Cover Caterraduno - Letteratura rinnovabile
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Cover Caterraduno - Letteratura rinnovabile
COVERRADUNO: IL COVO DEI RISCRITTORI Cover letterarie da leggere e ascoltare. Votate la più bella UN PREMIO LETTERARIO DI RISCRITTURA Parole illuminanti è un premio letterario di riscrittura bandito da eni e Marcos y Marcos in collaborazione con Caterpillar. I concorrenti hanno scelto uno dei quattro brani proposti – di Victor Hugo, Joseph Conrad, Anton Čechov, Cristiano Cavina, tutti ambientati al buio – e hanno scritto la loro cover inserendo elementi luminosi. Una giuria formata da scrittori, giornalisti e editori ha selezionato otto cover, che verranno pubblicate in un’antologia. Il popolo del CaterRaduno premierà la cover più bella. Sul bloc-notes Parole illuminanti sono riportati integralmente i brani originali; su questo giornalino trovate sintesi e cover. Votare è facile: basta segnare con una crocetta la cover preferita sull’apposita scheda blu. Il vincitore sarà proclamato venerdì 2 alle 17, alla Terrazza Marconi Beach. compagnia teatrale Il Melograno di Senigallia, leggeranno i brani originali (ambientati al buio) e le otto libere riscritture illuminanti che si contendono il primo posto. Lunedì 28 Anton Čechov, Una brutta avventura Martedì 29 Victor Hugo, La piccina sola soletta Mercoledì 30 Joseph Conrad, Tifone Giovedì 1 Cristiano Cavina, Al buio Venerdì 2 girandola di frasi buie e illuminate COVERRADUNO ON THE BEACH Tutti i pomeriggi alle 17:15 appuntamento con Lucia Fraboni alla Terrazza Marconi Beach per giocare a riscrivere e trasformare i versi delle poesie che amiamo. COVERRADUNO MATTINA Dal 28 giugno al 2 luglio, tutti i giorni alle 12 in piazza Roma Catia Urbinelli e Marco Altimani, della Immagini, dall’alto: Massimo Cirri, una studentessa e Cristiano Cavina a Roma, Mercati Traianei, Mi illumino di meno (12 febbraio 2010); voto della giuria al Premio letterario Lampi di genio, Milano, 28 novembre 2009. Nelle pagine seguenti: riscrittori all’opera durante Lampi di genio. www.letteraturarinnovabile.com ANTON ČECHOV Una brutta avventura L’originale in pillole È notte fonda, il guardiano di un Vincenzo Squadroni 2 cimitero viene sorpreso da un viandante che dice di essersi smarrito. Il guardiano ha paura, ma accetta di accompagnarlo fino all’uscita per mostrargli la strada. Il viandante si prende gioco del guardiano, lo terrorizza spacciandosi per un fantasma e alla fine si rivela un ladruncolo incaricato di distrarre il guardiano mentre i complici saccheggiano il cimitero… Luogo: un cimitero di campagna Tempo: una notte buia Personaggi: il guardiano di un cimitero, un ladruncolo Intreccio: un ladruncolo si finge viandante smarrito per distrarre il guardiano di un cimitero mentre i complici lo saccheggiano. Una visita da ricordare La cover in pillole È ferragosto, il custode di un museo viene sorpreso da un turista che dice di essersi smarrito e di cercare disperatamente un bagno. Il custode non vorrebbe lasciare la sala, ma si lascia convincere ad accompagnarlo. Il turista si prende gioco del custode, lo terrorizza spacciandosi per De Lustris, l’artista autore del quadro prezioso su cui il custode vigila da anni, e alla fine si rivela un ladruncolo incaricato di distrarre il guardiano mentre i complici rubano la preziosa opera di De Lustris… Incipit Luogo: ala chiusa di un museo Tempo: ferragosto caldo e abbagliante Personaggi: il custode di un museo, un turista Intreccio: un ladruncolo si finge turista smarrito e disperatamente bisognoso di un bagno per distrarre il custode di un museo mentre i complici si portano via un quadro prezioso. hi va là?» Nessuna risposta. Il guardiano non vede niente, ma tra il rumore del vento e degli alberi sente chiaramente che qualcuno cammina, di fronte a lui, sul viale. La notte di marzo, colma di nuvole e nebbia, ha avvolto la terra, e al guardiano sembra che terra, cielo e lui stesso, con i suoi pensieri, si siano fusi in qualcosa di enorme, impenetrabile e nero. Si può andare solo tentoni. «Chi va là?» ripete il guardiano, e comincia a sembrargli di sentire anche un sussurro e un riso represso. «Chi è là?» «Sono io, babbino…» risponde una voce senile. «Io chi?» «Sono… un viandante». «Cosa vuoi essere un viandante?» grida, arrabbiato, il guardiano, che vuol mascherare con la rabbia la propria paura. he cosa fa qui?» Nessuna risposta. Il guardiano non sente niente, ma tra i riverberi dei faretti vede chiaramente la sagoma di una persona che entra dalla porta, in fondo alla sala. Le ferie estive hanno spopolato la città, e il guardiano, unica presenza umana nella grande ala chiusa del museo, si sente come se tutto il mondo intorno a lui fosse scomparso, dissolto dal bagliore della luce che da qualche ora gli sta infiammando gli occhi. Solo chiudendoli riesce a vederci. «Che fa qui?» ripete il guardiano, e gli sembra di intravedere, dietro la porta e in controluce, altre sagome scure che passano veloci e scompaiono subito. «Allora?» «Cercavo un bagno, signora guardia…» risponde una voce affannata. «Un bagno?» C C 3 «Un bagno… sono un turista». «Ma come un turista?» urla scocciato il guardiano, che non riesce a nascondere con la scocciatura il sollievo di quella visita dopo ore di solitudine. «Devi star proprio male. Per entrare a ferragosto, a quest’ora, nel museo». «Perché, questo è un museo?» «Certo che è un museo. Non li vedi i quadri?» «Ohi ohi ohi, Madonna mia» si vedono le gambe che tremano. «Io non resisto, signora guardia, non resisto più… tutto il giorno sotto il sole, a piedi, a bere e a sudare. E adesso un goccio d’acqua devo fare, signora guardia, mi devo proprio liberare. Ohi ohi». «Ma chi sei?» «Sono un visitatore, signora guardia, passo le vacanze in città». «Sciagurati che sono, disperati… e pure in vacanza stanno! Incontinenti…» sussurra il guardiano, che a forza di star solo ha perso le buone maniere. «Ti fanno esaurire! Lavorano tutto l’anno, e a ferragosto si vengono a sfogare con l’arte. Però ho visto… mi sembrava che c’erano altre persone, dietro di te. Siete un gruppo organizzato?» «Sono solo, signora guardia, proprio solo. Un turista fai-da- te. Ohi ohi ohi ho un’esigenza…» Il guardiano sbatte contro la sagoma e si ferma. «E come sei finito qui, turista?» «Mi sono perso, signore. Cercavo l’Albergo Commercio, dove ho una camera con bagno, e mi sono perso». «Complimenti! E questo ti sembra l’Albergo Commercio? Che razza di capra! Per l’albergo bisogna continuare dritto, lungo il viale, poi al terzo semaforo prendere a destra per Via della Fiera, poi fino in fondo: lì inizia il Quartiere Mercati. L’albergo lo trovi dopo pochi isolati. Tu dovevi star proprio male, hai accorciato minimo di un chilometro. Ti porti dietro un bello stimolo, mi pare». «Uno stimolo, signora guardia, davvero… in realtà, diciamo pure che sto scoppiando. Ecco, io scoppio qui davanti a lei, se non mi dice dove trovo un bagno». «Allora, turista, vai dritto per questo corridoio, finché non arrivi alla Sala delle Statue. La attraversi tutta, prendi la porta a destra, scendi le scale e ti ritrovi davanti a una porta con la scritta Privato. Lì c’è un bagno, è il più vicino… fai quello che devi fare, poi richiudi. Davanti a questa porta ce n’è un’altra. È l’uscita di sicurezza. Stai attento allo scalino. Una volta fuori dal museo, per l’Albergo Commercio, attraversi il cortile del museo, e ti ritrovi sul viale. Da lì, primo semaforo, secondo semaforo, terzo semaforo a destra, e ti fai tutta Via della Fiera». «Non so come ringraziarla, signora guardia. Che siano benedette tutte le guardie, tutti i musei e tutta l’arte del mondo! E se mi accompagna, gentile guardia? Per favore, fino al bagno». «Ma ti pare? Io devo controllare questa sala, lo vedi quel quadro? È l’opera più importante del museo. È del grande pittore De Lustris, e proprio quest’anno ricorre l’anniversario della sua nascita». «Capisco… ma io la prego, signora guardia. Per favore, sia gentile. Non riesco quasi a camminare… non resisto più, signora guardia. Ohi ohi! Mi accompagni, sia gentile». «Ma io devo star qui, non posso lasciare la sala! Se mi metto a guidare tutti i turisti, farei la guida turistica, e non la guardia del museo!» «La prego, mi accompagni. Sto male e non conosco le stanze del museo, da solo mi perderei. Ho un’esigenza tremenda, non riesco neanche a camminare. Uno stimolo, signora guardia, sto per scoppiare». «Ma che tarlo che sei» sospi- ra il guardiano «va bene, andiamo». Il guardiano accende le luci del corridoio, e fa cenno al visitatore di muoversi. Il visitatore, instabile sulle gambe, si appoggia con un braccio sulla spalla del guardiano, e così camminano nel corridoio, senza dire niente. L’aria condizionata, fredda e tagliente, esce dalle bocchette del soffitto, investendoli dall’alto, mentre delle piante di origine tropicale, sistemate lungo le pareti, li punzecchiano con le loro foglie appuntite. Il corridoio, affrescato con tinte chiare, ha un pavimento di linoleum appena lucidato. «C’è una cosa che ancora non ho capito» dice il guardiano dopo qualche minuto di silenzio «come sei finito qui? Quest’ala del museo è chiusa al pubblico. Non avrai mica saltato i cordoni di sicurezza? C’è scritto VIETATO sul cartellino, un turista dovrebbe saperle queste cose». «Non so, signora guardia, non mi rendo conto. Non so proprio come ci son finito, qui. È lo stimolo, che mi perseguita. Tutti i bar chiusi, e io che mi porto dietro l’esigenza da un bel po’. Ma lei, signora guardia, allora lei è il guardiano del museo?» «Sono il guardiano». «Da solo in tutto il museo?» 4 L’aria condizionata è così forte, che entrambi si fermano un momento, tra una bocchetta e l’altra. Il guardiano, dopo aver superato il getto d’aria, risponde: «Siamo in tre, qui, ma uno è in ferie con la moglie, e l’altro è nell’altra ala del museo, quella aperta. Ci diamo il cambio ogni quattro ore, ormai tra poco mi tocca andare di là». «Ecco, signora guardia, ecco. Sentito che aria fresca? Forse, anche le statue la sentono. Sono spifferi gelidi, questi qui, che mi fanno stare ancor più male… ohi ohi». «Ma tu da dove vieni?» «Non da lontano, signora guardia. Sono del Distretto Marittimo, io, un’ottantina di chilometri da qui. Vado per città d’arte, appena posso, e scappo dalle spiagge affollate della provincia. Pensi che non so neanche nuotare!» Il guardiano si ferma un attimo, alla fine del corridoio, per spegnere le luci. Poi apre una porta dove c’è scritto SALA DELLE STATUE, e spinge il visitatore dentro la sala. Nella sala, le grandi vetrate delle finestre fanno entrare le luci che provengono dalla città. Un chiarore tenue, dovuto alle lampade dei lampioni accesi lungo il viale, si diffonde per tutto lo spazio filtrato dalle tende bianche, e si posa sopra i busti di marmo, immobili. Qualche macchina che passa per strada proietta sulle pareti i riflessi dei suoi fari, come lampi a intermittenza che per alcuni istanti fanno splendere a giorno la sala. Un riflesso scorre sul viso dei due, che si fermano e si guardano. «Ci guardano, le statue, ci guardano fisse» sospira il visitatore, togliendo il braccio dalla spalla del guardiano. «Ci guardano gli imperatori, e i filosofi, e i grandi scienziati, e i condottieri, e i poeti illustri, e pure i sovrani. Molti dei più grandi uomini della storia stanno qui davanti a noi. Grazie a queste statue, il mondo si ricorderà sempre di loro, e le loro azioni rimarranno come esempio. È così che vivranno in eterno». «E già, i grandi uomini ci guardano, e noi due…» fa il guardiano «…noi due intanto cerchiamo un bagno. Che uomini insignificanti che siamo! Un guardiano che accompagna in bagno un turista». «È proprio vero, uomini inutili siamo. Piccoli, insignificanti, con le nostre azioni piccole, inutili, meschine. Ohi ohi. La mia anima meschina, il mio corpo debole, uomo misero che sono! Nessuno si ricorderà di me, né adesso, né quando sarò morto. Insignificante come un pezzo di marmo prima di essere scolpito». «Sì, bisogna lasciare una traccia del proprio passaggio». «Sì sì, bisogna». «Per un turista, forse, è ancora più difficile lasciare un ricordo…» dice il guardiano sorridendo. «Di turisti ce ne sono tanti. Ci sono quelli appassionati, artisti loro stessi, che girano per musei