La formazione di Gaeta e suoi studi di storia veneta

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La formazione di Gaeta e suoi studi di storia veneta
Marino Berengo
La formazione di Gaeta e suoi studi di storia veneta
in “Franco Gaeta: l’uomo, il maestro, lo storico”
a cura di Alberto Merola − L.U. Japadre Editore − L’Aquila-Roma
La prima delle scelte che verranno delineando e formando la fisionomia culturale e civile di
Franco Gaeta, avviene alla fine del 1943 quando, assieme ad alcuni compagni di liceo al
Marco Foscarini di Venezia, entra nel Partito d’Azione. La sua è un’opzione essenzialmente
antifascista, un modo di prender parte alla Resistenza in una delle città dove più diretto è il
controllo della Repubblica sociale e dei suoi organismi di governo e di polizia; ma è anche
una scelta partitica già consapevole. In quei mesi non era facile a nessuno (e non lo era certo
a un diciottenne) individuare la forza politica clandestina che si avvertiva come più
congeniale; e accedervi. Le circostanze schiudevano spesso varchi a militanze temporanee in
questo o quello schieramento, da cui si tendeva poi a defluire verso altre e più durature
collocazioni. Gaeta aderiva invece sin dall’inizio a quel partito laico, repubblicano, di
sinistra che, ricco di fermenti e di istanze anche conflittuali tra loro, stava attraendo tante
delle energie intellettuali italiane; e che era destinato si a breve vita, ma che significò per
molti un primo e risolutivo momento di svolta. A Venezia, come in Italia, all’indomani della
Liberazione, venivano emergendo sempre più chiare le due diverse anime che stentavano a
convivere nella nuova formazione politica: quella di tradizione liberal-democratica, ricca
spesso di cultura crociana; e quella di orientamento socialista, sensibile alle suggestioni
marxiste che, sebbene ancor poco conosciute da vicino, tanto forti si sentivano nell’aria.
Appassionato militante della sinistra azionista, attivissimo nei dibattiti di partito e nei primi
comizi che si tenevano nella città, Franco Gaeta dimostrava subito una connotazione
personale: era affascinato dalla cultura crociano, poco o punto interessato a quella marxista.
Quando, nel giugno del 1945, riapparvero nelle librerie quelle edizioni pubblicate a sud
della linea gotica, che da quasi due anni erano sparite dalla circolazione, Gaeta non conobbe
esitazione: quel che più di tutto voleva, erano i libri Laterza, le opere di Croce anzitutto, ma
subito dopo i volumi della Storia della filosofia di De Ruggiero e quelli, quanti più era
possibile averne, con la copertina bianca incorniciata dal fregio floreale, della celebre
collana “Biblioteca di Cultura moderna”. A procurarsi e poi leggere (cosa che in buona
misura successivamente fece) le pubblicazioni di Rinascita, non dimostrava fretta.
Della sua militanza azionista resta viva in me la memoria, ma si è persa ogni traccia
scritta. Il 18 novembre 1945 “Giustizia e Libertà”, il settimanale veneziano del partito,
pubblica un breve avviso di cronaca: “Lunedì scorso Franco Gaeta ha parlato sul tema
Tramonto di un’istituzione”. Si era trattato di un vivace profilo storico della soluzione
monarchica impressa al Risorgimento dalla “conquista sabauda”; e quindi di uno di quei
dotti ed estrosi comizi preparatori al referendum istituzionale che si infittivano nel primo
inverno della nuova vita democratica italiana. Alla grande prova elettorale del 2 giugno
1946, Gaeta arriva quando l’esperienza azionista si è ormai conclusa per lui ed è passato, con
una frazione della sinistra, nelle file socialiste.
