Cover Caterraduno - Letteratura rinnovabile

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Cover Caterraduno - Letteratura rinnovabile
COVERRADUNO: IL COVO DEI RISCRITTORI
Cover letterarie da leggere e ascoltare. Votate la più bella
UN PREMIO LETTERARIO
DI RISCRITTURA
Parole illuminanti è un premio
letterario di riscrittura bandito da
eni e Marcos y Marcos in
collaborazione con Caterpillar. I
concorrenti hanno scelto uno dei
quattro brani proposti – di Victor
Hugo, Joseph Conrad, Anton Čechov,
Cristiano Cavina, tutti ambientati al
buio – e hanno scritto la loro cover
inserendo elementi luminosi. Una
giuria formata da scrittori,
giornalisti e editori ha selezionato
otto cover, che verranno pubblicate in
un’antologia. Il popolo del
CaterRaduno premierà la cover più
bella. Sul bloc-notes Parole
illuminanti sono riportati
integralmente i brani originali; su
questo giornalino trovate sintesi e
cover. Votare è facile: basta segnare
con una crocetta la cover preferita
sull’apposita scheda blu. Il vincitore
sarà proclamato venerdì 2 alle 17, alla
Terrazza Marconi Beach.
compagnia teatrale Il Melograno di
Senigallia, leggeranno i brani
originali (ambientati al buio) e le
otto libere riscritture illuminanti
che si contendono il primo posto.
Lunedì 28
Anton Čechov,
Una brutta avventura
Martedì 29
Victor Hugo, La piccina sola soletta
Mercoledì 30
Joseph Conrad, Tifone
Giovedì 1
Cristiano Cavina, Al buio
Venerdì 2
girandola di frasi buie e illuminate
COVERRADUNO ON THE BEACH
Tutti i pomeriggi alle 17:15
appuntamento con Lucia Fraboni
alla Terrazza Marconi Beach per
giocare a riscrivere e trasformare i
versi delle poesie che amiamo.
COVERRADUNO MATTINA
Dal 28 giugno al 2 luglio, tutti i
giorni alle 12 in piazza Roma Catia
Urbinelli e Marco Altimani, della
Immagini, dall’alto: Massimo Cirri, una studentessa e Cristiano Cavina a Roma,
Mercati Traianei, Mi illumino di meno (12 febbraio 2010);
voto della giuria al Premio letterario Lampi di genio, Milano, 28 novembre 2009.
Nelle pagine seguenti: riscrittori all’opera durante Lampi di genio.
www.letteraturarinnovabile.com
ANTON ČECHOV Una brutta avventura L’originale in pillole
È notte fonda, il guardiano di un
Vincenzo Squadroni
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cimitero viene sorpreso da un
viandante che dice di essersi
smarrito. Il guardiano ha paura, ma
accetta di accompagnarlo fino
all’uscita per mostrargli la strada. Il
viandante si prende gioco del
guardiano, lo terrorizza spacciandosi
per un fantasma e alla fine si rivela
un ladruncolo incaricato di distrarre
il guardiano mentre i complici
saccheggiano il cimitero…
Luogo: un cimitero di campagna
Tempo: una notte buia
Personaggi: il guardiano di un cimitero, un ladruncolo
Intreccio: un ladruncolo si finge
viandante smarrito per distrarre il
guardiano di un cimitero mentre i
complici lo saccheggiano.
Una visita da ricordare
La cover in pillole
È ferragosto, il custode di un museo viene sorpreso da
un turista che dice di essersi smarrito e di cercare disperatamente un bagno. Il custode non vorrebbe lasciare la sala, ma si lascia convincere ad accompagnarlo. Il turista si prende gioco del custode, lo terrorizza spacciandosi per De Lustris, l’artista autore del
quadro prezioso su cui il custode vigila da anni, e alla
fine si rivela un ladruncolo incaricato di distrarre il
guardiano mentre i complici rubano la preziosa opera
di De Lustris…
Incipit
Luogo: ala chiusa di un museo
Tempo: ferragosto caldo e abbagliante
Personaggi: il custode di un museo, un turista
Intreccio: un ladruncolo si finge turista smarrito e disperatamente bisognoso di un bagno per distrarre il custode di un museo mentre i complici si portano via un
quadro prezioso.
hi va là?»
Nessuna risposta. Il guardiano non
vede niente, ma tra il rumore del vento e
degli alberi sente chiaramente che qualcuno cammina, di fronte a lui, sul viale.
La notte di marzo, colma di nuvole e nebbia, ha avvolto la terra, e al guardiano
sembra che terra, cielo e lui stesso, con i suoi pensieri, si siano fusi in
qualcosa di enorme, impenetrabile e nero. Si può andare solo tentoni.
«Chi va là?» ripete il guardiano, e comincia a sembrargli di sentire anche un sussurro e un riso represso. «Chi è là?»
«Sono io, babbino…» risponde una voce senile.
«Io chi?»
«Sono… un viandante».
«Cosa vuoi essere un viandante?» grida, arrabbiato, il guardiano, che
vuol mascherare con la rabbia la propria paura.
he cosa fa qui?»
Nessuna risposta. Il guardiano non sente niente, ma
tra i riverberi dei faretti vede chiaramente la sagoma di
una persona che entra dalla porta, in fondo alla sala. Le
ferie estive hanno spopolato la città, e il guardiano, unica presenza umana nella grande ala chiusa del museo, si
sente come se tutto il mondo intorno a lui fosse scomparso, dissolto dal bagliore della luce che da qualche ora
gli sta infiammando gli occhi. Solo chiudendoli riesce a
vederci.
«Che fa qui?» ripete il guardiano, e gli sembra di intravedere, dietro la porta e in controluce, altre sagome scure che passano veloci e scompaiono subito. «Allora?»
«Cercavo un bagno, signora guardia…» risponde una voce affannata.
«Un bagno?»
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«Un bagno… sono un turista».
«Ma come un turista?» urla
scocciato il guardiano, che non
riesce a nascondere con la
scocciatura il sollievo di quella visita dopo ore di solitudine.
«Devi star proprio male. Per
entrare a ferragosto, a quest’ora, nel museo».
«Perché, questo è un museo?»
«Certo che è un museo. Non
li vedi i quadri?»
«Ohi ohi ohi, Madonna
mia» si vedono le gambe che
tremano. «Io non resisto, signora guardia, non resisto
più… tutto il giorno sotto il sole, a piedi, a bere e a sudare. E
adesso un goccio d’acqua devo
fare, signora guardia, mi devo
proprio liberare. Ohi ohi».
«Ma chi sei?»
«Sono un visitatore, signora
guardia, passo le vacanze in
città».
«Sciagurati che sono, disperati… e pure in vacanza stanno! Incontinenti…» sussurra il
guardiano, che a forza di star
solo ha perso le buone maniere. «Ti fanno esaurire! Lavorano tutto l’anno, e a ferragosto
si vengono a sfogare con l’arte. Però ho visto… mi sembrava che c’erano altre persone,
dietro di te. Siete un gruppo
organizzato?»
«Sono solo, signora guardia,
proprio solo. Un turista fai-da-
te. Ohi ohi ohi ho un’esigenza…»
Il guardiano sbatte contro la
sagoma e si ferma.
«E come sei finito qui, turista?»
«Mi sono perso, signore. Cercavo l’Albergo Commercio, dove ho una camera con bagno,
e mi sono perso».
«Complimenti! E questo ti
sembra l’Albergo Commercio?
Che razza di capra! Per l’albergo
bisogna continuare dritto, lungo il viale, poi al terzo semaforo prendere a destra per Via della Fiera, poi fino in fondo: lì inizia il Quartiere Mercati. L’albergo lo trovi dopo pochi isolati.
Tu dovevi star proprio male, hai
accorciato minimo di un chilometro. Ti porti dietro un bello stimolo, mi pare».
«Uno stimolo, signora guardia, davvero… in realtà, diciamo pure che sto scoppiando.
Ecco, io scoppio qui davanti a
lei, se non mi dice dove trovo
un bagno».
«Allora, turista, vai dritto per
questo corridoio, finché non
arrivi alla Sala delle Statue. La
attraversi tutta, prendi la porta a destra, scendi le scale e ti
ritrovi davanti a una porta con
la scritta Privato. Lì c’è un bagno, è il più vicino… fai quello che devi fare, poi richiudi.
Davanti a questa porta ce n’è
un’altra. È l’uscita di sicurezza. Stai attento allo scalino.
Una volta fuori dal museo, per
l’Albergo Commercio, attraversi il cortile del museo, e ti ritrovi sul viale. Da lì, primo semaforo, secondo semaforo,
terzo semaforo a destra, e ti fai
tutta Via della Fiera».
«Non so come ringraziarla,
signora guardia. Che siano benedette tutte le guardie, tutti i
musei e tutta l’arte del mondo! E se mi accompagna, gentile guardia? Per favore, fino al
bagno».
«Ma ti pare? Io devo controllare questa sala, lo vedi quel
quadro? È l’opera più importante del museo. È del grande
pittore De Lustris, e proprio
quest’anno ricorre l’anniversario della sua nascita».
«Capisco… ma io la prego, signora guardia. Per favore, sia
gentile. Non riesco quasi a
camminare… non resisto più,
signora guardia. Ohi ohi! Mi
accompagni, sia gentile».
«Ma io devo star qui, non
posso lasciare la sala! Se mi
metto a guidare tutti i turisti,
farei la guida turistica, e non
la guardia del museo!»
«La prego, mi accompagni.
Sto male e non conosco le
stanze del museo, da solo mi
perderei. Ho un’esigenza tremenda, non riesco neanche a
camminare. Uno stimolo, signora guardia, sto per scoppiare».
«Ma che tarlo che sei» sospi-
ra il guardiano «va bene, andiamo».
Il guardiano accende le luci
del corridoio, e fa cenno al visitatore di muoversi. Il visitatore, instabile sulle gambe, si
appoggia con un braccio sulla
spalla del guardiano, e così
camminano nel corridoio, senza dire niente. L’aria condizionata, fredda e tagliente, esce
dalle bocchette del soffitto, investendoli dall’alto, mentre
delle piante di origine tropicale, sistemate lungo le pareti, li
punzecchiano con le loro foglie appuntite. Il corridoio, affrescato con tinte chiare, ha un
pavimento di linoleum appena lucidato.
«C’è una cosa che ancora
non ho capito» dice il guardiano dopo qualche minuto di
silenzio «come sei finito qui?
Quest’ala del museo è chiusa
al pubblico. Non avrai mica
saltato i cordoni di sicurezza?
C’è scritto VIETATO sul cartellino, un turista dovrebbe saperle queste cose».
«Non so, signora guardia,
non mi rendo conto. Non so
proprio come ci son finito, qui.
È lo stimolo, che mi perseguita. Tutti i bar chiusi, e io che
mi porto dietro l’esigenza da
un bel po’. Ma lei, signora
guardia, allora lei è il guardiano del museo?»
«Sono il guardiano».
«Da solo in tutto il museo?»
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L’aria condizionata è così forte, che entrambi si fermano un
momento, tra una bocchetta e
l’altra. Il guardiano, dopo aver
superato il getto d’aria, risponde:
«Siamo in tre, qui, ma uno è
in ferie con la moglie, e l’altro
è nell’altra ala del museo, quella aperta. Ci diamo il cambio
ogni quattro ore, ormai tra poco mi tocca andare di là».
«Ecco, signora guardia, ecco.
Sentito che aria fresca? Forse,
anche le statue la sentono. Sono spifferi gelidi, questi qui,
che mi fanno stare ancor più
male… ohi ohi».
«Ma tu da dove vieni?»
«Non da lontano, signora
guardia. Sono del Distretto
Marittimo, io, un’ottantina di
chilometri da qui. Vado per città d’arte, appena posso, e scappo dalle spiagge affollate della provincia. Pensi che non so
neanche nuotare!»
Il guardiano si ferma un attimo, alla fine del corridoio, per
spegnere le luci. Poi apre una
porta dove c’è scritto SALA DELLE STATUE, e spinge il visitatore
dentro la sala. Nella sala, le
grandi vetrate delle finestre
fanno entrare le luci che provengono dalla città. Un chiarore tenue, dovuto alle lampade dei lampioni accesi lungo il
viale, si diffonde per tutto lo
spazio filtrato dalle tende bianche, e si posa sopra i busti di
marmo, immobili. Qualche
macchina che passa per strada
proietta sulle pareti i riflessi
dei suoi fari, come lampi a intermittenza che per alcuni
istanti fanno splendere a giorno la sala. Un riflesso scorre
sul viso dei due, che si fermano e si guardano.
«Ci guardano, le statue, ci
guardano fisse» sospira il visitatore, togliendo il braccio dalla
spalla del guardiano. «Ci guardano gli imperatori, e i filosofi,
e i grandi scienziati, e i condottieri, e i poeti illustri, e pure i sovrani. Molti dei più grandi uomini della storia stanno qui davanti a noi. Grazie a queste statue, il mondo si ricorderà sempre di loro, e le loro azioni rimarranno come esempio. È così
che vivranno in eterno».
«E già, i grandi uomini ci
guardano, e noi due…» fa il
guardiano «…noi due intanto
cerchiamo un bagno. Che uomini insignificanti che siamo!
Un guardiano che accompagna
in bagno un turista».
«È proprio vero, uomini inutili siamo. Piccoli, insignificanti, con le nostre azioni piccole, inutili, meschine. Ohi
ohi. La mia anima meschina,
il mio corpo debole, uomo misero che sono! Nessuno si ricorderà di me, né adesso, né
quando sarò morto. Insignificante come un pezzo di marmo prima di essere scolpito».
«Sì, bisogna lasciare una traccia del proprio passaggio».
«Sì sì, bisogna».