e poi una volta a casa si mettono a dipingere, fanno dei quadri che rimangono ai posteri, e ci sono quelli inutili, che si perdono nelle città in cerca di alberghi, o di bar per orinare! E c’è anche quello, un turista, che ti dà una schioppettata, e ti manda all’altro mondo!» «Perché dici queste cose?» «Ma così… Ecco, siamo arrivati in fondo alla sala. Questa dev’essere la porta che dà sulle scale. La apra pure, signora guardia». Il guardiano apre la porta, spinge fuori il visitatore e lo regge fino alla fine delle scale. «E qui finalmente c’è il bagno» dice il guardiano. «Fai quello che devi fare, poi richiudi e prendi quell’uscita. Stai attento allo scalino, lo vedi, no? Quando sei fuori, attraversi il cortile, e ti ritrovi sul viale. Da lì, primo semaforo, secondo semaforo, terzo semaforo a destra, ti fai tutta Via della Fiera, e sei all’albergo». «Ohi ohi…» sospira il visitatore, dopo un po’ di silenzio. «Però adesso mi sembra quasi che non ho più lo stimolo, di andare in bagno… Perché dovrei andare in bagno, se non sento più l’esigenza? È meglio, signora guardia, se resto qui con lei…» «Perché dovresti restare qui con me?» «Ma così… per fare altri discorsi». «Sì, altri discorsi! Ma di che vuoi parlare ancora? Turista, ti piace scherzare a te…» «Certo che mi piace!» dice il visitatore, con un sorrisetto. «Ah, lei, mia cara signora guardia! Forse si ricorderà per sempre di questo turista». «Perché mi devo ricordare di un turista?» «Be’, così… l’ho presa in giro bene… Secondo lei sono un turista, io? Non sono per niente un turista». «Chi sei?» «Un pittore famoso… che dovresti conoscere bene. Hai presente il De Lustris, che sorvegli tutti i giorni con tanta attenzione? Ecco, io sono proprio l’autore del quadro che hai sempre sotto gli occhi. Sono Loris De Lustris». «Mi prendi in giro». Il guardiano non ci crede, ma prova un imbarazzo così forte, un vero e proprio sgomento, che si stacca dall’altro avvicinandosi all’uscita di sicurezza. «Stai fermo, dove vai?» dice il visitatore prendendolo per 5 un braccio. «Ti sembra il modo questo, di trattare un grande artista?» «Mi lasci!» grida il guardiano, sforzandosi di liberare il braccio. «Stai fermo! Ti ordino di stare fermo… E non scappare, stupido ometto! Se vuoi vivere ancora, devi stare fermo e muto, finché io te lo ordino… Non mi va di ammazzare qualcuno la sera di ferragosto, altrimenti l’avrei fatto già da un pezzo, omuncolo che non sei altro!» Il guardiano si sente svenire. Chiude gli occhi terrorizzato e, tremando in tutto il corpo, si appoggia alla porta del bagno. Vorrebbe urlare, ma sa che il suo grido non arriverebbe all’altra ala del museo… Vicino a lui sta il visitatore e lo tiene per un braccio. Passano tre minuti di silenzio. «Uno è in ferie con la moglie, l’altro sta nell’altra ala a fare i fatti suoi, e il terzo accompagna in bagno i turisti» borbotta il visitatore. «Dei bei guardiani siete, gli si potrebbe pagare lo straordinario! E no, fratello, i ladri sono sempre stati più svelti delle guardie! Stai ancora fermo, non muoverti…» Passano in silenzio cinque, dieci minuti. All’improvviso dal taschino del visitatore esce un bip. «Be’, adesso vai» dice il visitatore, lasciando il braccio. «Torna alle tue opere d’arte, e ringrazia che non t’ho ammazzato». Il visitatore prende dal taschino un trasmettitore, e preme a sua volta un tasto che emette un bip. Poi apre l’uscita di sicurezza, supera indenne lo scalino e di corsa sparisce nel cortile. Il guardiano, tremando ancora per lo spavento e preso da uno strano presentimento, torna indietro risalendo le scale di corsa, attraversa la Sala delle Statue, sempre di corsa, e tutto il corridoio. Mentre sta per entrare nella sua sala, sente dei passi e una voce provenire dall’altro lato del corridoio. «Sono qui, Luigi! Faccio un sopralluogo nel Salone delle Nature Morte, e poi vengo a darti il cambio». Entrato nella sala, il guardiano nota un faretto spostato rispetto al solito. Non è rivolto verso la parete, ma punta verso di lui, dritto negli occhi, e quasi lo acceca. Più si avvicina alla parete, più la luce si fa forte e più aumenta il presentimento di qualcosa di brutto. «Non riesco a vedere, qualcuno ha spostato il faretto. Ma la parete, Madonna santa, sembra diversa… Oddio, è proprio così!» Per un minuto il guardiano sta immobile, fisso, davanti alla parete vuota, e con terrore guarda il vuoto: una grande chiazza rettangolare di un metro e mezzo per un metro circa, di un bianco più chiaro rispetto al resto della parete. Una zona rimasta protetta da molto tempo dietro il famoso quadro, e ora finalmente visibile, completamente pulita, senza più il quadro che la copriva. Passa ancora un po’ di tempo, e il passaggio di un motorino, lungo la strada, diffonde per la sala il rombo attutito di una marmitta truccata. JOSEPH CONRAD Tifone una moltitudine, come se io fossi l’umaL’originale in pillole Simone Lisi nità. Dice proprio così: «Voialtri dovreUn uragano toglie ogni luce, sradica 6 tutto, separa con violenza anche i marinai. Il giovane Jukes non ha mai visto niente di simile, quasi non crede di essere ancora vivo. Abbarbicato a un albero della nave, attende che la furia cali, ma viene sbalzato in acqua da un’onda gigantesca. In mezzo ai flutti, in pieno oceano, intravede il capitano MacWhirr: i due si abbracciano e si sostengono a vicenda. Luogo: oceano Tempo: una notte qualsiasi Personaggi: il capitano di una nave, il suo secondo, marinai Intreccio: nel turbine di un uragano senza precedenti, un giovane secondo viene sbalzato in mare da un’onda ciclopica, e lì ritrova e abbraccia il suo capitano. Incipit ukes era sveglio né più né meno come qualsiasi manciata di giovani pescati gettando la rete in mare; e per quanto fosse stato colto piuttosto di sorpresa dall’impressionante brutalità della prima raffica, si era riavuto all’istante, aveva chiamato l’equipaggio e ordinato la chiusura di tutte le aperture in coperta che non fossero già state assicurate nel corso della serata. Gridando con voce fresca e stentorea: «Su, svelti, ragazzi, datevi da fare!» dirigeva l’azione, continuando a ripetersi che lui “se l’aspettava”. J I coinquilini di Joseph La cover in pillole Secondo Vanni Raul, l’umanità si dibatte in un turbine di ignoranza e complotti. E il suo malcapitato inquilino, per chiarirsi le idee e farlo contento, anziché godersi la lettura di Conrad deve immergersi in una seduta di ipnosi, durante la quale viene a galla una tempestosa vacanza con il padre divorziato: uno gioca a fare il capitano, l’altro il luogotenente. Alla fine, non è chiaro se sia più tempestoso il passato, o il presente. Luogo: un bilocale, un campeggio Tempo: un pomeriggio qualsiasi di una settimana al mare Personaggi: giovani coinquilini, un padre divorziato Intreccio: nel corso di una improbabile seduta di ipnosi tra coinquilini, un giovane ricostruisce una ‘conradiana’ tempesta vissuta in campeggio con il padre. accio questa cosa con Vanni Raul. Chi è Vanni Raul? Vanni Raul è il mio coinquilino complottista. Ultimamente ha un po’ smesso con questa cazzata dei complotti, tutto il giorno in camera a leggere dell’undici settembre, scie chimiche, massoneria, ecc., e poi in cucina a pontificare su noialtri che viviamo nell’oscurità e non sappiamo niente di come va il mondo. Io non avrei proprio niente contro Vanni Raul: è solo che non sopporto che si rivolga a me, perché ci sono solo io, come se fossimo F ste aprire gli occhi. Dovete smettere di vivere nella menzogna». E io allora stancamente gli rispondo che sì, che in effetti noialtri viviamo nell’oscurità e che non capiamo niente di come va il mondo e della vera realtà delle cose, ma che siamo un attimo occupati, tutti quanti noi, che per l’appunto stiamo leggendo un libro, di Conrad, e ci piace molto, e non vorremmo essere disturbati. Ma questo da un po’ non succede più perché ultimamente Vanni Raul ha lasciato perdere i complotti e si occupa di ipnosi. Giorni interi chiuso in camera a leggere roba su internet: uno stato di autismo che mi fa un po’ preoccupare, ma ormai lo conosco e passerà anche questa. Va bene. Allora faccio questa cosa con Vanni Raul, perché dopo un po’ è uscito dalla stanza e ha bisogno di una cavia. Si rivolge dunque a noi umani chiedendoci se abbiamo un qualche ricordo traumatico che vogliamo rivivere in trance. Francamente noi faremmo anche a meno, rispondiamo. Ma poi insiste, la butta sulla sfida e allora faccio questa cosa, perché non resisto alle sfide o perché sono un po’ autistico anche io, insomma anche noi. O forse perché in effetti un ricordo traumatico ce l’abbiamo, ce l’ho, e perché non credo a niente di quello che mi dice Vanni Raul e voglio che tutta questa stronzata finisca, i complotti, la lettiera merdosa del gatto, le bollette dell’Eni, e ora anche l’ipnosi. Me ne devo andare da questa fogna. Allora ci mettiamo in cucina, una sedia davanti all’altra. Lui parla con un tono di voce basso e 7 pacato e io un po’ lo ascolto e un po’ continuo a pensare sempre la stessa cosa: coglione. Finisce che sono in questa stanza che è la mia mente, c’è uno schermo e io devo pensare al mio ricordo come se fosse proiettato su quello schermo. Sono bambino. Sono su una spiaggia con mio padre. Sono un bambino felice, normale, forse un po’ triste, ma normale e me ne sto su questa spiaggia della Puglia con mio padre. Però il tempo cambia all’improvviso, si alza un vento dal mare e arrivano delle nuvole che non c’erano un attimo prima. La gente non se ne cura e noi nemmeno. Però poi si fa buio, sempre così, dal niente, quasi a caso. E la gente e noi ci facciamo caso. E a questo punto, ecco la cosa vera: dal mare compare qualcosa, è piccolo al principio, ma cresce. Si avvicina verso di noi. È una tromba d’aria. La gente urla, l’uragano. Io non ho paura però, perché sono di quei bambini coi genitori separati che già ne hanno viste di tutte, le liti notturne, i nuovi amori, il mondo non è un posto rassicurante, il mondo è un posto ostile e non si sa mai che cosa può succedere da un momento all’altro. Non ho paura perché c’è mio padre. Vanni Raul mi interrompe: «Te lo chiami?» «Certo che lo chiamo, Vanni, sono un bambino, ho paura, e allora lo chiamo e gli chiedo cosa sta succedendo e che cosa facciamo». «E come lo chiami?» «Lo chiamavo il Comandante. A lui piaceva e anche a me. Eravamo lì in campeggio e c’era questa stronzata padrefiglio dell’essere una sorta di squadra. Quelle cazzate lì». «Va bene, continua». E io allora continuo. Tutti corrono e allora corriamo anche noi. Comincia anche a piovere e noi arriviamo alla tenda sotto gli alberi del campeggio, davanti la nostra macchina. Lui mi fa salire in macchina, mi dice qualcosa che non ricordo. «Vuoi che ti faccia ricordare cosa ti ha detto tuo padre?» «No, voglio finire di raccontarti ’sta storia, se mi lasci parlare». «Non ti devi opporre all’ipnotizzatore, così ostacoli il fluire della trance». «Sì, va bene, Vanni. Vorrei solo dirti come è finita la storia». È buio ora, dentro la stanza buia che è la mia mente. Ed è buio anche lo schermo su cui dovrebbe proiettarsi il mio ricordo. Ma io lo so che sono sempre quel bambino dentro la macchina, che guarda tutta la scena dai finestrini, e ancora le gocce di pioggia che si uniscono al sudore freddo che cola nella canottiera. Vorrei divagare, parlare di quella canottiera di un io bambino. Me la ricordo celestina o forse color pesca, uno di quei colori pastello che fanno così infanzia al mare. Una di quelle canottiere con sopra disegnato un elefante, con la corona, disegnato sempre con dei colori pastello. «E che vedi adesso?» «Vedo il Comandante». Il Comandante si dibatte tra il vento e gli scrosci di pioggia. Il tifone è vicino. La pineta squassata, alberi che cadono, e lui si ostina a rimanere lì fuori, per reggere la nostra canadese – care tende dei tempi passati – per far sì che non sia trasportata via dalla tromba d’aria. Io forse un po’ urlo, certamente piango. Il Comandante ha altro a cui pensare, lotta contro gli elementi e io penso, per un momento, che non ha senso niente e che gli servirebbero quattro braccia, come Shiva, e la mole di un elefante, quello della mia canottiera, per far sì che la canadese e lui stesso non siano portati via dal vento. Ho le mie mani da bambino appoggiate