123 - Relazione Don Masina - dimensione
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123 - Relazione Don Masina - dimensione
DECENNALE La dimensione missionaria nella pastorale della nostra diocesi Mons. Mario Masina (Vic. della Pastorale) Buongiorno. Sono contento di essere qui con voi. Vi ringrazio di questo invito. So che oggi viene anche il Vescovo personalmente a concludere con la celebrazione della Messa. Io provo a dire qualcosa. La mia non è una relazione, è una chiacchierata. Anche perché di scritto non ho niente. Questo è un vantaggio ma è anche un pericolo. Mi hanno dato un titolo: LA PASTORALE MISSIONARIA. Bisognerebbe discutere il titolo. La diocesi sappiamo cos’è, la dimensione missionaria più o meno. Anche se poi, nella vita di tutti i giorni, ci sono tanti gruppi che si chiamano missionari ma vivono in maniera diversa quel sostantivo missionario. E la pastorale, cos’è. Io non spiego il titolo. Comincio a dire qualcosina. Se dovessi, così a pelle, dire che cosa è rimasto della dimensione missionaria nella pastorale direi che sono rimasti i documenti: “Redemptoris Missio” oppure “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. E’ rimasta la presenza di molti e vivaci gruppi missionari. Qualche volta, nella pastorale, sono rimaste le missioni al popolo o, meglio ancora, popolo in missione. Sono rimasti i nostri missionari: religiosi, laici, preti fidei donum ma la pastorale, in quanto tale, non è diventata missionaria, se a questo aggettivo diamo una tonalità pregnante. Perché non è diventata missionaria? Perché in realtà ancora oggi, in molte situazioni, noi ci limitiamo a conservare l’esistente. Proprio perché godiamo di una tradizione che ci ha permesso di non diventare come l’Olanda o la Danimarca, in molte delle nostre situazioni, in giro per la diocesi, ci limitiamo a conservare l’esistente. Un po’ perché sta subentrando anche un senso di stanchezza. Probabilmente sono stati fatti alcuni tentativi. Alcune cose hanno funzionato, altre non hanno funzionato, e sembra essere subentrato, in questi ultimi tempi, quasi un senso di stanchezza, come a dire: “Le abbiamo provate tutte ma non si riesce a cambiare la situazione.” Un prete una volta mi disse: ”Cerchiamo di gestire onorevolmente il nostro declino”. Come prospettiva è incoraggiante vero? Forse è subentrato, anche, un senso di impotenza di fronte ad una cultura come quella che stiamo vivendo. Sembra quasi che la nostra Chiesa non abbia i mezzi e gli strumenti per poter reagire positivamente e si lasci, quasi, assorbire da questa cultura. E’ quasi macinata dentro gli ingranaggi di questa cultura; assuefatta, omologata essa stessa dentro questa cultura. Tutti, preti e laici, tutti senza eccezione. E qui sembra che la situazione sia un po’ bloccata. Ecco allora che in questa situazione, subentrano alcune tentazioni. La prima tentazione che mi sembra di vedere è questa: pochi ma buoni. Come a dire: “Stringiamo un attimo le fila, rinunciamo a questa dimensione missionaria, al tentativo di andare al di là. Accontentiamoci di quelli che vengono; pochi ma buoni. Li aspettiamo qui, quelli che decidono di venire, però chiediamo questo, questo e questo. Chi non accetta vada da un’altra parte”. E allora c’è quasi la tentazione di una certa rigidità di ritorno, di una certa intransigenza su alcune cose. Questo voler, proprio per la necessità di qualificare una presenza, stringere le fila quasi a diventare una falange organizzata e compatta, vittima di una sindrome da stato d’assedio di fronte ad una cultura o ad un’indifferenza generale. Ecco che subentra, nella pastorale ordinaria, questa tentazione di nuove rigidità. Oppure, viceversa, la tentazione di una certa autoreferenzialità. Accontentiamoci di gestire le 1 devozioni che la Chiesa o meglio la gente ci chiede. Le devozioni popolari hanno ancora un discreto successo. Sembra che ci sia un ritorno di un bisogno del sacro, una ricerca di queste esperienze. Limitiamoci, forse dice qualcun altro, a gestire i servizi religiosi che ancora ci vengono chiesti, e questa è molto diverso dalla prima tentazione. I primi dicono no. Dobbiamo dire assolutamente dei no che fanno crescere mentre gli altri dicono: “Beh, ma finché vengono a chiederci i sacramenti accettiamoli perché diamo quello che la gente chiede, che la gente domanda”. Evidentemente, sia nell’uno che nell’altro caso, mi pare che questa apertura a tutti, questa voglia di portare il Vangelo a tutti, che il Vangelo possa diventare una cosa bella per tutti, comincia un attimo a perdersi per strada. Ecco allora che un’altra tentazione della pastorale, più che lo slancio missionario, è quella della trasformazione delle strutture. Andando di qua e di là per la diocesi, mi pare che (e questa è una certa asimmetria che io trovo) mentre alcuni, i più sensibili, sono un po’ stimolati dal dire: “Beh, insomma, riflettiamo su queste nuove situazioni, sulla situazione delle famiglie, sulle nuove situazioni che ci interpellano anche qua in Italia, nel mondo, facciamo