Appalti Contratti Pubblici 2006

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Appalti Contratti Pubblici 2006
Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
Appalti
Contratti Pubblici
2006
09\11 Decreto Bersani
Circolare INAIL su lavoro nero e sicurezza nei cantieri
INAIL Direzione Generale - Direzione Centrale Rischi
Circolare n. 45 del 23 ottobre 2006.
Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di
lavoro. Legge n. 248 del 4 agosto 2006, art. 36 bis
Quadro normativo
• Legge 4 agosto 2006 n. 248: “Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto Legge 4 luglio
2006 n. 223 recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale”, art. 36 bis: “Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione
della sicurezza nei luoghi di lavoro”.
• Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E del 4 agosto 2006: “Decreto legge n. 223 del 4 luglio
2006 – Primi chiarimenti”
• Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 29 del 28 settembre 2006: “Art. 36
bis D.L. n. 223/2006 (conv. con Legge n. 248/2006”.
• Decreto Legislativo 23 aprile 2004 n. 124: “Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di
previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’art. 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30”.
• Circolare Inail n. 86 del 17 dicembre 2004: “Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di
previdenza sociale e di lavoro”.
• Decreto Legislativo 10 settembre 2003 n. 276: “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e
mercato del lavoro, di cui alla Legge 14 febbraio 2003 n. 30” e successive modificazioni, art. 86:
“norme transitorie e finali”, comma 10 bis.
• Decreto Legislativo 8 aprile 2003 n. 66: “Attuazione delle direttive 93/104/CE e 200/34/CE
concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”.
• Decreto Legge 22 febbraio 2002 n. 12 convertito con modificazioni nella Legge 22 aprile 2002 n. 73:
“Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all'estero e
di lavoro irregolare”, art. 3.
• Circolare interamministrativa n. 56/E del 20 giugno 2002 Agenzia delle Entrate, Ministero
dell’Economia e delle Finanze, Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Ministero dell’Interno,
INPS e INAIL: “Norme per incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Capo I della Legge 18
ottobre 2001 n. 383 e
successive modifiche e integrazioni”.
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• Circolare Inail n. 56 del 27 luglio 2001: “Legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante “disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001), articolo 116, commi
da 8 a 20. Nuovo sistema sanzionatorio”.
• Legge 23 dicembre 2000 n. 388, art. 116: “Misure per favorire l’emersione del lavoro irregolare”,
comma 8.
• Decreto Legislativo 23 febbraio 2000 n. 38: “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’art. 55, comma 1 della Legge 17 maggio
1999, n. 144”, art. 14, comma 2.
• Circolare Inail n. 1 dell’8 gennaio 1999: “Nuove modalità dell’attività ispettiva”.
• Circolare Inail n. 14 del 12 marzo 1998: “Nuovo sistema sanzionatorio”.
• Decreto Legislativo 14 agosto 1996, n. 494: “Attuazione della direttiva 92/57/CEE concernente le
prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili” e successive
modifiche.
• Decreto Legge 23 giugno 1995 n. 244 convertito con modificazioni nella Legge 8 agosto 1995 n.
341, art. 29: “Retribuzione minima imponibile nel settore edile”, comma 2.
• Lettera circolare Inail n. 40 del 23 giugno 1984: “Sanzioni previste dall’articolo 50, 4 comma, del
Testo Unico approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124”.
• Legge 24 novembre 1981 n. 689: “Modifiche al sistema penale”.
Premessa
La legge n. 248/2006 (1), entrata in vigore il 12 agosto u.s., contiene un complesso di misure
finalizzate al rilancio economico e sociale, al contenimento e alla razionalizzazione della spesa
pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.
L’art. 36 bis della legge, in particolare, introduce disposizioni specifiche in materia di contrasto del
lavoro “nero” e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro, che interessano l’Istituto sotto
diversi aspetti.
Sulla materia il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale ha emanato l’allegata Circolare (2) ,
che ha fornito alcuni chiarimenti operativi ed interpretativi delle innovazioni introdotte ed alla quale si
fa integrale rinvio per gli aspetti generali.
Sulla base degli orientamenti ministeriali, si forniscono prime indicazioni operative per le questioni di
stretta competenza dell’Istituto.
Provvedimento di sospensione dei lavori
La legge introduce il potere di adottare il provvedimento di sospensione dei lavori nell’ambito dei
cantieri edili (3), attribuendone la competenza esclusiva al personale ispettivo del Ministero del Lavoro
e della Previdenza Sociale.
La finalità è individuata dalla stessa legge nel rafforzamento delle misure in materia di tutela della
salute e sicurezza dei lavoratori operanti nel cantiere nonché di contrasto al lavoro sommerso ed
irregolare.
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Il provvedimento di sospensione può essere adottato qualora si riscontri l’impiego di personale non
risultante da scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 % del
totale dei lavoratori regolarmente occupati nel cantiere, ovvero in caso di reiterate violazioni della
disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale (4).
La sospensione può essere attivata anche su segnalazione degli ispettori di vigilanza di Inail e Inps ed
a tal fine la circolare ministeriale specifica che, qualora questi ultimi accertino la sussistenza dei
presupposti che legittimano l’adozione del provvedimento, ne diano immediata comunicazione alla
competente Direzione Provinciale del Lavoro mediante trasmissione del verbale.
Laddove, tuttavia, i tempi di conclusione dell’accertamento non consentano una tempestiva redazione
del verbale, è necessario che gli ispettori anticipino la segnalazione mediante comunicazioni
specifiche alle competenti Direzioni Provinciali del Lavoro.
Le comunicazioni, redatte secondo uno schema che potrà essere concordato con le suddette
Direzioni, dovranno contenere tutti gli elementi utili per la valutazione circa la ricorrenza dei
presupposti per l’adozione del provvedimento di sospensione, compresa l’indicazione delle fasi di
lavorazione effettuate dall’azienda al momento della verifica ispettiva.
Per quanto concerne l’ambito di applicazione, l’oggetto, il calcolo della percentuale del personale “in
nero” nonché le condizioni per l’adozione del provvedimento, si rinvia a quanto esposto nella circolare
ministeriale.
Si precisa che nell’ipotesi di “reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di
lavoro…”, gli ispettori dell’Inail devono limitarsi a segnalare gli elementi di fatto risultanti dalla
documentazione esaminata, in quanto il giudizio sulla “reiterazione” è riservato agli ispettori del lavoro.
Il provvedimento di sospensione può essere revocato dagli ispettori del lavoro a condizione che i
lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria siano regolarizzati
ovvero che siano ripristinate, nel caso delle reiterate violazioni già citate, le regolari condizioni di
lavoro.
La circolare ministeriale specifica quali adempimenti sono posti a carico della ditta ai fini della
regolarizzazione, individuando tra gli obblighi anche quelli dei versamenti contributivi (premi ed
eventuali sanzioni).
E’ necessario, pertanto, considerati gli effetti dei provvedimenti di sospensione, che le Unità operative
procedano sollecitamente a quantificare e richiedere gli importi dovuti, tenendo presente quanto
illustrato al
successivo paragrafo concernente le sanzioni amministrative e civili.
Non è trascurabile, a tale proposito, la previsione di un provvedimento interdittivo - a cura del
Ministero delle infrastrutture - alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni ed alla
partecipazione a gare pubbliche per tutto il periodo di sospensione o per un maggiore periodo, fino al
massimo di due anni.
Tessera di riconoscimento o registro
Sempre nell’ambito dei cantieri edili è previsto (5) , a decorrere dal 1° ottobre 2006, l’obbligo per i
datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento, corredata di
fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro. I lavoratori,
compresi gli autonomi (es. artigiani) che operano nel cantiere, sono tenuti ad esporre detta tessera.
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In via alternativa, i soli datori di lavoro che occupano meno di dieci dipendenti possono assolvere
all’obbligo di esporre la tessera “mediante annotazione, su apposito registro di cantiere vidimato dalla
Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente da tenersi sul luogo di lavoro, degli
estremi del personale giornalmente impiegato nei lavori” (6).