ai finestrini, mani piccole e tozze, mani senza graffi, senza i calli, senza i tagli e le cicatrici di oggi. Vorrei ancora divagare, parlare delle mie ma- ni sullo schermo che è ancora nero, e a tratti illuminato dai lampi, e la faccia contratta del Comandante con la sua maglietta da fricchettone Think Pink, California. Le mie mani sullo schermo nero nella stanza nera che è la mia mente. «Smetti di cazzeggiare sulle tue mani di bambino. Che hai fatto dopo?» «Eccheccazzo, Vanni, sono ipnotizzato. Un attimo. Che ho fatto dopo? Ora te lo dico: dopo sono uscito dalla macchina». Apro la portiera, con le mie piccole mani da bambino, quelle mani paffutelle, che ancora non hanno conosciuto i lavori umilianti, gli acidi corrosivi per pulire i bagni dei teatri, non hanno le cicatrici dei bicchieri rotti ad asciugarli dopo ore di lavoro nelle osterie di periferia, quelle mani di bambino che hanno visto solo la sabbia». «E basta con ’sta cazzata delle tue mani di te bambino! Niente. L’ipnosi non è riuscita. Ti sei opposto all’ipnosi e per questo non ha funzionato. La prima regola dell’ipnosi è che uno deve voler essere ipnotizzato. Se ci si oppone, non riesce». «Stronzate. Sei te che non sei in grado. Credi che basti un corso di ipnosi su Youtube per saperlo fare. Pensi che i blog 8 che leggi su internet abbiano un valore di verità o attendibilità minimamente superiore a quello che leggiamo sui giornali? Non pensi che sarebbe il caso di lasciar perdere la situazione in Iran e rivolgere la tua attenzione alla lettiera di Amy Forster?» Allora mi alzo dalla sedia e si alza anche lui. Bevo dell’acqua e accendo una Camel gialla al fornello ché gli accendini della casa spariscono come risucchiati dai buchi neri di cui parla, a volte, Vanni Raul. Poi gli chiedo scusa. Gli dico che in fondo della merda del gatto non me ne frega niente, che ha ragione, ci sono cose più importanti. «Hai ragione te, sai. È stato orribile quello che hanno fatto al Cucchi. E Pier Paolo aveva già capito tutto trent’anni fa». Gli offro una sigaretta, e questo è il modo in cui di solito faccio la pace con Vanni Raul. «Ma com’è andata a finire la storia del Comandante?» «Niente. Io sono corso da lui. Lui mi ha sorriso e mi ha detto che il peggio non arriva mai tutto insieme». «E che vorrebbe dire?» «Che per illuminare quella storia mi ci sarebbero voluti quindici anni, penso». E per rielaborare questo presente almeno il doppio. Filippo Avigo L’ultima vacanza La cover in pillole Un uragano sta per travolgere una grande banca. Dirigenti, migliaia di lavoratori, azionisti coleranno a picco se non si vende subito a un odiato gruppo spagnolo. Forse non sarà sufficiente. Al termine di un angosciante vertice a bordo di un lussuoso yacht, il direttore generale si tuffa per un bagno. Quando risale a bordo e abbraccia l’AD, tocca con mano che ogni possibile rimedio, maneggio o avventura è davvero alle spalle. Luogo: uno yacht sul mare Egeo Tempo: un luminoso pomeriggio di agosto Personaggi: top management di una grande banca Intreccio: un tifone senza precedenti sta per travolgere una grande banca. O si vende, o si sprofonda. Risalendo a bordo dello yacht dopo un ultimo bagno, anche il tenace direttore generale si rende conto che tutto è davvero finito. iudici era già sveglio. Come solo dopo un buon caffè e una bella pippata si può essere svegli, anche se la notte prima non si è dormito più di un paio d’ore. E non l’aveva sorpreso più di tanto la telefonata del direttore finanziario, ricevuta poco dopo il mezzogiorno di una luminosa giornata di fine agosto, sullo yacht da centoventimila euro a settimana noleggiato per la meritata vacanza. “Ragazzi, riunione!” gridò ai suoi collaboratori, che come ogni estate avevano accet- G tato di buon grado di continuare a frequentare i capi anche in vacanza. Erano ancora immersi nella penombra delle loro cabine, ammucchiati a casaccio con le tipe raccattate il giorno prima a Santorini, ma presto, come erano soliti fare in qualsiasi circostanza, si sarebbero presentati a rapporto. “Me l’aspettavo” continuava a ripetersi Giudici, ma iniziava a rendersi conto che in realtà non se l’aspettava per niente. Le prime parole sibilate al telefono dal direttore finanziario erano bastate a fargli capire che la situazione era ben più grave di quanto avesse mai potuto immaginare. Iniziò a pensare che questa volta non se la sarebbero cavata come in altre occasioni, che oliare un po’ gli ingranaggi e attivare i contatti giusti non sarebbe stato sufficiente a risolvere il problema. Mentre cercava di spiegare la situazione all’amministratore delegato, salito nel frattempo sul ponte dello yacht, il cielo si era fatto di un azzurro limpidissimo, attraversato dalla brezza leggera che aveva dissolto anche le ultime sfilacciate nubi all’orizzonte. Giudici era felice di lavorare con il dottor Palatino, amministratore delegato fin dai tempi in cui era stato assunto. Aveva avuto l’occasione di conoscerlo di persona già il primo anno, quando gli si presentò spontaneamente durante una cena che si tenne nel corso di una convention aziendale a cui aveva avuto la fortuna di partecipare. Non aveva fatto pesare in alcun modo il suo ruolo e da subito aveva trasmesso la stessa sensazione di grande sicurezza che anche ora, a distanza di anni, continuava a infondergli. Era come se il solo fatto di averlo accanto potesse scongiurare qualsiasi evento negativo. La sua leadership era una dote innata ed era talmente naturale riconoscerla in tutti i suoi atteggiamenti che 9 non gliela invidiava neppure. Era semplicemente orgoglioso di lavorare per lui. L’amministratore delegato, o meglio, come si diceva, l’AD, non aveva a sua volta un punto di riferimento. Il destino di un vero capo è quello di essere solo. E lui, nella sua solitudine, stava cercando di capire dal racconto di Giudici e da quello che già da tempo sapeva, se l’unica prospettiva della Banca – una delle più grandi a livello nazionale – fosse davvero il fallimento. Gli enormi debiti contratti per finanziare il piano di espansione erano diventati insostenibili, alla luce di una riduzione dei ricavi ormai strutturale e di un patrimonio ridotto a dimensioni da Credito Cooperativo. Per un attimo gli balenò il pensiero di se stesso costretto a spostarsi senza autista per il week-end da Milano a Portofino, delle prossime vacanze su una barchetta modesta probabilmente priva di equipaggio, dei milioni di euro di bonus completamente azzerati… Era abituato a ragionare in silenzio sulle cose. Non aveva mai perso la sua capacità di analisi, nonostante fosse chiamato continuamente a prendere decisioni immediate. Giudici gli diede una pacca sulla spalla, sorridendo: “Siamo in un bel casino, questa volta!” Il blackberry di Palatino si mise a vibrare sul tavolo apparecchiato per la prima colazione. Anche i tre collaboratori che nel frattempo erano saliti sul ponte rimasero immobili, con gli occhiali scuri fissi sulle tazzine di caffè. Forse al direttore finanziario non era sufficiente la telefonata di poco prima con cui aveva informato il direttore generale Giudici. Riteneva necessario parlare di persona con l’amministratore delegato. Ma non era il direttore finanziario che chiamava. E comunque Palatino rispose con freddezza al presidente, come se fosse già al corrente di tutto. Le catastrofi si possono propagare rapidamente via etere, rimbalzando i loro effetti devastanti da un telefono all’altro. Giudici non ci credeva. Si convinse di stare vivendo uno dei suoi soliti incubi. L’unica prospettiva per salvare l’azienda dal fallimento era quella di cederla a un famelico – e odiatissimo – gruppo bancario spagnolo, che sarebbe stato disposto ad accollarsi gran parte dei debiti solo in cambio della garanzia di poter intervenire drasticamente nella gestione. E questo voleva dire almeno quindicimila dipendenti licenziati utilizzando le procedure d’urgenza applicabili in situazioni di crisi conclamata e, soprattutto, tutta la prima linea manageriale azzerata. Solo così si poteva concludere l’operazione e non penalizzare eccessivamente gli azionisti, che negli ultimi sei mesi avevano visto diminuire del settanta percento il valore del titolo in borsa. Giudici si considerava giovane. Non aveva ancora quarant’anni. Ma di crisi finanziarie ne aveva già attraversate, nel corso dei quindici anni trascorsi in azienda. Quella che stavano vivendo però non si poteva neppure chiamare crisi. Era qualcosa di diverso e di enorme, che loro stessi avevano contribuito a far crescere con discreta consapevolezza. Acquisizioni a prezzi esagerati di banche dai bilanci non proprio trasparenti, redditività generata in gran parte da commissioni sempre più alte fatte pagare a clienti ormai cronicamente insoddisfatti, alienazione di gran parte degli immobili più prestigiosi - sedi operative e di rappresentanza a Milano, Roma e nelle principali città italiane – necessaria a trovare i fondi per proseguire la folle rincorsa a un gigantismo esasperato, i cui vantaggi nessuno onestamente sarebbe stato in grado di individuare. Immaginò la scena del suo ritorno in ufficio, giusto il tem- po necessario a far preparare gli scatoloni con i suoi effetti personali da portare via. Ed ebbe la sensazione che non sarebbe stato possibile trovare una strada diversa nel momento in cui avesse lasciato l’azienda in cui era cresciuto professionalmente. Si era seduto su una poltroncina un poco in disparte rispetto ai divani da dove sentiva Palatino fare domande, proporre piani di intervento, e gli altri rispondere confusi. “Dobbiamo essere intelligenti…” diceva l’AD “…definire una strategia che tatticamente ci consenta di convincere gli azionisti che ci possono essere alternative più remunerative rispetto a quella di darci in pasto agli spagnoli”. “Intelligenti, sì…” pensò Giudici. “Intelligenti di quell’intelligenza furba che tatticamente, più che strategicamente, consenta di salvarci il culo”. “Dovremmo attivare i nostri contatti a Roma…” proponeva quel cretino di Piscitelli. “Capiranno che un gruppo come il nostro non può essere svenduto a una società straniera. Ce lo devono, in nome dell’italianità!”. “Sì, forse se ci sbrighiamo possiamo far intervenire…” Le voci arrivavano alle sue orecchie sempre più confuse, alimentando il torpore del 10 quale si sentiva tornare preda, nonostante gli eccitanti assunti poco tempo prima. Si alzò distrattamente dalla poltroncina, mosse qualche passo verso la cambusa, in realtà una sala da pranzo con cucina che non avrebbe sfigurato in un attico in San Babila. Poi proseguì fino alle cabine, barcollando come se fosse ancora ubriaco dalla sera prima. Risalì la scaletta di prua e si trovò di fronte il sole abbacinante del Mediterraneo. Il mare, nella baia, era appena increspato dalla brezza leggera. Aveva ancora nelle orecchie il borbottio confuso di Palatino, che pure era rimasto a poppa insieme agli altri. Trovò naturale tuffarsi, così com’era, in maglietta e bermuda, senza neppure calare la scaletta. Le correnti fresche dell’Egeo avvolsero il suo corpo in un abbraccio rassicurante. Riemerse dopo aver nuotato a lungo in apnea, a una trentina di metri dall’imbarcazione. Si lasciò cullare sul dorso per un po’, cercando di fissare il sole alto nel cielo sopra di lui, gli occhi trasformati in due fessure. Probabilmente trascorse qualche minuto senza pensare a niente. Quando tornò in sé ricominciò a prefigurarsi le conseguenze di quanto stava accadendo. In ogni caso centinaia di migliaia di clienti avrebbero perso i loro risparmi. Migliaia di impiegati si sarebbero trovati senza lavoro. Molti, sia tra gli uni che tra gli altri, non avrebbero più avuto una casa in cui tornare, la sera. Immaginò i suoi stessi benefit abbandonare per sempre il suo più che decoroso stile di vita. E cercò di capire se avrebbe ancora potuto permettersi di mantenere qualcuno che accudisse Paolino, il suo gatto birmano. “No, cazzo! Non è possibile!” si trovò a ululare al cielo, pensando alla catastrofe più atroce. Iniziò a gridare per richiamare l’attenzione dell’equipaggio e farsi ritirare a bordo. Doveva mettersi in moto anche lui, per elaborare un piano che consentisse di far fronte alla situazione. Passarono pochi secondi prima che una cima gli fosse gettata a poca distanza. L’afferrò e