Nota dell`autore

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Nota dell`autore
Nota dell’autore
I luoghi, cosí come i nomi, ma principalmente i
cognomi, per quel che riguarda l’abbinamento con i
personaggi, sono frutto di pura fantasia. Radicalmente inventati.
Inoltre mi preme precisare che il dialogo all’inizio del capitolo IV tra mastro don Giovanni e Santo
Cicala, almeno in parte è figlio di semplici deduzioni poiché, mai, Santo si sarebbe rivolto, almeno in
pubblico, a mastro don Giovanni chiamandolo
Padre. Ho ceduto al sentimentalismo.
Qualora qualcuno dovesse riconoscersi ugualmente in luoghi, nomi o profumi, è solo la dimostrazione di quanto il mondo sia piccolo. Soprattutto
la Sicilia.
PERSONAGGI
Famiglia di Giovanni Muscolino
Mastro don Giovanni
Muscolino Giovanni – Ex campiere e padrone di
uomini, cose e destini.
Sabella Cutrera Muscolino – Seconda moglie di
G.M. e figlia di Santo Cutrera.
Natale Muscolino – Figlio della prima moglie di
G.M.
Lucia Cicala – Amante e madre di Alfio e Santo.
Alfio Cicala – Figlio illegittimo di G.M.
Santo Cicala – Figlio illegittimo di G.M.
Famiglia Sturiale
Turiddu Sturiale – Padre.
Nenè Sturiale – Il sognatore.
Carmela Antillo Sturiale – Moglie sognatrice.
Famiglia Barile
Alfonso Barile – Padre ucciso in combattimento.
Matilda Barile – Madre nonché dama di compagnia
di Sabella Cutrera Muscolino.
Nella Barile – Figlia e moglie di Alfio Cicala.
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MASTRO DON GIOVANNI
Famiglia Moschella
Uomini di legge
Carmelo Moschella – Campiere del barone Attilio
Garufi di Spadafora.
Antonio Moschella – Campiere del barone Attilio
Garufi di Spadafora.
Santa Moschella – Madre di Nenè picciriddu
Amante di Nenè.
Marcello Spataro – Delegato di polizia del comune
di Sant’Agrò (ME).
Giuseppe Bonsignore – Questore della provincia di
Messina.
Domenico Calandra – Notaio in Messina.
Nobili
Famiglia Antillo
Brasi Antillo – Padre ucciso in combattimento.
Cettina Antillo – Moglie di Brasi Antillo ed amante
di Mico Nicocrudo.
Maria Antillo – Prima figlia, suora.
Lucia Antillo – Seconda figlia, amante di Edoardo
Cangemi.
Carmela Antillo – Terza figlia (sognatrice) sposa di
Nenè.
Eduardo Calí – Conte di Girgenti.
Attilio Garufi di Spadafora – Barone.
Vincenzo Sperandio di Roccalumera – Marchese.
Eduardo Nardi – Barone in disgrazia, suo erede è
Giovanni Muscolino.
Lord Whrite – Ambasciatore inglese in ritiro.
Uomini d’affari
Michele Cosentino – Vescovo.
Arturo Cosentino – Fratello del Vescovo.
Olindo Maria – Moglie di Arturo Cosentino ed
amante di Michele Cosentino (in realtà il primo
ruolo è conseguenza del secondo).
Michele Cosentino – Figlio di Michele Cosentino
Vescovo e Maria Olindo di lui cognata.
Giovanni Mico Ferro – Importatore di bovini –
Gela.
Fratelli Ferro – Soci di Atonia Nicocrudo.
Edoardo Cangemi – Cangemi & figlio – Cave di
zolfo; amante di Lucia Antillo.
Mico Micocrudo – Macellaio… amante della carne
al sangue.
Carmelo “Melo” Torre – Pizzicagnolo.
Pippo Cutrera – Garzone del pizzicagnolo nonché
suo amante.
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Famiglia Cosentino
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MASTRO DON GIOVANNI
Uomini e donne di Chiesa
Picciotti d’onore che cambiano sponda
Francesco Minghella “Cicciu u curtu” – Sagrestano.