La circolare ministeriale definisce l’ambito applicativo della previsione normativa, chiarendo i criteri
con cui va calcolato il limite numerico e fissando, altresì, le modalità di tenuta dei registri e delle
relative annotazioni.
L’inosservanza di tutti gli obblighi descritti comporta l’applicazione di sanzioni amministrative sia a
carico del datore di lavoro (da 100 a 500 Euro per ciascun lavoratore), sia a carico del lavoratore che,
munito della tessera di riconoscimento, non provveda ad esporla (da 50 a 300 euro) (7).
Nel silenzio della norma, che non riserva agli ispettori del lavoro la specifica competenza ad irrogare
questa tipologia di sanzioni, si ritiene che la stessa possa essere comminata anche dal personale di
vigilanza dell’Istituto.
E’ da tenere presente che, nel caso in cui siano presenti nel cantiere contemporaneamente più datori
di lavoro o lavoratori autonomi, la contestazione di violazione dell’obbligo di esporre la tessera di
riconoscimento deve essere notificata anche al committente, atteso che, per espressa previsione
normativa, lo stesso risponde in solido di tale obbligo.
Comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro
La legge (8) rende immediatamente operative alcune disposizioni già contenute nel decreto di
attuazione della cosiddetta “legge Biagi” (9), stabilendo che, nei casi di instaurazione di rapporti di
lavoro nel settore edile, i datori di lavoro sono tenuti a darne comunicazione al Centro per l’impiego
(10), mediante documentazione avente data certa, il giorno antecedente a quello di instaurazione dei
relativi rapporti.
La circolare ministeriale precisa che la norma è indirizzata alle imprese edili in senso stretto (si deve
pertanto tenere conto dell’inquadramento o inquadrabilità ai fini previdenziali) e fornisce anche
indicazioni sulle modalità di invio della comunicazione.
La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa da 100 a 500 Euro.
La norma non contiene alcun riferimento alla denuncia nominativa degli assicurati (D.N.A) da
effettuare contestualmente all’instaurazione del rapporto di lavoro (11), e pertanto, in assenza di
espressa abrogazione, l’obbligo verso l’Istituto è da considerarsi tuttora vigente.
Né si può ritenere, per quanto concerne il profilo sanzionatorio, che possa applicarsi il principio del
“cumulo giuridico”, qualora si accerti che il datore di lavoro non abbia effettuato né la comunicazione
anticipata al Centro per l’impiego né quella contestuale all’Inail, trattandosi di violazioni di disposizioni
diverse scaturenti da fatti illeciti distinti.
Sanzioni amministrative e civili per il lavoro nero
E’ stato rafforzato il sistema sanzionatorio per l’impiego di lavoratori non risultanti da scritture o altra
documentazione obbligatoria, con riferimento alle aziende di qualsiasi settore, sia con riguardo alle
sanzioni amministrative che a quelli civili.
Le nuove disposizioni si applicano alle violazioni commesse dal 12 agosto 2006, con la precisazione
che per le condotte di carattere permanente (iniziate anche anteriormente all’entrata in vigore della
legge) occorre fare riferimento alla data di cessazione del comportamento lesivo, che di norma
coincide con quella dell’accertamento da parte del personale ispettivo.
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a) Maxisanzione amministrativa
La norma (12) modifica la “maxisanzione” per il lavoro nero introdotta nel 200213 , prevedendo che
“ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l’impiego di
lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, è altresì punito con la
sanzione amministrativa da Euro 1.500 a Euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di Euro 150
per ciascun giornata di lavoro effettivo”.
Le novità, rispetto alla formulazione del 2002, non si limitano solo alla misura della sanzione (secondo
la previgente normativa la violazione era punita con una sanzione amministrativa dal 200 al 400 per
cento dell’importo del costo del lavoro per ciascun lavoratore irregolare) ma riguardano anche l’ambito
soggettivo di applicazione, nonché la competenza all’irrogazione.
Sotto il primo profilo, infatti, la dizione “impiego di lavoratori dipendenti non risultanti da scritture…”
contenuta nel precedente testo (14) è stata sostituita con la seguente “l’impiego di lavoratori …”.
Questo significa che è da considerare lavoratore “ in nero”, ai fini dell’applicazione della sanzione, non
soltanto il lavoratore subordinato non registrato sui libri paga e matricola o di cui non si sia comunicata
l’assunzione, ma anche il para-subordinato e il lavoratore autonomo sconosciuti agli enti previdenziali,
in quanto non risultanti da alcuna “documentazione obbligatoria” (ad esempio mancata iscrizione alla
Camera di Commercio).
E’ stata altresì modificata la competenza ad irrogare la sanzione, prima riferita all’Agenzia delle
Entrate e riservata ora alle Direzioni Provinciali del Lavoro, alle quali compete sia la contestazione
della violazione
che l’eventuale ordinanza ingiunzione.
Nulla cambia circa le competenze degli organi di vigilanza degli Enti previdenziali e pertanto gli
ispettori devono continuare ad effettuare la constatazione dell’illecito, segnalando tempestivamente la
stessa alla Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio.
b) Sanzioni civili connesse all’omesso versamento del premio
Di particolare rilievo per l’Istituto è la previsione della soglia minima della sanzione civile, dovuta per
l’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non risultante dalle scritture o
altra documentazione obbligatoria.
La legge, infatti, prevede che “l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei
contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a
Euro 3.000 indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata” (15).
Tale previsione integra quindi il sistema sanzionatorio in vigore dal 2001 (16), in quanto non solo
viene introdotta una soglia minima, nei casi in cui la quantificazione della sanzione civile risulti
inferiore all’importo di Euro 3.000, ma questa stessa è riferita al singolo lavoratore e non più alle
retribuzioni complessivamente evase.
La circolare ministeriale chiarisce che la quantificazione della stessa in misura non inferiore ad Euro
3000 per ciascun lavoratore deve essere “distintamente riferita alla contribuzione previdenziale ed alla
assicurazione Inail ”.
Secondo l’interpretazione ministeriale, inoltre, la sanzione trova applicazione nelle ipotesi in cui sia
scaduto il termine per il “versamento dei contributi relativi al periodo di paga in corso al momento
dell’accertamento”.
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Questo fa ritenere, ai fini Inail, che presupposto per la sua applicazione - nei casi in cui la ditta sia
comunque già titolare di un rapporto assicurativo per l’attività svolta - è che sia scaduto il termine di
legge per la dichiarazione delle retribuzioni afferenti l’anno o il minor periodo di riferimento e per il
conseguente versamento del premio definitivamente dovuto per lo stesso periodo (17).
c) Istruzioni operative per le sanzioni civili
In attesa della necessaria implementazione procedurale idonea a gestire le sanzioni civili in discorso,
le Sedi devono operare come segue:
• all’atto della liquidazione del verbale ispettivo, che dovrà riportare l’importo delle retribuzioni non
denunciate per ciascun lavoratore interessato, l’operatore deve inserire l’evasione salariale
distintamente per singolo lavoratore, evitando di sommare le retribuzioni riferite a soggetti diversi;
• la procedura provvede a calcolare il premio e la relativa sanzione civile nella misura prevista dalla
Legge n. 388/2000;
• al momento dell’invio alla verifica, l’operatore ha la possibilità di vedere l’importo della sanzione
calcolata
dalla procedura e quindi valutare se la stessa è congrua rispetto al limite minimo di Euro 3.000;
• qualora sia inferiore, applicherà lo specifico “codice di funzione” per escludere detta sanzione dalla
richiesta;
• procederà, quindi, all’inserimento di un titolo manuale - con valore di sanzione civile per l’importo
suddetto - avendo cura di indicare anche una data di scadenza uguale a quella fissata per il
pagamento del premio;
• effettuata la stampa del provvedimento elaborato da GRA, è necessario integrare lo stesso per la
parte riguardante i riferimenti normativi (“sanzione civile ex art. 36 bis comma 7 della Legge n.
248/2006”) e l’importo, provvedendo, altresì, a completare il fac simile dell’F24 con tutti i dati utili.