si fece trascinare verso lo yacht. Quando fu vicino all’imbarcazione trovò la scaletta abbassata e iniziò con foga ad arrampicarsi, grondante di mare e di rabbia. “Che ti prende?” Ad accoglierlo aveva trovato Palatino, che lo aveva apostrofato pacatamente. “Dobbiamo essere lucidi e intelligenti. Pensare a una strategia da attivare immediata- mente. E tu che fai? Ti butti in mare a urlare come una foca ferita?” “Altro che intelligenti. Spiegami che c’entra l’intelligenza con tutto questo, quando mai questa cazzo di banca è stata guidata con intelligenza…” avrebbe voluto rispondere Giudici “e la mossa tatticamente migliore quale sarebbe? Trovare qualche pirla che si fa fottere al posto tuo?” Invece rimase muto e immobile, ascoltando il rumore che facevano le gocce d’acqua cadendo sul ponte dai suoi calzoni, mentre il sole e la brezza già iniziavano ad asciugargli la pelle. Bastarono pochi istanti per fargli intuire che era presto per voltare le spalle all’AD. Era ancora nelle sue mani. Meglio quindi se ne assecondava gli umori, in attesa di capire se sarebbe stato in grado di cavarsela anche questa volta. Andò a recuperare il suo portatile in cabina e iniziò a digitare rapido sulla tastiera. “Stanno per uscire altri tre report in cui gli analisti consigliano di vendere il nostro titolo. E sono analisti importanti. Non mi risulta sia trapelato ancora nulla e in borsa oggi stiamo già perdendo un altro 4%”. Cercava di mettere in fila le cose che bisognerebbe fare in queste situazioni, per raccogliere le informazioni necessarie a prendere una decisione. “E i dati di vendita sono imbarazzanti. Sono appena arrivate le statistiche di ieri e i ricavi del risparmio gestito non sono mai stati così bassi. Anche le vendite di polizze assicurative sono ai minimi storici. Abbiamo milioni di clienti ma le agenzie si sono completamente fermate!” “È normale”. Sentì di nuovo la voce calma di Palatino, forgiata dall’abitudine a gestire le proprie emozioni. “Non stanno più vendendo un cazzo!” ribadì Giudici pensando di essere stato frainteso. “Che cosa pretendi?” disse laconico l’AD, continuando a passeggiare sul ponte. “Anche loro stanno iniziando a capire… Sono mesi che a stento gli paghiamo gli stipendi.” Giudici rimase in silenzio, nel sole. E Palatino non aggiunse altro. Eppure, se qualche analista avesse redatto un report anche solo decente, se almeno qualcuno di quegli sfaticati consulenti delle agenzie avesse ricominciato a fare il suo dovere, se si fossero trovati gli investitori per garantire un ulteriore aumento di capitale, una minima possibilità di salvarsi ci sarebbe stata. Ma la piccola speranza che VICTOR HUGO La piccina sola soletta Giudici ancora si portava L’originale in pillole dentro si dissolse sotto Per recarsi alla fonte a prendere l’acqua Leonardo Nozzoli 11 quello splendido sole. “È inutile. Questa volta è davvero tutto perduto” si disse. Era impossibile che si verificasse anche uno solo di quegli eventi. Non si poteva più rimediare agli anni di gestione irresponsabile dell’azienda, agli errori accumulati per ingordigia anno dopo anno. Appoggiato al parapetto dello yacht guardava sotto di sé la trasparenza del mare, attraversata da una luce così intensa da consentirgli di seguire le forme delle rocce sul fondale. Si sentì abbracciare teneramente alle spalle. E teneramente, ma con prudenza, pensando che qualcuno avrebbe speculato ancora di più sulla vicenda se fossero girate fotografie compromettenti, rispose all’abbraccio cingendo la vita di Palatino. Voltò la testa appena un poco di lato e le sue labbra incontrarono quelle dell’AD in un accenno di bacio privo di passione. Rimasero abbracciati così, a lungo, sotto il sole. Due vecchi amanti che non si amavano più. per la locanda dove lavora, Cosetta, nove anni, lascia le luci del paese e si avventura nel buio del bosco. Tutto è minaccioso, pieno di presenze inquietanti: lei vorrebbe rinunciare, ma le reazioni della padrona, l’orribile Thénardier, la atterriscono più di tutto. In un impeto di coraggio, raggiunge la fonte e riempie il secchio. Sulla via del ritorno, quando il terrore sta per sopraffarla, una mano che sente amica si posa sulla sua spalla, le prende il secchio: Cosetta decide di fidarsi. Luogo: paesino, campi, bosco Tempo: una serata tenebrosa Personaggi: Cosetta, la cattiva Thénardier, una ‘presenza’ amica Intreccio: una bimba va a prendere l’acqua alla fonte nel bosco, a tarda sera, e ha tanta paura; sta per essere inghiottita dal terrore, ma incontra una persona che la aiuta e la rassicura. L’apparenza inganna La cover in pillole Una studentessa quindicenne lavora nel pub del patrigno, che la chiama Cosetta per disprezzo e non ha buone parole per lei. Mentre lei porta ai cassonetti della differenziata bottiglie e spazzatura, scoppia il temporale, la luce svanisce. Nel buio pesto, in mezzo a fruscii sospetti, mugolii, mani che la sfiorano, l’unica presenza amica sono i coloratissimi cassonetti. Quando la paura sta per sopraffarla, le ombre di una giovane collega, della mamma, del patrigno divenuto quasi ‘sostenibile’ compaiono dal buio e le ridanno coraggio... Incipit Luogo: un pub, un paese di provincia, un teatro Tempo: serata di temporale Personaggi: un patrigno crudele, una ragazzina, una collega simpatica, la mamma, i cassonetti della spazzatura Intreccio: angosciata dal buio, dal temporale, tra mugolii e fruscii sinistri, una ragazzina che rientra dalla buia zona-cassonetti della raccolta differenziata verso il pub dove lavora, scopre sicurezza e conforto dove non se l’aspettava. oiché la locanda Thénardier si trovava in quella parte del paese che è accanto alla chiesa, Cosetta doveva andare ad attingere l’acqua alla sorgente del bosco, in direzione di Chelles. La bambina non guardò più un solo banco di merci esposte. Finché fu nel vicolo del fornaio e nei dintorni della chiesa, le botteghe illuminate le rischiaravano la strada, ma di lì a poco anche l’ultima luce dell’ultima baracca scomparve. La povera bambina si trovò al buio. osetta non era il suo vero nome. E non era neppure un soprannome. Ma il suo patrigno l’aveva sempre chiamata così: forse per pigrizia o scarsa memoria; o, più probabilmente, perché la considerava nient’altro che una piccola cosa, che aveva dovuto accettare – volente o nolente – come dote della sua donna. “Cosetta!” la chiamò senza alcun riguardo “quante volte ti ho detto che questo schifo non deve restare qua?!” Cosetta aveva quindici anni. Studiava ragioneria con buoni risultati. Il venerdì sera – e a volte anche il sabato – dava una mano nel pub del patrigno: portava fuori l’immondizia, puliva i tavoli, preparava qualche birra, e così via. Lo P C 12 faceva non certo per lui ma solo per sua madre, rimasta troppo presto senza un marito e senza un lavoro. “Questa roba manda un odore!” esclamò il patrigno con tono snob “il mio è un locale di un certo stile... Ah! Già che ci sei: butta via anche quella borsa di bottiglie vuote”. Anche un ‘grazie’ finale sarebbe stato di un certo stile. Cosetta si caricò, come al solito, di una buona dose di pazienza. Prese le due borsone – una piena di bottiglie vuote e l’altra di qualunque porcheria avanzata – e si avviò sul retro del pub. Dalla cucina uscì Francesca, una bella ragazza bionda di circa vent’anni, studentessa universitaria: faceva l’equilibrista con due vassoi carichi di boccali, focacce e coppe di gelato. “Dove vai?” le chiese con un sorriso dolce conoscendo già la risposta “ha cominciato a piovere di brutto! Prendi il mio ombrello, laggiù, vicino alla porta: se ritorni zuppa d’acqua, lo senti Lui...” “Grazie, Francesca!” le rispose Cosetta con un tono tra il grato e l’ammirato. “Di che?” chiosò la ragazza strizzando l’occhio e mostrando i suoi denti bianchissimi. Le piaceva Francesca: era sempre sorridente. Sperava di diventare come lei, un giorno. Aprì la porta che dava sul retro. Pioveva davvero di brutto: pioggia dritta, quasi disegnata. Imbracciò i due borsoni alla bell’e meglio. Poi prese l’ombrello e, puntando fuori, l’aprì avviandosi verso i cassonetti. I due borsoni erano molto pesanti. I manici di plastica ci misero poco tempo per assottigliarsi sotto il peso dei rifiuti che portavano, tanto da diventare una vera e propria tortura per la povera Cosetta. Avrebbe voluto tornare indietro, chiedere aiuto. Ma la faccia e le urla del patrigno non erano certo una gran prospettiva. Prese coraggio e, ancheggiando goffamente, s’incamminò verso i cassonetti. C’era poca luce nei vicoli dietro il locale. Una luce opaca, quasi untuosa. Ogni tanto, tuttavia, un fulmine balenava nell’aria spargendo tra quelle strade anguste un nitore intenso, bianchissimo. La cosa, però, non tranquillizzò la ragazzina. Anzi. I fulmini, infatti, scattavano fotografie tutt’altro che rassicuranti. Un ubriaco, in ginocchio e con le mani poggiate per terra, era alle prese con gli effetti di una sbornia colossale. I conati lo facevano sobbalzare in avanti con una curiosa intermittenza, mentre il vomito gli accarezzava le dita. Alcune scatole di cartone, in un angolo, si muovevano come fossero vive. E, ogni tanto, la testa arruffata di un inquilino assonnato spuntava tra le scritte ALTO e FRAGILE. In un altro angolo, una prostituta appesa al muro si sforzava di miagolare piacere; mentre il suo ultimo spasimante ondeggiava avanti e indietro cercando di dimostrarsi la propria virilità. Cosetta rabbrividì, ma quel tremore sembrò darle la carica per accelerare i suoi piccoli passi. In men che non si dica – ed evitando di guardarsi attorno – arrivò al suo obiettivo, che in quel momento dovette sembrarle la più confortante delle visioni. Giallo. Verde. Blu. I cassonetti sembravano aspettarla con le loro divise colorate. “Ultimo cliente!” parvero esclamare “poi si chiude!” Erano colmi e stracolmi, con sacchetti rimasti fuori come aspiranti spettatori di una prima teatrale particolarmente attesa. E non poteva essere altrimenti visto che la giornata volgeva ormai al termine. Cosetta gettò via la borsa con le bottiglie di birra – quella più pesante. Quindi si passò la seconda da una mano all’altra, e la scaraventò nel bidone della non-differenziata. “Chissà se esiste un cassonetto anche per i patrigni brut- ti e antipatici” pensò la ragazzina tra sé e sé. Ma ben presto si convinse che, nel suo caso, si trattava di un patrigno decisamente non riciclabile. Poi, senza alcun preavviso, un fulmine cadde con una violenza inaudita. Gracchiò secco, affilato: era vicinissimo. Smise di piovere, come se quella scarica elettrica avesse spaventato anche il cielo. Anche tutte le luci si spensero in un attimo. In tutto l’isolato. E in tutti quelli vicini. Tutta la città doveva essere al buio. Ogni cosa era nera intorno a Cosetta. Nessuna scintilla o fiamma di candela o luce di torcia elettrica sfavillava per dare un punto di riferimento. Anche il temporale pareva evaporato: oltre alla pioggia, infatti, anche i lampi si erano improvvisamente dileguati. Cosetta si girò a destra e poi a sinistra. Si guardò indietro e poi di nuovo avanti. Ma niente. Ogni lato era identico al precedente. Gli stessi concetti di destra e sinistra, davanti e dietro, erano diventati un vago ricordo: archeologia semantica. Forse acuiti da quel senso d’impotenza degli occhi, gli altri sensi si fecero più robusti, addirittura prepotenti. In pochi istanti, le narici di Cosetta si riempirono di odori che, fino a quel momento, avevano scrupolosamente ignora- 13 to. Odore di alcol, di vomito, di urina. Odore di umido e di rancido. Odore di buio. Tra i vicoli cancellati dall’oscurità, echeggiarono sussurri e grida. Qualche bestemmia disarticolata. I sospiri affaticati di un orgasmo imminente. Il fruscìo levigato di una bottiglia vuota sui sampietrini. Cosetta ebbe paura. Paura delle ombre adesso nascoste in quell’inchiostro straripante. Paura dei rumori senza profilo che rimbalzavano da ogni parte. Paura di non saper distinguere un aiuto da una minaccia, un amico da un nemico. Poi le sembrò che qualcuno la sfiorasse – anche se non riuscì a capire in che parte del corpo. Ma forse era la sua piccola anima che si sentiva toccare. D’istinto si mosse in una direzione, la prima che le venne in mente – tanto non avrebbe fatto alcuna differenza. Inciampò dapprima in un oggetto