Filippa – Perpetua.
Fratelli Incardona.
Tommasino Rina.
Pasquale e Santo Dibernardo.
Pietro e Santo Latto.
Domenico Pacino Ernesto.
Totò e Michele Prestigiacomo (ex uomini... di
Mastro Don Giovanni).
Amanti di Nenè
Antonia Nicocrudo – Moglie del macellaio.
Agata Lasorella – Sarta.
Nunzia Torre – Pizzicagnola.
Lady Sara Whrite – Inglese viziata.
Varuna – dama di compagnia di Lady Whrite.
Altri personaggi
Agatino Trimarchi – Maestro di musica.
Saveria – Levatrice.
Ciro Boscoscuro – Attore, capo comico.
Assunta Pilotruppo – Attrice di peso.
Paride Pizzazza – Proprietario del capanno.
Direttamente dal registro del delegato
Crispino Di Donna e Teresa.
Antonio Miconi – Toni u babbu.
Domenico Catullo – detto Mimmo.
Santa Colajanni – Moglie di Domenico Migneco.
Domenico Migneco – Marito di Santa Colajanni.
Filippo Imperore ed Agatina Imperore amante del
prete.
Aristide Sconcerti – Prete.
Picciotti d’onore
Miuccio.
Brancato.
Carnabuci.
Miano.
Fratelli Macca (tutti uomini di Mastro Don
Giovanni).
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I
AI GANZIRRI
La notte, madre di tutti i giorni, viveva un parto
doloroso e assai travagliato.
Nero manto coprente e quieta; fresca ispiratrice
dei sogni dei pavidi e appiccicosa memoria del giorno; sospesa, immobile e sicura, rattrappita e in mille
rivoli spersa; la notte... madre e padrona, quella
notte, avrebbe cambiato molte sorti.
Allora e in quell’attimo giocava, creando da
innocui cespugli tetre figure, ingigantiva alberi e
foglie, gonfiava la spessa, oscura e solo all’apparenza oleosa marea che con fragore si infrangeva sulla
spiaggia, schiaffeggiandola e urlando minacce mai
realizzate.
La notte, che al solo inspirarne gli odori crea miti
pensieri; che non puoi trattenere, mentre statica,
inerte, assiste allo spettacolo di mille destini che
volgono senza speranza lo sguardo al giorno.
La notte araba, pregna di odori mutevoli, spazzolata dalla brezza, partorita dal mare; che non provoca sudore, regina che fa del vento un suo ambasciatore. Piena di stelle, fragranze, dove il cielo incombe minaccioso e schiaccia la terra comprimendola
contro il mare.
La notte siciliana che non esalta i confini, ma
erige nuove barriere, che chiude in sé cancellando
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gli spazi e accentua l’isolamento di chi è nato isolano, rendendolo diffidente, un’isola a sé.
La notte delle ossessioni, delle illusioni che si
spengono nella solitudine, al tempo stesso amata e
sofferta; che ingiuria con maestria la paura della vita
e apparta le poche certezze; che con un colpo di spugna ridistribuisce le sorti, riconsegnando a un nuovo
giorno anime barcollanti e incerte, perpetuamente
più deboli e nuove alla vita dell’attimo in cui abbandonarono le acque.
Complice dei vili, dei sotterfugi, delle canaglie e
dei cospiratori, degli atti immondi, pausa temporale
e fiera, la notte, madre di un nuovo giorno.
Accidenti, che botta di freddo! Minchia, ho pure
i brividi. Non capisco come sia possibile che, malgrado il freddo mi addenti le carni, continui a sudare un sudore freddo, agghiacciante.
Sento spifferi attraversarmi le carni e come lame
velenose, aghi amari, mi lasciano pieno di fori attraverso i quali l’aria passa come da uno scolapasta di
cui non riesco a tappare i cento buchi... Chiudi qua,
e se ne apre uno da un’altra parte...
Aveva la fissa dei paragoni...
“Sono meglio io. Chissà come lo indosserebbe
lei?”
Mi facevano incazzare questi idioti paragoni.
