06/15, pag. 10 Istat. Italia sempre più vecchia, con un saldo tra nascite e decessi (a favore dei secondi) che non si vedeva dalla Grande Guerra Solo gli immigrati ci salvano dal «gap demografico» Roma In un Paese che inesorabilmente invecchia e nel quale continuano a diminuire le nascite solo i nuovi migranti in arrivo garantiscono la crescita zero (o quasi) della popolazione residente. Lo conferma l’ultimo bilancio demografico dell’Istat relativo al 2014. Alla fine dell’anno scorso secondo l’Istituto di statistica eravamo poco meno di 61 milioni, per la precisione 60.795.612, in aumento rispetto al 2013 di appena 12.944 unità mentre il saldo è risultato addirittura negativo per la popolazione femminile (-4.082). In questo contesto la variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale (nascite e morti) e migratoria, registra - al netto delle rettifiche dovute alle regolarizzazioni anagrafiche - un aumento di appena 2.075 unità, pari a +0,003%. In pratica gli arrivi dall’estero hanno compensato appena il calo di popolazione dovuto al saldo naturale. Quello che i demografi definiscono “il movimento naturale della popolazione”, cioè il saldo tra le nascite e i decessi, ha fatto registrare nel 2014 un saldo negativo di quasi 100mila unità, che segna un picco mai raggiunto nel nostro Paese dal biennio 1917-1918, gli anni della Grande Guerra. Se infatti la mortalità resta stabile, con una lieve diminuzione in valori assoluti (-2.380 decessi), continua la tendenza - in atto ormai da anni - del calo delle nascite: sono stati infatti registrati quasi 12mila nati in meno rispetto all’anno precedente. Anche i nati stranieri continuano a diminuire (-2.638 rispetto al 2013), pur rappresentando il 14,9% del totale dei nati. In questo quadro non meraviglia che l’età media della popolazione continui a salire: al 31 dicembre 2014 è pari a 44,4 anni, in costante aumento dal 2011 (quando era di 43,8 anni). Con tutte le conseguenze del caso sui rapporti intergenerazionali i cui squilibri continuano a crescere. A fine 2014 l’indice di dipendenza strutturale, ossia il rapporto tra la popolazione in età inattiva su quella attiva, è stato pari al 55,1% contro il 53,5% del 2011. Nello stesso periodo l’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto tra la popolazione over 65 anni e quella con meno di 15 anni, ha registrato un netto incremento, passando dal 148,6% del 2011 al 157,7% del 2014. Tornando agli stranieri, essi sono aumentati nel 2014 di 92.352 unità (+1,9%), portando il totale dei cittadini stranieri residenti a 5.014.437, pari all’8,2% dei residenti totali. Provengono da circa 200 Paesi diversi, ma per oltre il 50% si tratta di cittadini di un Paese europeo. La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (22,6%) seguita da quella albanese (9,8%). La popolazione straniera risiede prevalentemente al Nord e al Centro, anche se nel 2014 il Sud ha visto aumentare di quasi il 30% la sua quota di stranieri. Rispetto agli anni precedenti diminuisce il numero degli immigrati e aumenta il numero degli emigrati: il saldo tra i due flussi in entrata e in uscita è pari a 140mila unità circa. Davide Colombo 51 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 16/06/2015, pag. 18 Due milioni di metri cubi di rifiuti tossici interrati Il sito scoperto in Campania dalla Forestale “E’ la più grande discarica illegale d’Europa” Guido Ruotolo L’escavatrice dell’esercito ha trovato un altro contenitore di veleni. A Calvi Risorta, provincia di Caserta, scatta l’allarme. Il sensore del «Chempro 100» che identifica sostanze volatili, idrocarburi, alcol, emette un suono ripetuto. «Siamo fortunati. - dice un forestale, tuta protettiva bianca e mascherina, al suo comandante - perché sull’involucro c’è il numero della partita. Possiamo risalire al produttore e all’acquirente». L’involucro è di Pliolite prodotto dalla Good Year, divisione chimica, stock n. 445149. Si tratta di pitture a base di resine. Ex area industriale «Pozzi Iplave», dove, prima del fallimento, si producevano vernici, sanitari, Pvc. In un resoconto della Regione Campania di due anni fa, si accenna a questa area: «Un sito privato censito nel Piano regionale di bonifica in attesa di indagini. Nei capannoni della azienda fallita, sono stati sequestrati dall’Arpac amianto, vernici e solventi». Da appena quattro giorni, le escavatrici dell’esercito, gli uomini della Forestale e dei Vigili del Fuoco, i tecnici dell’Arpac hanno rivelato la presenza, per dirla con il generale Sergio Costa, comandante regionale del Corpo Forestale, «della più grande discarica europea di rifiuti industriali». I tecnici ipotizzano che vi siano interrati oltre due milioni di metri cubi di rifiuti industriali. Erano stati un giornalisti e un fotografo di «Calvi Risorta News», un giornale web, a denunciare alla Procura di Santa Maria Capua Vetere, il sospetto che in questa area fossero stati interrati veleni ndr stirali. Fotografie dall’alto dell’area in diverse fasi temporali, avevano mostrato delle anomalie. Dove c’erano delle conche, adesso emergevano delle collinette. La Procura ordinaria - nessun pentito dei Casalesi ha ma mai parlato di questo «tesoro» di Gomorra - ha avviato le indagini e giovedì scorso sono partiti i primi rilevamenti, i primi saggi sul terreno. Ai primi colpi di escavatrice sono emersi due fusti di vernici e fissanti (sacchetti di anidride ftalica). Poi, altre buche e altri fusti. Anzi, ogni buca, rifiuti industriali stratificati. Dice il vicequestore aggiunto della Forestale, l’ingegner Michele Capasso: «L’area sequestrata è di 24 ettari. Nei primi saggi abbiamo trovato rifiuti fino a nove metri di profondità. Perché poi c’è uno strato di tufo che non lascia filtrare