indefinito. Poi calciò senza volere qualcosa di stranamente inconsistente. Infine il suo piede sciabordò in una pozza di chissà che cosa. Le pareva di stare in mezzo a un girotondo di bambini crudeli. Decise allora di fermarsi. Chiuse l’ombrello. Lo scosse ripetutamente. Quindi, rivolgendo la punta difronte a lei, ricominciò ad avanzare lentamente, come un cavaliere di Re Artù impegnato nella ricerca del Graal. Aveva ancora paura, ma non voleva più restare lì. A ogni lieve sussurro o fruscìo, agitava la sua arma da una parte e dall’altra. E intanto avanzava. Lentamente ma avanzava. Aggrappata a quell’ombrello nel quale si concentrava tutto il suo coraggio. Poi qualcuno – o qualcosa – le fece cadere l’ombrello. Fu un attimo. Forse un’altra anima in pena che vagava in quell’oceano senza luce, e che l’aveva urtata per sbaglio. Oppure no. Forse quel gesto era stato assolutamente intenzionale. Ma chi poteva avercela con lei fino a quel punto? Cosetta si chinò e, tastando nel niente in preda all’agitazione, cercò di ritrovare la sua preziosa reliquia. Ma nulla: soltanto il buio. Cosetta ansimava adesso. Piangeva e singhiozzava. Pregava: “Mio Dio! Mio Dio!” Ma, forse, neanche Dio poteva vederla in mezzo a quel nero senza spiragli. Se solo qualcuno, nel pub, si fosse accorto della sua assenza e fosse uscito a cercarla: sua madre, Francesca, qualcun altro... Anche il patrigno – sì, perché no?! In quel preciso istante, la voce roca di quell’uomo le sarebbe stata piacevole come un coro di angeli... Proprio mentre questi pen- sieri le volteggiavano nella testa, d’un tratto una mano ruvida ma gentile prese la sua, ancora tremante. E la tirò su, con forza e delicatezza. Per qualche istante Cosetta non provò niente, rassegnata al male così come al bene: chiunque fosse il proprietario di quella mano, sentiva di non potergli resistere in alcun modo. Quindi si lasciò andare. Semplicemente. Poi i suoi occhi si alzarono a guardare in alto. Una splendida luna piena si stava facendo spazio in un cielo finalmente sereno. Una luce densa colò come miele nella strada. Accanto a lei, una figura nera si stagliava altissima: la faccia rugosa, la barba incolta, gli abiti sdruciti. Un cappello nero, sudicio e spiegazzato, incoronava una testa comunque orgogliosa. E le conferiva un’aria profondamente rispettabile. Cosetta riprese un po’ di vigore: sentiva di potersi fidare. O, perlomeno, ci sperava. Poi, dietro di lei, apparvero in sequenza innumerevoli ombre, disposte con ordine l’una accanto all’altra. Riconobbe la voce di Francesca e quella della madre – della quale intuì un sorriso affettuoso. Quindi vide il patrigno ed ebbe un piccolo tremito. Ma durò un battito di ciglia: anche lui le sorrideva adesso. La luna divenne sempre più luminosa – abbagliante – finché non si trasformò in un potente riflettore puntato su di lei. Subito appresso, infinite luci si accesero tutte insieme, dando il via a un fragoroso applauso. Davanti a lei, vide una platea e una galleria gremite in ogni ordine di posto. Tutti in piedi ad applaudire, a chiedere un bis, a gridare “Bravi!” Guardò di nuovo alle sue spalle e riconobbe gli attori. Poi, si voltò di nuovo verso quella figura accanto a lei. La sua piccola mano in quella così grande, che l’accompagnava in un inchino davanti al pubblico. Poi ancora indietro e ancora avanti, in un nuovo inchino. E poi un altro ancora. E ancora. Cosetta non aveva più paura. 14 Massimo Branda Milo, il ragazzino solo La cover in pillole Milo, orfano undicenne costretto a rubare, deve recuperare per conto di Ratko – perfido padrone – il bottino nascosto alla stazione. Man mano che si avvicina a Porta Susa, però, la paura lo paralizza. Vorrebbe tornare da Ratko, raccontargli che c’era troppa polizia, ma non osa. Mentre agisce, viene adocchiato da due poliziotti in borghese: fugge disperato nella nebbia gelata, temendo che Ratko lo ammazzerà di botte. Per fortuna incappa in Lucio, che da qualche tempo lo tiene d’occhio e intende riscattarlo dalla sua buia situazione. Luogo: Torino, tra Porta Palazzo e Porta Susa Tempo: una sera gelida e nebbiosa Personaggi: un immigrato undicenne, un delinquente, carabinieri e poliziotti, una brava persona Intreccio: un immigrato undicenne, costretto a recuperare per conto di un manigoldo il bottino nascosto, è terrorizzato. Adocchiato dalla polizia, fugge a perdifiato e incappa in chi lo aiuterà a cambiare vita. entre Ratko lo aspettava al bar del Balôn, Milo doveva recuperare i soldi rubati nel pomeriggio a Porta Susa, nascosti dietro la vaschetta del cesso del bar della stazione. Il ragazzo attraversò il mercato di Porta Palazzo, lanciando un’occhiata distratta ai banchi della frutta che stavano smontando in quella sera invernale. Oltre alla nebbia, era ormai M sceso il buio. Passato Corso Regina, Milo imboccò via Milano, sentendosi vincere da una certa inquietudine. Mentre camminava stringeva nella mano il cellulare, facendo risuonare i tasti. Più avanzava, più nebbia e buio s’infittivano. A un tratto incrociò Lucio, il volontario del Sermig che aveva conosciuto al dormitorio dell’Arsenale della Pace. Questi lo riconobbe e si chiese dove stesse andando così di fretta e spaurito quello scricciolo d’uomo. Milo prese per via San Domenico, stretta e buia. Solo da qualche finestra filtrava un poco della luce lampeggiante di un televisore. C’era gente che già a quell’ora cenava, mentre i locali del quadrilatero si andavano riempiendo del popolo dell’happy hour, desideroso di dimenticare in fretta la giornata di lavoro. Milo pensò alle famiglie radunate attorno al tavolo col televisore acceso, che cenavano guardando il telegiornale, una situazione di cui lui non aveva esperienza diretta; quell’immagine gli diede calore, lo rassicurò, per un attimo buio e nebbia furono trafitti da un raggio di luce. Tuttavia, mano a mano che procedeva, il suo passo rallentava. Quand’ebbe svoltato l’angolo di Corso Valdocco, Milo si fermò. Più si avvicinava alla stazione, più aumentava la sua paura. Il ragazzo mise in tasca il cellulare, affondò la mano nei capelli e cominciò a grattarsi lentamente la testa, col gesto tipico dei bambini impauriti e indecisi. Il corso era quasi deserto e totalmente immerso nella nebbia color orzata. Guardò con disperazione quell’oscurità bianca dove non c’era più nessuno, dove c’erano solo au- to, dove forse c’erano fantasmi. Guardò bene, e sentì vetture che si muovevano, e vide distintamente i fantasmi che si spostavano tra gli alberi del viale. Riprese in mano il cellulare, la paura lo rese audace. «Bah!» esclamò «dirò a Ratko che c’era troppa polizia». Fece dietrofront. Aveva fatto solo pochi passi che si fermò di nuovo e ricominciò a grattarsi la testa. Adesso era Ratko a comparirgli davanti; l’odioso Ratko, con la sua bocca di iena e gli occhi lampeggianti di collera. Il ragazzino lanciò un’occhiata sconsolata davanti a sé e poi alle proprie spalle. Che fare? Come comportarsi? Dove andare? Davanti a lui lo spettro di Ratko, dietro di lui tutti i fantasmi del viale e la paura della polizia. Arretrò di fronte a Ratko e riprese la strada verso Porta Susa, mettendosi a correre. Percorse a perdifiato un bel pezzo di Corso Palestro, entrò in via Bertola, non guardando più nulla, non sentendo più nulla. Smise di correre soltanto quando gli mancò il fiato, ma continuò a procedere. Andava avanti, perso. Aveva voglia di piangere. Il fremito notturno della città immersa nella nebbia l’avviluppava tutto. Non pensava più, non vedeva più. Da una parte, tutto il niente; dall’altra, uno scricciolo, un atomo. Ormai era vicino alla meta, mancavano poche centinaia di metri. Milo conosceva bene quelle zone, le aveva battute un sacco di volte mendicando e rubacchiando, ma sempre e soltanto di giorno, con la luce, senza quella maledetta nebbia. Non ne aveva mai vista una così, 15 neanche a casa sua, vicino a Srebrenica, dove Ratko lo aveva comprato dai rapitori che l’avevano sottratto dall’orfanotrofio dove era cresciuto per portarlo in Italia, nascosto nel bagagliaio di una Mercedes reperto storico, dove aveva rischiato di morire soffocato dai gas di scarico di quel diesel dalla marmitta bucata. Da allora, erano state solo botte e minacce, minacce e botte. Tutto il giorno sulla strada a elemosinare trascinando una gamba o a infilare le mani nelle borse delle signore sui mezzi e nell’atrio della stazione. Tante volte era riuscito a scampare per un pelo alla cattura grazie alla sua velocità di corsa. Ma, poi, quando ritornava da Ratko, erano comunque botte, non era mai soddisfatto del bottino della giornata. Capitava spesso che la notte si fermassero a dormire all’Arsenale, dove recitavano la parte del padre e figlio che avevano perso moglie e mamma in uno scontro etnico al paese. All’Arsenale, Milo aveva conosciuto quell’omone di Lucio, giovane ed enorme, ma così dolce e rassicurante. Lucio aveva capito che c’era qualcosa che non andava nel rapporto tra quell’uomo dal muso di tagliagole e quel bambino impaurito. Si era ripromesso di andare più a fondo, ma era sempre mancata l’occasione. A un tratto, Milo scorse delle persone in uniforme, si fermò spaventato. Si accorse poi che si trattava di un gruppo di carabinieri ausiliari della vicina caserma Cernaia. Si rincuorò, aveva imparato a riconoscerli e a ritenerli inoffensivi. Da via Bertola svoltò a sinistra, sotto i portici di Corso San Martino. Finalmente si vedeva qualcosa, e il ragazzo prese coraggio. Attraversò il piazzale di fronte alla stazione, dribblando un paio di autobus fermi. La nebbia tornò fittissima. Era in un momento di tensione tale che le sue forze s’erano triplicate. Mentre correva a tutta, Milo non si accorse che il telefonino gli cadeva dalla tasca. Non lo vide e non lo udì cadere. Giunto davanti all’ingresso della stazione, si sentì stremato dalla stanchezza. Avrebbe voluto andarsene subito, ma doveva assolutamente recuperare quel fagottino e poi squagliarsela, tornando da Ratko. Milo non perse tempo a riprendere fiato. Passò un paio di volte davanti all’ingresso del locale per controllare che fosse sicuro. Il bar di Porta Susa era il più triste che avesse mai visto, stretto e lungo, con una luce bianca al neon. La scena, dentro, era più desolata di un quadro di Hopper. Il barista, in piedi dietro il banco, fisso su di un televisorino che trasmetteva un reality. Dall’altra parte del bancone, un uomo e una donna sulla trentina, che apparentemente non si conoscevano. Milo entrò, cacciò fuori le monete per comprare un pacchetto di gomme da masticare e poi chiese di poter andare al bagno. Mentre vi si dirigeva, con la coda dell’occhio vide il barista fare un cenno del capo ai due avventori. Fu un attimo: Milo si girò e cominciò a correre verso l’uscita, scartando l’abbraccio della donna che gli gridò: “Fermo, polizia!” Uscì nella nebbia, e cominciò a correre in direzione del Rondò della Forca, ingoiato dalla nebbia. Rischiò di essere investito da una vettura a clacson spiegato, arrivò al marciapiede di destra, svoltò in via Juvarra, dove riuscì a entrare in un portone lasciato aperto. Chiuse il battente dietro le sue spalle e restò, ansimante, ad ascoltare quel che succedeva fuori. Dopo qualche secondo, sentì dei passi di corsa, che andarono oltre. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, senza sapere perché, ma non potendo fare altrimenti. Aprì il portone e uscì in strada, il cielo era ancora nascosto da quel fumo di latte. La maschera della nebbia pareva chinarsi vagamente su quel bam- bino. Milo guardava con occhi persi una luce gialla attorno alla quale ondeggiava un’aureola di caligine. L’umidità entrava nelle ossa. Senza rendersi conto di ciò che provava, Milo si sentiva preda di quella marea lattea. A sopraffarlo non era più soltanto il terrore, ma qualcosa di ancor più terribile del terrore. Rabbrividiva. Mancano le parole per dire cos’aveva di strano quel brivido che lo raggelava sino in fondo al cuore. Il suo sguardo era diventato truce. Allora, per una sorta d’istinto, per uscire da quello stato singolare che lui non capiva, ma che lo spaventava, cercò la tastiera del cellulare, per sentire i suoi bip rassicuranti. Non lo trovò e allora mise a contare ad alta voce: uno, due, tre, quattro, fino a dieci, e, quando ebbe finito, ricominciò. Ciò gli restituì la percezione reale delle cose che la circondavano. Sentì il freddo. Gli era tornata la paura, una paura naturale e insormontabile. Aveva un solo pensiero in mente, adesso: scappare; scappare a gambe levate, fino all’Arsenale. Il suo pensiero tornò però a Ratko, alle botte che avrebbe preso presentandosi a lui senza i soldi. Lo spavento che gli infondeva Ratko era tale che pensò quasi di tornare al bar della stazione, per cercare il fagottino. 