«Per un turista, forse, è ancora più difficile lasciare un ricordo…» dice il guardiano sorridendo.
«Di turisti ce ne sono tanti. Ci
sono quelli appassionati, artisti
loro stessi, che girano per musei
e poi una volta a casa si mettono a dipingere, fanno dei quadri che rimangono ai posteri, e
ci sono quelli inutili, che si
perdono nelle città in cerca di alberghi, o di bar per orinare! E c’è
anche quello, un turista, che ti
dà una schioppettata, e ti manda all’altro mondo!»
«Perché dici queste cose?»
«Ma così… Ecco, siamo arrivati in fondo alla sala. Questa
dev’essere la porta che dà sulle scale. La apra pure, signora
guardia».
Il guardiano apre la porta,
spinge fuori il visitatore e lo
regge fino alla fine delle scale.
«E qui finalmente c’è il bagno» dice il guardiano. «Fai
quello che devi fare, poi richiudi e prendi quell’uscita.
Stai attento allo scalino, lo vedi, no? Quando sei fuori, attraversi il cortile, e ti ritrovi sul
viale. Da lì, primo semaforo,
secondo semaforo, terzo semaforo a destra, ti fai tutta Via
della Fiera, e sei all’albergo».
«Ohi ohi…» sospira il visitatore, dopo un po’ di silenzio.
«Però adesso mi sembra quasi
che non ho più lo stimolo, di
andare in bagno… Perché dovrei
andare in bagno, se non sento
più l’esigenza? È meglio, signora
guardia, se resto qui con lei…»
«Perché dovresti restare qui
con me?»
«Ma così… per fare altri discorsi».
«Sì, altri discorsi! Ma di che
vuoi parlare ancora? Turista, ti
piace scherzare a te…»
«Certo che mi piace!» dice il
visitatore, con un sorrisetto.
«Ah, lei, mia cara signora guardia! Forse si ricorderà per sempre di questo turista».
«Perché mi devo ricordare di
un turista?»
«Be’, così… l’ho presa in giro
bene… Secondo lei sono un turista, io? Non sono per niente
un turista».
«Chi sei?»
«Un pittore famoso… che dovresti conoscere bene. Hai presente il De Lustris, che sorvegli tutti i giorni con tanta attenzione? Ecco, io sono proprio
l’autore del quadro che hai
sempre sotto gli occhi. Sono
Loris De Lustris».
«Mi prendi in giro».
Il guardiano non ci crede, ma
prova un imbarazzo così forte,
un vero e proprio sgomento, che
si stacca dall’altro avvicinandosi
all’uscita di sicurezza.
«Stai fermo, dove vai?» dice
il visitatore prendendolo per
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un braccio. «Ti sembra il modo questo, di trattare un grande artista?»
«Mi lasci!» grida il guardiano, sforzandosi di liberare il braccio.
«Stai fermo! Ti ordino di stare fermo… E non scappare, stupido ometto!
Se vuoi vivere ancora, devi stare fermo
e muto, finché io te lo ordino… Non
mi va di ammazzare qualcuno la sera
di ferragosto, altrimenti l’avrei fatto già
da un pezzo, omuncolo che non sei altro!»
Il guardiano si sente svenire. Chiude
gli occhi terrorizzato e, tremando in
tutto il corpo, si appoggia alla porta del
bagno. Vorrebbe urlare, ma sa che il
suo grido non arriverebbe all’altra ala
del museo… Vicino a lui sta il visitatore e lo tiene per un braccio. Passano tre minuti di silenzio.
«Uno è in ferie con la moglie, l’altro
sta nell’altra ala a fare i fatti suoi, e il
terzo accompagna in bagno i turisti»
borbotta il visitatore. «Dei bei guardiani siete, gli si potrebbe pagare lo
straordinario! E no, fratello, i ladri sono sempre stati più svelti delle guardie! Stai ancora fermo, non muoverti…»
Passano in silenzio cinque, dieci minuti. All’improvviso dal taschino del
visitatore esce un bip.
«Be’, adesso vai» dice il visitatore, lasciando il braccio. «Torna alle tue opere d’arte, e ringrazia che non t’ho ammazzato».
Il visitatore prende dal taschino un
trasmettitore, e preme a sua volta un
tasto che emette un bip. Poi apre
l’uscita di sicurezza, supera indenne lo
scalino e di corsa sparisce nel cortile.
Il guardiano, tremando ancora per lo
spavento e preso da uno strano presentimento, torna indietro risalendo le
scale di corsa, attraversa la Sala delle
Statue, sempre di corsa, e tutto il corridoio. Mentre sta per entrare nella sua
sala, sente dei passi e una voce provenire dall’altro lato del corridoio. «Sono qui, Luigi! Faccio un sopralluogo
nel Salone delle Nature Morte, e poi
vengo a darti il cambio».
Entrato nella sala, il guardiano nota
un faretto spostato rispetto al solito.
Non è rivolto verso la parete, ma punta verso di lui, dritto negli occhi, e quasi lo acceca. Più si avvicina alla parete, più la luce si fa forte e più aumenta il presentimento di qualcosa di
brutto.
«Non riesco a vedere, qualcuno ha
spostato il faretto. Ma la parete, Madonna santa, sembra diversa… Oddio,
è proprio così!»
Per un minuto il guardiano sta immobile, fisso, davanti alla parete vuota, e con terrore guarda il vuoto: una
grande chiazza rettangolare di un metro e mezzo per un metro circa, di un
bianco più chiaro rispetto al resto della parete. Una zona rimasta protetta
da molto tempo dietro il famoso quadro, e ora finalmente visibile, completamente pulita, senza più il quadro che
la copriva.
Passa ancora un po’ di tempo, e il
passaggio di un motorino, lungo la
strada, diffonde per la sala il rombo attutito di una marmitta truccata.
JOSEPH CONRAD Tifone una moltitudine, come se io fossi l’umaL’originale in pillole
Simone Lisi
nità. Dice proprio così: «Voialtri dovreUn uragano toglie ogni luce, sradica
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tutto, separa con violenza anche i
marinai.
Il giovane Jukes non ha mai visto
niente di simile, quasi non crede di
essere ancora vivo. Abbarbicato a un
albero della nave, attende che la furia
cali, ma viene sbalzato in acqua da
un’onda gigantesca. In mezzo ai flutti,
in pieno oceano, intravede il capitano
MacWhirr: i due si abbracciano e si
sostengono a vicenda.
Luogo: oceano
Tempo: una notte qualsiasi
Personaggi: il capitano di una nave, il
suo secondo, marinai
Intreccio: nel turbine di un uragano
senza precedenti, un giovane secondo
viene sbalzato in mare da un’onda
ciclopica, e lì ritrova e abbraccia il suo
capitano.
Incipit
ukes era sveglio né più né meno come
qualsiasi manciata di giovani pescati
gettando la rete in mare; e per quanto fosse stato colto piuttosto di sorpresa dall’impressionante brutalità della prima raffica, si era riavuto all’istante, aveva chiamato l’equipaggio e ordinato la chiusura
di tutte le aperture in coperta che non fossero già state assicurate nel corso della serata. Gridando con voce fresca e stentorea:
«Su, svelti, ragazzi, datevi da fare!» dirigeva l’azione, continuando a ripetersi che
lui “se l’aspettava”.
J
I coinquilini di Joseph
La cover in pillole
Secondo Vanni Raul, l’umanità si dibatte
in un turbine di ignoranza e complotti. E
il suo malcapitato inquilino, per chiarirsi
le idee e farlo contento, anziché godersi
la lettura di Conrad deve immergersi in
una seduta di ipnosi, durante la quale
viene a galla una tempestosa vacanza
con il padre divorziato: uno gioca a fare
il capitano, l’altro il luogotenente. Alla
fine, non è chiaro se sia più tempestoso
il passato, o il presente.
Luogo: un bilocale, un campeggio
Tempo: un pomeriggio qualsiasi di una
settimana al mare
Personaggi: giovani coinquilini, un
padre divorziato
Intreccio: nel corso di una improbabile
seduta di ipnosi tra coinquilini, un
giovane ricostruisce una ‘conradiana’
tempesta vissuta in campeggio con il
padre.
accio questa cosa con Vanni Raul.
Chi è Vanni Raul? Vanni Raul è il mio
coinquilino complottista. Ultimamente ha
un po’ smesso con questa cazzata dei complotti, tutto il giorno in camera a leggere dell’undici settembre, scie chimiche, massoneria, ecc., e poi in cucina a pontificare su noialtri che viviamo nell’oscurità e non sappiamo niente di come va il mondo. Io non
avrei proprio niente contro Vanni Raul: è
solo che non sopporto che si rivolga a me,
perché ci sono solo io, come se fossimo
F
ste aprire gli occhi. Dovete smettere di
vivere nella menzogna». E io allora stancamente gli rispondo che sì, che in effetti noialtri viviamo nell’oscurità e che
non capiamo niente di come va il mondo e della vera realtà delle cose, ma che
siamo un attimo occupati, tutti quanti
noi, che per l’appunto stiamo leggendo
un libro, di Conrad, e ci piace molto, e
non vorremmo essere disturbati. Ma
questo da un po’ non succede più perché ultimamente Vanni Raul ha lasciato perdere i complotti e si occupa di ipnosi. Giorni interi chiuso in camera a
leggere roba su internet: uno stato di autismo che mi fa un po’ preoccupare, ma
ormai lo conosco e passerà anche questa. Va bene. Allora faccio questa cosa
con Vanni Raul, perché dopo un po’ è
uscito dalla stanza e ha bisogno di una
cavia. Si rivolge dunque a noi umani
chiedendoci se abbiamo un qualche ricordo traumatico che vogliamo rivivere
in trance. Francamente noi faremmo anche a meno, rispondiamo. Ma poi insiste, la butta sulla sfida e allora faccio
questa cosa, perché non resisto alle sfide o perché sono un po’ autistico anche io, insomma anche noi.
O forse perché in effetti un ricordo traumatico ce l’abbiamo, ce l’ho, e perché non
credo a niente di quello che mi dice Vanni Raul e voglio che tutta questa stronzata finisca, i complotti, la lettiera merdosa del gatto, le bollette dell’Eni, e
ora anche l’ipnosi. Me ne devo andare
da questa fogna. Allora ci mettiamo in
cucina, una sedia davanti all’altra.
Lui parla con un tono di voce basso e
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pacato e io un po’ lo ascolto e
un po’ continuo a pensare
sempre la stessa cosa: coglione. Finisce che sono in questa
stanza che è la mia mente, c’è
uno schermo e io devo pensare al mio ricordo come se fosse proiettato su quello schermo.
Sono bambino. Sono su una
spiaggia con mio padre. Sono
un bambino felice, normale,
forse un po’ triste, ma normale e me ne sto su questa spiaggia della Puglia con mio padre.
Però il tempo cambia all’improvviso, si alza un vento dal
mare e arrivano delle nuvole
che non c’erano un attimo
prima. La gente non se ne cura
e noi nemmeno. Però poi si fa
buio, sempre così, dal niente,
quasi a caso. E la gente e noi ci
facciamo caso. E a questo punto, ecco la cosa vera: dal mare
compare qualcosa, è piccolo al
principio, ma cresce. Si avvicina verso di noi. È una tromba
d’aria. La gente urla, l’uragano.
Io non ho paura però, perché
sono di quei bambini coi genitori separati che già ne hanno
viste di tutte, le liti notturne, i
nuovi amori, il mondo non è
un posto rassicurante, il mondo è un posto ostile e non si sa
mai che cosa può succedere da
un momento all’altro. Non ho
paura perché c’è mio padre.
Vanni Raul mi interrompe:
«Te lo chiami?»
«Certo che lo chiamo, Vanni,
sono un bambino, ho paura, e
allora lo chiamo e gli chiedo
cosa sta succedendo e che cosa facciamo».
«E come lo chiami?»
«Lo chiamavo il Comandante. A lui piaceva e anche a me.
Eravamo lì in campeggio e
c’era questa stronzata padrefiglio dell’essere una sorta di
squadra. Quelle cazzate lì».
«Va bene, continua».
E io allora continuo. Tutti
corrono e allora corriamo anche noi. Comincia anche a
piovere e noi arriviamo alla
tenda sotto gli alberi del campeggio, davanti la nostra macchina. Lui mi fa salire in macchina, mi dice qualcosa che
non ricordo.
«Vuoi che ti faccia ricordare
cosa ti ha detto tuo padre?»
«No, voglio finire di raccontarti ’sta storia, se mi lasci parlare».
«Non ti devi opporre all’ipnotizzatore, così ostacoli il fluire della trance».
«Sì, va bene, Vanni. Vorrei solo dirti come è finita la storia».
È buio ora, dentro la stanza
buia che è la mia mente. Ed è
buio anche lo schermo su cui
dovrebbe proiettarsi il mio ricordo. Ma io lo so che sono
sempre quel bambino dentro
la macchina, che guarda tutta
la scena dai finestrini, e ancora le gocce di pioggia che si
uniscono al sudore freddo che
cola nella canottiera. Vorrei divagare, parlare di quella canottiera di un io bambino. Me
la ricordo celestina o forse color pesca, uno di quei colori
pastello che fanno così infanzia al mare. Una di quelle canottiere con sopra disegnato
un elefante, con la corona, disegnato sempre con dei colori
pastello.
«E che vedi adesso?»
«Vedo il Comandante».
Il Comandante si dibatte tra
il vento e gli scrosci di pioggia.