E’ indispensabile che le richieste in esame siano raccolte in apposite evidenze, sia per agevolarne
l’individuazione in vista dell’eventuale successivo recupero coattivo, sia ai fini di monitoraggio (numero
casi e importo dei premi e delle sanzioni).
Le Direzioni Regionali, a tale proposito, cureranno il monitoraggio mensile delle richieste effettuate
dalle Unità dipendenti, trasmettendo trimestralmente alla Direzione Centrale Rischi i dati di sintesi
riferiti alla regione.
Requisiti per lo sconto edile
L’agevolazione trova ora applicazione “esclusivamente nei confronti dei datori di lavoro del settore
edile in possesso dei requisiti per il rilascio della certificazione di regolarità contributiva anche da parte
delle
casse
edili.
Le predette agevolazioni non trovano applicazione nei confronti dei datori di lavoro che abbiano
riportato condanne passate in giudicato per la violazione della normativa in materia di sicurezza e
salute nei luoghi di lavoro per la durata di cinque anni dalla pronuncia della sentenza” (18).
Secondo l’interpretazione letterale del dispositivo le aziende “devono essere in possesso dei requisiti
per il rilascio della regolarità contributiva” nei confronti di INAIL, INPS E CASSE EDILI; ciò significa
che non è richiesta - almeno per ora - l'acquisizione del "DOCUMENTO UNICO DI REGOLARITA'" e
che tale condizione può essere quindi oggetto di autodichiarazione, fermi restando i poteri di verifica
successiva da parte degli enti previdenziali.
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Per quanto in particolare concerne lo sconto sulla regolazione 2006, si manterrà, pertanto, il sistema
dell'autodichiarazione attraverso una modulistica opportunamente modificata ed integrata, che sarà
resa disponibile e scaricabile dal sito www.inail.it .
Saranno comunque fornite istruzioni dettagliate in occasione dell’emanazione del decreto ministeriale,
che come di consueto fissa ogni anno la misura dell’agevolazione.
Si richiama l’attenzione dei Dirigenti sull’opportunità di curare con particolare attenzione la diffusione
della presente circolare, organizzando specifici incontri di approfondimento presso ogni struttura, sia
con il personale ispettivo, sia con il personale addetto al processo Aziende.
Allegato n. 1: Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 29 del 28 settembre
2006.
Allegato n. 2: Provvedimento di sospensione dei lavori nell’ambito dei cantieri.
Note
1.Gazzetta Ufficiale n. 186 del 11 agosto 2006
2.Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 29 del 28 settembre 2006.
3. Art. 36 bis, comma 1.
4.Artt. 4, 7 e 9 del Decreto Legislativo 8 aprile 2003 n. 66.
5.Art. 36 bis, comma 3.
6.Art. 36 bis, comma 4.
7.Art. 36 bis, comma 5.
8.Art. 36 bis, comma 6.
9.Art. 86 bis, comma 10 bis del Decreto Legislativo n. 276/2003.
10.Art. 9 bis della Legge 28 novembre 1996 n. 608 e successive modifiche.
11.Art. 14, comma 2 Decreto Legislativo 23 febbraio 2000 n. 38.
12.Art. 36 bis, comma 7.
13.Art. 3 del Decreto Legge n. 12/2002 convertito nella Legge n. 73/2002.
14.Art. 3 c.3 Decreto Legge n. 12/2002 convertito nella Legge n. 73/2002
15.Art. 36 bis, comma 7, ultimo periodo.
16.Art. 116, comma 8, lettera b) della Legge 23 dicembre 2000 n. 388.
17.Articoli 28 e 44 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 e successive modifiche.
18.Art. 36 bis, comma 8.
Il Direttore Generale
7/11 Tar Lazio
L'avvalimento in un gara di licitazione privata dopo il Codice dei
Contratti
Il Consorzio ricorrente era stato escluso da una gara di licitazione privata indetta dal Formez per
l’affidamento del servizio di pulizia dei locali di Roma, Cagliari e Vibo Valenzia.
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso osservando che chi partecipa ad un appalto di servizi "... abbia o
meno personalità giuridica, può avvalersi, al fine di comprovare i requisiti di capacità tecnica,
economica e finanziaria, dei requisiti di altri soggetti, purché sia in grado di dimostrare di disporre
effettivamente dei mezzi di tali soggetti".
I Giudici romani hanno precisato che "il principio dell’avvalimento, affermato dalla giurisprudenza
comunitaria con riguardo agli appalti di servizi, è stato successivamente generalizzato ed esteso a tutti
i pubblici appalti dalla direttiva unica appalti n. 18/2004 ed è oggi recepito nel nostro ordinamento dal
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.4.2006 n. 163).
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In definitiva, rimangono esclusi da questo istituto solo i requisiti di ordine generale, relativi "alla
regolarità della gestione delle singole imprese sotto il profilo dell’ordine pubblico, anche economico,
nonché alla moralità".
TAR Lazio, sezione I
Sentenza 10 ottobre 2006 n. 10233
(presidente de Lise, estensore Martino)
Consorzio Hiram
Contro
Formez - Centro di Formazione Studi
Oggetto: esclusione dalla gara di licitazione privata per l’affidamento del servizio di pulizia, igiene e
sanificazione dei locali di Roma, Cagliari e Vibo Valenzia in uso al Formez.
Fatto e Diritto
1. Il Consorzio Hiram è stato escluso dalla gara in oggetto per mancanza del requisito prescritto
dall’art. 14, lett. b9) del capitolato d’oneri (relativo allo svolgimento dell’attività di pulizia, igiene e
sanificazione a partire almeno dall’anno 2000).
controinteressata nella rinnovazione della notificazione del ricorso (cfr. ex multis, Cass., sez, lav., 9
settembre 2004, n.18165), dimostrando la possibilità, nonché la volontà da parte di quest’ultima di
esercitare il diritto di difesa.
2.b Il Formez ha altresì eccepito la mancata tempestiva impugnativa del bando, asserendo che
quest’ultimo era del tutto chiaro ed esplicito nel richiedere che il requisito relativo allo svolgimento
dell’attività oggetto di gara almeno dall’anno 2000 dovesse essere soddisfatto sia dai consorzi che
dalle imprese consorziate. Sottolinea al riguardo che Hiram ha chiesto a più riprese chiarimenti circa
l’interpretazione del capitolato, ottenendo risposta nei termini successivamente trasfusi nel
provvedimento di esclusione.
2.c Come implicitamente ammesso dalla stessa resistente (nel ricostruire la disciplina di gara)
l'immediata impugnazione del bando è configurabile unicamente nelle ipotesi in cui una clausola ivi
contenuta impedisca, in modo certo, la partecipazione formale o sostanziale al procedimento
concorsuale, solo tale situazione comportando una lesione attuale dell'impresa aspirante.
L'immediata ed autonoma impugnazione del bando di gara non è, invece, necessaria quando la
lesione dell'interesse del partecipante derivi non già da una tassativa prescrizione del bando bensì
dall'applicazione o dall’interpretazione che della clausola del bando viene data e la cui lesività si
estrinseca unicamente con l'atto di esclusione (così ad esempio TAR Lazio, I, 16 maggio 2005, n.
3774).
Nella fattispecie, le prescrizioni di gara sono state calibrate sulle imprese partecipanti singolarmente
ed adattate alle r.t.i. e ai consorzi mediante disposizioni che tuttavia non recano alcuna specifica
indicazione in ordine all’applicazione della clausola controversa, tanto da aver costretto Hiram a
formulare diversi quesiti interpretativi.
Pertanto, non essendo le regole di gara formulate in modo tale da configurare in modo certo
l'esclusione dalla gara del consorzio ricorrente, l’eccezione di inammissibilità deve essere rigettata.
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3. Nel merito il ricorso è fondato.
Risulta invero fondato e assorbente il primo motivo, secondo cui il soggetto che partecipa ad un
appalto di servizi, abbia o meno personalità giuridica, può avvalersi, al fine di comprovare i requisiti di
capacità tecnica, economica e finanziaria, dei requisiti di altri soggetti, purché sia in grado di
dimostrare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti.