16 Tornò a tremare, fece a quel modo una dozzina di passi verso Porta Susa, per poi girarsi e avviarsi verso Porta Palazzo. Ciò succedeva nel cuore di una città, ormai notte, nella nebbia invernale, lontano da ogni sguardo; lui era un bambino di undici anni. Soltanto Dio in quel momento lo vedeva. E, forse, i suoi genitori. Ansimava con una specie di rantolo doloroso; singhiozzi gli serravano la gola, ma non osava piangere per quanto grande era la sua paura di Ratko, anche a distanza. Era abituato a immaginare che Ratko gli fosse sempre accanto. Ora Milo procedeva lentamente. Pensava con angoscia che Ratko l’avrebbe picchiato, ammazzato di botte. Quell’angoscia si mescolava allo spavento d’essere solo. Era morto di stanchezza e ancora lontano. A un tratto, non sentì più paura, e fu pervaso di calore. Una mano, che gli parve enorme, gli si era posata sulla spalla. Lui alzò la testa. Un’alta figura nera, dritta ed eretta, gli camminava accanto nella nebbia, stringendolo a sé e porgendogli il suo cellulare. Un uomo che era arrivato alle sue spalle senza che Milo se ne accorgesse. Lucio, senza dire una parola, lo abbracciò, trasmettendogli un calore fino ad allora sconosciuto. Fu luce. Isabella Borghese Uno noto ma Sconosciuto La cover in pillole Rachele è a una festa, non conosce nessuno. Lo Sconosciuto, al buffet, le risponde sgarbato. Rachele ha fin troppa confidenza con l’aggressività altrui e il proprio disagio. Brutti ricordi di un padre cattivo. Un altro uomo si affaccia, con dolcezza, somiglia tanto a Sergio Castellitto... Rachele non ha più paura. Luogo: festa su una terrazza romana Tempo: serata estiva Personaggi: Rachele, lo Sconosciuto, ospiti che conversano, Tiziano che somiglia a Sergio Castellitto Intreccio: Rachele si aggira tra gli ospiti, se la trattano male si sente triste ma a casa. Poi l’incontro con un uomo dolce, un chitarrista sensuale, la riporta dove si può concedere gioia e benessere. rancese, lei è francese si capisce dall’accento” proferiva concitata Rachele allo sconosciuto mentre lei era intenta nel riempire un fondo con le lasagne al pesto. “Anche io, sa” proseguiva senza concedergli modo e tempo di intervenire “…no, no, non che io sia francese… ma sto prendendo il diploma al Saint Louis de France”. “Non me ne frega un cazzo. Non me ne frega un cazzo, capito?” rispondeva lui accentuando quella erre moscia quasi a renderla dura e assolutamente riconoscibile. Lo Sconosciuto, secco e deciso, metteva fine al dialogo con quelle parole. Lei, silenziosa e basita, si ritrovava immobile. F Ricadeva nell’espressione di chi vive nel dubbio e non capisce se ha afferrato le parole sbagliate o se il rimanerci di stucco evidentemente non rappresenta altro che lo stato più appropriato alla situazione. C’è da dire che Rachele e lo Sconosciuto non sapevano nulla l’uno dell’altra. Non si conoscevano affatto, ma si erano ritrovati dentro quella grande sala, da soli, davanti al buffet di una festa di matrimonio. Rachele non sapeva neanche chi fossero gli sposi. A quella festa lei, infatti, accompagnava Gabriele, il suo coinquilino. E lo Sconosciuto… di lui non era chiara la provenienza. Non si sapeva se fosse un vero invitato, un familiare, un conoscente o uno capitato per caso, quasi come lei. A Rachele questo non era chiaro, né importava del resto. Lui poi con nonchalance afferrava il suo fondo e ripeteva le gestualità che poco prima erano state di Rachele: rimpinzava il suo piatto di lasagne al pesto. Lei invece era ancora lì, sempre senza parole e basita. E rifletteva che proprio poco prima si era diretta verso il DJ, rintanato nell’angolo della sala, tra le casse e il banco con la porchetta, a chiedere il menù musicale per la festa… Lei sperava nel rock dei Cure, o i Joy Division… ma lui, frettoloso e strafottente, “Non lo so!” le aveva risposto “poi ci penserò”. Da quella festa una persona qualsiasi, piombata lì soprattutto per caso, ne sarebbe scappata. Ma Rachele no. Rachele, superato l’impasse del momento, preferiva scappare dalla sala e dileguarsi in terrazza a godersi l’aria del Circo Massimo e riemergere così da un incontro che in qualche modo l’aveva paralizzata. Soltanto Dio in 17 quel momento vedeva quella triste cosa. Lo sbattere delicato ma percepibile dei sette centimetri a cono teneva il passo come se per lei fosse una compagnia vestita di distrazione. Il vociare degli invitati aleggiava nell’aria come una presenza sconosciuta e quasi irrilevante. I fazzoletti di carta rossa, sporchi, stropicciati e poi gettati nella spazzatura ricordavano la sofferenza, quando è muta. Le forchette argentate ma solo nel colore reclamavano una bellezza plastica, finta, ma facevano la loro figura lo stesso. Gli occhi di Rachele, d’improvviso, sembravano volerla distrarre a tutti i costi e lasciarla soffermare anche su un volto affascinante come Sergio Castellitto. Il volto di quell’uomo scompariva tra gli odori di un rosso scarlatto, la destra c’era invece a ricordare nella lunghezza d’unghia femminile, la mano di un chitarrista. Un completo rigorosamente nero rendeva quell’uomo elegantemente classico. Come piaceva a lei. I calici vuoti di Nero d’Avola e Greco di Tufo sul banco del buffet in terrazza erano storie già raccontate a quella notte, tra il tanfo disgustoso di cicche spente, baci rubati ai primi accenni di questa primavera o promessi ad amanti festose, impazienti e insaziabili. Ma per Rachele il pensiero di quanto accaduto pochi istanti prima davanti al buffet conservava invece il difetto e la forza di un chiodo fisso. Sembrava quasi non trovare via di uscita. La vista dopotutto non poteva vincere sul pensiero. Rachele a quella festa d’improvviso era ricaduta in uno stato di allerta che inizialmente non riusciva bene a qualificare e identificare, ma non aveva nulla a che vedere con la paura. Lei in quel “Non me ne frega un cazzo” di pochi minuti prima, gridato e rabbioso, aveva riconosciuto una situazione di pericolo che le era familiare. E la familiarità non può far paura. Tutt’altro. La familiarità invita alla comodità e prende distanze nette dal disagio. La familiarità è lo stato più comodo in cui ci si può ritrovare. Accoglie, protegge, permette di credere che per quanto si possa aver paura, tutto, ma proprio tutto sarà sempre sotto controllo. Non c’è da temere nulla. Perché allora lo Sconosciuto riportava Rachele a questo stato? Cosa aveva riconosciuto Rachele in quelle parole pronunciate con tanta rabbia e toni violenti e quasi minacciosi?, da farle supporre che l’unico spazio considerevole di quella festa fosse ormai la dimensione della distanza tra lei e lui. In quel balcone pochi momenti dopo si affacciava anche lo Sconosciuto. Lui non si perdeva in nulla. Rachele se ne accorgeva subito e tentava di distrarsi da lui soffermandosi sul bel mezzo di una conversazione di due persone, una donna e un uomo. Lui a tre quarti non era che un completo blu gessato, con sciarpa bianca e voce squillante, quasi fastidiosa. Lei invece avvolta in una splendida seta terra bruciata di un vestito a casacca con margherite colorate lasciava cadere l’attenzione su un paio di occhiali da sole peraltro ben visibili e inopportuni per la serata. “…E quando sei uscita?” si informava il blu gessato. “Da dieci giorni circa. Per fortuna è andato tutto bene” rispondeva la splendida seta terra bruciata. “Cara, dovrai fare dei controlli?, immagino la paura che hai avuto però”. “Sì certo. L’orrore più grande è stato temere di non poter più vedere i miei figli”. “Mio dio tesoro!, quelle splendide creature! Non farmi pensare a questo… e, piuttosto, dimmi!, col caffè, com’è finita?” La splendida seta color terra bruciata scoppiava in una breve risata. “Eh” continuava poi “ho fatto un fioretto a vita. Avevo così paura di perdere la vista che alla fine l’ho dovuto prolungare. Me ne sono concessa uno solo per un giorno al mese. La domenica per l’esattezza”. “U-NO e per una domenica al mese?, e per sempre?”, il blu gessato sembrava assai esterrefatto. “Sì. Per tutta la vita. È strano, sai, come…” “Cosa?” “…non avrei mai pensato di poter rinunciare al caffè, e invece… succede l’impensabile e incredibilmente riesci anche a convincerti che se rinunci al caffè non perderai la vista e avrai per sempre la possibilità di vedere i tuoi figli crescere…” La risata conclusiva di seta terra bruciata, sospesa tra l’incredulità e l’illusione, andava a miscelarsi con quella più acuta e metallica di blu gessato. La paura fa miracoli. Forse sì, rifletteva Rachele. O forse no, pensava un attimo a seguire. Rachele non aveva le idee ben chiare. Non sapeva se la paura fa miracoli. Gli uomini le cose non le sanno a priori. Dev’esserci sempre qualcosa o qualcuno che gliele insegna. Rachele sapeva che alcune paure possono essere familia- 18 ri. E se sono familiari significa che ci si può vivere. Che la dimensione della propria vita ha quelle caratteristiche. Ci si plasma sulle paure e come ci si plasma l’uomo si abitua a certi stati d’animo trovando il perfetto equilibrio. E in quel momento le paure diventano parte integrante della propria vita. Sembra difficile poterne far a meno quanto per molti può risultare faticoso capirlo. Ci si mette anni a trovare equilibrio nelle paure, tuttavia quando diventano parte della propria vita se non si affacciano quotidianamente quel senso di equilibrio sembra venire a mancare. Sembra crudele, disumano, eppure non manca di verità. Lo Sconosciuto nel frattempo si era seduto comodamente su quella poltroncina di plastica. Rachele si era soffermata sulla seta marrone terra bruciata e sul blu gessato, sì, con quel sentore d’allarme di prima che la teneva comunque in tensione e lo percepiva chiaramente nel cuore che sembrava strozzarla, negli arti paralizzati e nel desiderio continuo di fare respiri grossi per trovare la tranquillità di quando aveva fatto il suo ingresso a quella festa. Ma la presenza sconosciuta che conservava qualcosa di noto e che si affacciava tra i due corpi parlanti diveniva uno sguardo in- sistente che da Rachele non trovava la via della distrazione. La seta marrone terra bruciata continuava a disquisire con il blu gessato. Rachele si era già persa. Non sapeva più di cosa stessero parlando quei due. La vista di lei restava intrappolata dalla lingua dello Sconosciuto che con lentezza ma intenti chiari o quanto meno facilmente fraintendibili si muoveva seguendo le sue labbra e mantenendo su di lei quello sguardo fisso e minaccioso, provocatorio. Quello di prima. Una volta, molti anni prima, Rachele ricordava d’improvviso, il padre si era ubriacato davanti a lei, perso in una di quelle sbronze che incattiviscono, che mischiate all’effetto degli psicofarmaci creano effetti collaterali paurosi. Rachele e il padre si trovavano a un pranzo in una trattoria sconosciuta in un posto dimenticato da dio e ricordato solo dal Bambin Gesù. Doveva essere Palidoro. Il padre aveva costretto Rachele a quel pranzo fuori porta perché voleva avvicinarsi al mare e perché evidentemente la testa e l’alcol della mattina non avevano saputo suggerirgli niente di meglio. E la madre di Rachele non aveva detto nulla. Doveva essere molto stanca lei. Terribilmente. Rachele aveva provato a farlo desistere, sì, aveva mes- so saggezza e verità nelle sue parole… Ma dove te ne vai, con quella macchina, non vedi che sei ubriaco! È pericoloso. Una perdita di tempo. Niente di più. In cuor suo poi aveva pensato che far mettere in viaggio il padre da solo sarebbe stato un atto di irresponsabilità. È così che poi hanno raggiunto quella trattoria. Lui mangiava spaghetti alle vongole e beveva vino bianco, ancora. Lei aveva lo stomaco chiuso, tuttavia per ingannare il tempo aveva scelto una caprese: e lì dentro ci lasciava cadere la vista e giocherellava con la forchetta, tagliava quadratini di bufala e pomodoro. Si