nulla. Ma a valle di questa area c’è un rio, e ora l’Arpac dovrà fare i rilievi per capire la dimensione eventuale dell’inquinamento della falda acquifera». In queste ore, gli uomini della forestale hanno sondato i terreni con il geomagnetometro individuando diverse aree con «anomalie magnetiche». «al di là di quel boschetto verde indica l’ingegner Capasso - temiamo che vi siano interrati metalli e altre sostanze pericolose. Adesso l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia picchetterà l’area e procederà ai campionamenti». La Terra dei fuochi, le indagini a Gomorra per accertare i racconti dei pentiti che negli anni non avevano portato a nulla. Sembrava solo materia per scrittori e registi. Poi, il movimento delle mamme dei bambini. Orti di tumore, le proteste, la mobilitazione. E ora emerge dal nulla il «tesoro» che avrà fruttato milioni agli industriali in evasione 52 fiscale e in oneri risparmiati per lo smaltimento dei rifiuti. E milioni ai Casalesi (questo è territorio di Michele Zagaria e degli Schiavone) che hanno fatto il business dei rifiuti. Del 16/06/2015, pag. 26 L’enciclica di Bergoglio sull’ambiente «Conversione ecologica universale» L’appello nella «Laudato si’», tra critiche ai poteri economici e denuncia dell’iniquità globale CITTÀ DEL VATICANO «Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data». Papa Francesco parla della «crisi» attuale e chiede «a tutte le persone di buona volontà» una «conversione ecologica» e una «nuova solidarietà universale», nell’enciclica Laudato si’ «sulla cura della casa comune» che sarà pubblicata giovedì. Il testo era sotto «embargo», il sito dell’ Espresso lo ha pubblicato ieri pomeriggio: «una bozza» e «non il testo finale», ha detto padre Lombardi. In Vaticano c’è grande irritazione, la «violazione delle regole di correttezza» è considerata una mossa deliberata «contro il Papa e contro l’enciclica», per indebolire la presentazione di un testo che critica lo squilibrio tra Nord e Sud del mondo e la politica ambientale dei Paesi più potenti, parla della «regola d’oro» della «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni», e aveva subìto un fuoco di sbarramento prima della pubblicazione soprattutto negli ambienti ultraconservatori statunitensi. In 192 pagine e 246 paragrafi, il Papa parla di ecologia come studio dell’ oîkos , in greco la «casa» di tutti. Della responsabilità per il «bene comune» contro il rischio concreto di autoannientamento. L’incipit cita il Cantico delle Creature del santo di cui Bergoglio ha preso il nome: San Francesco è «patrono» e «testimone» di una «ecologia integrale», che ci fa riconoscere nella natura «lo splendido libro nel quale Dio ci parla» e dove ciascuna creatura ha un valore ed è un fine in sé. L’uomo è un essere «personale» ma non è il padrone della natura. E la natura non è materia bruta a nostra disposizione, gli esseri viventi non sono «meri oggetti» di sfruttamento e profitto ma «hanno un valore proprio di fronte a Dio». Del resto l’ecologia è sempre anche «ecologia umana», nel mondo tutto è collegato, la fragilità della Terra e dei poveri, gli squilibri ambientali e sociali, la speculazione finanziaria, le armi e le guerre. Il santo di Assisi parlava della terra come «madre» e «sorella» e guardava ai poveri. Così Francesco scrive che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale e deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della Terra quanto il grido dei poveri». Tra l’altro, scrive: «Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi». Bergoglio elenca i guasti della «crisi ecologica»: riscaldamento globale, cambiamento climatico, inquinamento, innalzamento dei mari, impoverimento della biodiversità, distribuzione iniqua del cibo, la carenza e il diritto di tutti all’acqua. Denuncia «l’inequità» planetaria: «il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo» ma «non accade la stessa cosa» per lo sfruttamento delle risorse e quello che è «un vero debito ecologico soprattutto tra Nord e Sud del mondo». Punta il dito contro la «debolezza» della politica internazionale: «È indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche libertà e giustizia». Così denuncia la «globalizzazione del 53 paradigma tecnocratico» che si riflette nel «consumismo ossessivo» e «tende ad esercitare un dominio anche su economia e politica». Ci sono passaggi durissimi: «I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente». E ancora: «È prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre». Tutti devono avere il coraggio di impostare progetti a lungo termine anziché cercare il potere. Ne va della nostra sopravvivenza, dell’armonia del creato: «Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi». Gian Guido Vecchi del 16/06/15, pag. 1/29 DA SAN FRANCESCO A FRANCESCO VITO MANCUSO DA SAN FRANCESCO a Francesco. Già l’accoppiata di titolo e sottotitolo della nuova enciclica di Bergoglio è molto significativa: Laudato si’. Sulla cura della casa comune . Vi compaiono tre concetti decisivi della complessiva interpretazione bergogliana del cristianesimo come servizio e difesa dell’uomo: 1) la lode, ovvero la dimensione contemplativa, assolutamente essenziale per la spiritualità gesuita; 2) la cura, la prassi volta al bene e alla giustizia, tratto peculiare della teologia della liberazione sudamericana; 3) la casa comune, ovvero il bene comune e la dimensione comunitaria della vita umana, che è sempre vita di un singolo all’interno di un popolo. Precisamente per questa terza dimensione il papa scrive che con il suo scritto egli non si rivolge solo agli uomini di Chiesa e ai cattolici, com’è tradizione per il genere letterario dell’enciclica, ma a tutti gli esseri umani: «Mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune». Francesco tiene a ricordare che la sua particolare attenzione all’ecologia non è una novità per il papato, in quanto tutti i suoi immediati predecessori l’avevano coltivata prima di lui. E in effetti leggendo il suo scritto è impossibile non riscontrare forti debiti intellettuali verso Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, entrambi citatissimi (23 volte il primo, 21 il secondo). Si ha però anche una sensazione di autentica novità per almeno tre motivi: 1) per lo stile semplice e immediato che ricorda da vicino quell’acqua di cui il papa scrive che «ci vivifica e ci ristora»; 2) per l’attenzione prestata a contributi che solitamente non costituiscono le fonti del magistero papale, come per esempio le opere di altri leader religiosi tra cui il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, e le analisi di scienziati, di sociologi, di economisti; 3) per la forza sorprendentemente “laica” degli argomenti e dell’argomentazione. Nell’enciclica infatti ricorrono termini quali inquinamento, cambiamenti climatici, rifiuti, cultura dello scarto, questione dell’acqua (qui il papa spende parole fortissime contro ogni progetto di privatizzazione delle risorse idriche), perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita, degradazione sociale, iniquità planetaria, ogm, per un dettato complessivo che soprattutto nella prima parte non ha proprio nulla di ciò che tradizionalmente si intende per religioso. L’enciclica è molto lunga, quasi 200 pagine per 246 paragrafi, e una sua analisi adeguata richiede tempo e riflessione. Da quanto emerge però a una prima veloce lettura credo che il concetto decisivo sia quello di “ecologia integrale”, espressione che ricorre otto volte nel documento e costituisce il titolo del quarto capitolo. Integrale significa in grado di abbracciare tutte le componenti della vita umana, la quale va riscattata dalla progressiva 54 sottomissione alla tecnologia che nel suo legame con la finanza «pretende di essere l’unica soluzione dei problemi», ma, scrive il papa, «di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri ». Un grande insegnamento al proposito è l’interconnessione di tutte le cose su cui il papa ritorna più volte (“tutto è intimamente relazionato”), al fine di comprendere, per fare solo un esempio, che il surriscaldamento del pianeta provoca la migrazione di animali e di vegetali e quindi l’impoverimento di determinati territori e di coloro che li abitano, i quali a loro volta si trovano costretti a emigrare. Così l’ecologia, da mera preoccupazione per l’ambiente naturale, mostra di essere al contempo cura dell’umanità nel segno ancora una volta dell’ecologia integrale. Rimangono però tre domande. 1) È sostenibile affermare che “la crescita demografica è veramente compatibile con uno sviluppo integrale e sociale”, come scrive il Papa citando un documento ecclesiastico precedente? Oggi siamo oltre 7 miliardi e già ora i nostri rifiuti sono superiori alle possibilità di smaltimento, senza contare che lo smaltimento diviene a sua volta causa di inquinamento. Che cosa avverrà quando nel 2050 la popolazione sarà di 9,6 miliardi? 2) Nel capitolo biblico-teologico il Papa scrive che “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura… non le ha più attribuito un carattere divino”. Non sarebbe opportuno chiedersi se questo processo di demitizzazione e desacralizzazione, è all’origine di quello sfruttamento progressivo del pianeta denunciato dal papa? 3) Stupisce l’assenza totale di ogni riferimento alle grandi religioni orientali (induismo, buddhismo, jainismo, taoismo, shintoismo) da sempre molto attente alla questione ecologica e alla spiritualità della natura, molto prima del risveglio al riguardo del cristianesimo. Francesco scrive più volte che “tutto nel mondo è intimamente connesso” e sicuramente sa che si tratta di un insegnamento originario della sapienza orientale, in particolare del buddhismo e del taoismo: perché non dirlo e richiamarli? Non sarebbe stato in linea con il desiderio di “unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”, come egli scrive? del 16/06/15, pag. 62 Startup A Milano si premiano i migliori progetti di giovani aziende al debutto. Nell’ambito di Edison Open 4Expo, sei mesi di eventi dedicati alla tutela dell’ambiente e all’innovazione Nuove idee per il futuro ANTONIO CIANCIULLO Una app per creare parcheggi senza asfaltare un metro quadrato. Piccole pale eoliche che catturano il vento di città. Un mini idroelettrico per produrre energia all’interno di un porto. Vestiti tessuti con polpa di arancio. Sono alcuni prodotti inventati dalle dieci startup entrate nella finale del premio Edison Pulse, promosso dalla società elettrica per rilanciare la creatività e presentati a Expo 2015 durante l’Innovation Week, settimana dedicata all’innovazione tecnologica. Una delle iniziative del progetto Edison Open 4Expo, che fino a ottobre si propone come laboratorio di discussione di idee e soluzioni pratiche per la tutela dell’ambiente. 55 Da oggi al 21 giugno si discute di geopolitica dell’energia e di cambiamento climatico, di mobilità sostenibile e di buone pratiche ambientali. Ma soprattutto si prova a intravedere un futuro possibile, quello creato da una forte spinta innovativa per offrire una maggiore qualità dei servizi con un minor impatto ambientale. Ci stanno provando i giovani che si sono rimboccati le mani e hanno messo a punto brevetti per rendere il Paese più competitivo (i due vincitori riceveranno 100mila euro).Come Adriana Santanocito, una designer che nel febbraio 2014 ha creato il progetto Orange Fiber per ricavare un tessuto dagli scarti di lavorazione degli agrumi. «In Italia le industrie che confezionano succhi di frutta producono ogni anno 700 mila tonnellate di rifiuti»,racconta.