Il principio dell’avvalimento, affermato dalla giurisprudenza comunitaria con riguardo agli appalti di
servizi (Corte di Giustizia, sentenza 2 dicembre 1999, in causa C – 176/1998), è stato
successivamente generalizzato ed esteso a tutti i pubblici appalti dalla direttiva unificata n. 18/2004,
(art. 47, par. 2, nonché art. 48, par. 3) ed è oggi disciplinato nel nostro ordinamento dall’art. 49 del
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.4.2006, n. 163).
Nella fattispecie, il principio e la disciplina appena richiamati risultano recepiti dalla stessa lex specialis
per quanto riguarda i requisiti del “fatturato globale complessivo realizzato dal soggetto proponente” e
del “fatturato realizzato in servizi identici a quello oggetto di gara” (art. 14, punti b5) e b6) del
capitolato).
In caso di consorzio viene infatti precisato che “Resta fermo che i requisiti di cui al punto b5) e b6)
dovranno essere complessivamente posseduti dalle ditte consorziate che eseguiranno il servizio”.
Orbene, a parere del Collegio, l’anzianità operativa dell’impresa - alla quale fa riferimento l’art. 14,
punto b9) del capitolato - non è che un ulteriore indice di affidabilità tecnica per il quale trova
applicazione il medesimo principio dell’avvalimento, con conseguente illegittimità della lex specialis sia
per contrarietà alla disciplina di derivazione comunitaria, sia per l’illogicità interna alle stesse regole di
gara.
Non può infatti condividersi quanto sostenuto dal Formez secondo cui il requisito in esame ha
carattere generale e pertanto doveva essere dimostrato non solo dalla singole imprese designate
quali esecutrici del servizio ma anche dallo stesso consorzio.
Ha articolato tre motivi deducendo;
- che tanto alla stregua dell’art. 12 comma 8 - ter della l.n. 109/94 quanto della direttiva comunitaria n.
18/2004, i consorzi stabili possono avvalersi dei requisiti tecnici, economici e finanziari posseduti dalla
proprie consorziate ai fini della partecipazione alle procedure di gara. Illegittimamente, pertanto, la
stazione appaltante ha proceduto all’esclusione, pur essendo il requisito dell’anzianità operativa
posseduto dalle consorziate Puliservice s.r.l. e Octava Service s.r.l.;
- che l’esclusione palesa comunque difetto di motivazione e assoluta carenza istruttoria, non essendo
all’uopo sufficiente il mero richiamo “alle valutazioni della Commissione riportate nel verbale n. 3 del
26.9.2005”.
Si sono costituiti per resistere il Formez e la società Cometa s.r.l., depositando documenti e memorie.
L’amministrazione ha altresì depositato memorie conclusive in vista dell’udienza di discussione del
21.6.2006 alla quale il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
2. Le parti resistenti hanno sollevato due eccezioni preliminari.
E’ stata in primo luogo eccepita l’inammissibilità per mancata notifica nei termini di decadenza alle
ditte aggiudicatarie, ed, in particolare, alla ditta Cometa s.r.l. In un primo tempo infatti il consorzio
Hiram ha effettuato la notificazione del ricorso alla società “La Cometa”, omonima ma diversa da
quella aggiudicataria dell’appalto e solo tardivamente ha rinnovato la notificazione nei confronti
dell’effettiva controinteressata indicata nel provvedimento impugnato.
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2.a Osserva il Collegio che non vi è contestazione sulla circostanza che il ricorso è stato
tempestivamente notificato alla ditta Sanital s.r.l., aggiudicataria del lotto 2 – Cagliari.
Ai fini della ricevibilità del ricorso è sufficiente che lo stesso venga notificato nel termine di decadenza
“tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente
si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi”, salvo l’obbligo di integrare il contraddittorio con le notifiche
ordinate dal Tribunale.
In particolare, non può condividersi l’affermazione della società Cometa secondo cui essa si
configurerebbe, relativamente al primo lotto di cui è risultata aggiudicataria, come l’unica
controinteressata.
Il procedimento di gara in esame è infatti disciplinato dallo stesso bando (pur esso oggetto di
impugnativa) oltre ad essersi svolto in maniera unitaria, sia per quanto riguarda la fase di verifica dei
requisiti di partecipazione, sia relativamente alla valutazione delle offerte.
Inoltre, la costituzione in giudizio della Cometa s.r.l. ha sanato l’ulteriore irregolarità riscontrata dalla
La stessa giurisprudenza invoca da parte resistente definisce infatti come requisiti di ordine generale
esclusivamente quelli relativi “alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto il profilo
dell’ordine pubblico,anche economico, nonché alla moralità” (così ad esempio Cons. St., sez. V, 30
gennaio 2002, n. 507).
Detta giurisprudenza risulta altresì recepita dal Codice dei contratti pubblici (cfr. l’art. 38 del cit.
d.lgs.n.163/2006).
Nella fattispecie, tra i requisiti “generali” di partecipazione disciplinati dal capitolato d’oneri vi sono ad
esempio il “non aver riportato condanne, con sentenza passata in giudicato, per qualsiasi reato che
incida sulla moralità professionale e per delitti di natura finanziaria e comunque [...] non avere subito
condanne per delitti che comportino l’incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione”,
“l’insussistenza delle cause di esclusione previste dall’art. 12 del d.lgs. 17.3.1995, n. 157”,
“l’insussistenza delle cause di esclusione dalla gara di cui all’art. 1/bis della l. n. 383/2001 e s.m.i.”,
“l’ottemperanza del soggetto proponente alle norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili [..]”
(artt. 14 – lett. b1, b2, b3, b4, b7, del capitolato d’oneri).
Al contrario, lo svolgimento dell’attività oggetto di gara da tempo risalente, non appare rispondente ad
una specifica esigenza di ordine pubblico quanto alla necessità di individuare imprese aventi maggiore
esperienza nel settore. Detto requisito poteva quindi essere dimostrato anche dallo sole ditte
consorziate, designate ai fini dell’esecuzione del servizio.
In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso merita accoglimento. Giusti motivi inducono
peraltro a compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione I, accoglie il ricorso in epigrafe, e per
l’effetto annulla i provvedimenti impugnati. Compensa tra le parti le spese di giudizio. Ordina che la
presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di
consiglio del 21 giugno 2006. Depositato il 10 ottobre 2006.
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07/11 Quali regole per scegliere un avvocato
Gara pubblica per affidare l'incarico di difesa e consulenza dell'ente
pubblico
Pubblicata il 25 ottobre 2006
TAR Puglia, Lecce, II sezione
Sentenza 25 ottobre 2006 n. 5053
(presidente Cavallari, estensore Capitanio)
TAR Puglia, Lecce, II sezione
Sentenza 25 ottobre 2006 n. 5053
(presidente Cavallari, estensore Capitanio)
In fatto e in diritto
Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni preliminari rassegnate dalle parti resistenti, eccezioni
che sono strettamente correlate fra di loro, nel senso che viene innanzitutto eccepito il difetto di
giurisdizione del TAR (sul presupposto che nel caso di specie si tratta del conferimento di incarico
professionale ad un legale esterno all’Amministrazione); per il caso in cui il Tribunale dovesse ritenere
sussistente la giurisdizione amministrativa, viene eccepita la tardività del deposito del ricorso,
trovando applicazione nel caso di specie l’art. 23-bis della L. n. 1034/1971 (dovendosi qualificare la
fattispecie come una procedura finalizzata all’aggiudicazione di un appalto di servizi).
Per quanto concerne la prima eccezione, il Tribunale ritiene sussistente la giurisdizione
amministrativa, in quanto:
nel caso di specie l’Amministrazione intimata ha posto in essere una procedura selettiva, al termine
della quale ha adottato un provvedimento autoritativo di scelta del legale a cui affidare la propria
difesa in giudizio e l’attività di consulenza professionale;
per cui, la presente controversia rientra nella giurisdizione del TAR, secondo i consueti criteri di riparto
della giurisdizione.