Pure mentre trastullava il mio sesso serrandolo con
le labbra carnose come anelli di totani e con la lingua mi faceva contrarre il buco del culo, solletican-
dolo, mentre afferrava i coglioni, la femmina, con
quella pressione che solo la sua esperienza poteva
produrre, eccola cercare con gli occhi, annebbiati da
un desiderio che mai le ho visto spegnersi, i miei. E
poi cruda mi faceva delle domande idiote.
“Dimmillu,” diceva. ”Dimmillu la tua mugghieri
bedda li sa fare questi lavori, o caso mai nella sua
boccuccia la minchia non la fa entrare?”
Glielo avevo detto io, mai che ti ascolta quello.
Deve avere ragione lui ogni volta, ma la colpa è pure
mia: stronzo sono nato e da stronzo mi sono sempre
comportato, perennemente in debito con tutti.
Anche quando respiravo credevo di dover ringraziare qualcuno. Mi sono assoggettato a fare il giullare,
il comprimario e penso che chi ha paura si comporti come me: ride anche quando non c’è proprio nulla
da ridere e finisce che ti ritagli un’immagine che con
te non c’entra nulla.
“Cosí sti fimmineddi quannu vannu a missa, mi
diciunu, don Nenè passa.”
“Nenè nun sugnu jo cummari u fissa. Figliu nun
n’hai e me mugghieri e scarsa. Chiuttosto vostro
maritu quella faccia j fissa, ci hannu a tagliari i
corna quannu ca passa.”
“Certo ragazzi, riferite a mastro don Giovanni
che sono disponibile anche subito.”
E cosí correvo, ah se correvo e quelli sempre più
pressanti. Come questa sera: mi chiama in disparte
Alfio, cosí diverso da Santo, che era pacato, riflessivo, la copia sputata di mastro don Giovanni, e mi
dice fresco che pareva un pupo:
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“Nenè devi andare subito ai Ganzirri, subito!”
E io manco a chiedergli come mai, cosa ci fosse
di cosí urgente da dover correre in piena notte in
quel posto del cavolo in piena campagna. Invece
questa volta è lui a sorprendermi, ci tiene Alfio a
darmi informazioni. Strano, in tutta la sua fottuta
esistenza non mi ha mai rivolto parola.
“Nenè c’è una consegna urgente di limoni da fare
e pare che ci sia pure un carissimo amico che ti
vuole salutare.”
Quelli sono storditi se pensano che io mi metto
a fare viaggi in piena notte e invece eccomi qua.
Sto pure morendo di freddo, non sento nemmeno
le gambe, oppure sono le mani che si stanno
ghiacciando.
Comunque a quella fimmina mi veniva voglia di
dirglielo. “Quelle cose a mia moglie non gliele chiedo, è dalle troie come te che mi faccio fare questi
lavori.”
Però che scopate, una vera femmina. Bastava
sfiorarla, quella puttana, che già si bagnava. Alle
volte la toccavo di sorpresa, senza nessun preavviso,
minchia, mai una volta l’ho trovata secca, asciutta.
Sempre bagnata con questa figa gonfia che appena
la sfioravi si apriva come una camelia; sembrava
prendesse la scossa da come tremava.
Sí, però pure io sto tremando, il sudore si è seccato, è quasi diventato brina indurendosi sulla fronte. Ci mancava anche la camicia che mi si appiccica
addosso. Se solo avessi la forza, me la toglierei e la
strizzerei.
Dovevo dirglielo, quante cose avrei dovuto dire e
fare al momento giusto.
”Alfio, andate a fare in culo tu e mastro don
Giovanni, io ai Ganzirri in piena notte non ci vado.”
Alfio. Da quando è capitato che Santo...
Santo aveva la corporatura di mastro don
Giovanni, quel giorno che l’ho visto di schiena con
la coppola nuova l’ho scambiato proprio per mastro
don Giovanni. Quando si è girato, aveva capito che
mi ero sbagliato, aveva un’espressione felice, come
i picciriddi, si stava pisciando addosso come nu
babbu. Loro ci perdevano il fiato, manco il Papa è
cosí devoto a Dio quanto loro lo sono a mastro don
Giovanni. Sí, ma lui mica se li è riconosciuti ’sti due
bastardi.