Il tifone è vicino. La pineta
squassata, alberi che cadono, e
lui si ostina a rimanere lì fuori, per reggere la nostra canadese – care tende dei tempi
passati – per far sì che non sia
trasportata via dalla tromba
d’aria. Io forse un po’ urlo, certamente piango. Il Comandante ha altro a cui pensare,
lotta contro gli elementi e io
penso, per un momento, che
non ha senso niente e che gli
servirebbero quattro braccia,
come Shiva, e la mole di un
elefante, quello della mia canottiera, per far sì che la canadese e lui stesso non siano portati via dal vento. Ho le mie
mani da bambino appoggiate
ai finestrini, mani piccole e
tozze, mani senza graffi, senza i calli, senza i tagli e le cicatrici di oggi. Vorrei ancora divagare, parlare delle mie ma-
ni sullo schermo che è ancora
nero, e a tratti illuminato dai
lampi, e la faccia contratta del
Comandante con la sua maglietta da fricchettone Think
Pink, California. Le mie mani
sullo schermo nero nella stanza nera che è la mia mente.
«Smetti di cazzeggiare sulle
tue mani di bambino. Che hai
fatto dopo?»
«Eccheccazzo, Vanni, sono
ipnotizzato. Un attimo. Che ho
fatto dopo? Ora te lo dico: dopo sono uscito dalla macchina».
Apro la portiera, con le mie
piccole mani da bambino,
quelle mani paffutelle, che ancora non hanno conosciuto i
lavori umilianti, gli acidi corrosivi per pulire i bagni dei teatri, non hanno le cicatrici dei
bicchieri rotti ad asciugarli dopo ore di lavoro nelle osterie di
periferia, quelle mani di bambino che hanno visto solo la
sabbia».
«E basta con ’sta cazzata delle tue mani di te bambino!
Niente. L’ipnosi non è riuscita. Ti sei opposto all’ipnosi e
per questo non ha funzionato. La prima regola dell’ipnosi
è che uno deve voler essere ipnotizzato. Se ci si oppone, non
riesce».
«Stronzate. Sei te che non sei
in grado. Credi che basti un
corso di ipnosi su Youtube per
saperlo fare. Pensi che i blog
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che leggi su internet abbiano un
valore di verità o attendibilità minimamente superiore a quello che
leggiamo sui giornali? Non pensi
che sarebbe il caso di lasciar perdere la situazione in Iran e rivolgere
la tua attenzione alla lettiera di
Amy Forster?»
Allora mi alzo dalla sedia e si alza anche lui. Bevo dell’acqua e accendo una Camel gialla al fornello ché gli accendini della casa spariscono come risucchiati dai buchi
neri di cui parla, a volte, Vanni
Raul.
Poi gli chiedo scusa. Gli dico che
in fondo della merda del gatto non
me ne frega niente, che ha ragione,
ci sono cose più importanti.
«Hai ragione te, sai. È stato orribile quello che hanno fatto al Cucchi. E Pier Paolo aveva già capito
tutto trent’anni fa».
Gli offro una sigaretta, e questo
è il modo in cui di solito faccio la
pace con Vanni Raul.
«Ma com’è andata a finire la storia del Comandante?»
«Niente. Io sono corso da lui. Lui
mi ha sorriso e mi ha detto che il
peggio non arriva mai tutto insieme».
«E che vorrebbe dire?»
«Che per illuminare quella storia mi ci sarebbero voluti quindici
anni, penso».
E per rielaborare questo presente
almeno il doppio.
Filippo Avigo
L’ultima vacanza
La cover in pillole
Un uragano sta per travolgere una grande
banca. Dirigenti, migliaia di lavoratori,
azionisti coleranno a picco se non si
vende subito a un odiato gruppo
spagnolo. Forse non sarà sufficiente. Al
termine di un angosciante vertice a bordo
di un lussuoso yacht, il direttore generale
si tuffa per un bagno. Quando risale a
bordo e abbraccia l’AD, tocca con mano
che ogni possibile rimedio, maneggio o
avventura è davvero alle spalle.
Luogo: uno yacht sul mare Egeo
Tempo: un luminoso pomeriggio di
agosto
Personaggi: top management di una
grande banca
Intreccio: un tifone senza precedenti sta
per travolgere una grande banca. O si
vende, o si sprofonda. Risalendo a bordo
dello yacht dopo un ultimo bagno, anche
il tenace direttore generale si rende conto
che tutto è davvero finito.
iudici era già sveglio. Come solo dopo un
buon caffè e una bella pippata si può essere svegli, anche se la notte prima non si è
dormito più di un paio d’ore. E non l’aveva
sorpreso più di tanto la telefonata del direttore finanziario, ricevuta poco dopo il mezzogiorno di una luminosa giornata di fine agosto, sullo yacht da centoventimila euro a settimana noleggiato per la meritata vacanza.
“Ragazzi, riunione!” gridò ai suoi collaboratori, che come ogni estate avevano accet-
G
tato di buon grado di continuare a frequentare i capi anche in vacanza. Erano ancora
immersi nella penombra delle loro cabine,
ammucchiati a casaccio con le tipe raccattate il giorno prima a Santorini, ma presto, come erano soliti fare in qualsiasi circostanza,
si sarebbero presentati a rapporto.
“Me l’aspettavo” continuava a ripetersi Giudici, ma iniziava a rendersi conto che in realtà non se l’aspettava per niente. Le prime
parole sibilate al telefono dal direttore finanziario erano bastate a fargli capire che la situazione era ben più grave di quanto avesse
mai potuto immaginare.
Iniziò a pensare che questa volta non se la
sarebbero cavata come in altre occasioni, che
oliare un po’ gli ingranaggi e attivare i contatti giusti non sarebbe stato sufficiente a risolvere il problema.
Mentre cercava di spiegare la situazione all’amministratore delegato, salito nel frattempo sul ponte dello yacht, il cielo si era fatto di
un azzurro limpidissimo, attraversato dalla
brezza leggera che aveva dissolto anche le ultime sfilacciate nubi all’orizzonte. Giudici era
felice di lavorare con il dottor Palatino, amministratore delegato fin dai tempi in cui era
stato assunto. Aveva avuto l’occasione di conoscerlo di persona già il primo anno, quando gli si presentò spontaneamente durante
una cena che si tenne nel corso di una convention aziendale a cui aveva avuto la fortuna di partecipare. Non aveva fatto pesare in
alcun modo il suo ruolo e da subito aveva trasmesso la stessa sensazione di grande sicurezza che anche ora, a distanza di anni, continuava a infondergli. Era come se il solo fatto di averlo accanto potesse scongiurare qualsiasi evento negativo. La sua leadership era
una dote innata ed era talmente naturale riconoscerla in tutti i suoi atteggiamenti che
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non gliela invidiava neppure.
Era semplicemente orgoglioso
di lavorare per lui. L’amministratore delegato, o meglio, come si diceva, l’AD, non aveva a
sua volta un punto di riferimento. Il destino di un vero
capo è quello di essere solo. E
lui, nella sua solitudine, stava
cercando di capire dal racconto di Giudici e da quello che
già da tempo sapeva, se l’unica prospettiva della Banca –
una delle più grandi a livello
nazionale – fosse davvero il fallimento. Gli enormi debiti
contratti per finanziare il piano di espansione erano diventati insostenibili, alla luce di
una riduzione dei ricavi ormai
strutturale e di un patrimonio
ridotto a dimensioni da Credito Cooperativo.
Per un attimo gli balenò il
pensiero di se stesso costretto
a spostarsi senza autista per il
week-end da Milano a Portofino, delle prossime vacanze su
una barchetta modesta probabilmente priva di equipaggio,
dei milioni di euro di bonus
completamente azzerati…
Era abituato a ragionare in silenzio sulle cose. Non aveva
mai perso la sua capacità di
analisi, nonostante fosse chiamato continuamente a prendere decisioni immediate.
Giudici gli diede una pacca
sulla spalla, sorridendo: “Siamo
in un bel casino, questa volta!”
Il blackberry di Palatino si
mise a vibrare sul tavolo apparecchiato per la prima colazione. Anche i tre collaboratori
che nel frattempo erano saliti
sul ponte rimasero immobili,
con gli occhiali scuri fissi sulle tazzine di caffè. Forse al direttore finanziario non era sufficiente la telefonata di poco
prima con cui aveva informato il direttore generale Giudici. Riteneva necessario parlare
di persona con l’amministratore delegato.
Ma non era il direttore finanziario che chiamava. E comunque Palatino rispose con
freddezza al presidente, come
se fosse già al corrente di tutto. Le catastrofi si possono propagare rapidamente via etere,
rimbalzando i loro effetti devastanti da un telefono all’altro.
Giudici non ci credeva. Si
convinse di stare vivendo uno
dei suoi soliti incubi. L’unica
prospettiva per salvare l’azienda dal fallimento era quella di
cederla a un famelico – e odiatissimo – gruppo bancario spagnolo, che sarebbe stato disposto ad accollarsi gran parte
dei debiti solo in cambio della
garanzia di poter intervenire
drasticamente nella gestione. E
questo voleva dire almeno quindicimila dipendenti licenziati
utilizzando le procedure d’urgenza applicabili in situazioni
di crisi conclamata e, soprattutto, tutta la prima linea manageriale azzerata. Solo così si
poteva concludere l’operazione
e non penalizzare eccessivamente gli azionisti, che negli ultimi sei mesi avevano visto diminuire del settanta percento
il valore del titolo in borsa.
Giudici si considerava giovane. Non aveva ancora quarant’anni. Ma di crisi finanziarie
ne aveva già attraversate, nel
corso dei quindici anni trascorsi in azienda. Quella che
stavano vivendo però non si
poteva neppure chiamare crisi. Era qualcosa di diverso e di
enorme, che loro stessi avevano contribuito a far crescere
con discreta consapevolezza.
Acquisizioni a prezzi esagerati
di banche dai bilanci non proprio trasparenti, redditività generata in gran parte da commissioni sempre più alte fatte
pagare a clienti ormai cronicamente insoddisfatti, alienazione di gran parte degli immobili più prestigiosi - sedi
operative e di rappresentanza
a Milano, Roma e nelle principali città italiane – necessaria a trovare i fondi per proseguire la folle rincorsa a un gigantismo esasperato, i cui vantaggi nessuno onestamente sarebbe stato in grado di individuare.
Immaginò la scena del suo ritorno in ufficio, giusto il tem-
po necessario a far preparare
gli scatoloni con i suoi effetti
personali da portare via. Ed ebbe la sensazione che non sarebbe stato possibile trovare
una strada diversa nel momento in cui avesse lasciato
l’azienda in cui era cresciuto
professionalmente.
Si era seduto su una poltroncina un poco in disparte rispetto ai divani da dove sentiva Palatino fare domande, proporre piani di intervento, e gli
altri rispondere confusi.
“Dobbiamo essere intelligenti…” diceva l’AD “…definire
una strategia che tatticamente
ci consenta di convincere gli
azionisti che ci possono essere
alternative più remunerative
rispetto a quella di darci in pasto agli spagnoli”.
“Intelligenti, sì…” pensò Giudici. “Intelligenti di quell’intelligenza furba che tatticamente, più che strategicamente, consenta di salvarci il culo”.
“Dovremmo attivare i nostri
contatti a Roma…” proponeva
quel cretino di Piscitelli. “Capiranno che un gruppo come
il nostro non può essere svenduto a una società straniera.
Ce lo devono, in nome dell’italianità!”.
“Sì, forse se ci sbrighiamo
possiamo far intervenire…”
Le voci arrivavano alle sue
orecchie sempre più confuse,
alimentando il torpore del
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quale si sentiva tornare preda,
nonostante gli eccitanti assunti poco tempo prima.
Si alzò distrattamente dalla
poltroncina, mosse qualche
passo verso la cambusa, in realtà una sala da pranzo con cucina che non avrebbe sfigurato in un attico in San Babila.
Poi proseguì fino alle cabine,
barcollando come se fosse ancora ubriaco dalla sera prima.
Risalì la scaletta di prua e si trovò di fronte il sole abbacinante
del Mediterraneo. Il mare, nella baia, era appena increspato
dalla brezza leggera.
Aveva ancora nelle orecchie il
borbottio confuso di Palatino,
che pure era rimasto a poppa
insieme agli altri. Trovò naturale tuffarsi, così com’era, in
maglietta e bermuda, senza
neppure calare la scaletta.
Le correnti fresche dell’Egeo
avvolsero il suo corpo in un
abbraccio rassicurante. Riemerse dopo aver nuotato a
lungo in apnea, a una trentina
di metri dall’imbarcazione. Si
lasciò cullare sul dorso per un
po’, cercando di fissare il sole
alto nel cielo sopra di lui, gli
occhi trasformati in due fessure. Probabilmente trascorse
qualche minuto senza pensare
a niente.
Quando tornò in sé ricominciò a prefigurarsi le conseguenze di quanto stava accadendo. In ogni caso centinaia
di migliaia di clienti avrebbero
perso i loro risparmi. Migliaia
di impiegati si sarebbero trovati senza lavoro. Molti, sia tra
gli uni che tra gli altri, non
avrebbero più avuto una casa
in cui tornare, la sera. Immaginò i suoi stessi benefit abbandonare per sempre il suo
più che decoroso stile di vita. E
cercò di capire se avrebbe ancora potuto permettersi di
mantenere qualcuno che accudisse Paolino, il suo gatto
birmano.
“No, cazzo! Non è possibile!”
si trovò a ululare al cielo, pensando alla catastrofe più atroce.
Iniziò a gridare per richiamare
l’attenzione dell’equipaggio e
farsi ritirare a bordo. Doveva
mettersi in moto anche lui, per
elaborare un piano che consentisse di far fronte alla situazione.
Passarono pochi secondi prima che una cima gli fosse gettata a poca distanza. L’afferrò
e si fece trascinare verso lo
yacht. Quando fu vicino all’imbarcazione trovò la scaletta abbassata e iniziò con foga
ad arrampicarsi, grondante di
mare e di rabbia.
“Che ti prende?”
Ad accoglierlo aveva trovato
Palatino, che lo aveva apostrofato pacatamente.