Analoga sorte merita l’altra eccezione preliminare, relativa alla presunta tardività del deposito del
ricorso.
Tale conclusione discende dalle seguenti considerazioni:
l’art. 23-bis della legge n. 1034 del 1971 (che sarebbe applicabile ratione temporis al presente
giudizio, visto che il ricorso è stato notificato il 23 maggio 2006 e depositato il 13 giugno 2006, in un
momento antecedente, quindi, all’entrata in vigore del D.gs. 12 aprile 2006, n. 163) si applica
letteralmente ai giudizi aventi ad oggetto, fra l’altro, “…i provvedimenti relativi alle procedure di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e
gli atti di esclusione dei concorrenti…”;
il D. Lgs. n. 157/1995 si applica solo negli artt. 8, comma 3, 20 e 21 ai servizi compresi nell’allegato 2,
fra i quali rientrano i servizi legali (specificatamente quelli di cui al n. 861 della CPC);
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peraltro, è noto come anche per gli appalti di servizi sotto soglia (fra i quali rientra quello di specie
atteso che il compenso è di 20.000 Euro annui per il massimo di cinque anni) e così pure per gli
appalti di servizi sopra soglia soggetti solo ad alcune delle regole comunitarie, le amministrazioni
pubbliche sono tenute ad applicare, in fase di individuazione del contraente privato, i principi di
trasparenza, non discriminazione e pubblicità delle procedure, ed è proprio ciò che nel caso di specie
ha fatto l’Amministrazione intimata, ponendo in essere un procedimento amministrativo (assimilabile
certamente ad una gara d’appalto) al cui esito l’avv. M.è stato individuato come consulente legale del
Comune di Palagianello per il periodo di durata del mandato dell’attuale Sindaco;
Il procedimento di notifica del ricorso ha avuto avvio in data 23 maggio 2006, mentre il deposito è
stato effettuato il successivo 13 giugno 2006; oltre il termine dimidiato di cui all’art. 23 bis, comma 2;
la obiettiva difficoltà di ricondurre la fattispecie all’ipotesi dell’incarico professionale (estranea
all’istituto dell’appalto, secondo il diritto nazionale) o all’ipotesi di un appalto di servizi assoggettato
all’ipotesi dell’art. 23 bis permette la concessione dell’errore scusabile;
Giova premettere che il ricorrente principale ha conseguito, nella graduatoria contestata, 25 punti a
fronte dei 33 ottenuti dal controinteressato, mentre con il ricorso egli chiede l’annullamento della
graduatoria nella
titolo “Dottorato di ricerca” (non avendo l’interessato frequentato un corso avente le caratteristiche di
durata di cui al D.M. n. 224 del 30.4.1999), per cui al punteggio complessivo di 33 attribuito dalla
Commissione esaminatrice debbono essere sottratti due punti, con il che all’avv. M. spettano in realtà
31 punti.
Per il resto, invece, le valutazioni della Commissione vanno sostanzialmente confermate, per le
seguenti ragioni.
Per quanto riguarda il punteggio assegnato al controinteressato per la voce “Corsi di
perfezionamento”, non si può concordare con quanto sostenuto dal ricorrente, e ciò – sia pure in
presenza di clausole del bando non troppo esaustive – in forza di un elementare canone di
ragionevolezza: in effetti, se un soggetto ha diritto all’attribuzione del punteggio di che trattasi per la
frequenza di corsi di perfezionamento in qualità di discente, a fortiori tale punteggio spetta a chi tali
corsi frequenta come docente o relatore.
Tale conclusione, come detto, discende da un ragionamento elementare, e cioè dalla considerazione
che il docente/relatore deve necessariamente essere in possesso di un bagaglio cognitivo superiore a
quello dei suoi discenti/uditori, e che, per converso, l’attività di docenza contribuisce ad arricchire il
bagaglio esperienziale e tecnico del docente stesso.
Per quanto riguarda, invece, il punteggio attribuito all’avv. M. per la voce “Prestazioni rese sotto forma
di tirocini”, si deve anzitutto osservare che il bando di selezione in esame non è sul punto molto
perspicuo, in quanto viene prevista la valutabilità di “Prestazioni rese sotto forma di tirocini attinenti le
materie su cui è richiesta la specifica professionalità per la selezione in oggetto”.
Si tratta quindi di un concetto abbastanza indeterminato e vago, atteso che nel caso di un avvocato
per “tirocinio” non si può intendere né il biennio di pratica forense (anche perché è prevista
l’attribuzione di 2 punti per ciascun “corso”, il che significa che l’estensore del bando non intendeva
riferirsi al cd. praticantato), né all’esercizio dell’attività professionale post-abilitazione (e ciò in quanto
dopo il conseguimento del titolo abilitativo l’avvocato non può più essere considerato tirocinante).
Pertanto, si deve concludere che, sotto la voce “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”, si possono
ricomprendere tutte quelle attività, diverse dai corsi di perfezionamento e dalle altre attività valutabili
ad altro titolo, che il candidato abbia svolto nel corso della propria vita accademica e/o in
contemporanea
con
l’esercizio
dell’attività
professionale.
Se ciò è vero, ne consegue che del tutto legittimamente la Commissione ha attribuito all’avv. M. tre
punti per i corsi tenuti presso l’Università di Bari, sede di Taranto nel periodo febbraio-aprile 2000,
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mentre – come invocato nel ricorso incidentale - è illegittima la mancata attribuzione allo stesso del
punteggio per le attività svolte dal controinteressato nel corso dell’a.a. 1998/1999 presso l’Università
“LUISS” di Roma (si tratta, nello specifico, di attività di docenza in corsi aventi ad oggetto il diritto
amministrativo sostanziale e processuale) e successivamente in favore della Scuola Forense del
Consiglio dell’Ordine di Taranto e della Corte di Appello di Lecce (attività di docenza), le quali sono
sicuramente riconducibili alla nozione di “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”. Infatti, l’attività di
docente in corsi seminariali o di aggiornamento professionale si configura sicuramente come attività
da cui deriva un’implementazione del bagaglio culturale e professionale di un avvocato, specie se le
materie oggetto dei corsi in argomento sono, come nel caso di specie, attinenti all’oggetto principale
dell’incarico che il Comune di Palagianello aveva intenzione di conferire all’esito della selezione per
cui è causa.
Viceversa, non era valutabile né l’attività che l’avv. P. ha dichiarato di avere svolto presso il
Dipartimento di Diritto Privato dell’Università di Bari (in quanto si tratta di generica attività di
collaborazione con un docente, come tale non riconducibile alla nozione di “corso” di cui parla il bando
di selezione), né l’attività di correlatore del progetto “Campus One” (con relazione dal titolo “Proprietà
intellettuale, diritto d’autore ed internet”), la quale pure potrebbe essere ricompresa nella nozione di
“corso”, in quanto non attinente alle materie oggetto della selezione de qua.
Non sono invece fondate le altre doglianze articolate nel ricorso incidentale, in quanto:
rientrava nella discrezionalità dell’Amministrazione stabilire i criteri di valutazione dei curricula, per cui
non è illegittimo ex se il fatto che non siano stati previsti subcriteri di valutazione delle pubblicazioni
scientifiche o che non sia stato previsto un punteggio premiale per l’idoneità alla pubblicazione della
tesi di laurea;
ricomprendere tutte quelle attività, diverse dai corsi di perfezionamento e dalle altre attività valutabili
ad altro titolo, che il candidato abbia svolto nel corso della propria vita accademica e/o in
contemporanea con l’esercizio dell’attività professionale.