un’opera di discernimento”, altri, anche tra quelli più vicini, dei consigli pastorali, di che cosa sono preoccupati? Sono preoccupati perché mancano i preti per cui la Messa delle 9,30 non si può più dire, per cui nella nostra parrocchia non c’è più il sacerdote… Cioè sembra che la preoccupazione sia (più che la preoccupazione, anche l’ansia) sia quella di dire: “Qui non ci mandano più il prete”. Altro che dimensione missionaria. La preoccupazione è: “Cosa facciamo se non c’è più il prete?” Allora alcuni vivono proprio questo senso di dire: ”Leggiamo le situazioni del mondo, la crisi delle famiglie, la necessità di rilanciare questa dimensione missionaria,” e altri dicono: “Riorganizziamo e basta la presenza del clero. Dobbiamo spartire questo prete con l’altra parrocchia, ma non si può più fare questo, non si può più fare quell’altro”. I più illuminati capiscono che il problema oggi non è tanto la carenza dei preti ma forse è la carenza dei laici e non solo perché con i nuovi ritmi di lavoro, i ritmi professionali, il tempo dato ai trasporti e ai trasferimenti, la gente è sempre più fuori casa, torna sempre più tardi per cui veramente fa fatica a trovare forze e risorse che tengano in piedi un po’ la vita della comunità cristiana. Allora qualcuno dice che più che per la carenza di preti dobbiamo essere preoccupati della carenza dei laici e non solo dei laici che danno una mano ma forse proprio dei laici che sono nel mondo. E allora dobbiamo preoccuparci più di formare laici per il mondo che non laici per tenere in piedi le nostre strutture che debbono funzionare dentro le parrocchie. Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana, non basta più. I documenti ce l’hanno detto di dritto e di rovescio, l’hanno scritto in tutte le salse possibili, ma restano ancora solo cose scritte nei documenti. Vi leggo questa affermazione del “Volto missionario delle Parrocchie” : Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana, non basta più. “È necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, (altro che la conservazione dell’esistente) ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società. (Volto Missionario delle Parrocchie = VMP) E’ necessaria una pastorale missionaria. I documenti, vi dicevo, ce l’hanno detto e ridetto, ma la nostra pastorale fa fatica ad interiorizzarlo. Fa fatica per i mille motivi di cui vi parlavo prima. Un po’ perché domanda a tutti, preti, laici e consacrati, come vedremo adesso, un cambiamento radicale di mentalità. 2 Fino ad ora, le nostre comunità, la nostra Chiesa, si era organizzata bene nel coltivare la fede, dando per scontato che la fede ci fosse, perché la fede veniva assicurata e trasmessa dalle grandi agenzie, cioè prima di tutto la famiglia, poi la scuola in cui tutti si condivideva più o meno la stessa fede e la società stessa. Il compito della chiesa, quindi, era quello di coltivare una fede che già era presente. Ma oggi non può essere più così. C’è un cambiamento radicale. La vera sfida oggi non è quella di limitarci a coltivare la fede ma è quella di rigenerare la fede. Far ripartire i processi di fede. Dunque questo domanda un cambiamento profondo di mentalità in tutti perché, come scrivono sempre i nostri Vescovi, non si può più dare per scontata una fede che non c’è. Leggevo qualche giorno fa su un giornale il profilo della donna media italiana e diceva che l’87% delle donne italiane si dicono cattoliche. Cosa dice questo dato? Non dice niente in sostanza. Si riconoscono forse in alcuni riferimenti vaghi. Certo c’è una percentuale notevole che vive un’appartenenza, un’adesione forte, convinta, ma non possiamo più dare per scontato e non possiamo più, come Chiesa, limitarci a coltivare una fede che spesso non c’è o è rimasta in fase molto germinale. Si tratta di trovare il modo per far ripartire questi processi di fede, cioè rigenerare una fede. E questo è più difficile, da un certo punto di vista, perché le persone presumono di avere già una fede perché magari sono andati 8, 10, 15 anni al catechismo. Hanno fatto ore su ore di religione a scuola. Se uno fa la scuola dell’infanzia, la scuola primaria, la secondaria e finisce a 19 anni, quante ore di insegnamento di religione cattolica ha fatto a scuola? Una montagna! Per cui è convinto di essere cattolico credente e far ripartire dentro di lui un’adesione di fede, far ripartire questi processi di fede diventa complicato. Ecco perché c’è bisogno di una vera e propria conversione che riguarda l’insieme della pastorale. Questa è un’affermazione che troviamo in quel bel documento “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. C’è bisogno di una vera e propria conversione della pastorale. Si fa presto a dirlo ma farlo non è così facile. Ci sono degli interessanti tentativi in giro. Un po’ qua, un po’ là si vedono anche delle cose un po’ originali, qualche volta strampalate. Però, insomma, qualcuno sta prendendo sul serio questo aspetto. Qualcuno si sta anche bruciando le mani, le dita, nel tentativo di sperimentare queste