Come si era trovato in minoranza nel P.d.A., vi si trova ora e con una tensione politica
ancor più vibrante e definita: la corrente saragatiana e quella nenniana si fronteggiavano; la
seconda deteneva il controllo della maggior parte delle federazioni e anche di quella di
Venezia. Non ci può stupire che il settimanale socialista veneziano, “Secolo nuovo”, ispirato
dalla sinistra del partito, aprisse con fatica le sue colonne al giovane studente di lettere. Lo
fece il 9 agosto 1946 ospitando l’articolo Istruzione e cultura laica: il primo scritto di Gaeta
che abbia visto la luce. L’occasione era offerta dalla nomina a ministro della P.I. di un
democristiano, l’on. Gonella, che stava suscitando roventi proteste in campo laico; e dalla
famosa definizione dell’on. Andreotti, che quella apertasi era una nuova fase della “lotta a
Cristo”. Siamo ancora una volta − scrive Gaeta − di fronte al “quesito, mai
soddisfacentemente risolto, che già gli uomini del Medioevo e i pensatori della Scolastica si
erano posti dopo averlo, nelle sue grandi linee, ereditato dai Padri e dagli apologisti: il
rapporto cioè tra una umana e profana cultura ed un insegnamento rivelato”. Nella difesa
della scuola laica il partito socialista poteva contare “come buoni alleati” su alcuni deputati
che sedevano nei banchi liberali, e poi su repubblicani, azionisti, demolaburisti; mentre per
la stampa periodica lo schieramento si rivelava ancora più ampio: dagli amati “Quaderni
della Critica”, Gaeta lo vedeva spaziare sino alla marxista “Società” passando, ben
s’intende, attraverso le due combattive riviste fiorentine di ispirazione azionista, “Il Ponte”
di Piero Calamandrei e “Belfagor” di Luigi Russo. Una battaglia importante, egli
concludeva, perchè “laicismo non è − come si vuol far credere − corruzione ed
anticristianesimo: è Umanesimo”; ed emerge da “una tradizione per la quale noi non
possiamo non dirci cristiani”.
L’articolo, così nutrito di linfe teoriche, non sfuggì all’attenzione di un avversario dalle
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idee decise e, sino a una schematica rigidezza, chiare: l’onorevole Pietro Lizier, un leader di
vocazione cattolico-conservatrice, il cui limpido antifascismo si era fermamente affermato
allorché nel 1925 era stato presidente nazionale della FUCI. Con un breve trafiletto,
Incoerenza, comparso su “Il Popolo del Veneto”, l’esponente democristiano ironizzava su
questo socialista-marxista che si professava così categoricamente crociano1.
Per Gaeta questo invito a far chiarezza sulle sue posizioni politico-culturali era il ben
venuto2: “non ci dimentichiamo affatto di essere marxisti, ma pensiamo essere il marxismo
un metodo (il metodo concreto della lotta di classe) e non una filosofia... Ci sia concesso
perciò augurare a Pietro Lizier di andare oltre le visuali dogmatiche nelle quali egli ci appare
tutto preso e di accostarsi con mentalità idealmente liberale (se laica può suonar male alle
sue orecchie) al pensiero moderno”. Rileggendo questa polemica oggi, dopo quarant’anni, è
difficile non dar ragione a Lizier: quella socialista poteva essere una casa grande, ma non lo
era abbastanza per contenere l’irrequietezza e la profonda, istintiva vocazione liberale di
Gaeta; la tematica marxista gli avrebbe offerto solo alcuni spunti, presto intieramente
riassorbiti.
Maturavano intanto i tempi della scissione, e quello che sarebbe uscito da Piazza
Barberini, il Partito socialista dei lavoratori italiani, era finalmente una formazione politica
adatta ad accogliere Gaeta, che per molti anni vi si sarebbe pienamente riconosciuto. La
federazione socialdemocratica, che si costituiva a Venezia tra il gennaio e il febbraio 1947,
aveva il suo glorioso e bonario Nestore in Gino Luzzatto, che vi confluiva dopo consumata la
breve esperienza di Democrazia repubblicana, vissuta con Ferruccio Parri e Ugo La Malfa
attraverso la prima scissione del Partito d’Azione; e aveva il suo forse più vivace polemista in
Altiero Spinelli; con loro c’era un gruppo di avvocati veneziani che avevano cementato tra
carcere e confino la propria fede riformista. Gaeta si trovava in buona compagnia, ed era
l’infaticabile redattore del settimanale “Rinascita socialista”. Gli articoli firmati o siglati da
lui nell’anno e mezzo di vita del giornale (dal l° febbraio 1947 al 2 giugno 1948) sono una
decina; ma gran parte di quelle colonne sono state composte sui tavoli della Marciana e della
Querini dalla sua rapida ed elegante mano.
