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18 DIBATTITI
6-12 ottobre 2009
Al Festival della Salute di Viareggio scienziati e bioeticisti a confronto sulla definizione
Morte cerebrale, quei dogmi
La doppia proposta: una chiarificazione epistemologica e un riesame
DI
GIOVANNI BONIOLO
D
*
obbiamo cambiare il criterio che certifica la morte cerebrale? Come si è
sviluppata la situazione a 50 anni dal documento della Commissione dell’Harvard Medical
School che, nel 1968, per la prima volta pose la questione della
definizione di morte clinica in
termini di cessazione delle funzioni del cervello?
Il 24 settembre a Viareggio,
nell’ambito del Festival della Salute, vi è stata una giornata di
riflessione etica, organizzata con
il Campus Ifom-Ieo di Milano,
sulla definizione di morte cerebrale e sulla tematica dei trapianti d’organo.
Improvvidamente, in seguito
ai tristi casi di Englaro e Welby,
erano apparsi sulla stampa interventi in cui si prospettava che
una considerazione su quanto
stava accadendo comportasse
un ripensamento della legge italiana sulla certificazione di morte (legge 29 dicembre 1993, n.
578; Dpr 22 agosto 1994 n.
582). Ebbene, uno degli scopi
della giornata è stato quello di
sottolineare con fermezza che le
due questioni, quella dell’accani-
mento terapeutico e quella della
certificazione di morte, devono
essere trattate separatamente, essendo differenti, pena la caduta
in confusioni che non giovano a
nessuno. Al di là di questo implicito momento chiarificatore, il
meeting ha cercato di analizzare
se effettivamente nulla di quanto stabilito 50 anni fa debba essere ripensato. Sia nel report della
Commissione Harvard, sia nel
successivo “Uniform Determination of Death Act” redatto nel
1981 dalla “President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioural Research”,
sia nella nostra legge che recepisce quando lì indicato, si parla
di «cessazione irreversibile di
tutte le funzioni dell’intero cervello». E qui sorgono i problemi: Come si determina la cessazione di «tutte le funzioni»? Che
cosa si intende per «intero cervello»? Qual è la soglia che certifica l’irreversibilità?
Nel convegno, che ha visto
intervenire e dibattere bioeticisti
e studiosi italiani, americani e inglesi di grande impatto scientifico, si è cercato di dipanare tali
questioni. Una cosa è stata subito
chiarita: termini vaghi come «tut-
Conclusioni del workshop
●
I criteri in uso per stabilire la morte cerebrale hanno fornito
un parametro utile per tutelare i pazienti nel contesto medico
del prelievo e del trapianto di organi
●
Da un punto di vista clinico, legale e sociale, stiamo ancora
studiando e analizzando il concetto di morte e come esso
cambi in funzione di differenti contesti culturali, religiosi ecc.
●
Pertanto, si ritiene opportuno, da un lato, evitare di assumere
una posizione rigidamente ortodossa e, dall’altro, promuovere un atteggiamento di apertura mentale
●
Si tratta di un ambito di ricerca giovane nato dall’introduzione di
nuove tecnologie biomediche e dall’avanzamento della conoscenza
Umberto Boccioni - Stati d’animo, Quelli che vanno
te le funzioni» e «intero cervello» non dovrebbero essere presenti nella definizione di morte
cerebrale. Questo significa che
prima di affrontare la questione
bisogna aver ben chiaro che cosa
siano una definizione e un criterio e come possano essere formulati in modo non ambiguo e non
vago. In secondo luogo c’è il
problema non meno importante
di capire che cosa si intenda per
«irreversibilità», ossia quando si
sia superata la soglia dopo la quale si può attestare il non ritorno e
quindi la morte cerebrale. Tra
l’altro, la maggior parte delle critiche alla definizione di morte
cerebrale si focalizzano esatta-
mente nel mostrare che il passaggio da una situazione di non-morte cerebrale a una di morte cerebrale è continuo.
I relatori hanno dibattuto a
lungo questo aspetto, e alla fine
ci si è resi conto che solo una
soluzione pragmatica è possibile. L’irreversibilità può essere
fissata in modo preciso in funzione della precisione dei test clinici che sono predisposti per accertare, per esempio (è quanto richiede la nostra legislazione), lo
stato di incoscienza, l’assenza di
riflessi del tronco e di respiro
spontaneo nonché il silenzio elettrico cerebrale.