vie nuove di una conversione della pastorale in senso più missionario. Questa conversione domanda, anzitutto, dal guardarci dentro al guardare fuori. Cioè di lasciare un po’ in disparte queste preoccupazioni come la mancanza del sacerdote, se abita qui o abita nella parrocchia vicina; quasi a dire siamo in pochi, non ci sono forze, non ci sono energie. Ma cominciare a guardare la nostra realtà in un senso più ampio, cioè non considerando solo la nostra situazione ma guardando anche un po’ le situazioni e le necessità che ci sono nel mondo intero come la necessità di evangelizzazione e di presenza ecclesiale. Cominciare a de-localizzarci dai nostri problemi a quelli del mondo e cominciare a fare assumere alle nostre comunità anche una coscienza critica e profetica un po’ più puntuale. Proprio per non rischiare quell’omologazione, quel risucchiamento nei meccanismi sgretolanti di una cultura che mortifica un po’ anche questa vocazione di ogni comunità cristiana ad essere, lì nel territorio, una coscienza rispettosa di tutte le presenze ma anche francamente critica e profetica. C’è questa bella frase sempre del documento “ Il volto missionario delle Parrocchie”: “La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. Nella vita delle nostre comunità deve esserci un solo desiderio: che tutti conoscano Cristo, che lo scoprano per la prima volta o lo riscoprano se ne hanno perduto memoria. (VMP 1). Come fare perché la missione ad gentes non diventi solo il punto conclusivo? Quando si dice: “Nella nostra parrocchia c’è una sensibilità missionaria perché c’è una coppia di laici che va due anni in missione, uno dei nostri preti è andato missionario, una delle nostre religiose è andata missionaria, il nostro gruppo missionario tiene viva…” questo è un punto conclusivo. Come fare in modo, allora, che non diventi solo questo punto conclusivo ma la missione ad 3 gentes diventi l’orizzonte costante e il paradigma della pastorale ordinaria? Proviamo a vedere. Provo se ci riesco. Ricominciamo, per esempio, a parlare di primo annuncio. Si ricomincia nelle nostre parrocchie a utilizzare questo termine: PRIMO ANNUNCIO. In che maniera proviamo a declinarlo? Ecco qui una frase che ne ribadisce l’importanza: “Non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa. Vale per fanciulli, ragazzi, giovani e adulti; vale per la nostra gente e, ovviamente, per tanti immigrati, provenienti da altre culture e religioni. C’è bisogno di un rinnovato primo annuncio della fede. È compito della Chiesa in quanto tale, e ricade su ogni cristiano, discepolo e quindi testimone di Cristo; tocca in modo particolare le parrocchie. Di primo annuncio vanno innervate tutte le azioni pastorali”. (VMP 6) Quando si parte per una missio ad gentes e si viene inviati in un posto, io penso che lì si intuisca che c’è bisogno. Si trova una comunità che ci accoglie, una comunità che ci fa spazio, un piccolo gruppo, che non devono essere un recinto chiuso ma diventare il campo base per partire verso questo rinnovato primo annuncio. Nella nostra pastorale, mi pare, stiamo cercando di declinare in due maniere questo primo annuncio. Prima maniera: stiamo cercando di trasformare le attività cosiddette ordinarie dando loro questo taglio di primo annuncio (proprio questa dimensione missionaria che è non più dare per scontato). Allora come facciamo? Abbiamo cominciato a capire, per esempio, che quando la gente viene a chiedere i sacramenti, il Battesimo e il Matrimonio non possiamo limitarci nel caso del Battesimo, a spiegare il significato della candela accese e della veste bianca. Oppure possiamo anche partire da lì ma dobbiamo arrivare a riproporre l’adesione a Gesù Cristo come la possibilità di una vita bella, buona. E allora non solo i preti ma anche i laici che cominciano ad andare per le case a preparare al battesimo non preparano solo al Battesimo ma devono interiorizzare questa dimensione. E’ necessario che, dentro questa richiesta, ci possa essere la possibilità di una proposta, di un annuncio. Oppure abbiamo cominciato a capire che anche quando due ragazzi vengono a chiedere il matrimonio non possiamo limitarci a spiegare il rito del matrimonio, bisogna ripartire da Gesù Cristo, da una adesione a Gesù Cristo, al suo Vangelo, alla sua parola. E questo è un giro molto più lungo sapete. E’ un giro molto più lungo che domanda di attivare alcune attenzioni di relazione, di comunicazione che sono molto diverse. E’ vero che i genitori vengono ancora a chiedere che i bambini facciano la prima Comunione, la Cresima però abbiamo cominciato a capire che con i genitori è inutile che facciamo una riunione in cui ci mettiamo d’accordo se il fotografo deve essere quello di via Mazzini o quello di via Roma. Con i genitori dobbiamo mettere in piedi almeno un itinerario che faccia riscoprire la bellezza dell’essere cristiani, il gusto di ascoltare la parola di Dio. Che si ritorni un po’ alla fonte. Anzi cominciamo un po’ a capire che forse se fino adesso abbiamo investito il 90% delle energie