I problemi ideologici e culturali restan di sfondo in questa intensa fase pubblicistica di
1
L’articolo di Lizier non mi è riuscito reperibile. Su di lui, la voce di B. BERTOLI, in Dizionario storico del
movimento cattolico in Italia, Marietti, Casale Monferrato, 1984, vol. III, parte I, p. 472.
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I due articoli di Gaeta in “Secolo Nuovo”, 9 agosto e 13 settembre 1946.
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Gaeta che è soprattutto attento ai nodi politici della situazione italiana: tutela che il partito
socialdemocratico deve assumere dei ceti medi che, dalla prima guerra mondiale in avanti,
costituiscono, assai più degli operai, il ceto più disagiato della società e “conducono grame
esistenze negli uffici o nelle scuole”3; esigenza centrista e laica contro il blocco filosovietico
socialcomunista e contro quella democrazia cristiana che “è il grande equivoco della scena
politica italiana”4; ma poi, col passare dei mesi, opportunità di un’intesa di governo tra
socialdemocratici e democristiani5. E ritornano gli interrogativi che accompagnano Gaeta sin
dai suoi primi anni di liceo e dalle sue prime prese di posizione; possono, si chiede nel marzo
del 1948 (alla vigilia delle elezioni del 18 aprile), degli intellettuali di formazione liberale e
addirittura crociana (l’allusione a Luigi Russo e a Gabriele Pepe non lascia adito a dubbi)
aderire al Fronte del popolo6? La risposta è evidentemente negativa; la via da seguire gli
appare chiara e del tutto diversa. Occorre che “il socialismo venga inteso, come noi lo
intendiamo, come un rinnovato umanesimo... inquadrato in una visione storicistica”7.
Il lucido laicismo crociano di Gaeta lo conduceva, sul piano politico, a soluzioni sempre
più centriste e moderate; ma proprio qui si annidava una contraddizione da cui non riuscirà a
liberarsi nemmeno nella competizione elettorale del 1953, condotta all’insegna della legge
maggioritaria. La vittoria del blocco di centro, in cui il Partito socialdemocratico tanto
confidava, non avrebbe sicuramente consegnato alla Democrazia cristiana la maggioranza
assoluta dei seggi parlamentati e quindi l’incontrastato controllo del paese? All’obiezione
tante volte mossagli nel corso di quei giorni e di quei mesi, Gaeta rispondeva ironicamente
che in Italia si affrontavano non due blocchi ma due chiese, quella cattolica e quella
comunista, vecchia la prima, giovane la seconda; e la vecchia gli appariva più facile da
correggere e da erodere con lo strumento dell’eresia. Lo stesso convincimento aveva nutrito,
con motivazioni e preoccupazioni non troppo diverse, Gaetano Salvemini che però, a urne
aperte e a legge maggioritaria sconfitta, si rallegrò di aver persa la partita, evitando così
quella clericalizzazione della vita italiana di cui gli pareva di aver, ad un tratto e quasi
d’improvviso, sottovalutata la pericolosità. Gaeta non si pentì, ma certo non nutrì neppure
rimpianti per quella battaglia combattuta e persa. La fase più impegnata della sua militanza
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Ceto medio + proletariato + democrazia, “Rinascita socialista”, numero unico, 1° febbraio 1947.
Giro d’orizzonte, ib., n. 5, 6 marzo 1947.
5
Governo balneare e, specialmente Intesa?, n. 31, 2 ottobre 1947 e n. 4, 22 gennaio 1948.
6
Intellettuali nel Fronte, ib., n. 9, 4 marzo 1948.
7
Noi e il Partito d’azione, ib., n. 11, 7 aprile 1947.
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politica si era conclusa; e gli interessi culturali riprendevano per lui il completo sopravvento.