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Quasi quasi mi siedo. Che strano, ero convinto di
essere ancora in piedi e invece sono già seduto.
Queste maledette formiche poi mi stanno mangiando vivo, mordono e non riesco a toglierle neanche
con la mano che sta perdendo sensibilità, è fredda e
intorpidita.
Ma com’è che sono già seduto. Avessi la forza,
mi alzerei.
Glielo avevo detto, sposo Carmela perché l’amo.
Lei stronza mi dice:
“Tesoro, quello che fai con me, con la santarellina non puoi mica farlo. Voglio vedere se le dici
che vuoi che vada in giro con il tuo sperma che le
cola tra le cosce. Pure davanti a mio marito Mico
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pretendesti che mi colasse sotto la gonna fino alle
caviglie.”
È vero, ma c’è un tempo per tutto e poi quella
femmina si prestava, sembrava impazzire dal piacere e dalla smania di tenerselo nel ventre. Uno come
me che di femmine ne ha avute assai, e diverse,
quando trova una cosí... Mio padre, buonanima,
però lo sapeva e non mancava di dirmelo
“Guarda che i fimmini ti rovinano, lasciale stare,
soprattutto quelle degli altri.”
Ma che minchia ci posso fare se godo di più quando guardo negli occhi quei cornuti dei loro mariti? Ho
finito col convincermi che in fondo fosse la mia rivalsa, l’unico modo per vincere ’sta cazzo di convinzione di essere un buono a nulla. Quelli si accattano la
terra, le case e io gli fotto le mogli. Poi in fondo non è
vero che non ci ho tentato, con Carmela avrebbe dovuto essere tutto diverso, quella non era una femmina da
letto e basta. Ricordo quando la vidi la prima volta.
“Cumpari Nenè non s’affinnissi, pj cosi boni ci
vonnu i dinari, ci sunnu conti, baroni che vengono
addirittura da Palermo per chiedermi la mano di
Carmela. Non lo sapete che pure il nipote del vescovo
la vuole come sposa, tanto che suo zio domenica,
dopo aver celebrato la santissima messa in onore del
santo protettore, l’ha voluta incontrare? L’ha ricevuta
come una gran dama, nella sacrestia. Cumpari non vi
dovete offendere, con tutto il rispetto che ho per vostro
padre, gran lavoratore. Ma non vi dissi mica ‘me figlio
Nenè quantu ti voglio bene, quannu ti fai ranni ti lassu
i magazzeni’. Questo, come si dice, non è proprio
pane per i vostri denti, mi capite cumparuzzu?”
Cosí me le cantò quella scema e io a insistere:
“Cummari, mi è parso che alla picciridda io non
fossi del tutto indifferente. Insomma, con gli occhi,
con gli sguardi veniva a cercare i miei e pure vostro
cugino mi ha confermato; io a vostra figlia piaccio.”
“Cumparuzzu con le vostre bellezze al negozio
per caso vi regalano il pane?”
Ci mancava pure ’sto cane che mi lecca. Adesso
gli tiro un calcio e lo faccio volare, ma sí lecca,
quasi mi dà sollievo la sua tiepida lingua, almeno mi
toglie le formiche di dosso.
Questo randagio dà l’impressione di bere ed è
piacevole la sua lingua morbida e calda che mi
toglie quel fastidioso prurito, quell’odore di medicinale che mi hanno lasciato addosso le formiche.
Quando la vidi la prima volta, sua madre pareva
dovesse far sposare una principessa. L’unica cosa
certa è che non ci saranno mai principesse più belle
di Carmela.
Rideva la scema quando le dissi che volevo sua
figlia.
Era il tono ridanciano, lo sfottò che usava per
canzonarmi che m’indusse a mancarle di rispetto.
Cosí senza riflettere dissi:
“Cummari, mi risulta che lei con la fissa la carne
se l’è assicurata.”