per educare i bambini e il 10% lo stiamo investendo per gli adulti sarebbe anche ora, non dico di rovesciare le proporzioni, ma, per lo meno, di riaggiustarle. Qualcuno prova anche questo tipo di primo annuncio in maniera, vi dicevo prima, un po’ straordinaria e cominciano a nascere cose un po’ particolari che, alcune volte, vengono guardate anche un po’ con sospetto, perché le cose un po’ nuove lasciano disorientati. Nascono tutte queste modalità che vengono anche importate dall’estero. Qualche giorno fa sull’Arena abbiamo visto come si può annunciare il Vangelo con le cene, metodo alfa che viene dall’Inghilterra, oppure i seminari di vita nuova che vengono più da un ambiente latino-americano. Stanno arrivando in Italia le cellule di evangelizzazione, le comunità familiari di evangelizzazione, l’evangelizzazione di strada. Ci sono,dunque, un po’ tutte queste esperienze di primo annuncio straordinario che vanno bene a chi vanno bene. Come sempre le cose nuove hanno bisogno di essere un attimino tarate, però c’è un certo fermento anche dentro questa ricerca di modalità nuove di un primo annuncio. Sia nell’ordinario della vita 4 parrocchiale sia in alcune occasioni straordinarie. Modalità un po’, lasciatemi passare il termine, eccentriche. Quali sono, però, le vie da percorrere perché questa missio ad gentes possa diventare il paradigma della pastorale della nostra diocesi? Mi pare che le vie siano queste (e non dico niente di nuovo). La prima è la testimonianza, la seconda l’accoglienza, la terza l’accompagnamento, la quarta la corresponsabilità e la quinta un intervento più culturale. Adesso passo ad analizzare uno per uno questi aspetti. Partiamo dal primo: la testimonianza. Credo che il primo passo sia esattamente questo: se vogliamo fare assumere alle nostre comunità una dimensione missionaria bisogna che ripartiamo da una testimonianza personale e comunitaria. Questo credo sia il primo passo da fare. Ci viene anche indicato. Leggiamo: “La via della missione ecclesiale più adatta al tempo presente e più comprensibile per i nostri contemporanei prende la forma della testimonianza, personale e comunitaria: una testimonianza umile e appassionata, radicata in una spiritualità profonda e culturalmente attrezzata, specchio dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore che si fa servizio generoso e gratuito. Il testimone comunica con le scelte della vita, mostrando così che essere discepolo di Cristo non solo è possibile per l’uomo, ma arricchisce la sua umanità. Egli quando parla, non lo fa per un dovere imposto dall’esterno, ma per un’intima esigenza, alimentata nel continuo dialogo con il Signore ed espressa con un linguaggio comprensibile a tutti.” (Dopo Verona 11) Prendiamo il primo annuncio ordinario. Se una coppia di laici va in casa di due ragazzi che hanno avuto un figlio, il primo annuncio non sarà arrivare in casa e dire loro: “Lo sapete che il Signore è risorto? Convertitevi!” Non è questo il senso. E’, chiacchierando, lasciar trasparire, dalla propria umanità, dalla relazione, che l’essere cristiani è bello e che rende bella la vita. E’ una testimonianza che coinvolge. Dunque non parli come un libro stampato, non spieghi soltanto qualcosa ma sei coinvolto tu come persona. Cominci a dare un primo annuncio che prima di coinvolgere gli altri ha coinvolto te. Poiché hai scoperto una cosa bella cerchi di comunicarla, come quando si comunica qualcosa tra amici. E’ una testimonianza personale ma diventa anche una testimonianza comunitaria. Che immagine danno le nostre comunità, le nostre parrocchie a quelli che sono lì li, un po’dubbiosi? Che magari dicono, quando ci sono le indagini, che sono cattolici. Che immagine diamo a ragazzi che hanno bussato per l’ultima volta alla porta delle nostre parrocchie nel giorno della cresima, che non sono neanche sposati, che magari sono conviventi, che hanno avuto il primo figlio e dopo 10, 15 forse anche 20 anni, si riavvicinano alla comunità cristiana? Che immagine diamo? Questo è importate perché ci sono delle cose che si annunciano a pelle, che non serve dire perché la gente le capisce, le annusa. E questa immagine che diamo nelle nostre parrocchie riguarda tutti, preti e laici. Credo che questo diventi una forma di annuncio, di evangelizzazione. C’è un altro bel documento dei Vescovi dove qualche tempo fa, in occasione dei 40 anni del documento base, dice: “ Le nostre comunità devono diventare una comunità attraente, accogliente ed educante”. Una comunità attraente. Ma la nostra è una comunità attraente o quando uno vi mette piede non vede l’ora di dire: “Datemi quello che cerco e me ne vado perché qui si respira un’aria di chiuso, un’aria opprimente”? Oppure diamo un’immagine delle nostre comunità dove un po’ si respiri all’aria aperta e si dica: “Mah che bella che è questa comunità!” Secondo me questa è una carta. Dunque c’è una testimonianza personale ma c’è anche una testimonianza comunitaria. Dice questo testo, che è il documento dopo il convegno di Verona del 2006: “ Una testimonianza dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore a servizio.” Sono due ingredienti, secondo me, da soppesare bene. Noi diamo un’immagine di una fede amica dell’intelligenza o diamo l’immagine di una fede che deve lasciare da parte l’intelligenza? Il nostro Papa ci sta dicendo che fides et ratio sono le due ali dello spirito 5 umano. Non si vola con una sola. Ecco invece c’è, a volte, il ritorno di un certo fideismo, tra virgolette, alcune volte anche un po’ accecato. La fede è certamente la visione delle cose che non si possono vedere ma è anche amica dell’intelligenza e anche di un amore che si fa servizio gratuito, generoso. 