Si intuisce, così, che il conve-
gno non è stato affatto pensato
per mettere in questione il ruolo
positivo che la definizione di
morte cerebrale ha avuto nel proteggere i pazienti in caso di trapianti d’organo. Differentemente, è stato inteso per spingere, da
un lato, verso una chiarificazione epistemologia della definizione e del criterio, in modo che in
essi non compaiano termini ambigui e vaghi, e, dall’altro, verso
un riesame, alla luce degli avanzamenti della conoscenza biomedica e della tecnologia a disposizione, dei test clinici atti a sanzionare l’irreversibilità.
Questo nell’idea che non solo sia del tutto eticamente plausi-
bile la definizione di morte cerebrale, ma che sia anche eticamente importante una sua chiarificazione epistemologica e una
sua messa a punto clinica.
Da ultimo, due note. Questo
di Viareggio è stato il primo convegno in cui in Italia si ha avuto
un dibattito etico di livello internazionale sulla definizione di
morte cerebrale, ed è stato un
dibattito realizzato, nonostante le
differenti posizioni in campo,
con grande pacatezza e senza
nessuna coloritura ideologica, sia
di tipo politico che religioso. Cosa strana per un Paese abituato a
sentire dibattiti costruiti da slogan più che da argomenti, da pre-
EVIDENCE BASED HISTORY OF MEDICINE
PREVENZIONE&EMPOWERMENT
Il lessico variegato del dolore
Il diabete si combatte «conversando»
DI
D
I punti fermi emersi
DONATELLA LIPPI *
olore, come esperienza individuale, e dolori,
nelle loro variabili soggettive e socio-culturali.
È una grande varietà lessicale a tradire la difficoltà di
una sua definizione univoca, proprio per la ricchezza
delle sue dimensioni.
Sono tre le radici attorno alle quali si struttura il
vocabolario del dolore nel mondo classico: odùne,
pèma e àlgos. Odùne, dolore forte e intenso, generalmente ben localizzato, associato molto spesso a aggettivi come oxùs e pikròs, acuto, lancinante, là dove
il richiamo allo strumento che ha causato la ferita, il
giavellotto o la lancia, è estremamente suggestivo,
così come il riferimento alla rapidità implicita nel gesto. La tipologia della sofferenza, indicata da àlgos e dai suoi
derivati, è più indefinita e interessa
la totalità del corpo, quasi a voler
sottolineare una condizione implicita nel destino umano ma, spesso, senza un coinvolgimento personale.
Dato il carattere più vago della sensazione, il termine àlgos si è
dimostrato storicamente più produttivo per il vocabolario medico moderno; al contrario, nel mondo omerico è
il termine odùne che ricorre più frequentemente e costituisce l’espressione tecnica,
appartenente al vocabolario della medicina.
Una terza famiglia di parole riconduce, invece,
alla radice di pèma, associato, spesso, al verbo pàschein, soffrire. La ferita di Filottete o il dolore di
Eracle, agonizzante a causa del mortifero sangue del
centauro Nesso, o l’abbraccio fatale di Laocoonte e
dei suoi figli con il mostro marino segnano la progressiva acquisizione di una dimensione umana e
reale della sofferenza.
Pulsante, gravativo, tensivo, pungente: in questa
attenzione particolare alla sintomatologia, nel quadro
della patologia umorale, Galeno propone, nel II secolo d.C., una distinzione terminologica dei diversi tipi
di dolore. Divinum opus: la sedazione del dolore
fisico ha rappresentato, per secoli, la sfida dell’uomo.
DI
La spongia somnifera o l’Ypnoticum adiutorium,
in cui venivano sapientemente miscelate sostanze
vagamente obnubilanti, hanno costituito, già nel Medioevo, la risorsa fondamentale per affrontare un
intervento chirurgico, là dove questa pratica entrava
anche nelle pieghe della letteratura: nella X novella
della IV Giornata del Decamerone, Mastro Mazzeo
della Montagna prepara una bevanda, che viene bevuta per errore dall’amante della moglie, che cade in
un sonno profondo.