vergognava. Molto. I ristoratori e le altre persone ogni tanto lanciavano occhiate curiose al loro tavolo. Tutto bene?, chiedeva qualcuno. Cosa cazzo vuoi?, rispondeva il padre. Rachele si faceva piccola, se poteva si sarebbe scavata una fossa. Aveva persino perso le parole, lei. Lui se ne sbatteva e cominciava a guardare una donna che sedeva in un tavolo dietro Rachele. Tirava fuori la lingua, se ne fregava di tutto, di tutti, della figlia prima di ogni altro. Rachele allora si alzava, prendeva la vergogna con sé, lasciava che lo sguardo fisso in terra le indicasse la direzione dell’uscita, la caprese ancora nel piatto che invece chiedeva solo di esser svuotato, Ti lascio al tuo teatrino!, proferiva, ti aspetto in macchina. Lui, Non me ne frega un cazzo, rispondeva. Secco e deciso. Rachele se ne andava a cercare la strada che l’avrebbe rimessa sull’Aurelia. Piangeva e la luce del sole allora non era più così raggiante e speciale. Si faceva appannata e spenta, allora alzava il pollice sinistro e scappava. Scappava con un uomo. L’uomo che per anni di tanto in tanto avrebbe sentito per un senso di gratitudine e riconoscenza che conserva dell’eterno. Poi quell’uomo è morto. Certi uomini quando nascono e muoiono così, in pagine come queste… chissà se sono esistiti davvero o se è semplicemente il bisogno di salvezza a reclamare la loro esistenza. Chissà. In questo ricordo improvviso, presentatosi a Rachele come fosse un flashback, lei riscopriva quel senso di allerta che la divorava con decisione da quando si trovava davanti al buffet. Lo stato di allerta provocato dallo Sconosciuto. Per questo in fondo non poteva temere. Non poteva temere ma non sapeva neanche ignorarlo. Avrebbe voluto lasciarlo lì da solo in quella terrazza, dire anche a lui, Me ne vado ti lascio 19 al tuo teatrino. Eppure, eppure certe paure quando si conoscono e presentano del familiare, rivederle e riviverle con qualcuno di cui non conosciamo nulla, se non appena l’esistenza, sono così strane nell’approccio. Ti divorano senza spaventarti. Ti lasciano impietrita senza farti scappare. Sono lì, ti riempiono quasi di un senso di tenerezza quando le riconosci. Vorresti fare qualcosa nel sapere che non è possibile, che non serve a nulla. Che non ti compete. E allora l’unica è, ahimè, ignorare. Non dare corda, non provocare, non rispondere. Rachele ora che aveva riconosciuto lo stato di allerta si rigirava, scivolava verso il tavolo delle bevande a cercare di nuovo la freschezza di un Greco di Tufo. “Posso?” le diceva un uomo nel segno di versarle il vino. Rachele mentre sorrideva alzava lo sguardo. Davanti a lei c’era quel Sergio Castellitto di prima. “Grazie!” rispondeva, mentre pensava di aver trovato la sua salvezza della serata. “Amica della sposa?” “No, amica di un amico dello sposo. Non conosco nessuno qui”. “Ti ho vista così pensierosa prima… non farci caso…” “A cosa?” “A René. Il signore seduto sulla sedia lì di fronte. Soffre, da anni, di un disturbo depressivo…” “No, no” rispondeva Rachele, decisa, bugiarda o forse solo rispettosa “non l’ho neanche notato quell’uomo. Non c’è bisogno che mi parli di lui”. “Allora piacere, Tiziano!” Rachele scivolava in una risata… “Tiziano” diceva “piacere Rachele”. “Ti fa ridere il mio nome?” “No, no… è che sai… mi ricordi molto una persona…” Rachele aveva ritrovato in un secondo la simpatia e la spontaneità che le appartenevano. Avrebbe voluto confessargli divertita che le ricordava Sergio Castellitto, il suo sogno erotico in assoluto; gli avrebbe sorriso tirando fuori la lingua e ricercando una sensualità assai lontana dalla violenza, lo avrebbe baciato su quella terrazza che si affaccia sul Circo Massimo, con la freschezza del Greco di Tufo nella bocca e il desiderio di un bacio rubato… tuttavia sceglieva la sobrietà. “…gli somigli in modo impressionate…” continuava. “Divertenti queste coincidenze. Io, Rachele, sono venuto solo qui… testimone dello sposo, siamo amici dai tempi delle medie…” “Fantastico!, mi sono sempre piaciute le amicizie durature. Dicono molto delle persone, non trovi?” rispondeva lei. Il Sergio Castellitto sorrideva. Lo Sconosciuto era ancora seduto. Adesso in braccio a lui c’era una bambina, di circa sette anni, con le trecce alla Pippi Calzelunghe, la chioma di Anna dai capelli rossi, il vestitino alla Jane Banks. A vederli sembrava giocassero, sì. Allegramente e placidamente. Lui le tirava le codine, lei rideva e poi anche lui le sorrideva, sempre con quel fare rumoroso che evidentemente gli apparteneva. Ma la bambina con le gambe coperte di filanca verde che ciondolavano nel vuoto e di tanto in tanto sbattevano su quelle di cotone beige dell’uomo, lei, raccontavo, si capiva essere nel pieno del divertimento. Tanto che in un momento si era permessa persino di toccare e giocare con la barba incolta di lui. Rachele ancora non era andata a cercare il suo amico Gabriele. Eppure non sentiva più lo sbattere dei centimetri di cono, non prestava attenzione al vociare degli invitati, né riusciva più a riflettere su quei fazzoletti di carta rossa, sporchi, stropicciati e poi gettati nella spazzatura, quelli che le ricordavano la sofferenza muta. Non si era neanche accorta che le forchette d’argento, sì, ma solo nel colore, le avevano tolte. Non servivano più. Aveva altro per la testa. Aveva messo a tacere il suo stato d’allerta riconoscendo nel fare dello Sconosciuto la malattia di un altro. Individuava quella paura e in questo trovava la tranquillità che le serviva per festeggiare seppur da intrusa. E poi c’era la chiacchierata con quel Sergio Castellitto… e chissà se anche lui era come quegli uomini, che quando nascono o muoiono così, in pagine come queste, non si capisce mai se sono esistiti davvero o se è semplicemente il bisogno di salvezza a reclamare la loro esistenza. Quell’uomo, senza dire parola, aveva strappato un ciclamino da un vaso e le sorrideva ancora. C’è un istinto diverso per ogni incontro della vita. Rachele non aveva paura. CRISTIANO CAVINA Al buio L’originale in pillole giorno del mio dodicesimo compleanno. Un ragazzino di quasi dodici anni, in Stefano Riba Usciamo dalla città e imbocchiamo la 20 pellegrinaggio a Lourdes con la nonna, rimane chiuso in ascensore. Soffre d’asma da sempre, e nel buio dell’ascensore bloccato si lascia prendere dal panico più totale finché la nonna, infuriata, non viene a salvarlo. Luoghi: l’ascensore di un albergo di Lourdes e la memoria Tempo: pomeriggio al buio dell’ascensore Personaggi: ragazzino, nonna Cristina, nonno Gianì Intreccio: un bambino sale in ascensore da solo nonostante il divieto, resta chiuso dentro e si trova a lottare contro l’oppressione dell’asma e la paura del buio. La cheratite di Icaro La cover in pillole Otto ragazzini in gita al ghiacciaio con don Diego. Il protagonista ha dimenticato gli occhiali da sole, si vergogna di dirlo, e diventa cieco per la troppa luce. Si spaventa, ma poi guarisce con buio e riposo, e si sente il coraggio di Icaro. Luoghi: strada, ghiacciaio, letto Tempo: notte in viaggio, giorno sulla neve abbagliante, sera e notte a letto Personaggi: ragazzino senza occhiali da sole, don Diego, amici, genitori Intreccio: un ragazzino in gita sul ghiacciaio capisce la forza della luce e scopre la cecità da neve. Incipit e tenebre erano scese su di me. Era il pomeriggio del 17 maggio 1985, dovevo ancora compiere dodici anni. L’unica cosa che sentivo, era il mio respiro; mi rimbombava dentro, e sapevo che presto avrebbe smesso di essere così potente anche se accelerato. Presto si sarebbe messo a sibilare. L’asma mi era molto affezionata quando ero bambino, e ci teneva a farmi buona compagnia, nei momenti peggiori. Già allora era una delle poche cose su cui potevo sempre contare. Era impossibile che il mio Dio volesse già chiamarmi alla sua dimora; avevo ancora tante imprese da compiere, era inconcepibile che volesse privarsi di un avventuriero della mia caratura. L artiamo di notte con il fiato che rimane tre secondi nell’aria prima di perdersi nel buio. Ci lasciamo dietro le raccomandazioni dei genitori, a ulteriore garanzia rimangono la protezione divina, il nome di don Bosco sulle fiancate del Ducato e una medaglietta di san Cristoforo appesa allo specchietto retrovisore. Cinque minuti di marcia lenta per i limiti stradali e il ghiaccio in strada, e dietro di me già vedo le zucche dei miei sette amici dondolare. “Quanto ci mettiamo?” chiedo sottovoce a don Diego che guida al mio fianco. “Due ore, due ore e mezzo al massimo” mi risponde. Fermi al semaforo leggo i numeri verdi dell’insegna di una farmacia: 6:23 12-02 -9°C. È presto, fa un freddo cane ed è il P tangenziale, poi l’autostrada. Dopo un breve tratto di due corsie dritte fino all’orizzonte mi addormento. Mi risveglio un’ora e mezzo dopo sui tornanti di Sampeyre. Dietro di me ancora tutti dormono. Mi volto a guardare i miei compagni. Tornante a destra, tutte le teste vanno a sinistra, tornante a sinistra, tutte a destra. Un’altra mezz’ora di strada e alle 8:32, così dice il mio Casio, parcheggiamo davanti al bar ristorante di Becetto. “Siamo arrivati. Tutti giù” intima il capobanda. Nessuno risponde. Nessuno si muove. Resuscitata la banda, iniziano i lamenti. Fa troppo freddo, è troppo presto, ho fame, ho sonno, non ho voglia, non mi entrano gli scarponi. Tra sciami di piagnucolii petulanti come moschini estivi chiudiamo i morsetti delle racchette da neve e partiamo. Don Diego apre la fila, seguiamo noi che se non fossimo in otto sembreremmo i sette nani. Forse, fattore numerico a parte, sembriamo nani lo stesso. Il sentiero, ma non so se ha senso parlare di sentiero quando tutto intorno è bianco e solo il cielo rompe la monotonia della neve, parte ripido. Nessuno parla. Tra un respiro e l’altro non c’è nemmeno un alito per formulare una sillaba, figuriamoci una parola intera. Cammino e lo sforzo inizia a scaldarmi. Il freddo mi piace, mi fa sentire vivo. Ripenso a quando ho chiesto al professore di scienze perché, se gli animali a sangue freddo hanno bisogno del caldo per sopravvivere, a noi non serve il freddo. Non mi ha risposto. Ha detto che era una do- 21 manda stupida. Io ci sono rimasto male. Ma ora che mi inerpico sulla costa della montagna e tutto intorno a me è ghiacciato trovo una risposta alla mia domanda. Abbiamo bisogno del freddo per capire che siamo vivi. Prendiamo il respiro. Per gran parte dell’anno non lo vedi, fiato e aria sembrano trasparenti, immateriali. D’inverno no. Inspiri e l’aria entra nel corpo come qualcosa di solido, come un sorso d’acqua gelata. Espiri e il fiato si solidifica in una nube. Anche l’aria diventa solida, con la nebbia che fa chiudere gli aeroporti. Il gelo materializza, solidifica, rivela; al contrario, il caldo fa sciogliere, evaporare, scomparire. E poi mentre d’inverno ti puoi vestire fino a non avere più i brividi, d’estate tolti anche gli slip cosa puoi fare? Scuoiarti? Questo penso, e mentre penso cammino più lento, così ora mi tocca rimontare sugli altri. Don Diego si volta e urla: “Dài, siamo appena all’inizio. Muovetevi”. Rispondono cori di “Fa freddo”, “Più piano”, “Sono stanco”, “Torniamo indietro”. Qualche minuto dopo il sole fa capolino oltre il costone della montagna. La luce si riversa nella valle, corre come acqua che ha superato lo sbarramento di una diga. Scivola sulla ne- ve e riverbera sui cristalli di ghiaccio con lo scintillio di un caleidoscopio. Ci fermiamo. L’apripista dice di metterci gli occhiali da sole. Obbediscono tutti, io no, apro lo zaino, ma non li trovo. Non dico nulla per paura di essere sgridato. Mi metto in fondo alla fila, tiro su il cappuccio e spero che nessuno si accorga della dimenticanza. Dopo un’ora e mezzo di cammino la pendenza si fa più lieve. Stiamo raggiungendo la cresta della montagna. Mi guardo intorno proteggendomi dal sole con le mani, vedo montagne innevate tutto attorno. Uno spettacolo che posso godermi solo per pochi secondi, c’è troppa luce. Abbasso lo sguardo sui talloni di chi mi sta davanti e riprendo a camminare. Sono quasi costretto a chiudere le palpebre, ma anche così le cose non migliorano. Alle 12:20 finalmente arriviamo. C’è così tanta neve che della croce sulla cima spunta solo quella che sembra una T a testa in giù. Mentre mangio gli occhi cominciano