1. TESTIMONIANZA «La prima via della evangelizzazione è il contatto personale: una via povera, che non abbisogna di troppi strumenti, e tuttavia efficacissima. Una via povera, ma non facile, perché esige di ritrovare la gioia di sentirsi chiamati a rendere conto della speranza che è in noi in una quotidiana e capillare testimonianza, attraverso relazioni fedeli al Vangelo, significative a livello personale, familiare e comunitario» (L’amore di Cristo ci sospinge, 6) Per cui il primo investimento è quello di sostenere questa testimonianza personale e comunitaria nella nostra Chiesa. Attraverso quali modalità? Se vogliamo essere testimoni, prima di evangelizzare gli altri dobbiamo lasciarci evangelizzare dal Vangelo che vogliamo portare. Lasciarci evangelizzare dall’evangelizzazione che vogliamo fare. Ecco perché il nostro sinodo ci ricordava che dobbiamo ridiventare una Chiesa discepola, legata all’ascolto della Parola di Dio. Sempre ci ricordava il nostro sinodo che per fare questo, per essere una comunità che testimonia, dobbiamo convertirci all’essenziale. E una delle sfide oggi è riuscire a capire che cosa siamo chiamati a lasciare un po’ da parte perché non si può tenere su tutto. Non si può continuare a tenere su tutto. Cosa è giusto portare avanti perché è Tradizione con la T maiuscola. Cosa è giusto lasciar cadere perché non corrisponde più alle situazioni che viviamo e che cosa è doveroso inventare invece di nuovo. Ma per fare questo dobbiamo convertirci all’essenziale, cioè trovare un punto in cui investire le risorse, le energie, il tempo. Altrimenti ci esauriamo in quarantamila cose da tener su che lasciano poi il tempo che trovano. E’ vero che, nelle nostre comunità, cominciano a bussare persone che vengono chiamate ricomincianti, ma la convinzione di fondo è che siamo tutti ricomincianti e che la premessa di fondo è rievangelizzare noi stessi, rimettere noi stessi in stato di rievangelizzazione. E sempre il nostro sinodo, per riassumere questa testimonianza personale e comunitaria, dice che è il primo passo di questa missione è l’assunzione di nuovi stili di vita personali e anche comunitari. Facciamo, credo, fatica un po’ in tutti e due. Sia nell’assunzione di questi nuovi stili di vita personali (anche se ci sono interessanti esperimenti o suggestioni in giro) ma soprattutto nell’assunzione di nuovi stili di vita comunitari. 2. ACCOGLIENZA L’accoglienza è il secondo passo. Credo che sia fondamentale che le nostre comunità riscoprano (altro che pochi ma buoni) questa dimensione dell’accoglienza perché ancora oggi molta gente bussa alle porte delle nostre comunità. “Occorre incrementare la dimensione dell’accoglienza, caratteristica di sempre delle nostre parrocchie: tutti devono trovare nella parrocchia una porta aperta nei momenti difficili o gioiosi della vita. L’accoglienza, cordiale e gratuita, è la condizione prima di ogni evangelizzazione.” (VMP 6) A me piace questa bella metafora della comunità cristiana: la porta aperta. Le nostre Chiese hanno una porta aperta. Pensate al paradosso: offriamo quello che per noi è più sacro e più santo, cioè l’Eucarestia, anche a chiunque vuol venir dentro, anche se non è cattolico praticante. Perché la porta è aperta, non c’è nessun buttafuori che dice: “Ma tu chi sei, guarda che questo è un club privato”. No, quella porta è aperta e offriamo la cosa più santa che abbiamo. Io credo che quella sia una bella metafora della nostra comunità cristiana se vuol riprendere questa voglia di essere missionaria. Perché questa è la condizione prima di ogni evangelizzazione. Quando si va nelle missioni, si intuisce subito che la missione vive l’accoglienza, cordiale e gratuita che è la condizione prima. “Un’accoglienza che si fa ospitalità. Essa va oltre l’accoglienza offerta a chi si rivolge alla 6 parrocchia per chiedere qualche servizio. Consiste nel saper fare spazio a chi è, o si sente, in qualche modo estraneo, o addirittura straniero, rispetto alla comunità parrocchiale e quindi alla Chiesa stessa, eppure non rinuncia a sostare nelle sue vicinanze, nella speranza di trovare un luogo, non troppo interno ma neppure insignificante, in cui realizzare un contatto; uno spazio aperto ma discreto in cui, nel dialogo, poter esprimere il disagio e la fatica della propria ricerca, in rapporto alle attese nutrite nei confronti di Dio, della Chiesa, della