«Il pastazzo, come è chiamato il residuo della lavorazione, oggi è un problema perché le quantità in gioco sono importanti e lo smaltimento comporta costi non trascurabili. Ma può diventare una risorsa preziosa se viene trasformato in un tessuto morbido e versatile». Il ciclo di produzione per il momento è ancora un po’ laborioso. L’idea nasce nell’incubatore green di Rovereto, il Progetto Manifattura. La prima lavorazione (dal pastazzo alla cellulosa) avviene in Sicilia. La trasformazione in filato si fa in Spagna e da lì il semilavorato va a Como per la produzione di tre diverse tipologie di tessuti: l’expappa di arancio viene intrecciata con la seta per creare vestiti da sera e tailleur, cravatte e abiti estivi. Poi ci sono le proposte per migliorare la qualità della vita nelle città. Filippo Caciolli è l’ideatore di Parksharing, una app per semplificare il momento più critico dello spostamento urbano, quello in cui bisogna lasciare la macchina. «Noi mettiamo in rete il più grande parcheggio italiano, la somma di tutti i posti auto privati», spiega Caciolli. «Chi vuole può inserire sulla nostra mappa il parcheggio che lascia libero la mattina uscendo di casa per andare al lavoro. Precisando per quanto tempo e in che giorni è da considerare libero. Chi è interessato lo prenota e lo paga, a un prezzo che è circa un terzo di quello normale. È come se si liberassero migliaia di posti auto a costo ambientale zero». In Gran Bretagna un progetto del genere esiste: JustPark ha 250mila utenti e nei parcheggi possono essere sistemate gratuitamente colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici. Colonnine che, secondo un altro dei progetti finalisti, potrebbero essere ricaricate sfruttando il vento urbano. «Abbiamo creato Windcity per riutilizzare una risorsa finora sprecata:la brezza che penetra in città», dice Tommaso Morbiato, un ingegnere padovano. «Le pale eoliche tradizionali non sono in grado di lavorare con spinte così discontinue. Il nostro sistema invece può sfruttare i refoli naturali e quelli causati dagli spostamenti di camion e grandi veicoli. In questo modo il mini eolico si potrebbe diffondere come il fotovoltaico, sui tetti delle case e degli stabilimenti produttivi». Sempre sul filone energetico c’è il progetto Wawenergy che punta a utilizzare il moto ondoso all’interno dei porti. «Siamo nati da uno spinoff dell’università Mediterranea di Reggio Calabria», precisa Alessandra Romolo. «Il sistema funziona così: si utilizzano, modificandoli, i grandi parallelepipedi con cui vengono costruite le banchine dei porti. In pratica all’internodi questa struttura, che viene in parte affondata, deve restare una camera d’aria intrappolata tra l’acqua e il cemento: le oscillazioni delle onde la comprimono e questa energia viene trasferita a una turbina che produce elettricità». Un progetto considerato interessante dal presidente di Assoporti, Pasqualino Monti, che prevede la partenza del progetto pilota a Civitavecchia entro l’inizio del prossimo anno. Infine, sempre in ambito urbano,c’è Geteasybike, una app creata per il bike sharing e testata a Bari. Niente più rastrelliere in pochi punti: le due ruote possono essere lasciate ovunque in modo da creare una presenza diffusa dei mezzi condivisi, come è avvenuto per il car sharing che sta avendo un grande successo in molte città italiane. «Con questa app si può individuare e prenotare con facilità la bicicletta più vicina e il lucchetto viene sbloccato utilizzando il cellulare», afferma Rita Alessandra Aquilino, ingegnere 56 specializzata in mobilità. «Quando la si vuole lasciare si fa una foto del punto in cui è stata parcheggiata, la si invia e la bici, geolocalizzata, è di nuovo disponibile». 57 CULTURA E SPETTACOLO del 16/06/15, pag. 60 A ottocento anni dalla concessione dell’habeas corpus in Inghilterra ci si chiede se davvero la democrazia iniziò in quel momento Magna Charta Il primo diritto o l’ultimo dei privilegi? RAFFAELLA DE SANTIS Tra celebrazioni e discussioni, ieri si sono festeggiati gli ottocento anni della Magna Charta. Il documento che il re inglese Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai nobili, fu firmato a Runnymede, lungo il Tamigi, il 15 giugno del 1215. Era la prima volta che il sovrano limitava il proprio potere assoluto e per questo quell’atto viene considerato come il momento in cui nasce il costituzionalismo inglese. Il fatto che quel patto venga modificato molte volte nei tempi successivi non fa che attestare la sua importanza. Da qualche giorno la stampa anglosassone non parla d’altro. Sul Tamigi sono state organizzate parate e sono arrivate decine di telecamere a riprendere la regina Elisabetta e il premier David Cameron. La British Library ha inaugurato una grande esposizione, e perfino Google ieri celebrava sulla homepage l’evento con un doodle animato. Ma tra gli storici le opinioni divergono. Tutto ruota intorno a una domanda: la Magna Charta è davvero il documento fondativo delle nostre libertà democratiche e costituzionali? A tanti secoli di distanza la questione è aperta. Con quel documento il re assicurava ai baroni che non potevano essere catturati, torturati, sbattuti in prigione indiscriminatamente. In poche parole non potevano essere spossessati dei loro diritti, né violati nella loro integrità fisica. Stefano Rodotà che da anni si occupa dei diritti della persona spiega: «È chiaro che la Magna Charta non è una concessione di diritti a tutti i cittadini ma solo ad alcune categorie, come ecclesiastici e nobili. Ma ha una simbolicità innegabile, soprattutto per quanto riguarda l’articolo trentanove, in cui è introdotto