Siamo giunti così, seguendo la linea di sviluppo politico di Gaeta, nel pieno degli anni
‘50; ma ora dobbiamo tornare un poco indietro, per cogliere la sua formazione culturale,
compiutasi con qualche obbligata gravitazione universitaria su Padova, ma con un forte
centro su Venezia e i suoi luoghi di ricerca e di studio. La filosofia crociana gli offriva una
rassicurante sistemazione complessiva che però, d’istinto, sentiva necessario proiettare sulla
conoscenza e la verifica di situazioni precise e concrete: studente in lettere, era avido di
letture metodologiche, ma il suo personale lavoro intendeva svolgerlo in un campo
specialistico. L’Archivio di Venezia gli apriva la sua agguerrita Scuola di paleografia ove,
lento ma instancabile, ferveva l’allestimento del Codice diplomatico veneziano, dalle prime
testimonianze documentarie sino alla fine del XII secolo. Gaeta scelse uno dei più antichi e
compatti tra i fondi monastici, quello di S. Lorenzo, e ne trascrisse tutte le carte antiche, con
un imponente apparato e una breve prefazione: scrivere a lungo su quei difficili testi gli
sembrava un fare inutile chiacchiere. Gli era così nata fra le mani quella che nel 1949
doveva essere la sua tesi di laurea; ma uno degli insondabili conflitti accademici padovani si
proiettò su quel suo accurato lavoro (che vedrà la luce 10 anni più tardi, nel 1959, e può
apparire un monolite isolato, quasi estraneo, a chi percorre oggi le pagine della sua
bibliografia) e la tesi fu respinta. Urgeva dunque un ripiego; e al disorientato studente la
porta fu schiusa con affettuosa tolleranza da un vecchio professore cattolico, un filosofo che il
fascismo aveva a lungo relegato a tener supplenze in campagna, Agostino Faggiotto che
insegnava Storia delle religioni. L’incrocio tra crocianesimo e socialismo perseguito da Gaeta
lo divertiva, e le sterminate letture di lui gli suggerivano un benevole rispetto per quel
giovane: scegliesse pure la tesi che preferiva. Fu così che Gaeta si orientò sul Valla: la
filologia, la critica testuale elaborata dalla cultura umanistica, nel momento in cui entrava al
servizio di una battaglia civile, quella contro la pretesa donazione di Costantino, e quindi
contro l’ingerenza della Chiesa negli affari del secolo. La tesi fu varata nell’estate del 1950
con molto successo, attraendo l’attenzione dell’italianista Raffaele Spongano che suggerirà,
negli anni seguenti, a Gaeta alcuni dei suoi lavori filologici (la edizione del Maio e quella del
Calogrosso fatta in collaborazione; lo scritto sulle Rime di Gaspare Visconti; alcune
recensioni): una circostanza esterna, la sfortunata presentazione di una tesi di laurea,
sembrava averlo dunque allontanato dagli archivi e non solo dalla paleografia ma fors’anche
dagli studi storici, avviandolo verso quelli letterari. Ma la bella tesi sul Valla stava per
rendere al suo autore il migliore dei servigi: l’ammissione a Napoli, all’Istituto per gli studi
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storici. Come nel ‘44 l’ambiente del suo liceo gli aveva schiuso nel Partito d’Azione la via più
giusta per lui; ora il giudizio favorevole di Federico Chabod gli dava l’accesso alla casa e alla
biblioteca di Croce. Per lui quella non era − come per molti dei suoi compagni, ormai
orientati o in senso marxistico o verso interessi economico-sociali − una semplice borsa di
studio; era la collocazione naturale e giusta.
A Napoli molte amicizie, l’avvio alle prime collaborazioni a “Lo Spettatore italiano” e a
“Il Mulino”, e un’entusiastica immersione negli studi umanistici, con qualche permanente
interesse verso il pensiero politico medievale (testimoniato dall’ampia recensione a Mochi
Onory). Ma anche questa volta, l’itinerario culturale era destinato se non a deviare, certo a
spostarsi e ad arricchirsi sotto la spinta delle circostanze. Vincitore di una cattedra di italiano
e storia negli Istituti tecnici (tenuta per alcuni mesi a Udine), Gaeta era subito incluso nella
terna della Scuola storica a Roma (con Pasquale Villani e Fausto Fonzi): e qui stava
decollando la grande impresa delle Nunziature italiane concepita da Chabod sul modello dei
Nuntiaturberichte. Occorreva attribuire a ciascuno il suo compito; e a Gaeta, ovviamente,
quasi di necessità, toccavano i nunzi a Venezia. Si riapriva così quella via degli archivi che,
da qualche anno, sembrava ormai abbandonata; ma non era più solo l’Archivio veneziano dei
Frari, era l’Archivio Vaticano, era quella Biblioteca Vaticana tra le cui sale e i cui codici per
trent’anni ancora, sino alla fine, Gaeta erigerà il suo soggiorno d’elezione.