religione. (C’è questa possibilità che uno si affacci e trovi laici consacrati e preti capaci di questo dialogo che accoglie anche le attese nutrite nei confronti di Dio, della Chiesa, della religione.) Un tale spazio non si riduce a incontri e conversazioni. Va articolato e programmato nella forma di una rete di relazioni, attivate da persone dedicate e idonee, avendo riferimento all’ambiente domestico. (Noi siamo troppo ancora concentrati sulle aule di catechismo e sul triangolo parrocchiale: Chiesa, canonica e aule di catechismo con in mezzo il campetto e il Circolo Noi. Bisogna che rompiamo questo accerchiamento e credo siano due i luoghi attraverso cui lo si può rompere. Uno è la casa e l’altro è la strada.) L’ospitalità cristiana, così intesa e realizzata, è uno dei modi più eloquenti con cui la parrocchia può rendere concretamente visibile che il cristianesimo e la Chiesa sono accessibili a tutti, nelle normali condizioni della vita individuale e collettiva. (VMP 13) Dunque accoglienza e ospitalità. Terzo: accompagnamento 3. ACCOMPAGNAMENTO Anche questa è una scommessa perché mentre, fino ad un po’ di tempo fa, la nostra pastorale viaggiava così a massa, ora cominciamo a capire, proprio prendendo lo spunto della missio ad gentes, che c’è bisogno di uno stile di accompagnamento. Fatto come? Dice il nostro sinodo: anzitutto stando con simpatia dentro il proprio tempo e nel proprio territorio. Uno, penso, non va in missione e comincia a criticare il paese in cui è. Poteva stare a casa sua. Non si va lì per cominciare a dire: “Guarda qui, se sei in Africa o in America Latina, questa cultura…” Cominci con uno sguardo, tra virgolette, con simpatia sapiente. E così credo che anche qui adesso, venga chiesto non di chiudere gli occhi di fronte alla cultura in cui siamo ma di saperla vivere con simpatia sapiente. Secondo: non si può proporre tutto a tutti ma bisogna pensare e proporre itinerari differenziati di formazione» (Libro Sinodale = LS 247s) E per fare questo, c’è bisogno anche di qualcuno che si attivi. Il nostro Vescovo, per esempio, insiste molto perché nella preparazione al matrimonio questi ragazzi possano essere accompagnati da una coppia. Certo sarà importante anche il corso fidanzati fatto con 20, 30, 40, qualche volta anche 50 coppie nelle parrocchie, ma c’è bisogno di proporre, almeno a chi ci sta, anche degli itinerari differenziati, di formazione e di accompagnamento. C’è bisogno di legami «caldi» di prossimità contro un certo anonimato che si respira ancora nelle nostre parrocchie, specie in quelle più ampie. Occasioni perché la gente si incontri, perché la gente si riconosca. Abbiamo fatto un’indagine nei consigli pastorali, e dicevano: “Ma sì, arriviamo e noi stessi componenti del consiglio pastorale ci troviamo davanti alla porta della Chiesa e qualche volta non ci salutiamo neppure.” Forse non per cattiveria o perché si ha qualcosa gli uni contro gli altri ma perché la comunità, per i numeri, sta perdendo questi legami caldi di prossimità. Oppure, viceversa, nei paesi troppo piccoli questi legami, qualche volta, sono come le scarpe un po’ troppo strette. E allora la necessità, anche, di un accompagnamento che provi a pensare percorsi personalizzati. C’è qualcuno che comincia a chiedere di diventare cristiano. Nella missio ad gentes, quando uno arriva gli si propone anche un itinerario personalizzato. 7 La vita quotidiana è l’alfabeto per comunicare il Vangelo per cui questo accompagnamento deve utilizzare l’alfabeto della vita quotidiana. Ecco i cinque ambiti di Verona: 1. L’ALFABETO DEGLI AFFETTI 2. L’ALFABETO DEL LAVORO E DELLA FESTA 3. L’ALFABETO DELLA FRAGILITA’ UMANA 4. L’ALFABETO DELLA CITTADINANZA (i problemi legati al vivere la nostra cittadinanza) 5. L’ALFABETO DELLA TRADIZIONE Fare in modo, cioè, che quel convertirci all’essenziale che parte dalla parola di Dio, arrivi, poi, a dirsi attraverso questo alfabeto perché altrimenti passiamo sopra la vita della gente. Passiamo sopra una spanna. Altro aspetto importante: la missione ha bisogno di corresponsabilità. Nella missio ad gentes c’è una comunità corresponsabile che si fa sostenitrice, promotrice, garante di questo primo annuncio. Lo si fa insieme, tutti. Ecco allora, in questi ultimi tempi, anche l’insistenza del nostro Vescovo proprio sulla corresponsabilità. Una corresponsabilità tra carismi e ministeri diversi. C’è bisogno di tutti. Questa sfida non la si vince nessuno da solo. E carismi degli istituti religiosi, delle parrocchie, e all’interno delle parrocchie, dei singoli gruppi. Nell’ultima verifica che abbiamo fatto, ricordo uno sfogo di un consiglio pastorale che mi diceva: “Ma insomma nella nostra parrocchia, pensa, non riusciamo neanche a fare un calendario comune perché, agli inizi di settembre, ogni gruppo, indipendentemente dagli altri, ha già deciso che cosa deve fare, le proprie scadenze, le proprie attività ed è difficile trovare una data comune in cui si possa fare qualcosa insieme”. Siamo tutti molto bravi a fare le cose da