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Apriti cielo, si fece di mille colori. Mi maledisse
invocando santi che ignorava esistessero e mi mise
a tacere dicendo che pure io la carne la mangiavo,
direttamente, dal piatto di chi la vendeva. E se per
caso fossi rimasto l’unico pretendente, sua figlia
piuttosto l’avrebbe fatta suora, proprio come a
Maria.
negozio: alla fine neanche a un quinto del suo valore effettivo era riuscito più a interessarlo. Pareva che
tutto fosse stabilito, concluso. Il barone sembrava
convinto, aveva dato assicurazione, persino la sua
parola oltre che un simbolico acconto. Diceva che
era tutto a posto, doveva solo parlare con il padrone
dell’acqua. Invece più niente, neppure un saluto,
scomparsi tutti: lui, la sua corte, i fattori, i contadini
che voleva piazzarci. Più niente e nessuno.
Cucciolo si è quietato, ha deciso di farmi compagnia, si è accucciato qui accanto a me e sembra che
aspetti non so cosa, visto che non ho nulla da dargli
da mangiare purtroppo.
Ho sempre odiato i Ganzirri. Certo che compare
Alfonso Barile non lo teneva cosí ordinato, pulito,
potato. Anzi, la terra la stava perdendo; non aveva i
soldi per comprarsi l’acqua e ormai era quasi tutto
arido, ogni pianta di limone dava a occhio e croce un
decimo di quello che adesso matura su ogni piede.
Ora l’acqua c’è, ci sono pure i canali ordinati, puliti, niente va sprecato, neanche una goccia.
Sole dire mastro don Giovanni che se si ha
rispetto per la terra si ha rispetto pure per la vita. E
pensare che quando compare Barile è mancato, tutti
si erano fatti convinti che questo bellissimo appezzamento sarebbe finito con l’inaridire del tutto. Chi
l’avrebbe potuto acquistare; chi l’avrebbe fatto
rifiorire, con tutta l’acqua che necessitava. La vedova, disperata, aveva pure contattato il barone
Eduardo Calí di Girgenti, ma neppure con lui, che di
soldi ne ha e di terreni se ne intende, aveva chiuso il
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Quante lucertole attraversano la strada, sembrano sapere dove andare. Che animali strani che sono:
cosí timidi, sfuggenti, sempre di fretta, distratti. Il
cane si è messo a russare e mi protegge come farebbe con un suo osso.
Meno male che c’era mastro don Giovanni. La
terra non vale nulla di nulla se non c’è nessuno che
se ne occupi. Ecco perché, quando intuí che non ci
sarebbero stati più raccolti, che tutto sarebbe sfumato in rami secchi e la terra da grassa e profumosa sarebbe diventata solo sabbia, decise, sacrificando un suo antico credito con il defunto Alfonso
Barile, di accollarsi magnanimamente la proprietà
del feudo dei Ganzirri. Con tutti i problemi che
comportava recuperare e mettere a punto una terra
tanto immensa e redditizia quanto trascurata e più
vicina a inaridire che a sorridere di fiori profumati
e frutti grassi, mastro don Giovanni, nella sua enorme bontà la rilevò. Era l’ultima speranza della
vedova Barile.
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Bella donna, si ritrovava, lei che proveniva da
antiche famiglie di proprietari terrieri, da generazioni di possidenti, a dover quasi mendicare. Le rimaneva solo quell’ultimo e ingombrante rimasuglio di
terra arsa e secca che non riusciva a gestire, disorientata e persa in mille e più difficoltà. La terra era
tanta, ma da tempo aveva smesso di dare utili e inoltre rimaneva in piedi quel gravoso debito con cumpari Giovanni. Come onorarlo, se non consegnando
tutto al buon cuore del creditore, sperando, augurandosi che questi accettasse? Dopo una breve riflessione a riguardo, più che altro per il rispetto dovuto
a cumpari Barile, le terre tutte, la gestione, le tante
difficoltà finirono nelle mani dell’ ex campiere. Una
terra arida e incolta, se curata a dovere, senza risparmio d’acqua, avrebbe senza difficoltà, come poi
accadde, garantito a molte generazioni, a tante laboriose famiglie ricchezza e prosperità.