Ancora nel XIX secolo, però, oltre alla carenza di
antisepsi e ai rischi delle emorragie, il limitato controllo del dolore inibiva lo sviluppo della
chirurgia: per quanto l’etere fosse
noto da tempo, e da tempo impiegato come sedativo nel trattamento di
varie patologie, non ne era stato
ancora indagato il potenziale anestetico. E se l’introduzione dell’anestesia, grazie a Long e Wells,
era destinata a rivoluzionare la pratica chirurgica e il controllo del
dolore operatorio, la diffusione della tecnica anestetica fu lenta e graduale, in quanto, per molti, il “potere
guaritore del dolore” rappresentava una
allettante lusinga. Solo negli anni ’50 dell’800, James Young Simpson cominciò a sperimentare alcuni composti, rilevando che il cloroformio
appariva efficace e ragionevolmente sicuro nel controllare il dolore delle gestanti durante il parto, e
annoverando tra i suoi clienti la regina Vittoria in
persona. Il protossido d’azoto compariva nei teatri
chirurgici europei e statunitensi, mentre l’anestesia e
la asepsi diventavano tecniche standard. Iniziava un
capitolo nuovo nella storia del dolore, vissuto a livello fisico e spirituale; dolore profondo, partecipato,
percepito nella dimensione della sofferenza del corpo e dell’anima, illness, metafora del nostro tempo,
non-salute.
* Storia della Medicina
Facoltà di Medicina, Firenze
S
MASSIMO MASSI BENEDETTI *
i parla spesso dell’incidenza del diabete di tipo
due, della crescita del numero di persone con
diabete di tipo I e delle impressionanti previsioni al
2025 o al 2030. Forse però non ci si sofferma
abbastanza su come debba essere affrontata questa
patologia una volta diagnosticata. La cura non è
ancora disponibile ma gli spiragli per una soluzione definitiva esistono, grazie ai passi da gigante
che sta facendo la ricerca scientifica in questo
senso. A riprova di questi progressi basti dare
un’occhiata alle terapie disponibili, sempre più mirate, efficaci e ben tollerate. Ma per controllare al
meglio il diabete e quindi evitare l’insorgere delle
gravissime conseguenze che altrimenti il diabete
comporta, le terapie non sono sufficienti.
La gestione di questa patologia
dipende in gran parte dall’ambiente che circonda chi ne soffre e
quindi familiari, amici, medici
ma soprattutto altre persone che
ne sono affette. Si impara molto
dal confronto. Lo scambio di esperienze, il raccontare ad altri il proprio vissuto a contatto con la patologia, il mettere a nudo i gesti
della quotidianità e le proprie paure, la condivisione di quanto appreso da medici, operatori sanitari,
familiari, amici e anche da se stessi: anche queste
sono armi potenti nelle mani di chi soffre di diabete e se ben utilizzate possono rendere la gestione
della patologia molto più semplice di quanto si
creda e, alla lunga, avere un impatto notevole sulla
qualità di vita. Il progetto di “Diabetes Conversation” nasce proprio da questa convinzione. Si tratta
di un programma educativo incentrato sul paziente
e finalizzato a migliorare la comprensione e l’autogestione del diabete e a facilitare l’interazione con
gli operatori sanitari. Il progetto è stato realizzato
grazie a Lilly e messo a punto utilizzando gli
strumenti educativi di Conversation Map creati da
Healthy Interactions, in collaborazione con la Federazione internazionale del diabete (Idf) - Europa.
Lo scopo principale di questo progetto molto
innovativo, tra il ludico e il didattico, è proprio
quello di instaurare o migliorare un dialogo, il più
possibile costruttivo, tra persone costrette a fare i
conti giornalmente con la loro condizione. Alla
base delle Diabetes conversation c’è un kit che
assomiglia a un grande gioco di società. Il kit,
infatti, utilizza una serie di immagini e metafore
riprodotte su pannelli per stimolare l’interattività.
Il “gioco” è però guidato da operatori sanitari
opportunamente formati, in grado di far “giocare”
le persone con diabete senza perdere di vista
l’obiettivo finale della sessione. Siamo all’inizio,
ma i risultati sono già molto promettenti e dati
confortanti provengono da ogni altro paese in cui
le mappe di conversazione sono
già in uso. Canada e Messico, a
esempio, hanno aggiornato l’International diabetes federation con i
primi sondaggi fatti tra coloro i
quali hanno sperimentato questo
approccio. In Canada il 100% delle persone con diabete che le utilizzano le raccomanderebbero anche ad altri nella loro condizione.