l’Habeas corpus, a garanzia del corpo e dei diritti della persona ». Quell’articolo dice: «Non metteremo le mani su di te. Per questo fu uno strumento importante della limitazione del potere». Nel corso degli anni, la Magna Charta è chiamata in causa ogni volta che ci sono lotte per la libertà degli individui. C’è una Magna Charta dietro Oliver Cromwell, una che attraversa l’oceano e arriva ad animare la rivoluzione americana, una Magna Charta dietro le lotte per l’indipendenza di Gandhi e di quelle di Nelson Mandela. Claire Breary, a capo dei manoscritti medievali della British Library ha detto: «È diventata un simbolo di libertà e di diritti, è nota in tutto il mondo come il testo che difende da qualunque tirannia». Dunque, sebbene vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale, la Magna Charta Libertatum è stata interpretata come il documento che pone le basi per il riconoscimento universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. Non tutti però sono d’accordo. Tra gli studiosi c’è chi considera certi toni esageratamente celebrativi. «In realtà si tratta solo del risultato di una lotta interna alle élite per i loro privilegi », ha scritto sul New York Times Tom Ginsburg, professore di diritto internazionale a Chicago. E Carlo Galli, filosofo politico, chiarisce: «La Magna Charta non è altro che una delle tante forme di pattuizione che nel Medioevo intercorrono tra monarchi e nobili, i quali ottengono che il re non possa chiedere loro aiuti economici senza prima averli consultati. Tutte le altre valutazioni sono costruzioni ideologiche posteriori, narrazioni, invenzioni ideate nel XVI e XVII secolo e portate avanti nell’Ottocento. Dire che si fonda sui diritti umani uguali per tutti è come dire che Giulio Cesare andava in bicicletta. 58 Ma così l’Inghilterra ha costruito il suo mito politico». Quindi, non dobbiamo considerare la democrazia occidentale come figlia della Magna Charta? «La nostra democrazia si fonda sulla rivoluzione francese e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui il potere appartiene a tutto il popolo». In un articolo sul New Yorker , Jill Lepore, docente di storia ad Harvard, ha scrit- to che «l’importanza della Magna Charta è stata sopravvalutata e il suo significato distorto ». Per uno storico del diritto penale antico attento a questi temi come Adriano Prosperi è invece proprio da questo documento che prende vita il parlamentarismo, attraverso la nascita delle prime assemblee dei baroni ed è lì che si pone la «questione decisiva della protezione dei diritti della persona». Il problema è semmai un altro: il modo in cui noi occidentali siamo riusciti a dimenticare i sacri principi di quella Charta. Dice Prosperi: «In nome del terrorismo come nemico assoluto ha prevalso il principio dell’efficacia. Viviamo ormai in uno stato d’eccezione permanente che erode ogni diritto». Il tema è infinito e nell’era di Internet si complica. «Oggi avremo bisogno di proteggere il nostro corpo elettronico», dice Rodotà, che sta coordinando la commissione parlamentare per la “Dichiarazione dei diritti di Internet”. Il prossimo passaggio sarà la nascita dell’Habeas Data. del 16/06/15, pag. 11 Festival. Torna “Trame.5”, la mafia narrata attraverso i libri a Lamezia Terme, dal 17 al 21 giugno, è dedicata ai «giovani favolosi, quelli che lottano per riaffermare la libertà» Silvio Messinetti Napoli, 23 settembre 1985. A pochi metri da casa, il giornalista Giancarlo Siani viene freddato dalla camorra con 10 colpi di pistola alla testa. A trent’anni da quell’omicidio, è proprio dall’omaggio al giovane cronista de Il Mattino, ucciso per le sue inchieste sulla criminalità organizzata, che riparte Trame.5, il festival dei libri sulle mafie, l’unico in Italia e nel mondo (dal 17 al 21 giugno) che si svolge nel centro storico di Lamezia. Un’edizione, spiega il direttore artistico, Gaetano Savatteri, dedicata ai «giovani favolosi, quelle ragazze e quei ragazzi, che in tutta Italia lottano contro le mafie e per la libertà». Il festival è prodotto e organizzato dalla fondazione Trame, con la collaborazione dell’Associazione antiracket Lamezia. Trame.5 sarà una miscela di incontri, dibattiti, cinema, musica, teatro, letteratura, fotografia. Una non stop di cinque giorni d’impegno sociale per promuovere, attraverso la cultura, una forma di lotta alle mafie che passi attraverso la consapevolezza. «Il valore assoluto del festival è la scelta — spiega Savatteri -, di occupare una sedia in piazza e mettersi all’ascolto di un racconto, che è scrittura, documento, testimonianza diretta di un fenomeno sociale che è scritto al vocabolario sotto la voce: mafie». Autori, artisti, volontari, testimoni, persone, in una città ad alta densità ’ndranghetista che accoglie, ospita e sostiene da cinque anni un festival di cultura antimafia. Cinque giorni, sessanta eventi, più di cento volontari che come ogni anno giungeranno da tutta Italia (e a cui quest’anno si uniranno gli attivisti di Legambiente) sono i numeri dell’edizione 2015 (www.tramefestival.it). La giornata d’apertura sarà dedicata a Siani e un’installazione, curata dell’artista e docente di scenotecnica Renzo Bellanca, vedrà al centro della scena la Méhari del giornalista napoletano. 