Ah, il buon cuore di mastro don Giovanni, uomo
giusto.
Ho pensieri che si rapprendono come siero grumoso e denso: figure irreali, gelide salgono al cervello, larve molli attaccate come arpie.
Gli occhi si chiudono, ma riesco ugualmente a
vedere, sento l’energia viva di ciò che mi circonda, il
laborioso vai e vieni delle formiche, il ruotare degli
occhi della lucertola, sempre timorosa e timida...
La sento ondeggiare a destra e sinistra, contrarre
la muscolatura del tronco, mentre fa leva sugli arti
che, saldi punti d’appoggio, spingono il corpo in
avanti. Sento le scaglie sul dorso sfregare tra loro, la
lingua bifida che si proietta, la preda succhiata,
bevuta, intrappolata in una presa sicura e mortale.
Non avverto più il freddo e ho paura di lasciarmi
trascinare in un sicuro sonno obliante... Vorrei
abbandonarmi. Qualcosa però mi suggerisce di
rimanere ancora sveglio. Ma che minchia di pericolo posso correre qui in questa solitudine, a quest’ora, ai Ganzirri?
Se solo avessi un po’ di forze andrei a casa, ma
sono stanco, stanco assai.
Ho la mente che si torce, si perde, va per suo conto
come gli intrecci dei rami di un ciliegio che si proiettano verso la luce, sovrapponendosi gli uni agli altri.
Ingarbugliata, intasata e stanca, la testa si serra:
tutto entra, ma nulla può uscirne.
Mi sento gonfio, sospeso, frugato da tanti tentacoli molli contemporaneamente, sono impigliato in
una ragnatela e la percezione del freddo bruciante si
fa sempre più lontana, appena avvertita; sono quasi
estraneo al mio corpo.
Avrei voluto esserci, avrei voluto vedere la facciona opulenta di don Michele Cosentino, il vescovo della provincia messinese, mentre il mite notaio
Calandra lo informava rammaricato e di certo
costernato che il terreno di contrada Roccabruna, da
anni feudo della famiglia del prelato, non era mai
stato rogitato.
Tra galantuomini una volta una stretta di mano
poteva bastare e l’accordo siglato non era più messo
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in discussione; un’intesa sancita tra uomini d’onore
valeva più di qualsiasi carta scritta. Ma le cose erano
cambiate.
I Ganzirri confinavano proprio con la tenuta di
Roccabruna e al catasto erano registrati come un’unica sconfinata proprietà.
Quanti grattacapo per mastro don Giovanni, cosí
riservato e schivo, figlio della terra stanca, della fatica callosa e secca, arsa e segnante, cosí lontano dalle
cose di legge e a disagio davanti a scritture, norme e
cavilli.
Tutti se ne erano convinti, ma don Cosentino
aveva smosso pure il papa, pareva non volesse sentire ragioni: Roccabruna era da sempre dei
Cosentino, mai e poi mai l’avrebbe abbandonata per
lasciarla proprio nelle mani di uno zotico, presuntuoso e ignorante. Proprio cosí lo aveva apostrofato
e c’ero anch’io quella mattina.
Mastro don Giovanni aveva chiesto proprio a me
di accompagnarlo, visto che Alfio e Santo avevano
altre cose da fare. L’irruenza irriverente e fastidiosa
del giovane nipote Michele, Michele come lo zio,
aggressivo prepotente, me la ricordo come se fosse
ora. Addirittura prese e gettò a terra il quaderno di
mastro don Giovanni, gridandogli duramente a non
più di un centimetro dalla faccia che poteva pulirsi
il culo con quel puzzolente quaderno. Mastro don
Giovanni fece spallucce e quasi sembrava più piccolo. Era calmo, quasi distaccato, come se la diatriba lo interessasse appena, quando si stava discutendo di una proprietà come i Ganzirri con annessa
masseria di duemila metri quadri, con una stalla
grande come la piazza del paese e più pulita di casa
mia.