“Dobbiamo essere lucidi e intelligenti. Pensare a una strategia da attivare immediata-
mente. E tu che fai? Ti butti in
mare a urlare come una foca
ferita?”
“Altro che intelligenti. Spiegami che c’entra l’intelligenza con tutto questo, quando
mai questa cazzo di banca è
stata guidata con intelligenza…” avrebbe voluto rispondere Giudici “e la mossa tatticamente migliore quale sarebbe?
Trovare qualche pirla che si fa
fottere al posto tuo?”
Invece rimase muto e immobile, ascoltando il rumore che
facevano le gocce d’acqua cadendo sul ponte dai suoi calzoni, mentre il sole e la brezza
già iniziavano ad asciugargli la
pelle.
Bastarono pochi istanti per
fargli intuire che era presto per
voltare le spalle all’AD. Era ancora nelle sue mani. Meglio
quindi se ne assecondava gli
umori, in attesa di capire se sarebbe stato in grado di cavarsela anche questa volta.
Andò a recuperare il suo portatile in cabina e iniziò a digitare rapido sulla tastiera.
“Stanno per uscire altri tre report in cui gli analisti consigliano di vendere il nostro titolo. E sono analisti importanti. Non mi risulta sia trapelato ancora nulla e in borsa oggi stiamo già perdendo un altro 4%”.
Cercava di mettere in fila le
cose che bisognerebbe fare in
queste situazioni, per raccogliere le informazioni necessarie a
prendere una decisione.
“E i dati di vendita sono imbarazzanti. Sono appena arrivate le statistiche di ieri e i ricavi del risparmio gestito non
sono mai stati così bassi. Anche le vendite di polizze assicurative sono ai minimi storici. Abbiamo milioni di clienti
ma le agenzie si sono completamente fermate!”
“È normale”. Sentì di nuovo
la voce calma di Palatino, forgiata dall’abitudine a gestire le
proprie emozioni.
“Non stanno più vendendo
un cazzo!” ribadì Giudici pensando di essere stato frainteso.
“Che cosa pretendi?” disse laconico l’AD, continuando a
passeggiare sul ponte. “Anche
loro stanno iniziando a capire… Sono mesi che a stento gli
paghiamo gli stipendi.”
Giudici rimase in silenzio, nel
sole. E Palatino non aggiunse
altro.
Eppure, se qualche analista
avesse redatto un report anche
solo decente, se almeno qualcuno di quegli sfaticati consulenti delle agenzie avesse ricominciato a fare il suo dovere,
se si fossero trovati gli investitori per garantire un ulteriore
aumento di capitale, una minima possibilità di salvarsi ci
sarebbe stata.
Ma la piccola speranza che
VICTOR HUGO La piccina sola soletta
Giudici ancora si portava L’originale in pillole
dentro si dissolse sotto Per recarsi alla fonte a prendere l’acqua
Leonardo Nozzoli
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quello splendido sole.
“È inutile. Questa volta è
davvero tutto perduto” si
disse. Era impossibile che
si verificasse anche uno solo di quegli eventi. Non si
poteva più rimediare agli
anni di gestione irresponsabile dell’azienda, agli errori accumulati per ingordigia anno dopo anno.
Appoggiato al parapetto
dello yacht guardava sotto
di sé la trasparenza del mare, attraversata da una luce così intensa da consentirgli di seguire le forme
delle rocce sul fondale.
Si sentì abbracciare teneramente alle spalle. E teneramente, ma con prudenza, pensando che qualcuno avrebbe speculato
ancora di più sulla vicenda se fossero girate fotografie compromettenti, rispose all’abbraccio cingendo la vita di Palatino. Voltò la testa appena un poco
di lato e le sue labbra incontrarono quelle dell’AD
in un accenno di bacio privo di passione. Rimasero
abbracciati così, a lungo,
sotto il sole. Due vecchi
amanti che non si amavano più.
per la locanda dove lavora, Cosetta,
nove anni, lascia le luci del paese e si
avventura nel buio del bosco. Tutto è
minaccioso, pieno di presenze
inquietanti: lei vorrebbe rinunciare,
ma le reazioni della padrona, l’orribile
Thénardier, la atterriscono più di tutto.
In un impeto di coraggio, raggiunge la
fonte e riempie il secchio. Sulla via del
ritorno, quando il terrore sta per
sopraffarla, una mano che sente amica
si posa sulla sua spalla, le prende il
secchio: Cosetta decide di fidarsi.
Luogo: paesino, campi, bosco
Tempo: una serata tenebrosa
Personaggi: Cosetta, la cattiva
Thénardier, una ‘presenza’ amica
Intreccio: una bimba va a prendere
l’acqua alla fonte nel bosco, a tarda
sera, e ha tanta paura; sta per essere
inghiottita dal terrore, ma incontra
una persona che la aiuta e la rassicura.
L’apparenza inganna
La cover in pillole
Una studentessa quindicenne lavora nel pub del
patrigno, che la chiama Cosetta per disprezzo e non
ha buone parole per lei. Mentre lei porta ai
cassonetti della differenziata bottiglie e spazzatura,
scoppia il temporale, la luce svanisce. Nel buio pesto,
in mezzo a fruscii sospetti, mugolii, mani che la
sfiorano, l’unica presenza amica sono i coloratissimi
cassonetti. Quando la paura sta per sopraffarla, le
ombre di una giovane collega, della mamma, del
patrigno divenuto quasi ‘sostenibile’ compaiono dal
buio e le ridanno coraggio...
Incipit
Luogo: un pub, un paese di provincia, un teatro
Tempo: serata di temporale
Personaggi: un patrigno crudele, una ragazzina, una
collega simpatica, la mamma, i cassonetti della
spazzatura
Intreccio: angosciata dal buio, dal temporale, tra
mugolii e fruscii sinistri, una ragazzina che rientra
dalla buia zona-cassonetti della raccolta differenziata
verso il pub dove lavora, scopre sicurezza e conforto
dove non se l’aspettava.
oiché la locanda Thénardier si trovava
in quella parte del paese che è accanto
alla chiesa, Cosetta doveva andare ad attingere l’acqua alla sorgente del bosco, in direzione di Chelles.
La bambina non guardò più un solo banco di merci esposte. Finché fu nel vicolo del
fornaio e nei dintorni della chiesa, le botteghe illuminate le rischiaravano la strada, ma di lì a poco anche l’ultima luce dell’ultima baracca scomparve. La povera bambina si trovò al buio.
osetta non era il suo vero nome. E non era neppure
un soprannome. Ma il suo patrigno l’aveva sempre
chiamata così: forse per pigrizia o scarsa memoria; o, più
probabilmente, perché la considerava nient’altro che una
piccola cosa, che aveva dovuto accettare – volente o nolente – come dote della sua donna.
“Cosetta!” la chiamò senza alcun riguardo “quante volte ti ho detto che questo schifo non deve restare qua?!”
Cosetta aveva quindici anni. Studiava ragioneria con buoni risultati. Il venerdì sera – e a volte anche il sabato – dava
una mano nel pub del patrigno: portava fuori l’immondizia, puliva i tavoli, preparava qualche birra, e così via. Lo
P
C
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faceva non certo per lui ma solo
per sua madre, rimasta troppo
presto senza un marito e senza
un lavoro.
“Questa roba manda un odore!” esclamò il patrigno con tono snob “il mio è un locale di
un certo stile... Ah! Già che ci
sei: butta via anche quella borsa di bottiglie vuote”.
Anche un ‘grazie’ finale sarebbe stato di un certo stile.
Cosetta si caricò, come al solito, di una buona dose di pazienza. Prese le due borsone –
una piena di bottiglie vuote e
l’altra di qualunque porcheria
avanzata – e si avviò sul retro
del pub.
Dalla cucina uscì Francesca,
una bella ragazza bionda di circa vent’anni, studentessa universitaria: faceva l’equilibrista
con due vassoi carichi di boccali, focacce e coppe di gelato.
“Dove vai?” le chiese con un
sorriso dolce conoscendo già la
risposta “ha cominciato a piovere di brutto! Prendi il mio
ombrello, laggiù, vicino alla
porta: se ritorni zuppa d’acqua,
lo senti Lui...”
“Grazie, Francesca!” le rispose Cosetta con un tono tra il
grato e l’ammirato.
“Di che?” chiosò la ragazza
strizzando l’occhio e mostrando i suoi denti bianchissimi.
Le piaceva Francesca: era
sempre sorridente. Sperava di
diventare come lei, un giorno.
Aprì la porta che dava sul retro. Pioveva davvero di brutto:
pioggia dritta, quasi disegnata.
Imbracciò i due borsoni alla
bell’e meglio. Poi prese l’ombrello e, puntando fuori, l’aprì
avviandosi verso i cassonetti.
I due borsoni erano molto
pesanti. I manici di plastica ci
misero poco tempo per assottigliarsi sotto il peso dei rifiuti
che portavano, tanto da diventare una vera e propria tortura per la povera Cosetta.
Avrebbe voluto tornare indietro,
chiedere aiuto. Ma la faccia e le
urla del patrigno non erano certo una gran prospettiva.
Prese coraggio e, ancheggiando goffamente, s’incamminò
verso i cassonetti.
C’era poca luce nei vicoli dietro il locale. Una luce opaca,
quasi untuosa. Ogni tanto, tuttavia, un fulmine balenava
nell’aria spargendo tra quelle
strade anguste un nitore intenso, bianchissimo.
La cosa, però, non tranquillizzò la ragazzina. Anzi. I fulmini, infatti, scattavano fotografie tutt’altro che rassicuranti.
Un ubriaco, in ginocchio e
con le mani poggiate per terra,
era alle prese con gli effetti di
una sbornia colossale. I conati lo facevano sobbalzare in
avanti con una curiosa intermittenza, mentre il vomito gli
accarezzava le dita.
Alcune scatole di cartone, in
un angolo, si muovevano come fossero vive. E, ogni tanto,
la testa arruffata di un inquilino assonnato spuntava tra le
scritte ALTO e FRAGILE.
In un altro angolo, una prostituta appesa al muro si sforzava di miagolare piacere;
mentre il suo ultimo spasimante ondeggiava avanti e indietro cercando di dimostrarsi
la propria virilità.
Cosetta rabbrividì, ma quel tremore sembrò darle la carica per
accelerare i suoi piccoli passi. In
men che non si dica – ed evitando di guardarsi attorno – arrivò al suo obiettivo, che in quel
momento dovette sembrarle la
più confortante delle visioni.
Giallo. Verde. Blu. I cassonetti sembravano aspettarla con
le loro divise colorate. “Ultimo
cliente!” parvero esclamare
“poi si chiude!” Erano colmi e
stracolmi, con sacchetti rimasti fuori come aspiranti spettatori di una prima teatrale
particolarmente attesa. E non
poteva essere altrimenti visto
che la giornata volgeva ormai
al termine.
Cosetta gettò via la borsa con
le bottiglie di birra – quella più
pesante. Quindi si passò la seconda da una mano all’altra, e
la scaraventò nel bidone della
non-differenziata.
“Chissà se esiste un cassonetto anche per i patrigni brut-
ti e antipatici” pensò la ragazzina tra sé e sé. Ma ben presto
si convinse che, nel suo caso,
si trattava di un patrigno decisamente non riciclabile.
Poi, senza alcun preavviso, un
fulmine cadde con una violenza inaudita. Gracchiò secco, affilato: era vicinissimo.
Smise di piovere, come se quella scarica elettrica avesse spaventato anche il cielo. Anche
tutte le luci si spensero in un
attimo. In tutto l’isolato. E in
tutti quelli vicini.
Tutta la città doveva essere al
buio. Ogni cosa era nera intorno a Cosetta. Nessuna scintilla o fiamma di candela o luce
di torcia elettrica sfavillava per
dare un punto di riferimento.
Anche il temporale pareva evaporato: oltre alla pioggia, infatti,
anche i lampi si erano improvvisamente dileguati. Cosetta si girò a destra e poi a sinistra. Si guardò indietro e poi
di nuovo avanti. Ma niente.
Ogni lato era identico al precedente. Gli stessi concetti di
destra e sinistra, davanti e dietro, erano diventati un vago ricordo: archeologia semantica.
Forse acuiti da quel senso
d’impotenza degli occhi, gli altri sensi si fecero più robusti,
addirittura prepotenti.
In pochi istanti, le narici di
Cosetta si riempirono di odori
che, fino a quel momento, avevano scrupolosamente ignora-
13
to. Odore di alcol, di vomito,
di urina. Odore di umido e di
rancido. Odore di buio.
Tra i vicoli cancellati dall’oscurità, echeggiarono sussurri e grida. Qualche bestemmia disarticolata. I sospiri affaticati di un orgasmo imminente. Il fruscìo levigato di una
bottiglia vuota sui sampietrini.
Cosetta ebbe paura. Paura delle ombre adesso nascoste in
quell’inchiostro straripante. Paura dei rumori senza profilo che
rimbalzavano da ogni parte.
Paura di non saper distinguere
un aiuto da una minaccia, un
amico da un nemico.
Poi le sembrò che qualcuno la
sfiorasse – anche se non riuscì
a capire in che parte del corpo.
Ma forse era la sua piccola anima che si sentiva toccare.
D’istinto si mosse in una direzione, la prima che le venne
in mente – tanto non avrebbe
fatto alcuna differenza. Inciampò dapprima in un oggetto indefinito. Poi calciò senza
volere qualcosa di stranamente inconsistente. Infine il suo
piede sciabordò in una pozza di
chissà che cosa.
Le pareva di stare in mezzo a
un girotondo di bambini crudeli. Decise allora di fermarsi.
Chiuse l’ombrello. Lo scosse ripetutamente. Quindi, rivolgendo la punta difronte a lei,
ricominciò ad avanzare lentamente, come un cavaliere di
Re Artù impegnato nella ricerca del Graal.