Inoltre, secondo i dati raccolti su
un campione di circa 220 persone, il 96% ha risposto correttamente a domande
relative alla patologia e quasi il 90% ha dichiarato
di voler ripetere le sessioni di conversazione per
migliorare la conoscenza della patologia.
Tutto in sostanza sembra confermare che si
tratta di una novità che potrebbe portare grandi
risultati.
Come si impara proprio dai primi passi di questo strumento educativo interattivo però, la lotta al
diabete, si combatte su più fronti. Non dimentichiamo, infatti, che la prevenzione è di fondamentale
importanza per ritardare le progressioni della patologia e le sue conseguenze. Attività fisica e sana
alimentazione devono essere considerate infatti
due priorità nella quotidiana lotta al diabete.
«Gioco di società»
per educare
e far dialogare
tra loro i pazienti
* Vice-presidente di International Diabetes Federation
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DIBATTITI
6-12 ottobre 2009
dei criteri per accertare il decesso
da rivedere
dei test clinici oggi applicati
dal workshop toscano
Raccomandazioni del workshop
●
Porre attenzione nel non incorrere in fraintendimenti ampiamente diffusi che confondono l’opinione pubblica
●
Mantenere aperta la discussione con il pubblico
●
Sviluppare analisi multidisciplinari sulle diverse istanze sollevate dal tema della morte cerebrale
●
Riconsiderare definizioni troppo rigide in cui compaiono termini come “cessazione irreversibile”, “tutte le funzioni”,
“tutto il cervello”, poiché queste non sono applicabili nella
corrente pratica clinica
Fonte: G.Boniolo, H.R.Doyle, B.Fantini, J.Harris, I.R.Marino,
T.Powell, M.C.Tallacchini, R.D.Truog, S.J.Youngner
se di posizione più che da capacità di ascoltare e di modificare il
proprio pensiero qualora il pensiero altrui si riveli più valido.
La seconda nota riguarda l’atteggiamento con cui gli organizzatori si sono presentati: offrire
un servizio alla comunità in modo da aumentare la cultura dei
trapianti d’organo incrementando la consapevolezza etica non
solo dell’atto del donare, ma pure della definizione di morte cerebrale, nell’idea che non si possa fare della buona etica senza
una preliminare chiarificazione
epistemologica. Insomma, un
servizio anche a coloro che quotidianamente si preoccupano e si
occupano di trapianti. Bisogna,
infatti, rammentare il grande e
straordinario lavoro svolto dal
Centro nazionale trapianti che
ha portato l’Italia a essere all’avanguardia in questo settore.
L’importante è discutere con
pacatezza e senza ideologia e
non con l’intento di servire la
propria parte politica o religiosa
ma con l’intento di servire il cittadino qualora abbia la sventura
di trovarsi nelle vesti di paziente.
* Facoltà di Medicina
Università di Milano&Ifom,
Istituto Firc di Oncologia
molecolare - Milano
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Cnt: «Il rischio di un piano inclinato che metta in dubbio gli standard di Harvard»
I
l workshop di Viareggio ha ripreso il dibattito
sull’accertamento di morte effettuato con gli
standard neurologici fissati dalla Commissione di
Harvard nel 1968. Il punto è: la determinazione di
morte con standard neurologico è la morte dell’essere umano? E ancora: come si può sostenere
la validità dello standard neurologico, stabilito 40
anni fa, senza tener conto di dubbi e discordanze
riportate negli anni dalla stampa, dalla letteratura
e dalla pratica medica, nonché dall’evoluzione delle scienze antropologico-religiose?
Una risposta a tali legittime domande si trova
nel recente position paper pubblicato sul sito del
ministero della Salute e condiviso dalla comunità
trapiantologica italiana. Il contenuto può essere
così riassunto: oggi, la pratica clinica e le moderne
tecniche diagnostiche dimostrano che la morte
del cervello è un processo nel quale minime
funzioni residuali possono permanere oltre il momento in cui la morte è identificata e diagnosticata con certezza. Ciò non smentisce la validità dei
criteri di Harvard né la possibilità di stabilire con
sicurezza il momento delle morte. Aspetti su cui
la nostra normativa prevede rigorose e prudenti
procedure per l’accertamento di morte, separando categoricamente l’accertamento di morte con
criteri neurologici, atto medico obbligatorio, dalla
eventuale possibilità di prelievo degli organi.