59 Molti i libri in programma dedicati alle vittime di mafia. A tal proposito Massimo Bray, presidente di Treccani, partner di Trame.5, ha annunciato che «il portale dell’Enciclopedia Treccani ospiterà anche le biografie di tutte le vittime della mafia: siamo convinti che i libri siano uno dei modi maggiori per combattere la criminalità organizzata». Ma la produzione letteraria in tema di mafia non può essere decontestualizzata. Ampio spazio, dunque, all’attualità politica con la presenza nella giornata inaugurale di Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, e un approfondimento su Mafia capitale, con Savatteri, Giancarlo De Cataldo e Michele Prestipino. Trame.5 prevede anche una incursione nel cinema e nel teatro: al debutto, Buttanissima Sicilia, spettacolo-evento di Pietrangelo Buttafuoco con la regia di Giuseppe Sottile. Inoltre, grazie alla collaborazione con il Courmayeur Noir Festival, sarà in cartellone una maratona di documentari storici sulle mafie, alcuni dei quali inediti, direttamente dagli archivi dell’Istituto Luce di Cinecittà. Tra le anteprime di quest’anno spiccano il reading di Luigi Lo Cascio sulle pagine di Pippo Fava, Impastato e Siani e quello di Maurizio De Giovanni che leggerà brani del suo prossimo romanzo: Anime di vetro. Falene per il commissario Ricciardi, edito da Einaudi, mentre Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente, presenterà i dati del Rapporto sulle Ecomafie, in diffusione pubblica da fine giugno. del 16/06/15, pag. 17 Il Belgio contro Facebook Bruxelles, il garante della privacy accusa: rastrellare informazioni tramite l’attività degli utenti è illegittimo di Lorenzo Vendemiale Un annuncio immobiliare nella tua città, il coupon di un centro estetico vicino casa, il volo low-cost proprio per la località dove stavi pensando di andare in vacanza. È capitato più o meno a tutti di pensare che le pubblicità su Facebook siano fatte e studiate apposta per noi. A volte persino troppo. Il sospetto è venuto anche al Garante della Privacy del Belgio, che ha deciso di portare in tribunale il colosso statunitense dei social network, per vederci chiaro sulle modalità con cui vengono raccolti i dati sensibili degli utenti. Sotto accusa sono finiti i metodi di rastrellamento delle informazioni sui siti esterni, attraverso l’utilizzo di strumenti come i “mi piace” o le “condivisioni”, particolarmente apprezzati ed utilizzati dagli utenti. Ma forse solo “specchietti per le allodole” per altri fini. L’ipotesi dell’autorità belga è che i dati vengano utilizzati per mettere appunto post promozionali con un profilo dettagliato sui consumatori. Anche perché secondo il Garante, Facebook spierebbe da troppo vicino non soltanto gli utenti iscritti, ma anche i non iscritti. Senza alcuna richiesta di consenso, dunque. O comunque senza un’adeguata spiegazione di come verranno utilizzati i dati raccolti. “Anche chi rifiuta esplicitamente di essere seguito, lo è”, afferma al Wall Street Journal il presidente della Commissione belga, Willem Debeuckelaere. “Facebook sa quali sono i siti frequentati dalle persone senza che queste siano state avvertite, ridicolizzando così le norme che proteggono il diritto alla riservatezza dei consumatori”. Il sistema di controllo della privacy del social network è già stato oggetto negli ultimi tempi di proteste da parte di diversi legislatori europei: Olanda, Francia, Italia, Spagna e Germania stanno indagando sulle polizze di Facebook (e anche di alcuni servizi collaterali, 60 come Whatsapp e Instagram, recentemente acquistati dal colosso fondato da Mark Zuckerberg). E proprio il Garante del Belgio lo scorso mese aveva pubblicato un duro rapporto nei confronti dell’azienda americana. Adesso ha deciso di passare dalle parole ai fatti, con una denuncia ufficiale. Per il momento Facebook ostenta sicurezza. Dagli Stati Uniti, i portavoce fanno sapere di considerare il caso “infondato”, anche perché già in passato hanno ribadito di ritenere di dover rispondere solo all’Irlanda, Paese dove l’azienda ha sede legale in Europa. “Comunque saremo felici di collaborare con le autorità per venire a capo delle loro preoccupazioni”, conclude il comunicato. Sul piano più tecnico, la risposta di Facebook era stata che tutti i siti web utilizzano cookies per controllare il comportamento degli utenti e personalizzare i post promozionali. E che i consumatori hanno la possibilità di disattivare il servizio se vogliono. Insomma, una parziale ammissione di colpe per discolparsi. Chissà come la penseranno i giudici, a cui adesso l’azienda dovrà ripetere le stesse cose. E dovrà farlo subito, visto che la prima udienza in aula è prevista già per giovedì 18 giugno, quando verrà organizzato l’iter del processo. Il giorno dopo, Facebook e il Garante avrebbero dovuto incontrarsi per discutere i termini della relazione dello scorso mese. Ma evidentemente l’Autorità belga ha voluto giocare d’anticipo, aprendo ufficialmente il contenzioso. E alimentando il tarlo nella testa del milardo e passa di utenti mondiali del social network: volenti o nolenti, su Facebook siamo tutti “spiati”. 61 ECONOMIA E LAVORO del 16/06/15, pag. 4 La controffensiva di Landini: Marchionne, Fim e Uilm ci ascoltino Metalmeccanici. Finora trionfo Fiom nelle elezioni Rls in Fca. E sul contratto nazionale propone «uno scambio» sul modello Lamborghini: aumento produttività ma meno ore e più lavoratori Massimo Franchi Sarà vero che si tratta di eleggere solo dei rappresentanti per la sicuezza (Rls). Sarà anche vero che finora hanno votato solo un terzo dei lavoratori. Che mancano gli stabilimenti più grossi (Pomigliano, Melfi, Cassino, Atessa). Un fatto però è incontestabile: nessuno avrebbe mai pensato che dopo 5 anni di apartheid nelle fabbriche di Marchionne la Fiom fosse il primo sindacato. I dati per ora sono impressionanti: su circa 20mila aventi diritto hanno votato in 14mila e la Fiom ha ottenuto il 34,6 per cento («nelle ultime elezioni per le Rsu avevamo il 31,6 per cento», sottolinea Michele De Palma). Al secondo posto c’è il Fismic di Di Maulo (quello che ha proposto il sindacato unico prima di Renzi) col 17,7 per cento; l’Associazione quadri al 16,3 per cento; Uilm al 15,1 per