Aveva ancora paura, ma non
voleva più restare lì. A ogni lieve sussurro o fruscìo, agitava la
sua arma da una parte e dall’altra. E intanto avanzava.
Lentamente ma avanzava. Aggrappata a quell’ombrello nel
quale si concentrava tutto il
suo coraggio. Poi qualcuno – o
qualcosa – le fece cadere l’ombrello. Fu un attimo. Forse
un’altra anima in pena che vagava in quell’oceano senza luce, e che l’aveva urtata per sbaglio. Oppure no. Forse quel gesto era stato assolutamente intenzionale. Ma chi poteva
avercela con lei fino a quel
punto? Cosetta si chinò e, tastando nel niente in preda all’agitazione, cercò di ritrovare
la sua preziosa reliquia. Ma
nulla: soltanto il buio.
Cosetta ansimava adesso.
Piangeva e singhiozzava. Pregava: “Mio Dio! Mio Dio!”
Ma, forse, neanche Dio poteva vederla in mezzo a quel nero senza spiragli.
Se solo qualcuno, nel pub, si
fosse accorto della sua assenza
e fosse uscito a cercarla: sua
madre, Francesca, qualcun altro... Anche il patrigno – sì,
perché no?! In quel preciso
istante, la voce roca di quell’uomo le sarebbe stata piacevole come un coro di angeli...
Proprio mentre questi pen-
sieri le volteggiavano nella testa, d’un tratto una mano ruvida ma gentile prese la sua,
ancora tremante. E la tirò su,
con forza e delicatezza.
Per qualche istante Cosetta
non provò niente, rassegnata al
male così come al bene: chiunque fosse il proprietario di
quella mano, sentiva di non potergli resistere in alcun modo.
Quindi si lasciò andare. Semplicemente.
Poi i suoi occhi si alzarono a
guardare in alto. Una splendida luna piena si stava facendo
spazio in un cielo finalmente
sereno. Una luce densa colò
come miele nella strada. Accanto a lei, una figura nera si
stagliava altissima: la faccia
rugosa, la barba incolta, gli
abiti sdruciti. Un cappello nero,
sudicio e spiegazzato, incoronava una testa comunque orgogliosa. E le conferiva un’aria
profondamente rispettabile.
Cosetta riprese un po’ di vigore: sentiva di potersi fidare. O,
perlomeno, ci sperava.
Poi, dietro di lei, apparvero in
sequenza innumerevoli ombre,
disposte con ordine l’una accanto all’altra.
Riconobbe la voce di Francesca e quella della madre – della quale intuì un sorriso affettuoso. Quindi vide il patrigno
ed ebbe un piccolo tremito.
Ma durò un battito di ciglia: anche lui le sorrideva adesso.
La luna divenne sempre più
luminosa – abbagliante – finché non si trasformò in un potente riflettore puntato su di
lei. Subito appresso, infinite luci si accesero tutte insieme,
dando il via a un fragoroso applauso.
Davanti a lei, vide una platea
e una galleria gremite in ogni
ordine di posto. Tutti in piedi
ad applaudire, a chiedere un
bis, a gridare “Bravi!”
Guardò di nuovo alle sue
spalle e riconobbe gli attori. Poi,
si voltò di nuovo verso quella figura accanto a lei. La sua piccola mano in quella così grande, che l’accompagnava in un
inchino davanti al pubblico.
Poi ancora indietro e ancora
avanti, in un nuovo inchino. E
poi un altro ancora. E ancora.
Cosetta non aveva più paura.
14
Massimo Branda
Milo, il ragazzino solo
La cover in pillole
Milo, orfano undicenne costretto a
rubare, deve recuperare per conto di Ratko
– perfido padrone – il bottino nascosto
alla stazione. Man mano che si avvicina a
Porta Susa, però, la paura lo paralizza.
Vorrebbe tornare da Ratko, raccontargli
che c’era troppa polizia, ma non osa.
Mentre agisce, viene adocchiato da due
poliziotti in borghese: fugge disperato
nella nebbia gelata, temendo che Ratko lo
ammazzerà di botte. Per fortuna incappa
in Lucio, che da qualche tempo lo tiene
d’occhio e intende riscattarlo dalla sua
buia situazione.
Luogo: Torino, tra Porta Palazzo e Porta
Susa
Tempo: una sera gelida e nebbiosa
Personaggi: un immigrato undicenne, un
delinquente, carabinieri e poliziotti, una
brava persona
Intreccio: un immigrato undicenne, costretto a recuperare per conto di un manigoldo il bottino nascosto, è terrorizzato.
Adocchiato dalla polizia, fugge a perdifiato
e incappa in chi lo aiuterà a cambiare vita.
entre Ratko lo aspettava al bar del Balôn,
Milo doveva recuperare i soldi rubati nel
pomeriggio a Porta Susa, nascosti dietro la vaschetta del cesso del bar della stazione.
Il ragazzo attraversò il mercato di Porta Palazzo, lanciando un’occhiata distratta ai banchi della frutta che stavano smontando in quella sera invernale. Oltre alla nebbia, era ormai
M
sceso il buio. Passato Corso Regina,
Milo imboccò via Milano, sentendosi
vincere da una certa inquietudine. Mentre camminava stringeva nella mano il
cellulare, facendo risuonare i tasti.
Più avanzava, più nebbia e buio s’infittivano. A un tratto incrociò Lucio, il
volontario del Sermig che aveva conosciuto al dormitorio dell’Arsenale della
Pace. Questi lo riconobbe e si chiese dove stesse andando così di fretta e spaurito quello scricciolo d’uomo.
Milo prese per via San Domenico,
stretta e buia. Solo da qualche finestra
filtrava un poco della luce lampeggiante di un televisore. C’era gente che già
a quell’ora cenava, mentre i locali del
quadrilatero si andavano riempiendo
del popolo dell’happy hour, desideroso
di dimenticare in fretta la giornata di
lavoro. Milo pensò alle famiglie radunate attorno al tavolo col televisore acceso, che cenavano guardando il telegiornale, una situazione di cui lui non
aveva esperienza diretta; quell’immagine gli diede calore, lo rassicurò, per un
attimo buio e nebbia furono trafitti da
un raggio di luce. Tuttavia, mano a mano che procedeva, il suo passo rallentava. Quand’ebbe svoltato l’angolo di
Corso Valdocco, Milo si fermò. Più si
avvicinava alla stazione, più aumentava la sua paura. Il ragazzo mise in tasca
il cellulare, affondò la mano nei capelli e cominciò a grattarsi lentamente la
testa, col gesto tipico dei bambini impauriti e indecisi. Il corso era quasi deserto e totalmente immerso nella nebbia color orzata. Guardò con disperazione quell’oscurità bianca dove non
c’era più nessuno, dove c’erano solo au-
to, dove forse c’erano fantasmi. Guardò bene, e sentì vetture che si muovevano, e vide distintamente i fantasmi
che si spostavano tra gli alberi del viale. Riprese in mano il cellulare, la paura lo rese audace.
«Bah!» esclamò «dirò a Ratko che
c’era troppa polizia».
Fece dietrofront.
Aveva fatto solo pochi passi che si fermò di nuovo e ricominciò a grattarsi la
testa. Adesso era Ratko a comparirgli davanti; l’odioso Ratko, con la sua bocca
di iena e gli occhi lampeggianti di collera. Il ragazzino lanciò un’occhiata
sconsolata davanti a sé e poi alle proprie
spalle. Che fare? Come comportarsi?
Dove andare? Davanti a lui lo spettro di
Ratko, dietro di lui tutti i fantasmi del
viale e la paura della polizia. Arretrò di
fronte a Ratko e riprese la strada verso
Porta Susa, mettendosi a correre. Percorse
a perdifiato un bel pezzo di Corso Palestro, entrò in via Bertola, non guardando più nulla, non sentendo più nulla.
Smise di correre soltanto quando gli
mancò il fiato, ma continuò a procedere. Andava avanti, perso.
Aveva voglia di piangere.
Il fremito notturno della città immersa nella nebbia l’avviluppava tutto. Non
pensava più, non vedeva più. Da una
parte, tutto il niente; dall’altra, uno
scricciolo, un atomo.
Ormai era vicino alla meta, mancavano poche centinaia di metri. Milo conosceva bene quelle zone, le aveva battute un sacco di volte mendicando e rubacchiando, ma sempre e soltanto di giorno, con la luce, senza quella maledetta
nebbia. Non ne aveva mai vista una così,
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neanche a casa sua, vicino a Srebrenica, dove Ratko lo aveva
comprato dai rapitori che l’avevano sottratto dall’orfanotrofio
dove era cresciuto per portarlo
in Italia, nascosto nel bagagliaio di una Mercedes reperto
storico, dove aveva rischiato di
morire soffocato dai gas di scarico di quel diesel dalla marmitta bucata. Da allora, erano
state solo botte e minacce, minacce e botte. Tutto il giorno sulla strada a elemosinare trascinando una gamba o a infilare
le mani nelle borse delle signore
sui mezzi e nell’atrio della stazione. Tante volte era riuscito a
scampare per un pelo alla cattura grazie alla sua velocità di
corsa. Ma, poi, quando ritornava
da Ratko, erano comunque botte, non era mai soddisfatto del
bottino della giornata.
Capitava spesso che la notte
si fermassero a dormire all’Arsenale, dove recitavano la parte del padre e figlio che avevano perso moglie e mamma in
uno scontro etnico al paese.
All’Arsenale, Milo aveva conosciuto quell’omone di Lucio,
giovane ed enorme, ma così
dolce e rassicurante. Lucio aveva capito che c’era qualcosa
che non andava nel rapporto
tra quell’uomo dal muso di tagliagole e quel bambino impaurito. Si era ripromesso di
andare più a fondo, ma era
sempre mancata l’occasione.
A un tratto, Milo scorse delle
persone in uniforme, si fermò
spaventato. Si accorse poi che
si trattava di un gruppo di carabinieri ausiliari della vicina
caserma Cernaia. Si rincuorò,
aveva imparato a riconoscerli e
a ritenerli inoffensivi.
Da via Bertola svoltò a sinistra, sotto i portici di Corso
San Martino. Finalmente si vedeva qualcosa, e il ragazzo prese coraggio. Attraversò il piazzale di fronte alla stazione,
dribblando un paio di autobus
fermi. La nebbia tornò fittissima. Era in un momento di
tensione tale che le sue forze
s’erano triplicate. Mentre correva a tutta, Milo non si accorse che il telefonino gli cadeva dalla tasca. Non lo vide
e non lo udì cadere. Giunto
davanti all’ingresso della stazione, si sentì stremato dalla
stanchezza. Avrebbe voluto andarsene subito, ma doveva assolutamente recuperare quel
fagottino e poi squagliarsela,
tornando da Ratko.
Milo non perse tempo a riprendere fiato. Passò un paio di
volte davanti all’ingresso del locale per controllare che fosse sicuro. Il bar di Porta Susa era il
più triste che avesse mai visto,
stretto e lungo, con una luce
bianca al neon. La scena, dentro, era più desolata di un quadro di Hopper. Il barista, in piedi dietro il banco, fisso su di un
televisorino che trasmetteva un
reality. Dall’altra parte del bancone, un uomo e una donna
sulla trentina, che apparentemente non si conoscevano.
Milo entrò, cacciò fuori le
monete per comprare un pacchetto di gomme da masticare e poi chiese di poter andare
al bagno.
Mentre vi si dirigeva, con la
coda dell’occhio vide il barista
fare un cenno del capo ai due
avventori.
Fu un attimo: Milo si girò e
cominciò a correre verso l’uscita, scartando l’abbraccio della
donna che gli gridò: “Fermo,
polizia!” Uscì nella nebbia, e
cominciò a correre in direzione del Rondò della Forca, ingoiato dalla nebbia. Rischiò di
essere investito da una vettura a clacson spiegato, arrivò al
marciapiede di destra, svoltò in
via Juvarra, dove riuscì a entrare in un portone lasciato
aperto. Chiuse il battente dietro le sue spalle e restò, ansimante, ad ascoltare quel che
succedeva fuori. Dopo qualche
secondo, sentì dei passi di corsa, che andarono oltre.
Chiuse gli occhi, poi li riaprì,
senza sapere perché, ma non
potendo fare altrimenti.
Aprì il portone e uscì in strada, il cielo era ancora nascosto
da quel fumo di latte. La maschera della nebbia pareva chinarsi vagamente su quel bam-
bino. Milo guardava con occhi
persi una luce gialla attorno alla quale ondeggiava un’aureola di caligine. L’umidità entrava nelle ossa.
Senza rendersi conto di ciò che
provava, Milo si sentiva preda
di quella marea lattea. A sopraffarlo non era più soltanto
il terrore, ma qualcosa di ancor
più terribile del terrore. Rabbrividiva. Mancano le parole per
dire cos’aveva di strano quel brivido che lo raggelava sino in
fondo al cuore. Il suo sguardo
era diventato truce.
Allora, per una sorta d’istinto, per uscire da quello stato singolare che lui non capiva, ma
che lo spaventava, cercò la tastiera del cellulare, per sentire
i suoi bip rassicuranti. Non lo
trovò e allora mise a contare ad
alta voce: uno, due, tre, quattro,
fino a dieci, e, quando ebbe finito, ricominciò. Ciò gli restituì la percezione reale delle
cose che la circondavano. Sentì il freddo. Gli era tornata la
paura, una paura naturale e insormontabile. Aveva un solo
pensiero in mente, adesso: scappare; scappare a gambe levate,
fino all’Arsenale. Il suo pensiero
tornò però a Ratko, alle botte
che avrebbe preso presentandosi
a lui senza i soldi. Lo spavento
che gli infondeva Ratko era tale
che pensò quasi di tornare al
bar della stazione, per cercare il
fagottino.