Se ciò è vero, ne consegue che del tutto legittimamente la Commissione ha attribuito all’avv. M. tre
punti per i corsi tenuti presso l’Università di Bari, sede di Taranto nel periodo febbraio-aprile 2000,
mentre – come invocato nel ricorso incidentale - è illegittima la mancata attribuzione allo stesso del
punteggio per le attività svolte dal controinteressato nel corso dell’a.a. 1998/1999 presso l’Università
“LUISS” di Roma (si tratta, nello specifico, di attività di docenza in corsi aventi ad oggetto il diritto
amministrativo sostanziale e processuale) e successivamente in favore della Scuola Forense del
Consiglio dell’Ordine di Taranto e della Corte di Appello di Lecce (attività di docenza), le quali sono
sicuramente riconducibili alla nozione di “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”. Infatti, l’attività di
docente in corsi seminariali o di aggiornamento professionale si configura sicuramente come attività
da cui deriva un’implementazione del bagaglio culturale e professionale di un avvocato, specie se le
materie oggetto dei corsi in argomento sono, come nel caso di specie, attinenti all’oggetto principale
dell’incarico che il Comune di Palagianello aveva intenzione di conferire all’esito della selezione per
cui è causa.
Viceversa, non era valutabile né l’attività che l’avv. P. ha dichiarato di avere svolto presso il
Dipartimento di Diritto Privato dell’Università di Bari (in quanto si tratta di generica attività di
collaborazione con un docente, come tale non riconducibile alla nozione di “corso” di cui parla il bando
di selezione), né l’attività di correlatore del progetto “Campus One” (con relazione dal titolo “Proprietà
intellettuale, diritto d’autore ed internet”), la quale pure potrebbe essere ricompresa nella nozione di
“corso”, in quanto non attinente alle materie oggetto della selezione de qua.
Non sono invece fondate le altre doglianze articolate nel ricorso incidentale, in quanto:
rientrava nella discrezionalità dell’Amministrazione stabilire i criteri di valutazione dei curricula, per cui
non è illegittimo ex se il fatto che non siano stati previsti subcriteri di valutazione delle pubblicazioni
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scientifiche o che non sia stato previsto un punteggio premiale per l’idoneità alla pubblicazione della
tesi di laurea;
è legittima l’attribuzione al ricorrente principale di un punteggio per il corso di notariato e per la
frequenza del corso per la preparazione del concorso ad uditore giudiziario (in quanto si tratta di corsi
di perfezionamento), così come è legittima l’attribuzione di 2 punti per la voce “Dottorato di ricerca” (in
quanto il bando non prevedeva l’attinenza della materia);
costituisce mera irregolarità (di cui peraltro si è giovato lo stesso ricorrente incidentale, come risulta
dalla scheda di valutazione dell’avv. M.) il fatto che alcuni punteggi siano stati riportati in calce alle
firme dei componenti della Commissione esaminatrice.
Pertanto, non potendo il ricorrente principale superare in graduatoria il controinteressato, anche in
caso di accoglimento delle doglianze proposte dall’avv. P. che il Tribunale ritiene fondate, il ricorso
principale va dichiarato inammissibile per difetto di interesse.
Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese fra le parti costituite.
Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio
con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21.7.2000, n. 205.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Seconda Sezione di Lecce – dichiara
inammissibile il ricorso in epigrafe. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall’Autorità Amministrativa. Così deciso in Lecce, nella Camera di Consiglio del 13 luglio 2006.
Pubblicata il 25 ottobre 2006.
Per gli appalti di servizi sotto soglia e cosi' pure per gli appalti di servizi sopra soglia soggetti solo ad
alcune delle regole comunitarie (quali i servizi legali), le amministrazioni pubbliche sono tenute ad
applicare, in fase di individuazione del contraente privato, i principi di trasparenza, non
discriminazione e pubblicita' delle procedure, ed e' proprio cio' che nel caso di specie ha fatto Comune
di Palagianello, ponendo in essere un procedimento amministrativo (assimilabile certamente ad una
gara d'appalto) al cui esito un avvocato e' stato individuato come consulente legale del Comune per il
periodo di durata del mandato del Sindaco
parte in cui:
non gli sono stati attribuiti ulteriori 3 punti (per la voce “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”);
al controinteressato sono stati illegittimamente assegnati 11 punti (di cui 2 per la voce “Dottorato di
ricerca”, 6 per la voce “Corsi di perfezionamento” e 3 per la voce “Prestazioni rese sotto forma di
tirocini” – a quest’ultimo riguardo, in subordine il ricorrente afferma che al controinteressato poteva al
massimo essere assegnato 1 punto).
Ciò premesso, il ricorso principale è inammissibile per difetto di interesse, il che discende dagli esiti
della cd. prova di resistenza a cui devono essere sottoposti i punteggi numerici conseguiti dal
ricorrente principale e dal controinteressato, alla luce delle doglianze articolate nel ricorso principale e
nel ricorso incidentale.
Va in primo luogo condivisa la doglianza dell’avv. P. relativa al mancato possesso, in capo all’avv. M.,
del titolo “Dottorato di ricerca” (non avendo l’interessato frequentato un corso avente le caratteristiche
di durata di cui al D.M. n. 224 del 30.4.1999), per cui al punteggio complessivo di 33 attribuito dalla
Commissione
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esaminatrice debbono essere sottratti due punti, con il che all’avv. M. spettano in realtà 31 punti.
Per il resto, invece, le valutazioni della Commissione vanno sostanzialmente confermate, per le
seguenti ragioni.
Per quanto riguarda il punteggio assegnato al controinteressato per la voce “Corsi di
perfezionamento”, non si può concordare con quanto sostenuto dal ricorrente, e ciò – sia pure in
presenza di clausole del bando non troppo esaustive – in forza di un elementare canone di
ragionevolezza: in effetti, se un soggetto ha diritto all’attribuzione del punteggio di che trattasi per la
frequenza di corsi di perfezionamento in qualità di discente, a fortiori tale punteggio spetta a chi tali
corsi frequenta come docente o relatore.
Tale conclusione, come detto, discende da un ragionamento elementare, e cioè dalla considerazione
che il docente/relatore deve necessariamente essere in possesso di un bagaglio cognitivo superiore a
quello dei suoi discenti/uditori, e che, per converso, l’attività di docenza contribuisce ad arricchire il
bagaglio esperienziale e tecnico del docente stesso.
Per quanto riguarda, invece, il punteggio attribuito all’avv. M. per la voce “Prestazioni rese sotto forma
di tirocini”, si deve anzitutto osservare che il bando di selezione in esame non è sul punto molto
perspicuo, in quanto viene prevista la valutabilità di “Prestazioni rese sotto forma di tirocini attinenti le
materie su cui è richiesta la specifica professionalità per la selezione in oggetto”.
Si tratta quindi di un concetto abbastanza indeterminato e vago, atteso che nel caso di un avvocato
per “tirocinio” non si può intendere né il biennio di pratica forense (anche perché è prevista
l’attribuzione di 2 punti per ciascun “corso”, il che significa che l’estensore del bando non intendeva
riferirsi al cd. praticantato), né all’esercizio dell’attività professionale post-abilitazione (e ciò in quanto
dopo il conseguimento del titolo abilitativo l’avvocato non può più essere considerato tirocinante).
Pertanto, si deve concludere che, sotto la voce “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”, si possono
ricomprendere tutte quelle attività, diverse dai corsi di perfezionamento e dalle altre attività valutabili
ad altro titolo, che il candidato abbia svolto nel corso della propria vita accademica e/o in
contemporanea con l’esercizio dell’attività professionale.
Se ciò è vero, ne consegue che del tutto legittimamente la Commissione ha attribuito all’avv. M. tre
punti per i corsi tenuti presso l’Università di Bari, sede di Taranto nel periodo febbraio-aprile 2000,
mentre – come invocato nel ricorso incidentale - è illegittima la mancata attribuzione allo stesso del
punteggio per le attività svolte dal controinteressato nel corso dell’a.a. 1998/1999 presso l’Università
“LUISS” di Roma (si tratta, nello specifico, di attività di docenza in corsi aventi ad oggetto il diritto
amministrativo sostanziale e processuale) e successivamente in favore della Scuola Forense del
Consiglio dell’Ordine di Taranto e della Corte di Appello di Lecce (attività di docenza), le quali sono
sicuramente riconducibili alla nozione di “Prestazioni rese sotto forma di tirocini”. Infatti, l’attività di
docente in corsi seminariali o di aggiornamento professionale si configura sicuramente come attività
da cui deriva un’implementazione del bagaglio culturale e professionale di un avvocato, specie se le
materie oggetto dei corsi in argomento sono, come nel caso di specie, attinenti all’oggetto principale
dell’incarico che il Comune di Palagianello aveva intenzione di conferire all’esito della selezione per
cui è causa.