soli mentre invece, questo stato di missione, domanda una conversione, una conversione alla corresponsabilità ma anche tra soggetti ecclesiali diversi. Allora come metterci in rete, per esempio, passata la stagione dei reciproci sospetti, come metterci in rete con Comunione e Liberazione, Opus Dei, il Cammino Neocatecumenale, Agesci, Azione Cattolica, Rinnovamento nello Spirito? Da soli nessuno riesce a farcela. Come metterci insieme superando reciproci sospetti o esclusioni o senza squalificarci gli uni con gli altri? Ma questo richiede anche una corresponsabilità tra Parrocchie. E’ finito il tempo della Parrocchia autosufficiente. E’ finito. Ecco perché il nostro sinodo diceva che dobbiamo cominciare ad assumere, proprio per questo senso della corresponsabilità, una maggiore capacità relazionale. Cominciare a trattarci un po’ più da adulti nelle nostre comunità parrocchiali, all’interno dei gruppi, tra i gruppi, preti e laici. Riusciamo ad assumere capacità relazionali da adulti, a trattarci da adulti.? Siamo capaci di assumere questo stile del lavorare insieme? (LS 46-47) Questo lo troviamo nel libro sinodale al capitolo Comunione e corresponsabilità. Vado verso la conclusione. Il tutto, restando dentro, come vi dicevo, alla cultura di oggi. La cultura che, certamente, ha qualche elemento che ci può preoccupare. Ma noi siamo qui per proporre un umanesimo, come lo definisce il Papa, integrale e trascendente. Integrale perché mette assieme le emozioni, i sentimenti, la ragione, cioè tutto perché la persona è unica. Ma anche trascendente. Non è solo un umanesimo orizzontale perché è incontrando Dio che la mia umanità si arricchisce ancora di più. Secondo aspetto: assumere la capacità, proprio perché cominciamo ad accostare persone. Per esempio, cosa molto semplice, anche dalle ultime indagini fatte, si comincia a capire che la gente che sta bussando ha un livello di istruzione maggiore che nel passato per cui cominciano a sorgere alcune domande e alcuni interrogativi ai quali siamo chiamati a rispondere. Cioè essere in grado di rendere ragione delle nostre ragioni. E soprattutto essere in grado di far ardere il cuore. Quando Gesù si incammina con i discepoli di Emmaus, alla fine essi dicono: “Non ci ardeva forse il cuore?” A me piace sempre questa bella frase, perché altrimenti, il rendere ragione delle nostre ragioni, sembrerebbe un’operazione solo intellettuale di una fede 8 amica dell’intelligenza, fredda e razionale. Invece non è così. Allora credo che la scommessa per assumere questo paradigma della missio ad gentes perché diventi anche paradigma della pastorale ordinaria della nostra diocesi, sia come poter oggi far ardere il cuore nelle nostre liturgie, nei nostri incontri, nelle nostre proposte. Come fare in modo che si avverta che è bello poter essere lì, che è bello poter essere tutti insieme e non essere lì con l’orologio in mano ed aspettare che finisca e basta. Questi credo che siano i percorsi che, così mi sembra, un po’ sono in atto e un po’ si stanno strutturando. Si cerca di insistere su alcune cose, altre evidentemente sono piuttosto avanti. Non so se sono riuscito a dirvi il cammino concreto, la situazione in cui le nostre comunità si trovano, la fatica di vivere questa dimensione missionaria. L’augurio è che questa dimensione non sia delegata esclusivamente ad alcuni specializzati che partono oppure, restando nei nostri gruppi, ce la ricordano un mese all’anno perché è il mese missionario ma che possa diventare quasi un atteggiamento e un paradigma del cammino ordinario delle nostre comunità. Posso fare una domanda? Ma questo l’hai spiegato anche ai tuoi confratelli? Ci sono dei bei segnali. Qualcuno dice: “Ma teniamo presente anche che l’età media del clero veronese è 63 anni”. Però alcuni rispondono: “ Sì ma renditi conto che c’è qualcuno dei giovani che ha una mentalità più vecchia dei vecchi.” Bello sentirlo però poi, alla fine, stiamo anche male perché non si riesce a togliere un ragno dal buco. Beh, il compito dei lavori di gruppo è trovare le strade oggi. Cerchiamo di non assumere anche noi il senso di impotenza di cui dicevo all’inizio. Sapete la metafora, no? Che c’è uno che trova un masso enorme in mezzo alla strada e si trova lì e cerca di spostarlo. Dopo arriva un altro con la macchina dietro e dice: “Che cosa fai?” “Devo passare con la macchina e sto cercando di spostare questo masso.” “Impossibile!” “Beh, proviamo, magari in due ce la facciamo.” Dopo arriva la terza macchina, si ferma e il conducente si mette a ridere. “ Cosa credete di fare voi due, è impossibile che riusciate a muovere quel masso lì.” E quegli altri dicono: “Scendi dalla macchina e proviamo, magari in tre ce la facciamo.” E pian pianino arrivano un bel po’ di macchine, si coinvolgono e pian pianino il masso riescono a spostarlo e le macchine riescono a passare. Grazie tantissime a Don Mario per le provocazioni, sollecitazioni che ci ha offerto e per la sua lettura da addetto ai lavori, ricordiamolo. Adesso tocca a noi nei lavori