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Tornò a tremare, fece a quel modo una dozzina di passi verso Porta
Susa, per poi girarsi e avviarsi verso
Porta Palazzo. Ciò succedeva nel
cuore di una città, ormai notte, nella nebbia invernale, lontano da ogni
sguardo; lui era un bambino di undici anni. Soltanto Dio in quel momento lo vedeva.
E, forse, i suoi genitori.
Ansimava con una specie di rantolo doloroso; singhiozzi gli serravano la gola, ma non osava piangere per quanto grande era la sua
paura di Ratko, anche a distanza.
Era abituato a immaginare che Ratko gli fosse sempre accanto.
Ora Milo procedeva lentamente.
Pensava con angoscia che Ratko
l’avrebbe picchiato, ammazzato di
botte. Quell’angoscia si mescolava
allo spavento d’essere solo. Era morto di stanchezza e ancora lontano.
A un tratto, non sentì più paura,
e fu pervaso di calore. Una mano,
che gli parve enorme, gli si era posata sulla spalla. Lui alzò la testa.
Un’alta figura nera, dritta ed eretta,
gli camminava accanto nella nebbia, stringendolo a sé e porgendogli il suo cellulare. Un uomo che era
arrivato alle sue spalle senza che
Milo se ne accorgesse. Lucio, senza
dire una parola, lo abbracciò, trasmettendogli un calore fino ad allora sconosciuto. Fu luce.
Isabella Borghese
Uno noto ma Sconosciuto
La cover in pillole
Rachele è a una festa, non conosce nessuno. Lo Sconosciuto, al buffet, le risponde
sgarbato. Rachele ha fin troppa confidenza con l’aggressività altrui e il proprio disagio. Brutti ricordi di un padre cattivo.
Un altro uomo si affaccia, con dolcezza,
somiglia tanto a Sergio Castellitto... Rachele non ha più paura.
Luogo: festa su una terrazza romana
Tempo: serata estiva
Personaggi: Rachele, lo Sconosciuto,
ospiti che conversano, Tiziano che somiglia a Sergio Castellitto
Intreccio: Rachele si aggira tra gli ospiti,
se la trattano male si sente triste ma a casa. Poi l’incontro con un uomo dolce, un
chitarrista sensuale, la riporta dove si può
concedere gioia e benessere.
rancese, lei è francese si capisce dall’accento” proferiva concitata Rachele allo
sconosciuto mentre lei era intenta nel riempire un fondo con le lasagne al pesto. “Anche io, sa” proseguiva senza concedergli modo e tempo di intervenire “…no, no, non che
io sia francese… ma sto prendendo il diploma al Saint Louis de France”.
“Non me ne frega un cazzo. Non me ne frega un cazzo, capito?” rispondeva lui accentuando quella erre moscia quasi a renderla
dura e assolutamente riconoscibile.
Lo Sconosciuto, secco e deciso, metteva fine al dialogo con quelle parole.
Lei, silenziosa e basita, si ritrovava immobile.
F
Ricadeva nell’espressione di chi vive nel
dubbio e non capisce se ha afferrato le parole sbagliate o se il rimanerci di stucco evidentemente non rappresenta altro che lo stato più appropriato alla situazione.
C’è da dire che Rachele e lo Sconosciuto non
sapevano nulla l’uno dell’altra.
Non si conoscevano affatto, ma si erano ritrovati dentro quella grande sala, da soli, davanti al buffet di una festa di matrimonio.
Rachele non sapeva neanche chi fossero gli
sposi. A quella festa lei, infatti, accompagnava Gabriele, il suo coinquilino.
E lo Sconosciuto… di lui non era chiara la
provenienza. Non si sapeva se fosse un vero
invitato, un familiare, un conoscente o uno
capitato per caso, quasi come lei.
A Rachele questo non era chiaro, né importava del resto.
Lui poi con nonchalance afferrava il suo
fondo e ripeteva le gestualità che poco prima
erano state di Rachele: rimpinzava il suo piatto di lasagne al pesto.
Lei invece era ancora lì, sempre senza parole e basita.
E rifletteva che proprio poco prima si era diretta verso il DJ, rintanato nell’angolo della
sala, tra le casse e il banco con la porchetta,
a chiedere il menù musicale per la festa… Lei
sperava nel rock dei Cure, o i Joy Division…
ma lui, frettoloso e strafottente, “Non lo so!”
le aveva risposto “poi ci penserò”.
Da quella festa una persona qualsiasi, piombata lì soprattutto per caso, ne sarebbe scappata.
Ma Rachele no.
Rachele, superato l’impasse del momento,
preferiva scappare dalla sala e dileguarsi in
terrazza a godersi l’aria del Circo Massimo e
riemergere così da un incontro che in qualche modo l’aveva paralizzata. Soltanto Dio in
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quel momento vedeva quella triste cosa.
Lo sbattere delicato ma percepibile dei sette centimetri a
cono teneva il passo come se
per lei fosse una compagnia
vestita di distrazione. Il vociare degli invitati aleggiava nell’aria come una presenza sconosciuta e quasi irrilevante. I
fazzoletti di carta rossa, sporchi, stropicciati e poi gettati
nella spazzatura ricordavano la
sofferenza, quando è muta. Le
forchette argentate ma solo nel
colore reclamavano una bellezza plastica, finta, ma facevano la loro figura lo stesso.
Gli occhi di Rachele, d’improvviso, sembravano volerla
distrarre a tutti i costi e lasciarla soffermare anche su un
volto affascinante come Sergio
Castellitto. Il volto di quell’uomo scompariva tra gli odori di
un rosso scarlatto, la destra
c’era invece a ricordare nella
lunghezza d’unghia femminile, la mano di un chitarrista.
Un completo rigorosamente
nero rendeva quell’uomo elegantemente classico. Come
piaceva a lei.
I calici vuoti di Nero d’Avola
e Greco di Tufo sul banco del
buffet in terrazza erano storie
già raccontate a quella notte,
tra il tanfo disgustoso di cicche
spente, baci rubati ai primi accenni di questa primavera o
promessi ad amanti festose,
impazienti e insaziabili. Ma per
Rachele il pensiero di quanto
accaduto pochi istanti prima
davanti al buffet conservava
invece il difetto e la forza di un
chiodo fisso.
Sembrava quasi non trovare
via di uscita.
La vista dopotutto non poteva vincere sul pensiero.
Rachele a quella festa d’improvviso era ricaduta in uno
stato di allerta che inizialmente non riusciva bene a qualificare e identificare, ma non
aveva nulla a che vedere con la
paura. Lei in quel “Non me ne
frega un cazzo” di pochi minuti prima, gridato e rabbioso,
aveva riconosciuto una situazione di pericolo che le era familiare.
E la familiarità non può far
paura. Tutt’altro. La familiarità invita alla comodità e
prende distanze nette dal disagio. La familiarità è lo stato
più comodo in cui ci si può ritrovare.
Accoglie, protegge, permette
di credere che per quanto si
possa aver paura, tutto, ma
proprio tutto sarà sempre sotto controllo. Non c’è da temere nulla.
Perché allora lo Sconosciuto
riportava Rachele a questo stato? Cosa aveva riconosciuto
Rachele in quelle parole pronunciate con tanta rabbia e toni violenti e quasi minacciosi?,
da farle supporre che l’unico
spazio considerevole di quella
festa fosse ormai la dimensione della distanza tra lei e lui.
In quel balcone pochi momenti dopo si affacciava anche
lo Sconosciuto. Lui non si perdeva in nulla.
Rachele se ne accorgeva subito e tentava di distrarsi da lui
soffermandosi sul bel mezzo di
una conversazione di due persone, una donna e un uomo.
Lui a tre quarti non era che
un completo blu gessato, con
sciarpa bianca e voce squillante, quasi fastidiosa.
Lei invece avvolta in una
splendida seta terra bruciata di
un vestito a casacca con margherite colorate lasciava cadere
l’attenzione su un paio di occhiali da sole peraltro ben visibili e inopportuni per la serata.
“…E quando sei uscita?” si
informava il blu gessato.
“Da dieci giorni circa. Per fortuna è andato tutto bene” rispondeva la splendida seta terra bruciata.
“Cara, dovrai fare dei controlli?, immagino la paura che
hai avuto però”.
“Sì certo. L’orrore più grande
è stato temere di non poter più
vedere i miei figli”.
“Mio dio tesoro!, quelle splendide creature! Non farmi pensare a questo… e, piuttosto,
dimmi!, col caffè, com’è finita?”
La splendida seta color terra
bruciata scoppiava in una breve risata.
“Eh” continuava poi “ho fatto un fioretto a vita. Avevo così paura di perdere la vista che
alla fine l’ho dovuto prolungare. Me ne sono concessa uno
solo per un giorno al mese. La
domenica per l’esattezza”.
“U-NO e per una domenica
al mese?, e per sempre?”, il blu
gessato sembrava assai esterrefatto.
“Sì. Per tutta la vita. È strano,
sai, come…”
“Cosa?”
“…non avrei mai pensato di
poter rinunciare al caffè, e invece… succede l’impensabile e
incredibilmente riesci anche a
convincerti che se rinunci al
caffè non perderai la vista e
avrai per sempre la possibilità
di vedere i tuoi figli crescere…”
La risata conclusiva di seta terra bruciata, sospesa tra l’incredulità e l’illusione, andava a
miscelarsi con quella più acuta e metallica di blu gessato.
La paura fa miracoli. Forse sì,
rifletteva Rachele. O forse no,
pensava un attimo a seguire.
Rachele non aveva le idee ben
chiare. Non sapeva se la paura fa miracoli. Gli uomini le
cose non le sanno a priori. Dev’esserci sempre qualcosa o
qualcuno che gliele insegna.
Rachele sapeva che alcune
paure possono essere familia-
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ri. E se sono familiari significa
che ci si può vivere. Che la dimensione della propria vita ha
quelle caratteristiche. Ci si plasma sulle paure e come ci si
plasma l’uomo si abitua a certi stati d’animo trovando il
perfetto equilibrio. E in quel
momento le paure diventano
parte integrante della propria
vita. Sembra difficile poterne
far a meno quanto per molti
può risultare faticoso capirlo.
Ci si mette anni a trovare equilibrio nelle paure, tuttavia
quando diventano parte della
propria vita se non si affacciano quotidianamente quel senso di equilibrio sembra venire
a mancare.
Sembra crudele, disumano,
eppure non manca di verità.
Lo Sconosciuto nel frattempo
si era seduto comodamente su
quella poltroncina di plastica.
Rachele si era soffermata sulla
seta marrone terra bruciata e sul
blu gessato, sì, con quel sentore d’allarme di prima che la teneva comunque in tensione e lo
percepiva chiaramente nel cuore che sembrava strozzarla, negli arti paralizzati e nel desiderio continuo di fare respiri
grossi per trovare la tranquillità di quando aveva fatto il suo
ingresso a quella festa. Ma la
presenza sconosciuta che conservava qualcosa di noto e che
si affacciava tra i due corpi parlanti diveniva uno sguardo in-
sistente che da Rachele non trovava la via della distrazione. La
seta marrone terra bruciata
continuava a disquisire con il
blu gessato. Rachele si era già
persa. Non sapeva più di cosa
stessero parlando quei due. La
vista di lei restava intrappolata
dalla lingua dello Sconosciuto
che con lentezza ma intenti
chiari o quanto meno facilmente fraintendibili si muoveva seguendo le sue labbra e
mantenendo su di lei quello
sguardo fisso e minaccioso, provocatorio. Quello di prima.
Una volta, molti anni prima,
Rachele ricordava d’improvviso, il padre si era ubriacato davanti a lei, perso in una di
quelle sbronze che incattiviscono, che mischiate all’effetto degli psicofarmaci creano
effetti collaterali paurosi. Rachele e il padre si trovavano a
un pranzo in una trattoria sconosciuta in un posto dimenticato da dio e ricordato solo dal
Bambin Gesù. Doveva essere
Palidoro. Il padre aveva costretto Rachele a quel pranzo
fuori porta perché voleva avvicinarsi al mare e perché evidentemente la testa e l’alcol
della mattina non avevano saputo suggerirgli niente di meglio. E la madre di Rachele non
aveva detto nulla. Doveva essere molto stanca lei. Terribilmente. Rachele aveva provato
a farlo desistere, sì, aveva mes-
so saggezza e verità nelle sue
parole… Ma dove te ne vai,
con quella macchina, non vedi che sei ubriaco! È pericoloso. Una perdita di tempo.
Niente di più. In cuor suo poi
aveva pensato che far mettere
in viaggio il padre da solo sarebbe stato un atto di irresponsabilità. È così che poi
hanno raggiunto quella trattoria. Lui mangiava spaghetti alle vongole e beveva vino bianco, ancora. Lei aveva lo stomaco chiuso, tuttavia per ingannare il tempo aveva scelto una
caprese: e lì dentro ci lasciava
cadere la vista e giocherellava
con la forchetta, tagliava quadratini di bufala e pomodoro.
Si vergognava. Molto. I ristoratori e le altre persone ogni
tanto lanciavano occhiate curiose al loro tavolo. Tutto bene?, chiedeva qualcuno. Cosa
cazzo vuoi?, rispondeva il padre. Rachele si faceva piccola,
se poteva si sarebbe scavata
una fossa. Aveva persino perso
le parole, lei.
Lui se ne sbatteva e cominciava a guardare una donna
che sedeva in un tavolo dietro
Rachele. Tirava fuori la lingua,
se ne fregava di tutto, di tutti,
della figlia prima di ogni altro.