Viceversa, non era valutabile né l’attività che l’avv. P. ha dichiarato di avere svolto presso il
Dipartimento di Diritto Privato dell’Università di Bari (in quanto si tratta di generica attività di
collaborazione con un docente, come tale non riconducibile alla nozione di “corso” di cui parla il bando
di selezione), né l’attività di correlatore del progetto “Campus One” (con relazione dal titolo “Proprietà
intellettuale, diritto d’autore ed internet”), la quale pure potrebbe essere ricompresa nella nozione di
“corso”, in quanto non attinente alle materie oggetto della selezione de qua.
Non sono invece fondate le altre doglianze articolate nel ricorso incidentale, in quanto:
rientrava nella discrezionalità dell’Amministrazione stabilire i criteri di valutazione dei curricula, per cui
non è
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illegittimo ex se il fatto che non siano stati previsti subcriteri di valutazione delle pubblicazioni
scientifiche o che non sia stato previsto un punteggio premiale per l’idoneità alla pubblicazione della
tesi di laurea;
è legittima l’attribuzione al ricorrente principale di un punteggio per il corso di notariato e per la
frequenza del corso per la preparazione del concorso ad uditore giudiziario (in quanto si tratta di corsi
di perfezionamento), così come è legittima l’attribuzione di 2 punti per la voce “Dottorato di ricerca” (in
quanto il bando non prevedeva l’attinenza della materia);
costituisce mera irregolarità (di cui peraltro si è giovato lo stesso ricorrente incidentale, come risulta
dalla scheda di valutazione dell’avv. M.) il fatto che alcuni punteggi siano stati riportati in calce alle
firme dei componenti della Commissione esaminatrice.
Pertanto, non potendo il ricorrente principale superare in graduatoria il controinteressato, anche in
caso di accoglimento delle doglianze proposte dall’avv. P. che il Tribunale ritiene fondate, il ricorso
principale
va
dichiarato
inammissibile
per
difetto
di
interesse.
Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese fra le parti costituite.
Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio
con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21.7.2000, n. 205.
04/11 Rigettato il ricorso di Alitalia
Il Tar Lazio conferma il divieto di trasporto aereo verso la Sardegna
Gara per le rotte aeree verso la Sardegna.
Il Tar Lazio, con sentenza depositata lo scorso 2 novembre, ha respinto il ricorso presentato da Alitalia
contro l'Ente Nazionale per l'Aviazione Civile per avere disposto l'interruzione del servizio da essa
prestato, avendo presentato in ritardo la domanda di accettazione degli oneri di servizio pubblico
imposti per lo svolgimento del trasporto lungo le rotte Cagliari - Roma e Cagliari - Milano.
Il termine fissato per la presentazione aveva carattere perentorio, per consentire all’ENAC di
conoscere, prima dell’assegnazione delle rotte, quanti erano gli operatori interessati e se il loro
numero era adeguato al volume di traffico delle rotte.
In un primo momento il Tar aveva accolto l'istanza cautelare presentata da Alitalia, ma poi la sesta
sezione
dell Consiglio di Stato, con ordinanza n. 2555 del 23 maggio 2006, l'aveva annullata.
Di seguito, il testo della decisione.
TAR Lazio, sezione terza-ter
Sentenza 2 novembre 2006 n. 11612
(presidente Corsaro, estensore Ferrari)
Fatto
1. Con ricorso notificato in data 3 maggio 2006, e depositato il successivo 10 maggio, l’Alitalia Linee
Aeree Italiane s.p.a. (d’ora in poi, Alitalia) impugna gli atti in epigrafe indicati e ne chiede
l’annullamento.
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Espone, in fatto, che con decreto 29 dicembre 2005 n. 35 il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, in applicazione dell’art. 4 del Regolamento CEE n. 2408 del 23 luglio 1992 e della L. 17
maggio 1999 n. 144, ed al fine di assicurare la continuità territoriale con la Sardegna, ha sottoposto ad
oneri di servizio pubblico, tra le altre, le rotte Cagliari-Roma e viceversa e Cagliari-Milano e viceversa,
rotte che, già prima, nella
vigenza della precedente disciplina di oneri di servizio pubblico, erano esercitate dall’Alitalia. Il nuovo
decreto prevedeva che detti oneri sarebbero divenuti obbligatori alla data del 31 marzo 2006, con
scadenza al 30 marzo 2009. I vettori, che intendessero accettare i predetti oneri, dovevano presentare
formale accettazione dell’intero operativo voli di ciascun gruppo di rotte o singole rotte entro trenta
giorni dalla data di pubblicazione nella GUCE della comunicazione della Commissione relativa
all’imposizione di detti oneri.
La comunicazione della Commissione, pubblicata sulla GUCE del 24 marzo 2006, ha individuato nel 2
maggio 2006 il termine iniziale e nell’1 maggio 2009 il termine finale di operatività del nuovo sistema.
Intanto l’E.N.A.C., con nota del 6 marzo, aveva chiesto alle compagnie aeree, che intendevano
operare sulle rotte onerate, di sottoscrivere l’estensione dei precedenti atti convenzionali relativi al
previgente regime fino all’assunzione dei provvedimenti di assegnazione delle rotte per il nuovo
periodo. Tali convenzioni sono state stipulate il 24 marzo 2006. Con nota del 24 aprile, pervenuta all’
E.N.A.C. il successivo 27, la ricorrente ha “confermato, secondo quanto già anticipato nel corso delle
riunioni svoltesi in merito, di accettare i predetti oneri nei termini, alle condizioni e con le modalità di
cui al decreto ed alla comunicazione, sulle rotte Cagliari - Roma e vv. e Cagliari - Milano e vv. ed
autocertificato, altresì, di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dall’allegato al decreto, nonché,
segnatamente, di quelle di cui al punto 6 dello stesso”. Con l’impugnata nota del 27 aprile 2006 l’
E.N.A.C. ha però negato all’Alitalia la
conferma di accettazione degli oneri per essere stata la stessa presentata oltre il termine di trenta
giorni dalla pubblicazione, sulla GUCE, della comunicazione dell’imposizione di oneri. Con successiva
nota del 28 aprile lo stesso E.N.A.C. ha reso noto di aver stipulato con i vettori Meridiana e Air One le
relative convenzioni, senza specificare a quali rotte le stesse si riferivano, e che il servizio avrebbe
avuto inizio il 2 maggio 2006, data dalla quale i precedenti vettori avrebbero cessato di operare.
2. Avverso i predetti provvedimenti la ricorrente è insorta deducendo:
a) Violazione e falsa applicazione art. 4 del Regolamento CE n. 2408/92 e 26 L. n. 144 del 1999 Violazione art. 3 D.M. 29 dicembre 2005 n. 35 e dei principi generali in materia di perentorietà dei
termini
desumibili dalle previsioni di cui al secondo comma degli artt. 152 e 154 cod. proc. civ. - Violazione dei
principi generali di buona amministrazione e proporzionalità dell’azione amministrativa - Eccesso di
potere per travisamento dei fatti, arbitrarietà, illogicità ed ingiustizia manifesta. Il termine previsto
dall’art. 3 D.M. n. 35 del 2005 per la presentazione della formale accettazione dell’operativo entro 30
giorni dalla data di pubblicazione sulla GUCE della Comunicazione della Commissione relativa
all’imposizione di detti oneri non è perentorio, con la conseguenza che illegittimamente all’Alitalia è
stata negata la conferma dell’accettazione solo perché asseritamente presentata dopo la scadenza
del predetto termine.
b) Violazione e falsa applicazione artt. 3 e 10 bis L. n. 241 del 1990 - Eccesso di potere per mancata
considerazione di circostanze di fatto essenziali, travisamento, violazione degli obblighi di
partecipazione
procedimentale - Violazione del principio di affidamento e di buona fede - Eccesso di potere sotto gli
ulteriori profili della contraddittorietà con i precedenti atti e comportamenti dell’Amministrazione,
nonché dell’illogicità ed ingiustizia manifesta. Illegittimamente è stato omesso di dare ad Alitalia la
comunicazione, ex art. 10 bis L. 7 agosto 1990 n. 241, di esclusione.
c) Incompetenza - Violazione e mancata applicazione del punto 1.5 della Comunicazione della
Commissione CE 2006/C 72/03, pubblicata sulla GUCE il 24 marzo 2006. L’affidamento delle rotte
Cagliari - Roma e vv. e Cagliari - Milano e vv. a Meridiana s.p.a. è avvenuto senza il concerto tra l’
E.N.A.C. e la Regione Sardegna, previsto come obbligatorio dall’ordinamento comunitario
3. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l’ E.N.A.C. non si sono costituiti in giudizio.