Tra Roma e Venezia si apriva dunque il lungo ciclo degli studi veneti di Gaeta, che nel ‘58
avrebbe portato alla pubblicazione del primo volume delle Nunziature, ma che già da un paio
d’anni stava dando intensi frutti. Il problema tecnico di reperire il materiale disseminato
(specie per i decenni a cavallo tra Quattro e Cinquecento) in un imprevedibile numero di
biblioteche europee, di corredarlo con note esplicative, di ricostruire la lenta trasformazione
della collettoria pontificia a Venezia in rappresentanza stabile, e poi il funzionamento di
questa e la sua attività, dava la stura a una folla incontenibile di trouvailles e di ricerche
particolari. Il volume del ‘60 su Girolamo Aleandro deriva direttamente dal lavoro editoriale
e, solo a tratti, rivela interessi propri e spunti originali: in effetti, lo “scaltro diplomatico
pontificio” che ha gia tutto risolto nel suo cuore, non gli riesce simpatico, e quasi gli
preferisce il suo avversario, il patriarca Girolamo Querini “intollerante e intollerabile” sì, ma
uomo di istinti e di passione. È piuttosto il senso della frattura tra clero secolare e clero
regolare, provato da quel nunzio, che a Gaeta interessa cogliere: “se mai fu homo che si
impacciasse male volentieri di frati e di monache, io sono quello desso”, aveva scritto
l’Aleandro che preferiva lasciare i conventi all’ispezione del Consiglio dei Dieci.
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Un problema emergeva, sempre più complesso, dallo spoglio di quel materiale
diplomatico: qual era il ruolo nella vita veneziana che un uomo di Chiesa riconosceva a se
stesso; e qual era quello che la Repubblica intendeva conferirgli? Una risposta al quesito,
Gaeta la cercò in un piccolo e splendido trattatello, rimasto inedito alla British Library, il De
factionibus extinguendis composto, probabilmente intorno al 1498, da Pietro Barozzi vescovo
di Bergamo e (come quasi tutti i vescovi della Terraferma veneta) patrizio veneziano. Nella
città di cui è pastore, il Barozzi non intende cogliere il contenuto politico delle inestinguibili
contese che si tramandano dall’una all’altra generazione; a lui importa discutere il concetto
di fazione − osserva Gaeta − per concludere che il cristiano può prendervi parte solo a
difesa della religione e della giustizia; solo cioè quando la fazione cessa di essere veramente
tale. E quello che finisce con lo scrivere è un trattatello più di religione che non di politica.
Il volume curato da Gaeta aveva visto la luce nella primavera del 1958 e trovava subito un
inconsueto ed eccezionale lettore, il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli. Invitato
il 23 maggio a partecipare “ad un’ora di adorazione a S. Marco per iniziativa dell’Azione
Cattolica, ad implorazione di buon successo delle elezioni politiche”, egli scelse un tema
preciso e scottante, La civiltà cristiana nei contrasti della politica, e lo svolse attraverso un
richiamo al Barozzi, con quello spirito ecumenico che tanta luce avrebbe presto diffuso sul
suo imminente pontificato. “L’episcopus per lui non si confondeva cogli accorgimenti
mondani, atti a sedar le fazioni in lotta: piuttosto col fare appello alla coscienza umana e
cristiana del cittadino che − come conchiude molto bene un suo felice commentatore − non
sarà mai un fazioso finché terrà innanzi a se l’esempio di Cristo e mediterà soprattutto il
grande precetto dell’amore”. Gaeta credeva più nella civiltà della lotta politica, nella
tolleranza tra correnti e partiti, che non nell’amore cristiano ma aveva usato un linguaggio
che Giovanni XXIII aveva capito e amato8.