Rachele allora si alzava, prendeva la vergogna con sé, lasciava che lo sguardo fisso in
terra le indicasse la direzione
dell’uscita, la caprese ancora
nel piatto che invece chiedeva
solo di esser svuotato, Ti lascio
al tuo teatrino!, proferiva, ti
aspetto in macchina. Lui, Non
me ne frega un cazzo, rispondeva. Secco e deciso.
Rachele se ne andava a cercare la strada che l’avrebbe rimessa sull’Aurelia. Piangeva e
la luce del sole allora non era
più così raggiante e speciale. Si
faceva appannata e spenta, allora alzava il pollice sinistro e
scappava. Scappava con un uomo. L’uomo che per anni di
tanto in tanto avrebbe sentito
per un senso di gratitudine e
riconoscenza che conserva dell’eterno. Poi quell’uomo è
morto. Certi uomini quando
nascono e muoiono così, in
pagine come queste… chissà se
sono esistiti davvero o se è
semplicemente il bisogno di
salvezza a reclamare la loro esistenza. Chissà.
In questo ricordo improvviso,
presentatosi a Rachele come
fosse un flashback, lei riscopriva quel senso di allerta che
la divorava con decisione da
quando si trovava davanti al
buffet.
Lo stato di allerta provocato
dallo Sconosciuto. Per questo
in fondo non poteva temere.
Non poteva temere ma non
sapeva neanche ignorarlo.
Avrebbe voluto lasciarlo lì da
solo in quella terrazza, dire anche a lui, Me ne vado ti lascio
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al tuo teatrino. Eppure, eppure certe paure quando si conoscono e presentano del familiare, rivederle e riviverle con
qualcuno di cui non conosciamo nulla, se non appena l’esistenza, sono così strane nell’approccio. Ti divorano senza
spaventarti. Ti lasciano impietrita senza farti scappare. Sono
lì, ti riempiono quasi di un
senso di tenerezza quando le
riconosci. Vorresti fare qualcosa nel sapere che non è possibile, che non serve a nulla.
Che non ti compete. E allora
l’unica è, ahimè, ignorare.
Non dare corda, non provocare, non rispondere.
Rachele ora che aveva riconosciuto lo stato di allerta si rigirava, scivolava verso il tavolo delle bevande a cercare di
nuovo la freschezza di un Greco di Tufo.
“Posso?” le diceva un uomo
nel segno di versarle il vino.
Rachele mentre sorrideva alzava lo sguardo. Davanti a lei
c’era quel Sergio Castellitto di
prima.
“Grazie!” rispondeva, mentre
pensava di aver trovato la sua
salvezza della serata.
“Amica della sposa?”
“No, amica di un amico dello sposo. Non conosco nessuno qui”.
“Ti ho vista così pensierosa
prima… non farci caso…”
“A cosa?”
“A René. Il signore seduto sulla sedia lì di fronte. Soffre, da
anni, di un disturbo depressivo…”
“No, no” rispondeva Rachele, decisa, bugiarda o forse solo rispettosa “non l’ho neanche notato quell’uomo. Non
c’è bisogno che mi parli di lui”.
“Allora piacere, Tiziano!”
Rachele scivolava in una risata…
“Tiziano” diceva “piacere Rachele”.
“Ti fa ridere il mio nome?”
“No, no… è che sai… mi ricordi molto una persona…”
Rachele aveva ritrovato in un
secondo la simpatia e la spontaneità che le appartenevano.
Avrebbe voluto confessargli divertita che le ricordava Sergio
Castellitto, il suo sogno erotico in assoluto; gli avrebbe sorriso tirando fuori la lingua e ricercando una sensualità assai
lontana dalla violenza, lo
avrebbe baciato su quella terrazza che si affaccia sul Circo
Massimo, con la freschezza del
Greco di Tufo nella bocca e il
desiderio di un bacio rubato…
tuttavia sceglieva la sobrietà.
“…gli somigli in modo impressionate…” continuava.
“Divertenti queste coincidenze. Io, Rachele, sono venuto solo qui… testimone dello
sposo, siamo amici dai tempi
delle medie…”
“Fantastico!, mi sono sempre
piaciute le amicizie durature.
Dicono molto delle persone,
non trovi?” rispondeva lei.
Il Sergio Castellitto sorrideva.
Lo Sconosciuto era ancora seduto. Adesso in braccio a lui
c’era una bambina, di circa
sette anni, con le trecce alla
Pippi Calzelunghe, la chioma
di Anna dai capelli rossi, il vestitino alla Jane Banks. A vederli sembrava giocassero, sì.
Allegramente e placidamente.
Lui le tirava le codine, lei rideva e poi anche lui le sorrideva, sempre con quel fare rumoroso che evidentemente gli
apparteneva. Ma la bambina
con le gambe coperte di filanca verde che ciondolavano nel
vuoto e di tanto in tanto sbattevano su quelle di cotone beige dell’uomo, lei, raccontavo,
si capiva essere nel pieno del
divertimento. Tanto che in un
momento si era permessa persino di toccare e giocare con la
barba incolta di lui.
Rachele ancora non era andata a cercare il suo amico Gabriele. Eppure non sentiva più
lo sbattere dei centimetri di cono, non prestava attenzione al
vociare degli invitati, né riusciva più a riflettere su quei
fazzoletti di carta rossa, sporchi, stropicciati e poi gettati
nella spazzatura, quelli che le
ricordavano la sofferenza muta. Non si era neanche accorta che le forchette d’argento,
sì, ma solo nel colore, le avevano tolte. Non servivano più.
Aveva altro per la testa.
Aveva messo a tacere il suo
stato d’allerta riconoscendo
nel fare dello Sconosciuto la
malattia di un altro. Individuava quella paura e in questo
trovava la tranquillità che le
serviva per festeggiare seppur
da intrusa. E poi c’era la chiacchierata con quel Sergio Castellitto… e chissà se anche lui
era come quegli uomini, che
quando nascono o muoiono
così, in pagine come queste,
non si capisce mai se sono esistiti davvero o se è semplicemente il bisogno di salvezza a
reclamare la loro esistenza.
Quell’uomo, senza dire parola,
aveva strappato un ciclamino da
un vaso e le sorrideva ancora.
C’è un istinto diverso per ogni
incontro della vita. Rachele non
aveva paura.
CRISTIANO CAVINA Al buio L’originale in pillole
giorno del mio dodicesimo compleanno.
Un ragazzino di quasi dodici anni, in
Stefano Riba Usciamo dalla città e imbocchiamo la
20
pellegrinaggio a Lourdes con la nonna,
rimane chiuso in ascensore. Soffre
d’asma da sempre, e nel buio dell’ascensore bloccato si lascia prendere
dal panico più totale finché la nonna,
infuriata, non viene a salvarlo.
Luoghi: l’ascensore di un albergo di
Lourdes e la memoria
Tempo: pomeriggio al buio dell’ascensore
Personaggi: ragazzino, nonna Cristina,
nonno Gianì
Intreccio: un bambino sale in ascensore da solo nonostante il divieto, resta
chiuso dentro e si trova a lottare contro
l’oppressione dell’asma e la paura del
buio.
La cheratite di Icaro
La cover in pillole
Otto ragazzini in gita al ghiacciaio con
don Diego. Il protagonista ha dimenticato gli occhiali da sole, si vergogna di
dirlo, e diventa cieco per la troppa luce.
Si spaventa, ma poi guarisce con buio e
riposo, e si sente il coraggio di Icaro.
Luoghi: strada, ghiacciaio, letto
Tempo: notte in viaggio, giorno sulla
neve abbagliante, sera e notte a letto
Personaggi: ragazzino senza occhiali da
sole, don Diego, amici, genitori
Intreccio: un ragazzino in gita sul
ghiacciaio capisce la forza della luce e
scopre la cecità da neve.
Incipit
e tenebre erano scese su di me.
Era il pomeriggio del 17 maggio 1985, dovevo ancora compiere dodici anni.
L’unica cosa che sentivo, era il mio respiro; mi rimbombava dentro, e sapevo che presto avrebbe smesso di essere così potente anche se accelerato.
Presto si sarebbe messo a sibilare.
L’asma mi era molto affezionata quando
ero bambino, e ci teneva a farmi buona compagnia, nei momenti peggiori.
Già allora era una delle poche cose su cui
potevo sempre contare.
Era impossibile che il mio Dio volesse già
chiamarmi alla sua dimora; avevo ancora
tante imprese da compiere, era inconcepibile che volesse privarsi di un avventuriero
della mia caratura.
L
artiamo di notte con il fiato che rimane tre secondi nell’aria prima di perdersi nel buio. Ci lasciamo dietro le raccomandazioni dei genitori, a ulteriore garanzia rimangono la protezione divina, il
nome di don Bosco sulle fiancate del Ducato e una medaglietta di san Cristoforo
appesa allo specchietto retrovisore.
Cinque minuti di marcia lenta per i limiti stradali e il ghiaccio in strada, e dietro di me già vedo le zucche dei miei sette amici dondolare.
“Quanto ci mettiamo?” chiedo sottovoce a don Diego che guida al mio fianco.
“Due ore, due ore e mezzo al massimo”
mi risponde.
Fermi al semaforo leggo i numeri verdi
dell’insegna di una farmacia: 6:23 12-02
-9°C. È presto, fa un freddo cane ed è il
P
tangenziale, poi l’autostrada.
Dopo un breve tratto di due corsie dritte
fino all’orizzonte mi addormento.
Mi risveglio un’ora e mezzo dopo sui tornanti di Sampeyre. Dietro di me ancora
tutti dormono. Mi volto a guardare i miei
compagni. Tornante a destra, tutte le teste
vanno a sinistra, tornante a sinistra, tutte
a destra. Un’altra mezz’ora di strada e alle 8:32, così dice il mio Casio, parcheggiamo davanti al bar ristorante di Becetto.
“Siamo arrivati. Tutti giù” intima il capobanda. Nessuno risponde. Nessuno si
muove.
Resuscitata la banda, iniziano i lamenti.
Fa troppo freddo, è troppo presto, ho fame, ho sonno, non ho voglia, non mi entrano gli scarponi.
Tra sciami di piagnucolii petulanti come
moschini estivi chiudiamo i morsetti delle racchette da neve e partiamo. Don Diego apre la fila, seguiamo noi che se non
fossimo in otto sembreremmo i sette nani. Forse, fattore numerico a parte, sembriamo nani lo stesso.
Il sentiero, ma non so se ha senso parlare di sentiero quando tutto intorno è bianco e solo il cielo rompe la monotonia della neve, parte ripido. Nessuno parla. Tra
un respiro e l’altro non c’è nemmeno un
alito per formulare una sillaba, figuriamoci una parola intera.
Cammino e lo sforzo inizia a scaldarmi.
Il freddo mi piace, mi fa sentire vivo. Ripenso a quando ho chiesto al professore di
scienze perché, se gli animali a sangue
freddo hanno bisogno del caldo per sopravvivere, a noi non serve il freddo. Non
mi ha risposto. Ha detto che era una do-
21
manda stupida. Io ci sono rimasto male.
Ma ora che mi inerpico sulla costa della montagna e tutto intorno a me è ghiacciato
trovo una risposta alla mia domanda. Abbiamo bisogno del
freddo per capire che siamo vivi. Prendiamo il respiro. Per
gran parte dell’anno non lo vedi, fiato e aria sembrano trasparenti, immateriali. D’inverno no. Inspiri e l’aria entra nel
corpo come qualcosa di solido,
come un sorso d’acqua gelata.
Espiri e il fiato si solidifica in
una nube. Anche l’aria diventa solida, con la nebbia che fa
chiudere gli aeroporti. Il gelo
materializza, solidifica, rivela;
al contrario, il caldo fa sciogliere, evaporare, scomparire.
E poi mentre d’inverno ti puoi
vestire fino a non avere più i
brividi, d’estate tolti anche gli
slip cosa puoi fare? Scuoiarti?
Questo penso, e mentre penso cammino più lento, così ora
mi tocca rimontare sugli altri.
Don Diego si volta e urla:
“Dài, siamo appena all’inizio.
Muovetevi”.
Rispondono cori di “Fa freddo”, “Più piano”, “Sono stanco”, “Torniamo indietro”.
Qualche minuto dopo il sole
fa capolino oltre il costone della montagna. La luce si riversa
nella valle, corre come acqua
che ha superato lo sbarramento di una diga. Scivola sulla ne-
ve e riverbera sui cristalli di
ghiaccio con lo scintillio di un
caleidoscopio.
Ci fermiamo. L’apripista dice
di metterci gli occhiali da sole.
Obbediscono tutti, io no, apro
lo zaino, ma non li trovo. Non
dico nulla per paura di essere
sgridato. Mi metto in fondo alla fila, tiro su il cappuccio e
spero che nessuno si accorga
della dimenticanza.
Dopo un’ora e mezzo di cammino la pendenza si fa più lieve. Stiamo raggiungendo la
cresta della montagna. Mi
guardo intorno proteggendomi
dal sole con le mani, vedo
montagne innevate tutto attorno. Uno spettacolo che posso godermi solo per pochi secondi, c’è troppa luce.
Abbasso lo sguardo sui talloni di chi mi sta davanti e riprendo a camminare. Sono
quasi costretto a chiudere le
palpebre, ma anche così le cose non migliorano.
Alle 12:20 finalmente arriviamo. C’è così tanta neve che
della croce sulla cima spunta
solo quella che sembra una T
a testa in giù. Mentre mangio
gli occhi cominciano a farmi
male. È come se si stessero
riempiendo di granelli di sabbia, per reagire a questi intrusi immaginari iniziano pure a
lacrimare.
“Forza. Tutti in piedi che alle
quattro fa già buio” intima
don Diego quando qualcuno
sta ancora masticando.
Ripartiamo, di nuovo in fila
indiana, di nuovo lungo la cresta della montagna. Visti da
lontano siamo piccole pulci a
spasso sulla schiena di un maremmano addormentato.