cento; Fim al 14,2 per cento; Ugl al 2 per cento. E ieri poi è arrivato il risultato della Cnhi di Pregnana milanese (dove si costruiscono i motori per veicoli industriali): dei 280 aventi diritto al voto hanno votato in 183. Di questi 108 hanno votato per la Fiom, con una percentuale che supera il 60 per cento. Ecco quindi che il sindacato «che quando fa sciopero a Pomigliano e a Melfi lo seguono in quattro», come sostenevano molti commentatori, può alzare la voce e far partire la sua controffensiva: «Se si applicasse l’Italicum anche in Fiat (Landini continua a chiamarla così, ndr) noi della Fiom saremmo il sindacato unico in molti stabilimenti e in pochi altri andremmo al ballottaggio con Fismic o Associazione quadri, non con Fim e Uilm, di cui abbiamo più voti rispetto alla loro somma». E ancora: «Queste votazioni dimostrano che se si dà la possibilità alle persone di votare senza ricatti si ha un risultato che nessuno si sarebbe aspettato». E chiedere a buon diritto a Marchionne «di smetterla di escluderci dalle trattative, come continua a fare sul rinnovo del contratto aziendale», spiega il segretario generale della Fiom, «perché vuol dire escludere la maggioranza dei lavoratori e il sindacato maggioritario in molti stabilimenti». La richiesta riguarda soprattutto «una discussione sulla fusione (voluta e promessa da Marchionne con Gm o Opel, ndr) perché molti gruppi si rifiutano e quindi serve una discussione alla luce del sole». In questa richiesta Landini non è solo. Nel week end scorso la riunione di Torino a cui hanno partecipato 70 sindacalisti da 10 paesi in cui Fca ha stabilimenti ha prodotto la stessa richiesta a Marchionne: «Un incontro urgente per discutere della volontà manifestata dal vertice aziendale di arrivare alla fusione con altre case automobilistiche». In più la denuncia «di violazione esplicita dei diritti sindacali emerso in particolare nelle realtà di Turchia, Messico e Brasile». Come dire: tutto il mondo è paese, per Marchionne, in fatto di libertà sindacali. Anche la valenza «politica» di questo voto viene sottolineata: «In qualsiasi paese del mondo il governo convocherebbe l’azienda per discutere del rischio dell’addio definitivo all’Italia e farebbe notizia il fatto che Fiat è uscita da Confindustria, paga i suoi lavoratori in 62 media 76 euro al mese in meno del contratto nazionale e li fa lavorare di più: altro che gli stipendi tedeschi promessi da Marchionne», ricorda Landini. Il discorso poi si allarga alla questione nuovo contratto nazionale. E anche qui il segretario della Fiom cerca di rilanciare. Dopo la quasi rottura con Fim e Uilm sulla piattaforma unitaria, sulla richiesta Fiom di «prevedere la certificazione della rappresentanza e il voto certificato della maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti» sul contratto (Fim e Uilm chiedevano di limitare agli Rsu, agli iscritti o alle fabbriche dove tutti sono presenti), Landini chiede di «proseguire il confronto» proponendo «di defiscalizzare gli aumenti contrattuali nazionali, visto che gli accordi aziendali dal 1993 a oggi sono calati dal 35 al 20 per cento del totale, e di fissare un salario minimo orario che valga per tutti i lavoratori (erga omnes) e ore di formazione per tutti i lavoratori». Arriva poi una quasi-svolta utilizzando il modello Lamborghini: «Siamo disponibili ad maggior utilizzo degli impianti lavorando le notti e i festivi per aumentare la produttività ma in cambio vogliamo una riduzione di orario e un aumento dell’occupazione». Al «No» scontato di Fim e Uilm, Landini contrappone la convocazione di un Assemblea nazionale dei delegati Fiom per il 10 e 11 luglio. Il comitato centrale di ieri ha approvato le proposte con 103 voti favorevoli (anche i camussiani) e 11 voti contrari (ex Rete 28 aprile). Del 16/06/2015, pag. 19 Partecipazioni e titoli di Stato, i conti (più fragili) della Cdp Chiunque vinca, un risultato è già certo: niente tornerà come prima. Sembra questione di ore, o al massimo giorni, prima che la Cassa depositi e prestiti sappia se verrà guidata fino all’anno prossimo dall’amministratore delegato e dal presidente di oggi. Ma che Giovanni Gorno Tempini e Franco Bassanini resistano fino a fine mandato, o invece siano costretti a lasciare, neanche loro dovrebbero avere dubbi almeno su un punto: Cdp non sarà più uguale a se stessa. A questo punto della crisi dell’euro e del lavoro di contenimento della spesa pubblica in Italia, il modello sul quale la Cassa si è basata fino a ieri non c’è più. Soprattutto, non rende più abbastanza per essere sostenibile. A prima vista non dovrebbe essere così, a giudicare dai conti che restano in attivo. L’anno scorso la Cassa depositi ha guadagnato 1,1 miliardi di euro: un saldo in calo dai due miliardi e mezzo del 2013, ma sempre notevole. Una seconda occhiata rivela però l’erosione dei numeri. È un logoramento di alcune fonti di ricavo tradizionali di quella che, nella diplomazia finanziaria internazionale, viene definita la «banca di sviluppo» dell’Italia. Ma è anche il tramonto di un equilibrio durato molti anni fra risparmio degli italiani (specie quelli meno ricchi), il finanziamento del debito pubblico e la remunerazione della stessa Cdp da parte dello Stato per la sua attività. Poco importa se effettivamente utile, oppure pletorica. Basta fare il confronto tra il bilancio del 2013 e quello del 2014, per accorgersi che qualcosa sta cambiando in profondità. Com’è noto circa tre quarti del finanziamento di cui gode la Cassa depositi proviene dalla raccolta di risparmio degli sportelli di Poste italiane, sotto forma di buoni fruttiferi e libretti. Nel 2013 quella massa di risparmio delle famiglie valeva 242 miliardi in tutto, mentre l’anno scorso la raccolta postale è addirittura salita di circa altri 10 miliardi. Si tratta di conti per lo più di piccola dimensione, spesso accumulati da pensionati o da migranti stranieri. 