a farmi male. È come se si stessero riempiendo di granelli di sabbia, per reagire a questi intrusi immaginari iniziano pure a lacrimare. “Forza. Tutti in piedi che alle quattro fa già buio” intima don Diego quando qualcuno sta ancora masticando. Ripartiamo, di nuovo in fila indiana, di nuovo lungo la cresta della montagna. Visti da lontano siamo piccole pulci a spasso sulla schiena di un maremmano addormentato. Alle due e mezzo facciamo una breve pausa. Alzo lo sguardo dalle racchette da neve appese ai miei piedi e capisco che c’è qualcosa che non va. Sento le voci, i rumori, il soffio del vento, lo scricchiolio della neve, ma non vedo nulla. C’è solo il bianco. Stropiccio gli occhi, non hanno smesso di piangere e farmi male. Li chiudo e li riapro. Nulla. Pure il blu del cielo è sparito. Non dico niente. Continuo a tacere per paura della sgridata. Poco dopo riprendiamo la discesa. Ingoio un sorso di aria gelida, poi un altro, mi dico di stare calmo e di seguire i rumori. Uso la voce come sonar, le parole come bussole. Chiedo: “Sei stanco?” Una sbuffata di fatica mi dà la rotta da seguire. Dopo poco mi informo: “Quanto mancherà?” e un “Non so” più lontano mi fa curvare a destra e aumentare l’andatura. La risposta a un “Che ora è?” arriva ancora da più distante. Arranco verso quel suono, ma ora che non vedo più nemmeno i miei piedi inciampo ogni tre passi. Mi rialzo e chiedo “Ci siete?” “Ehi, ci siete?” ripeto più forte. Capisco di essere solo. Perso nella luce. Mi fermo, mi siedo, il corpo disegna nella neve una sedia dall’ergonomia perfetta. Ho paura. Il cuore mi batte nel petto, nelle orecchie e anche all’estremità del pollice della mano sinistra con l’unghia mangiata troppo corta che mi fa male al ritmo sinusale. Guardo nel mio universo bianco e non vedo nulla. È come nuotare in una piscina di latte. Rimango immobile e prego. Poi, nel caso le comunicazioni divine fossero interrotte o non ci fosse campo, faccio la cosa più ovvia: urlo. Urlo con tutto il fiato. Le grida fanno la sponda tra le pareti della valle come una pallina sui respingenti di un flipper. Per un attimo ho paura di venire seppellito da una valanga innescata dal mio stesso SOS. Sarebbe una bella sfiga. Ma non succede e poco dopo sento qualcuno che arriva di corsa. Si ferma e si china su di me, chiede che cosa sia successo. È don Diego. Non rispondo. Mi abbassa il cappuccio e vede che sono senza occhiali. Mi asciuga le guance e domanda se non ci vedo. Scuoto la testa. 22 “Mi fanno male e non riesco più a tenerli aperti. Rimarrò cieco per sempre?” “No, imparerai solo una lezione che non ti dimenticherai tanto facilmente”. “Quale lezione?” “Quella su cosa succede se dimentichi gli occhiali da sole durante una gita sulla neve”. “Cioè diventi cieco?” “Non a caso si chiama cecità da neve”. “Ma passa?” “Passa, certo che passa”. “E ora che faccio?” “Dammi la mano. Ti guido io”. Arrivano tutti gli altri. Sono una specie di fenomeno da baraccone. Tutti a chiedere come sto, com’è essere ciechi, se non vedo proprio nulla. Arrivati al parcheggio del bar don Diego si fa dare del cotone e delle bende. Bagna d’acqua due palline di ovatta e me le mette sugli occhi, usa la benda per fasciarmi, poi mi dà un’aspirina 500, quella per i grandi. All’ospedale scopro che la cecità da neve è una cheratite dovuta all’esposizione alle radiazioni UV. La cura che mi prescrivono è una medicina naturale e senza posologia: l’attesa e l’oscurità. Rimango bendato per un giorno intero. Per non annoiarmi chiedo ai miei genitori di leggermi tutto quello che riescono a trovare sul sole. Sì, sulla nana gialla con spettro G2V che mi ha accecato con i suoi raggi sparati nello spazio per centocinquanta milioni di chilometri. Quando mi liberano dalle bende è notte, chiedo che accendano la luce per controllare se mi è tornata la vista. Mio padre si avvicina alla lampada da tavolo, l’interruttore ha il reostato e con un giro lento del pulsante nasce in camera un’alba alogena. Guardo la lampadina, penso alla luce dell’universo, al buio della mia stanza e al coraggio di Icaro. Sorrido. “Spegnete pure, sto bene”. Click. Luce. Click. Buio. Gianni Stocchino Ho visto la luce La cover in pillole Un ragazzino non vedente è in gita con gli scout a Lourdes. Ubaldo, l’amico che lo accompagna sempre quando il cane Lampo deve restare a casa, si ammala. Il ragazzino vede finalmente la luce quando rimane chiuso in ascensore, mano nella mano con la dolcissima Lucia. Luogo: ascensore a Lourdes Tempo: pomeriggio in ascensore dove tutto sembra luminosissimo grazie alla voce, il profumo e il contatto con Lucia Personaggi: ragazzino non vedente, cane Lampo, amico Ubaldo, Lucia Intreccio: un ragazzino non vedente, nel buio più pesto di un ascensore a Lourdes, sente la vita illuminarsi grazie alla meravigliosa presenza di Lucia. uel giorno ho visto la luce. Era il pomeriggio del 17 maggio 1985, dovevo ancora compiere dodici anni. Provavo a controllare il mio respiro troppo accelerato e sentivo il cuore battere in modo forsennato. Forse mi sarebbe scoppiato. Dalla felicità o dall’imbarazzo? Un po’ mi mancava Lampo, che a quel punto avrebbe preso a scodinzolare e a leccarmi; mi era molto affezionato da quando ero bambino, e ci teneva a stare sempre al mio fianco nei momenti più importanti. Era una delle poche cose su cui potevo sempre contare. A parte Ubaldo, il mio compagno di stanza, che in trasferta prendeva il suo posto. Sembrava impossibile che Dio si fosse accorto di me solo adesso; ne avevo passate talmente tante che mi risultava assolutamente inimmaginabile che avesse voluto farmi un regalo così grande proprio adesso, privandosi di un caso umano della mia caratura. Q 23 È pure vero che sarebbe stato indelicato da parte sua snobbarmi proprio l’anno in cui avevo vinto il campionato chierichetti della parrocchia di Santa Maria Assunta, un fuoriclasse che in una stagione gli aveva servito tutte le messe della domenica mattina, tutti i funerali, tutti i battesimi, saltando solo un matrimonio e due uffici funebri per fu. Di più. Sarebbe stato ingiusto. Ma come pensare che chi tutto sa e nulla sbaglia... Anche con i dubbi e le incertezze avevo una consolidata familiarità. Una goccia salata scese a rigarmi la guancia destra arrivando fino alle labbra. Era una lacrima o sudavo? In me le emozioni forti trovavano sempre la strada per manifestarsi e smascherarmi. Era mercoledì pomeriggio, 17 maggio del 1985, non avevo ancora compiuto dodici anni ed ero rimasto intrappolato nell’ascensore di un albergo di Lourdes. Ero in pellegrinaggio con il gruppo scout del mio paese. E con Ubaldo, ça va sans dire. Da lupetto avevo iniziato a conoscere pezzetti del vasto mondo che circondava il nostro paese; boschi, mari, città. In tenda o in albergo, come questa volta a Lourdes. Di solito non riuscivo a dormire bene fuori di casa, non ero abituato alle camere d’albergo, di gran lunga più grandi e comode delle tende che utilizzavamo per i campi avventura, e per la verità anche della mia stanza da letto alle case popolari. E poi c’era il mio compagno di camera. Non l’avrei confessato nemmeno sotto tortura, ma non mi sentivo tranquillo a riposare con i calzini di Ubaldo Pistis arrotolati dentro gli scarponi di fianco al letto. Pareva vivessero di vita propria, pronti a uscire per soffocarmi con il loro odore verde, un tanfo assassino. Stavo sveglio tutta la notte. Cercavo di trovare diversivi. Pensavo a Lucia, la voce più dolce, i capelli più morbidi e il profumo più sconvolgente del gruppo delle coccinelle. “Dammi la mano, attraversiamo insieme”. L’anno prima eravamo stati in gita a Roma. Una volta scesi dal pullman, attraversare via della Conciliazione era stato un attimo, senza dubbio tra i più belli e intensi della mia vita. Con Lucia, mano nella mano. Poco dopo, come al solito, ci aveva pensato Ubaldo a riportarmi sulla terra, affiancandomi fino a San Pietro, fino al centro della piazza, per ascoltare l’Angelus per la giornata mondiale dello scoutismo. Loreto, San Pietro e ora Lour- des. Gli scout sono sempre in prima linea quando c’è da guadagnarsi il paradiso a forza di buone azioni. Nel cuore della notte poi, il russare di Ubaldo, problemi di polipi nasali oltre tutto il resto, diventava presto il frastuono di una partenza di gran premio a Monza. Incredibile ma vero, sviluppava un livello di decibel capace di sovrastare il rumore di un’industria siderurgica in piena produzione. Svanivano così i sogni e rimaneva la condanna. Una punizione troppo severa pure per un chierichetto imbranato come me. Non poteva continuare così. E infatti, per fortuna, ritornavo col pensiero a Lucia. A quel punto, nel limbo dell’incoscienza, tra il sonno e la veglia, riuscivo a dimenticare Ubaldo, la formula uno e i calzini assassini. E mi addormentavo, con la dolce sensazione di lei. I rumori dell’albergo risalivano il condotto e arrivavano dentro l’ascensore come un basso brontolio. Sembrava il minestrone di nonna Cristina ma senza i profumi della cucina. Ero in piedi al centro dell’ascensore. Pensavo: “Chissà quando qualcuno si accorgerà dell’ascensore bloccato”. Magari all’ora di cena. Forse Ubaldo darà l’allarme. Nel mio paese c’era un solo ascensore, da Eliano, un grande negozio di abbigliamento che occupava tutti i tre piani di un palazzo in piazza Sasdelli. Sfortunatamente, i vestiti per i bambini erano al piano terra, così, quando mi capitava di andare a fare spese con mia mamma e mia nonna, potevo limitarmi a guardare le persone più grandi che aspettavano che si aprissero le porte a scomparsa dell’ascensore, e poi svanivano di colpo, in un gran cigolare. Era un mistero che mi affascinava da sempre, e un po’ mi sentivo tenuto in disparte, come se tutti fossero a conoscenza di un bellissimo segreto, tranne me. Per questo quel pomeriggio di mercoledì 17 maggio 1985, mi sembrò all’improvviso che Dio avesse deciso di sistemare le pendenze con un chierichetto scout imbranato ma devoto. E quale miglior luogo di Lourdes poi? Quel giorno il Signore aveva inflitto a Ubaldo una provvidenziale indisposizione, costringendolo a passare chiuso al bagno gran parte della giornata e offrendomi un’opportunità irripetibile. Un’ascensione memorabile! Con tanto di blocco per cause tecniche non meglio specificate. 24 Io, solo con Lucia. Al buio. Mi chiesi se una volta giunta l’ora sarebbe stato così il paradiso: tenere la mano di Lucia, sentire che per una volta qualcuno si affidava a me. Mi sarebbe bastato. Per l’eternità. Uno strattone improvviso e un cigolio. “Stiamo scendendo o salendo?” domandò Lucia. Peccato! Quel lieve movimento, intaccando appena il magico equilibrio, mi riportò alla dura realtà. La sua mano teneva ancora la mia ma già non era più lo stesso. Si udivano delle voci che parlavano fitto fitto, sempre più vicine. E poi, sopra tutte le altre, una, inconfondibile. “C’è dentro lui” proclamava. “Senza di me riesce sempre a cacciarsi nei guai”. Ubaldo. Aveva un suo modo speciale di volermi bene. “Guidare un cieco non è mica roba che si impara in cinque minuti”. “Gli faccio fare il bagno io, in quella vasca benedetta, ce lo annego dentro” sbraitava. “Ci siamo” disse Lucia “si intravede uno spiraglio di luce”. Eravamo al piano, tra poco qualcuno avrebbe riaperto le porte. Mi sistemò gli occhiali e mi ravviò i capelli. “Grazie per avermi fatto coraggio. Senza di te non so come avrei fatto. Il buio mi terrorizza”. “A me ha sempre fatto compagnia, come Lampo. E Ubaldo”. Le diedi una piccola, intensa stretta alla mano. Mi stampò un bacio sulla guancia. Ora ero pronto a tornare alle cure di Ubaldo. Con l’idea di cacciarmi ancora nei guai. Al più presto. Per tornare a vedere la luce. Note di onomastica Lucia: Tradizionalmente viene fatto derivare dal termine latino lux lucis, luce, con il significato di ‘luminosa, splendente’, ma anche ‘nata alle prime luci del mattino’. Ubaldo: Il nome deriva dall’antico sassone hyg e bald (latinizzato in Ubaldus) e significa ‘forte soccorritore’. Questo notiziario di Parole illuminanti è stato realizzato da Marcos y Marcos in occasione del CaterRaduno 2010 Senigallia 28 giugno – 3 luglio e stampato su carta Favini presso Arti Grafiche Bianca & Volta di Truccazzano il 23 giugno 2010. Le fotografie sono di Anna Pitscheider e Marco Zapparoli.