Alle due e mezzo facciamo
una breve pausa. Alzo lo sguardo dalle racchette da neve appese ai miei piedi e capisco che
c’è qualcosa che non va. Sento le voci, i rumori, il soffio del
vento, lo scricchiolio della neve, ma non vedo nulla. C’è solo il bianco. Stropiccio gli occhi, non hanno smesso di
piangere e farmi male. Li chiudo e li riapro. Nulla. Pure il blu
del cielo è sparito.
Non dico niente. Continuo a
tacere per paura della sgridata.
Poco dopo riprendiamo la discesa. Ingoio un sorso di aria
gelida, poi un altro, mi dico di
stare calmo e di seguire i rumori. Uso la voce come sonar,
le parole come bussole. Chiedo: “Sei stanco?” Una sbuffata di fatica mi dà la rotta da seguire. Dopo poco mi informo:
“Quanto mancherà?” e un
“Non so” più lontano mi fa
curvare a destra e aumentare
l’andatura. La risposta a un
“Che ora è?” arriva ancora da
più distante. Arranco verso
quel suono, ma ora che non
vedo più nemmeno i miei piedi inciampo ogni tre passi. Mi
rialzo e chiedo “Ci siete?”
“Ehi, ci siete?” ripeto più forte. Capisco di essere solo. Perso nella luce.
Mi fermo, mi siedo, il corpo
disegna nella neve una sedia
dall’ergonomia perfetta. Ho
paura. Il cuore mi batte nel
petto, nelle orecchie e anche
all’estremità del pollice della
mano sinistra con l’unghia
mangiata troppo corta che mi
fa male al ritmo sinusale.
Guardo nel mio universo
bianco e non vedo nulla. È
come nuotare in una piscina di
latte.
Rimango immobile e prego.
Poi, nel caso le comunicazioni
divine fossero interrotte o non
ci fosse campo, faccio la cosa
più ovvia: urlo. Urlo con tutto
il fiato.
Le grida fanno la sponda tra
le pareti della valle come una
pallina sui respingenti di un
flipper. Per un attimo ho paura di venire seppellito da una
valanga innescata dal mio stesso SOS.
Sarebbe una bella sfiga.
Ma non succede e poco dopo
sento qualcuno che arriva di
corsa.
Si ferma e si china su di me,
chiede che cosa sia successo.
È don Diego. Non rispondo.
Mi abbassa il cappuccio e vede
che sono senza occhiali. Mi
asciuga le guance e domanda
se non ci vedo. Scuoto la testa.
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“Mi fanno male e non riesco
più a tenerli aperti. Rimarrò
cieco per sempre?”
“No, imparerai solo una lezione che non ti dimenticherai
tanto facilmente”.
“Quale lezione?”
“Quella su cosa succede se dimentichi gli occhiali da sole
durante una gita sulla neve”.
“Cioè diventi cieco?”
“Non a caso si chiama cecità
da neve”.
“Ma passa?”
“Passa, certo che passa”.
“E ora che faccio?”
“Dammi la mano. Ti guido io”.
Arrivano tutti gli altri. Sono
una specie di fenomeno da baraccone. Tutti a chiedere come
sto, com’è essere ciechi, se non
vedo proprio nulla.
Arrivati al parcheggio del bar
don Diego si fa dare del cotone
e delle bende. Bagna d’acqua due
palline di ovatta e me le mette
sugli occhi, usa la benda per fasciarmi, poi mi dà un’aspirina
500, quella per i grandi.
All’ospedale scopro che la cecità da neve è una cheratite
dovuta all’esposizione alle radiazioni UV. La cura che mi
prescrivono è una medicina
naturale e senza posologia:
l’attesa e l’oscurità.
Rimango bendato per un
giorno intero. Per non annoiarmi chiedo ai miei genitori di
leggermi tutto quello che riescono a trovare sul sole.
Sì, sulla nana gialla con spettro G2V che mi ha accecato
con i suoi raggi sparati nello
spazio per centocinquanta milioni di chilometri.
Quando mi liberano dalle
bende è notte, chiedo che accendano la luce per controllare se mi è tornata la vista. Mio
padre si avvicina alla lampada
da tavolo, l’interruttore ha il
reostato e con un giro lento del
pulsante nasce in camera
un’alba alogena.
Guardo la lampadina, penso
alla luce dell’universo, al buio
della mia stanza e al coraggio
di Icaro.
Sorrido.
“Spegnete pure, sto bene”.
Click. Luce. Click. Buio.
Gianni Stocchino
Ho visto la luce
La cover in pillole
Un ragazzino non vedente è in gita con gli scout a Lourdes.
Ubaldo, l’amico che lo accompagna sempre quando il cane
Lampo deve restare a casa, si ammala. Il ragazzino vede
finalmente la luce quando rimane chiuso in ascensore,
mano nella mano con la dolcissima Lucia.
Luogo: ascensore a Lourdes
Tempo: pomeriggio in ascensore dove tutto sembra
luminosissimo grazie alla voce, il profumo e il contatto con
Lucia
Personaggi: ragazzino non vedente, cane Lampo, amico
Ubaldo, Lucia
Intreccio: un ragazzino non vedente, nel buio più pesto di
un ascensore a Lourdes, sente la vita illuminarsi grazie alla
meravigliosa presenza di Lucia.
uel giorno ho visto la luce.
Era il pomeriggio del 17 maggio 1985, dovevo ancora compiere dodici anni.
Provavo a controllare il mio respiro troppo accelerato e sentivo il cuore battere in modo forsennato. Forse mi sarebbe scoppiato. Dalla felicità o dall’imbarazzo?
Un po’ mi mancava Lampo, che a quel punto avrebbe preso a
scodinzolare e a leccarmi; mi era molto affezionato da quando
ero bambino, e ci teneva a stare sempre al mio fianco nei momenti più importanti.
Era una delle poche cose su cui potevo sempre contare. A parte Ubaldo, il mio compagno di stanza, che in trasferta prendeva il suo posto.
Sembrava impossibile che Dio si fosse accorto di me solo adesso; ne avevo passate talmente tante che mi risultava assolutamente inimmaginabile che avesse voluto farmi un regalo così
grande proprio adesso, privandosi di un caso umano della mia
caratura.
Q
23
È pure vero che sarebbe stato
indelicato da parte sua snobbarmi proprio l’anno in cui avevo vinto il campionato chierichetti della parrocchia di Santa Maria Assunta, un fuoriclasse
che in una stagione gli aveva
servito tutte le messe della domenica mattina, tutti i funerali,
tutti i battesimi, saltando solo
un matrimonio e due uffici funebri per fu.
Di più. Sarebbe stato ingiusto.
Ma come pensare che chi tutto sa e nulla sbaglia... Anche
con i dubbi e le incertezze avevo una consolidata familiarità.
Una goccia salata scese a rigarmi la guancia destra arrivando fino alle labbra. Era una
lacrima o sudavo? In me le
emozioni forti trovavano sempre la strada per manifestarsi e
smascherarmi.
Era mercoledì pomeriggio, 17
maggio del 1985, non avevo
ancora compiuto dodici anni
ed ero rimasto intrappolato
nell’ascensore di un albergo di
Lourdes.
Ero in pellegrinaggio con il
gruppo scout del mio paese. E
con Ubaldo, ça va sans dire.
Da lupetto avevo iniziato a
conoscere pezzetti del vasto
mondo che circondava il nostro paese; boschi, mari, città.
In tenda o in albergo, come
questa volta a Lourdes.
Di solito non riuscivo a dormire bene fuori di casa, non
ero abituato alle camere d’albergo, di gran lunga più grandi e comode delle tende che
utilizzavamo per i campi avventura, e per la verità anche
della mia stanza da letto alle
case popolari.
E poi c’era il mio compagno
di camera. Non l’avrei confessato nemmeno sotto tortura,
ma non mi sentivo tranquillo
a riposare con i calzini di Ubaldo Pistis arrotolati dentro gli
scarponi di fianco al letto. Pareva vivessero di vita propria,
pronti a uscire per soffocarmi
con il loro odore verde, un tanfo assassino.
Stavo sveglio tutta la notte.
Cercavo di trovare diversivi.
Pensavo a Lucia, la voce più
dolce, i capelli più morbidi e
il profumo più sconvolgente
del gruppo delle coccinelle.
“Dammi la mano, attraversiamo insieme”.
L’anno prima eravamo stati in
gita a Roma. Una volta scesi dal
pullman, attraversare via della
Conciliazione era stato un attimo, senza dubbio tra i più belli e intensi della mia vita. Con
Lucia, mano nella mano. Poco
dopo, come al solito, ci aveva
pensato Ubaldo a riportarmi
sulla terra, affiancandomi fino
a San Pietro, fino al centro della piazza, per ascoltare l’Angelus per la giornata mondiale
dello scoutismo.
Loreto, San Pietro e ora Lour-
des. Gli scout sono sempre in
prima linea quando c’è da
guadagnarsi il paradiso a forza
di buone azioni.
Nel cuore della notte poi, il
russare di Ubaldo, problemi di
polipi nasali oltre tutto il resto,
diventava presto il frastuono di
una partenza di gran premio a
Monza. Incredibile ma vero,
sviluppava un livello di decibel
capace di sovrastare il rumore
di un’industria siderurgica in
piena produzione. Svanivano
così i sogni e rimaneva la condanna. Una punizione troppo
severa pure per un chierichetto imbranato come me. Non
poteva continuare così.
E infatti, per fortuna, ritornavo col pensiero a Lucia. A
quel punto, nel limbo dell’incoscienza, tra il sonno e la veglia, riuscivo a dimenticare
Ubaldo, la formula uno e i calzini assassini. E mi addormentavo, con la dolce sensazione
di lei.
I rumori dell’albergo risalivano il condotto e arrivavano
dentro l’ascensore come un
basso brontolio. Sembrava il minestrone di nonna Cristina ma
senza i profumi della cucina.
Ero in piedi al centro dell’ascensore.
Pensavo: “Chissà quando
qualcuno si accorgerà dell’ascensore bloccato”.
Magari all’ora di cena. Forse
Ubaldo darà l’allarme.
Nel mio paese c’era un solo
ascensore, da Eliano, un grande negozio di abbigliamento che
occupava tutti i tre piani di un
palazzo in piazza Sasdelli.
Sfortunatamente, i vestiti per
i bambini erano al piano terra,
così, quando mi capitava di
andare a fare spese con mia
mamma e mia nonna, potevo
limitarmi a guardare le persone più grandi che aspettavano che si aprissero le porte a
scomparsa dell’ascensore, e poi
svanivano di colpo, in un gran
cigolare.
Era un mistero che mi affascinava da sempre, e un po’ mi
sentivo tenuto in disparte, come se tutti fossero a conoscenza di un bellissimo segreto, tranne me.
Per questo quel pomeriggio di
mercoledì 17 maggio 1985, mi
sembrò all’improvviso che Dio
avesse deciso di sistemare le
pendenze con un chierichetto
scout imbranato ma devoto.
E quale miglior luogo di Lourdes poi?
Quel giorno il Signore aveva
inflitto a Ubaldo una provvidenziale indisposizione, costringendolo a passare chiuso
al bagno gran parte della giornata e offrendomi un’opportunità irripetibile.
Un’ascensione memorabile!
Con tanto di blocco per cause tecniche non meglio specificate.
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Io, solo con Lucia. Al buio.
Mi chiesi se una volta giunta
l’ora sarebbe stato così il paradiso: tenere la mano di Lucia, sentire che per una volta qualcuno
si affidava a me. Mi sarebbe bastato. Per l’eternità.
Uno strattone improvviso e un
cigolio.
“Stiamo scendendo o salendo?”
domandò Lucia.
Peccato! Quel lieve movimento, intaccando appena il magico
equilibrio, mi riportò alla dura
realtà.
La sua mano teneva ancora la
mia ma già non era più lo stesso. Si udivano delle voci che parlavano fitto fitto, sempre più vicine.
E poi, sopra tutte le altre, una,
inconfondibile.
“C’è dentro lui” proclamava.
“Senza di me riesce sempre a
cacciarsi nei guai”.
Ubaldo.
Aveva un suo modo speciale di
volermi bene.
“Guidare un cieco non è mica
roba che si impara in cinque minuti”.
“Gli faccio fare il bagno io, in
quella vasca benedetta, ce lo annego dentro” sbraitava.
“Ci siamo” disse Lucia “si intravede uno spiraglio di luce”.
Eravamo al piano, tra poco qualcuno avrebbe riaperto le porte.
Mi sistemò gli occhiali e mi ravviò i capelli.
“Grazie per avermi fatto coraggio. Senza di te non so come
avrei fatto. Il buio mi terrorizza”.
“A me ha sempre fatto compagnia, come Lampo. E Ubaldo”. Le
diedi una piccola, intensa stretta
alla mano.
Mi stampò un bacio sulla guancia.
Ora ero pronto a tornare alle
cure di Ubaldo. Con l’idea di cacciarmi ancora nei guai. Al più
presto.
Per tornare a vedere la luce.
Note di onomastica
Lucia: Tradizionalmente viene
fatto derivare dal termine latino
lux lucis, luce, con il significato
di ‘luminosa, splendente’, ma
anche ‘nata alle prime luci del
mattino’.
Ubaldo: Il nome deriva dall’antico sassone hyg e bald (latinizzato
in Ubaldus) e significa ‘forte soccorritore’.
Questo notiziario di Parole illuminanti è stato realizzato da
Marcos y Marcos in occasione del CaterRaduno 2010
Senigallia 28 giugno – 3 luglio
e stampato su carta Favini
presso Arti Grafiche Bianca & Volta di Truccazzano il 23 giugno 2010.
Le fotografie sono di Anna Pitscheider e Marco Zapparoli.