63 Questi risparmi sono e restano assolutamente sicuri e continueranno a produrre un rendimento piccolo, però garantito. È piuttosto il ruolo di Cassa su di essi che sta entrando in crisi, e non è affatto detto che sia una cattiva notizia per i contribuenti o per i risparmiatori stessi. Le differenze fra gli ultimi due anni raccontano del resto questa storia in modo evidente. Nel 2013, Cassa aveva collocato 173 miliardi di euro provenienti dal risparmio postale nel suo conto corrente presso la Tesoreria dello Stato. Si è trattato di un vero e proprio prestito a finanziamento del debito pubblico, per il quale il Tesoro ha versato a Cdp un interesse più alto di quello che si solito riceve chi compra un’obbligazione pubblica. Il rendimento riconosciuto a Cdp nel 2013 è stato pari a «rendistato» (il rendimento medio di un paniere di titoli pubblici), più un gradino al rialzo che ha portato il rendimento medio al 3,4%. I clienti di Banco Posta hanno dunque ricevuto un reddito da capitale che ha difeso e accresciuto un po’ il valore del loro patrimonio. Ma grazie alla differenza che ha trattenuto per sé, Cdp ha potuto realizzare un «margine d’interesse» (la differenza fra i tassi sul denaro che prende in prestito e quello che presta essa stessa) davvero notevole: 2,4 miliardi di euro. Quasi tutto l’utile netto di Cdp nel 2013 si spiega così. Avanti veloce al 2014 e il terreno inizia a spostarsi sotto i piedi della «banca di sviluppo». Per effetto del rischio di deflazione e dell’azione stabilizzante delle banche centrali, i tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani calano in fretta. Nel frattempo il governo cerca di accelerare sulla «spending review» e si impegna a tagliare le spese. Con un decreto ministeriale del 24 maggio 2014, l’esecutivo rivede le modalità di remunerazione delle giacenze e in particolare del conto di Cdp presso la Tesoreria. I rendimenti non sono più fissati in base ai tassi del passato più o meno recente ma in linea con quelli presenti, più bassi. Di fatto è una riduzione del rendimento supplementare che spetta a Cassa per il suo deposito di fondi dei clienti di Poste presso la Tesoreria. E in fondo sembra logico: pensionati, lavoratori stranieri e altri piccoli risparmiatori potrebbero comprare direttamente Buoni ordinari o poliennali del Tesoro o altri titoli pubblici, anziché farlo attraverso Cdp permettendo a quest’ultima di trattenere per sé un interesse in più. Chiunque abbia ragione, il panorama per la banca di sviluppo guidata da Bassanini e Gorno Tempini risulta trasformato. Il margine di interesse nel 2014 crolla del 61,8%. Il margine di intermediazione, che per una banca equivale al totale dei ricavi finanziari, a ben vedere va in rosso di 114 milioni: lo trascina verso il basso il saldo negativo per le commissioni versate dalla Cassa alle Poste in cambio del collocamento di libretti e buoni fruttiferi. Poste è il venditore dei prodotti di risparmio, Cdp ne è il gestore in quanto banca. E certo per una banca avere un margine d’intermediazione negativo è un fatto raro e niente affatto lusinghiero. Poco importa che questo istituto sia proprietà del Tesoro stesso all’80,1% e delle fondazioni di origine bancaria al 18,4%. Qui bisogna fermarsi un attimo, perché Cassa depositi e prestiti (legittimamente) non è d’accordo. Nel riassunto sugli indicatori della propria performance a pagina 21 del fascicolo di bilancio, Cdp indica un margine di intermediazione positivo per 481 milioni (benché in netto calo sui 1.159 milioni dell’anno prima). Ma il modo in cui si compone quel dato, benché non irregolare, suscita perplessità sulla sua tenuta: lì dentro è compreso anche un effetto positivo per quasi 600 milioni dalle rivalutazioni sulle «partecipazioni a controllo congiunto e influenza notevole». Si tratta di quote in società come Eni o Trans Austria Gas, che sono cresciute in valore nel 2014 soprattutto per l’andamento dei mercati e dunque hanno un impatto positivo sui conti dell’azionista Cdp. Ma non solo si tratta di effetti «una tantum», difficili da replicare nei prossimi anni. Soprattutto, Cdp include queste partecipazioni ma esclude invece svalutazioni su crediti e attivi finanziari per 166 milioni solo nel 2014. C’è poi un secondo interrogativo, che riguarda il rapporto della Cassa con Poste italiane. Per il collocamento di strumenti di risparmio, come si è visto, Cdp ha riconosciuto a Poste stesse circa 1,7 miliardi in commissioni. Magari non è una somma 64 esagerata, perché si tratta pur sempre di appena lo 0,7% dell’intera raccolta di risparmio tramite questo canale. Ma Poste italiane si prepara ad essere privatizzata con un collocamento in Borsa ed è affamata di ricavi, mentre Cdp è controllata dallo stesso Tesoro che legittimamente cercherà di vendere le azioni di Poste al prezzo più alto possibile: il massimo di trasparenza per evitare conflitti d’interessi sarà più che necessario. In definitiva, l’erosione dei conti della Cassa a causa del calo dei margini sulla gestione di risparmio rimanda all’interrogativo di fondo: che cos’è oggi questo istituto? Come fornitore di servizi allo Stato, la sua redditività è limitata. Come assicuratore, l’anno scorso ha guadagnato quasi mezzo miliardo senza che questa missione appaia fra quelle fondanti per Cdp. E come banca, non ha quasi più margine per incrementare le proprie partecipazioni azionarie oltre il valore di un patrimonio netto di 21 miliardi. A meno che in futuro non cambi lo statuto. Ma questa è davvero un’altra storia, di cui (per ora) non si vedono le avvisaglie. 65