Il vero filo conduttore che percorre tutte le ricerche che, nel corso di un trentennio, Gaeta
ha dedicato alla storia veneta è però un altro, il mito di Venezia: un libro che intendeva
scrivere e non ci ha lasciato, ma la cui trama aveva, a più riprese e con continui mutamenti e
accrescimenti, nitidamente tracciato. In modo organico lo fece per la prima volta a Stoccolma
nel 1960, svolgendo una lontana suggestione provocatagli otto-nove anni prima da uno dei
ricchissimi seminari napoletani di Chabod. Il trapasso dalla “riputatione” al mito gli appare
8
Il testo è edito in A. G. RONCALLI, Scritti e discorsi..., a cura di L. CIAPPI, Edizioni Paoline, Roma, 1959,
vol. III, pp. 566-9.
7
con chiarezza riconoscibile a metà Quattrocento, quando Giorgio da Trebisonda (il
Trapezunzio) antepone alla repubblica di Platone la costituzione veneziana, che ha saputo
evitare il dominio di un tiranno creando un popolo di patrizi. Un mito cui la dura prova di
Cambrai fece da “catalizzatore”, ma che si era ormai fatto maturo.
A questa linea interpretativa replicò Alberto Tenenti, sottolineando il nesso comparativo
del mito veneziano con quello fiorentino e soprattutto il suo forte carattere conservatore.
“Non era la nostra libertà” rispondeva Gaeta, quella che la pubblicistica veneziana
sosteneva: ma quel mito, con il suo punto di forza, quello del governo misto, ebbe una
straordinaria circolazione europea e, nella storia della cultura italiana, fece da argine al
montare di due altri grandi miti, quelli dell’età dell’oro e del buon selvaggio9.
Nell’attenta analisi delle testimonianze che tra Quattro e Settecento gli osservatori
europei dedicavano alla costituzione veneziana, Gaeta tendeva gradualmente a trasferirsi dal
piano della storia delle idee − cui si era rigorosamente proposto di attenersi − a quello del
giudizio storico sulla natura stessa del governo veneziano. Nel 1981 osservava che al
Consiglio Maggiore d Firenze, prima e dopo Soderini, era mancata ogni reale efficacia perché
era “socialmente composito”, mentre ben diversa era stata a Venezia la funzione del Maggior
Consiglio; e questo perché “era in sostanza un consiglio di amministrazione o un comitato di
gestione di un unico ceto sociale”10. È così, si sarebbe tentati di osservare, che gradualmente,
quasi inavvertitamente, il mito di Venezia ha finito col conquistare anche il suo storico!
Sorvegliato e contenuto, così nelle sue emozioni come nella sua prosa, Gaeta non ha però
mai nascosto la sua umana simpatia per un personaggio e per una fonte che non si è stancato
di frequentare: Marin Sanudo. “La fame di notizie superava in Sanudo la capacità di
organizzarle in modo da ricavarne un racconto armoniosamente organico”, ma se debole era
il suo senso storico, forte e vivo era il suo senso della realtà:
“la consapevolezza di quanto stava accadendo era per lui vivissima”. L’appassionato
osservatore non si perdeva nell’elaborare dottrine: “se Venezia fosse un’aristocrazia, uno
stato misto o qualche altra cosa, non era un argomento che interessasse Sanudo: egli aveva
ben chiara la macchina dello Stato veneziano e il suo funzionamento”11.
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A. TENENTI, Studi di storia veneziana, “Rivista storica italiana”, 1963, p. 104. La replica di Gaeta nella
recensione a R. PECCHIOLI, Il mito di Venezia e la crisi fiorentina intorno al 1500, “Bollettino dell’Istituto di
storia della società e dello stato veneziano”, IV (1962), p. 391.
10
L’idea di Venezia, in “Storia della cultura veneta”, Vicenza, 1981, vol. III, parte III, p. 598.
11
Le due frasi di GAETA, ib., vol. III, parte I, p. 83; vol. III, parte III, p. 601.
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Chi di noi continua a frequentare l’ariosa saletta di storia veneta alla Marciana, ricorda
Gaeta passare con un volume del Sanudo sotto braccio: in compagnia di quel suo autore che,
senza ambizioni e senza astrazioni, aveva trasfuso la sua passione politica in una profonda
attenzione per gli uomini e le cose che sentiva vivere attorno a lui.
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