A me, quel Michele Cosentino onestamente stava
proprio sui coglioni e non per gelosia, anche se
voleva sposare Carmela. Sentii crescere una rabbia
che non conoscevo, istintiva, proprio per la mancanza di rispetto di quel villano nei confronti di mastro
don Giovanni e misi mano al ferro infilato tra la cintura e i pantaloni. Mastro don Giovanni mi fulminò
con uno sguardo tagliente più di un rasoio, lo sguardo che sino a quel momento aveva riguardosamente
tenuto basso, umile, sottomesso, al punto che io
stesso rimasi stupito dall’insolita arrendevolezza di
un uomo che con la forza e la prepotenza aveva
imparato a farsi rispettare.
Ci aveva abituati con i suoi modi duri a risolvere
contenziosi con contadini, allevatori, fattori e quel
giorno si mostrava dimesso, ossequioso e contrapponeva una calma che strideva come un pugno in faccia
con la prepotenza dei Cosentino. Dopo avermi annichilito e fulminato, lentamente si piegò sulle ginocchia, raccolse il quaderno nero, con il dorso della
mano lo pulí, quindi lo ripose nella tasca interna della
giacca di velluto. Poi, dopo un attimo di esitazione che
a me parve eterno, diresse gli occhi penetranti come
chiodi sulla figura rubiconda del vescovo e prese a
parlare in maniera quasi impercettibile, pacata:
“Monsignore eccellentissimo, sono venuto umilmente per parlarvi di affari ma mi avete convinto che
oggi non è giornata. Ma non è detto che la notte non
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porti consiglio e magari a vossia gli viene gana di cambiare idea, e chissà, può accadere che domani mattina
voi stesso sentiate il desiderio di venirmi a cercare.
Sono convinto che a tutto ci sia un rimedio e sono sicuro che fra uomini ci si possa intendere e trovare una
soluzione equa a questa incresciosa vertenza.”
“Andate, andate fuori di qui,” ci congedò frettolosamente il Vescovo, ancora rosso in volto, tutto il
suo peso sui pugni che teneva appoggiati sul tavolo
della sacrestia, mentre il nipote irriverente minacciava sfrontato:
“Sí compare Giovanni, domani vengo io da voi,
ma per prendervi a calci, cafone di un contadino.”
Cafone di un contadino disse.
Uscimmo bastonati dalla sacrestia del vescovo e
stonava la calma di mastro don Giovanni per nulla
turbato. Serafico si premurò lui di tranquillizzare
me, ancora sbigottito ed esterrefatto dal malo modo
in cui eravamo stati trattati. Guardando avanti in un
punto imprecisato, mi disse:
“Vedi Nenè, questi sono affari e come tali vanno
trattati. Bisogna avere pazienza. Se oggi non c’erano le condizioni ideali, non è detto che domani non
sopraggiungano e chissà...”
Alfio e Santo erano sotto la canonica, come al
solito i due villani non proferirono verbo, collocandosi a sinistra e a destra di mastro don Giovanni che
nel congedarmi mi rassicurò ulteriormente:
“Vai a svagarti cu cummari Antonia Nicocrudo
che domani ho bisogno ancora di te.”
Quanti ricordi s’impastano come farina con l’acqua, mi si appiccicano tra le mani, ho voglia di
scrollarle. Debbo aver dormito un minuto, ne sono
certo, non percepisco più il freddo. Il cagnolino che
riposa vicino a me ha probabilmente abbaiato richiamando altri randagi. Chissà tra loro quanti fratelli,
chissà se riconoscono la loro stessa natura. Non ho
neanche la forza per scacciarli. Ho solo bisogno di
tranquillità; mi sento schiacciato sotto ’sto limone,
come incollato. Sono più putrido di un morto, con la
testa che lentamente si disfa in una progressiva
purulenza. Proprio questa sera che mi sentivo felice,
proprio adesso ho dovuto vedere il viso cupo, i modi
sgarbati di Alfio Cicala. Ma l’idiota sono io che l’ho
seguito, non proprio dietro, dato che emanava un
odore di marcio insopportabile, ma camminandogli
di fianco. Ignaro e leggero, non potevo certo immaginare...
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