La necessità di approfondire e divulgare questi temi è evidente, tanto quanto il rischio di
accrescere la confusione apportando argomenti
di natura diversa. Ed è su questo piano inclinato
che le conclusioni del workshop sono scivolate,
riportando una sintesi delle posizioni che, ai più,
è parsa mettere in discussione la sostanziale
validità dei criteri di Harward e, dunque, la sicu-
rezza e le garanzie dell’accertamento di morte.
Dire, a esempio, che «i criteri di morte cerebrale hanno avuto una funzione di protezione nei
confronti dei pazienti, nel contesto del reperimento e del trapianto di organi» può indurre il
dubbio che la morte encefalica sia stata per tanto
tempo un artefatto funzionale alla trapiantologia
e non, come è, una realtà biologica, scientifica,
etica e giuridica.
Sottolineare i limiti delle conclusioni del
workshop serve a evitare inutili fraintendimenti e
non a ostacolare la necessaria rivalutazione terminologica e epistemologica delle questioni che, ci si
augura, possa continuare con il contributo di
tutti.
Alessandro Nanni Costa
Direttore Centro nazionale trapianti
Aido: «Teorie e argomenti datati»
Siaarti&Sito: «Dibattiamo tra tecnici»
I
L
n Italia, ogni volta che si affronta l’argomento della donazione di
organi, viene rilanciato un dubbio: quelle persone sono davvero
morte? È da oltre quarant’anni che la medicina ha detto una parola
chiara sull’argomento: la morte cerebrale, testimoniata dall’assenza di
respiro spontaneo e registrata dall’elettroencefalogramma piatto, corrisponde alla morte dell’individuo e non dell’organismo. Il cuore continua
a battere perché una macchina glielo impone. Questa parola, chiara e
precisa della scienza, è tanto affermata e diffusa in tutto il mondo che su
di essa si basano tutte le leggi che definiscono la morte e il suo
accertamento. Anche il legislatore italiano, con la legge 29 dicembre del
1993 sulla morte cerebrale, ha voluto e ha imposto le massime garanzie
nel decretare la fine della vita e, nel contempo, ha imposto la sospensione delle manovre rianimatorie per impedire di curare un morto.
Spiace constatare che nel workshop di Viareggio si siano ascoltati
argomenti “datati” e che non c’è stato nessun accenno né all’opera di
revisione del regolamento recante le modalità per l’accertamento e la
certificazione di morte condotta da un gruppo di lavoro costituito
nell’ambito della Consulta tecnica permanente per i trapianti, col supporto delle società scientifiche, né al documento del Cnt che contiene
gli elementi informativi essenziali sulla definizione e sul concetto di
morte cerebrale.
Vincenzo Passarelli
Presidente nazionale Aido
a Siaarti, attraverso il presidente Vito Aldo Peduto, afferma
che: «Le conclusioni del workshop non intaccano la validità di
quanto avviene nelle rianimazioni italiane, dove la diagnosi di morte
si effettua con esami neurologici clinici e strumentali, standardizzati
applicando una procedura clinica basata su rigorose metodologie
scientifiche, obbligatorie per legge. Per affermare che i criteri vanno
rivisti e che la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali è una
definizione troppo rigida, sarebbe opportuno partire da chiari presupposti biologici, basati su ricerche e pubblicazioni scientifiche.
Inoltre, una corretta impostazione del confronto avrebbe richiesto
l’ascolto di chi opera sul campo, come gli anestesisti-rianimatori
italiani». Anche Antonio Famulari, presidente Sito, esprime preoccupazione: «Nel nostro Paese vigono norme avanzate e garantiste che identificano in modo preciso cosa sia la diagnosi di morte
cerebrale. Quando si parla di “criteri rigidi” ricordiamo che si
applicano in scienza e coscienza oramai da decenni e questo ha
garantito sia il soggetto in morte cerebrale che il rispetto della legge.
Le enunciazioni su un tema così delicato possono risultare avventate e inopportune, finendo per creare confusione. Non abbiamo, nel
merito, una posizione di chiusura. Siamo disponibili al dibattito nelle
sedi idonee e con dati scientifici certi e verificati. Il “purché se ne
parli” non è serio né metodologicamente né moralmente, visto che
coinvolge l’opinione pubblica con spot di cui non comprendiamo il
reale significato».