di gruppo. Prima vi spiego un attimo come funzionano i lavori di gruppo poi facciamo la meritata pausa e quindi ci metteremo a lavorare. Nei lavori di gruppo l’obiettivo è proprio quello di cercare di raccontare, rivivere e proporre il nostro punto di vista, il nostro vissuto, la nostra esperienza come persone che vivono all’interno di una comunità. Come persone anche impegnate. Quindi tutte queste sollecitazioni, queste provocazioni in realtà come vengono vissute nelle parrocchie? Ve lo chiediamo da tanti punti di vista. Dal punto di vista delle difficoltà che si incontrano e delle ricchezze perché sicuramente ci sono nonostante le difficoltà. E dal punto di vista dei desideri e delle prospettive. Cosa vorremmo migliorare? Cosa vorremmo cambiare, aggiungere, aggiustare, sistemare, mettere nella giusta direzione. Questo è quello che ci viene chiesto nei lavori di gruppo. Portare proprio il nostro vissuto, al di là di grandi discorsi, vissuto che verrà poi raccolto dai coordinatori. Ci saranno otto gruppi con otto coordinatori che adesso vi presenterò. Raccoglieranno tutto quanto emerge e lo presenteranno a Padre Braulio e a Cristina Simonelli che lo confronteranno con l’ideale, con le prospettive e faranno una sintesi nel pomeriggio. All’interno dei gruppi avremo anche del 9 materiale che è stato creato e pensato nell’ottica di aiutare non nell’ottica di complicare la faccenda. Quindi, se vi serve, lo tenete come aiuto, come guida, come dono. Se non vi serve, non è obbligatorio usarlo. Allora vi presento gli otto animatori di gruppo. All’interno di ogni gruppo ci saranno delle domande. Quattro sono le domande complessive che vogliono scandagliare le nostre idee riguardo al nostro vissuto. Ad ogni gruppo verrà, però, chiesto di focalizzarsi su una domanda, proprio perché il tempo è molto poco quindi se ogni gruppo facesse una panoramica su tutte e quattro le domande ci perderemmo. Dalla relazione del pomeriggio, poi, emergerà il lavoro complessivo. Prima di presentarvi gli otto capigruppo è meglio che vi dica le quattro domande su cui ci si focalizzerà. Il gruppo 1 e il gruppo 5 si focalizzeranno sulla domanda: Che idea di missione si vive nei nostri ambienti ecclesiali? Ci rendiamo conto che è una domanda enorme su cui si potrebbe scrivere un libro. Vi chiediamo proprio di calare la vostra esperienza e il vostro percepito all’interno di questa domanda. I due capigruppo saranno Pablo e Padre Siro della comunità missionaria di Villaregia. Qualcuno lo conosce, qualcuno non lo conosce ma avrà modo di conoscerlo. La seconda domanda è: Quali stimoli, proposte, stili di vita arrivano dalla missione e come possiamo far diventare vita vissuta nel nostro contesto quotidiano di parrocchie di realtà di contesto civile. Questa domanda pure ampia è affidata ai gruppi numero 2 e numero 6. Il numero 2 è coordinato da Gelmino, là in fondo, e il numero 6 da Padre Giancarlo, comboniano. La terza domanda è: La Chiesa veronese sa cogliere, come ci diceva Don Mario, i valori e le esperienze maturate in altre chiese da preti fidei donum, da laici, laiche, religiosi e religiose? Non è scontato che sia sì, ne parleremo. Questa domanda è affidata ai gruppi numero 3 e 7 coordinati da Daniela, moglie di Gelmino e da Giulio marito di Flora. La quarta domanda sempre sull’accoglienza è: Come accoglie la Chiesa veronese fratelli e sorelle di altre culture e di altre chiese? Quest’ultima domanda è affidata ai gruppi 4 e 8 coordinati da Fabio e da Fred sempre della Comunità Missionaria di Villaregia. Allora, come si formeranno i gruppi? Chiediamo un po’ la vostra collaborazione. Questi otto coordinatori hanno delle schede colorate che consegneranno nella pausa casualmente perché la casualità sia ricchezza. Non cercate di stare tra di voi, nei vostri gruppi, perché già vi sentite tutto l’anno. Questa è un’ occasione per sentire altre esperienze. Verranno consegnate durante la pausa dagli otto referenti dei gruppi, vi chiediamo la collaborazione, visto che il tempo è veramente poco, di cominciare già 5 minuti prima della fine della pausa, che per forza di cose si è già un po’ allungata. Verso le 11,10 vi chiediamo già di incamminarvi verso i vostri coordinatori e di prendere posto, loro sanno dov’è il luogo. Non vi dovete preoccupare di prendere nota perché gli otto referenti hanno una scheda su cui riporteranno tutti gli interventi emersi. Avrete però una preoccupazione nel senso che chiediamo un vostro contributo per la Messa del pomeriggio: un regalo, da fare a tutta l’assemblea che parteciperà alla Messa, di una ricchezza che è emersa. Vi chiediamo di esprimerla attraverso una frase, uno slogan, qualcosa di carino da leggere. Non perdiamoci nel raccontare perché potrebbe essere un po’ troppo lungo il tempo che ci vuole. La scriviamo e la portiamo durante l’offertorio, nella Messa come dono per tutti gli altri non presenti alla riflessione del nostro gruppo. Direi che andiamo in pausa. Allora riceverete una scheda colorata. Alle 11,10 ci sono i lavori di gruppo. 10