4. Si è costituita in giudizio la controinteressata Meridiana s.p.a., che ha sostenuto l'infondatezza, nel
merito, del ricorso.
5. Si è costituita, con atto di intervento ad opponendum, notificato il 15, 18 e 19 maggio 2006, l’Air
One s.p.a., che ha sostenuto l'infondatezza, nel merito, del ricorso.
6. La Regione Sardegna non si è costituita in giudizio.
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7. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti in causa costituite hanno
ribadito
le rispettive tesi difensive.
8. Con ordinanza n. 2660 del 2006, riformata dalla VI Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza n.
2555 del 23 maggio 2006, è stata accolta l’istanza cautelare di sospensiva.
9. All’udienza del 26 ottobre 2006 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Diritto
1. Una breve precisazione appare al Collegio necessaria prima di procedere all’esame del merito della
controversia.
Nella memoria (pag. 4) depositata l’8 luglio 2006 la s.p..a. Alitalia Linee Aeree Italiane (d’ora in poi,
Alitalia) ha ampiamente illustrato il gravissimo danno economico che non solo per essa, ma per la
stessa utenza, è
derivato dall’ordinanza (n. 2555 del 23 maggio 2006) con la quale la VI Sezione del Consiglio di Stato,
pronunciando sull’appello proposto dall’ interventore ad opponendum Air One s.p.a., ha riformato
l’ordinanza di questa Sezione che aveva disposto la temporanea sospensione degli effetti del
provvedimento impugnato.
A questo riguardo preme al Collegio chiarire che il danno grave ed irreparabile derivante dal diniego,
opposto dall’E.N.A.C. all’Alitalia, di confermare l’accettazione degli oneri per l’esercizio di servizi aerei
di linea tra Cagliari - Roma e vv. e Cagliari - Milano e vv., se indubbiamente è stato motivo rilevante,
se non determinante, della determinazione adottata dal Collegio nella fase cautelare, è ininfluente
nella successiva fase di merito, nella quale rileva solo la legittimità o illegittimità del provvedimento
impugnato.
2. Passando al merito, privo di pregio, in punto di fatto e di diritto, è il primo motivo di ricorso, con il
quale Alitalia afferma che il termine previsto dall’art. 3 D.M. 29 dicembre 2005 n. 35 per presentare
l’accettazione degli oneri di servizio avrebbe natura ordinatoria e, comunque, sarebbe stato
ampiamente rispettato.
Anche per quanto attiene a questa questione il Collegio ritiene necessaria una preliminare
precisazione anche solo in punto di fatto. Contrariamente a quanto affermato da Alitalia nella memoria
(pag. 6) depositata l’8 luglio 2006, il Tribunale, “pur non avendone fatto espressa menzione nella
motivazione”, non aveva affatto “accordato assorbente rilievo al nostro primo motivo di impugnazione”,
ma aveva fatto riferimento a “elementi di fumus”, in realtà ravvisati, come poi si dirà (sub 5), nei vizi
denunciati in altro motivo di doglianza, oltre che alla sussistenza di un pregiudizio obiettivamente
grave ed irreparabile.
Ciò premesso, il motivo è infondato in punto di diritto, perché il termine in questione ha
necessariamente carattere perentorio, conclusione questa che emerge con chiara evidenza da un
breve excursus della disciplina che regola il settore.
Per "onere di servizio pubblico" si intende, ai sensi dell’art. 2, lett. o), del Regolamento CEE 23 luglio
1992 n. 2408, l’onere, imposto a un vettore aereo, di prendere tutte le misure necessarie,
relativamente a qualsiasi rotta sulla quale sia stato abilitato da uno Stato membro ad operare, per
garantire la prestazione di un servizio che soddisfi determinati criteri di continuità, regolarità, capacità
e tariffazione, criteri cui il vettore stesso non si atterrebbe se tenesse conto unicamente del proprio
interesse commerciale. Più specificatamente, il regime giuridico degli oneri di servizio pubblico ne
autorizza l'imposizione da parte di uno Stato membro riguardo ai servizi aerei di linea effettuati verso
un aeroporto che serve una Regione periferica o in via di sviluppo all'interno del suo territorio o una
rotta a bassa densità di traffico verso un qualsiasi aeroporto regionale, a condizione che tale rotta sia
considerata essenziale per lo sviluppo economico della Regione in cui si trova l'aeroporto stesso, nella
misura necessaria a garantire che su tale rotta siano prestati adeguati servizi aerei di linea rispondenti
a determinati criteri che gli operatori si impegnano a rispettare anche a costo di un proprio sacrificio
economico. Nel valutare l'adeguatezza dei servizi aerei di linea gli Stati membri tengono conto, in
particolare, dell’interesse pubblico, della possibilità di ricorrere ad altre forme di trasporto, dell'idoneità
di queste ultime a soddisfare il concreto fabbisogno di trasporto e dell'effetto combinato di tutti i vettori
aerei che operano o intendono operare sulla rotta di cui trattasi (punti 9 e 10 della decisione della
Commissione della Comunità europea n. 247 del 3 marzo 2005).
Per disciplinare l’assegnazione di detti oneri l’ art. 4, primo comma, lett. a) del cit. Regolamento CEE
n. 2408 del 1992 ha previsto che lo Stato membro può, previa consultazione con gli altri Stati membri
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interessati e dopo aver informato la Commissione e i vettori aerei operanti sulla rotta, imporre oneri di
servizio pubblico su una o più rotte, che rimangono aperti a tutti i vettori comunitari, con l’unico vincolo
del rispetto di tali oneri. La successiva lett. d) dello stesso art. 4 ha precisato che, qualora nessun
vettore si dichiari disponibile ad operare sulla rotta soggetta a oneri di servizio pubblico, lo Stato
membro può passare alla seconda fase, che consiste nel limitare l’accesso alla rotta ad un unico
vettore aereo per un periodo massimo di tre anni, rinnovabile. Il vettore scelto previa gara d’appalto
comunitaria può ricevere una compensazione finanziaria per l’esercizio degli oneri di servizio pubblico.
Il 10 dicembre 2004 l’Italia ha chiesto alla Commissione della Comunità europea di pubblicare nella
GUCE l’imposizione degli oneri per diciotto rotte fra gli scali aeroportuali della Sardegna e i principali
aeroporti nazionali italiani. Tra queste erano annoverate le rotte Cagliari - Roma e vv. e Cagliari Milano e vv.. Ciò in quanto la condizione di insularità della Sardegna limita fortemente le opportunità di
collegamento, attribuendo al trasporto aereo un ruolo fondamentale, insostituibile e privo di valide
alternative comparabili. In tale contesto il servizio aereo di linea deve essere considerato servizio di
pubblico interesse, essenziale sia per lo sviluppo economico e sociale dell'Isola che per garantire la
libera circolazione ed il diritto alla mobilità delle persone.
Con comunicazione 2006/C 72/03, pubblicata sulla GUCE 24 marzo 2006, sono stati disciplinati gli
oneri relativi, tra gli altri, alle predette rotte, le frequenze minime del servizio, il sistema tariffario e la
regolarità del servizio stesso. Al punto 8 è stato precisato che “i vettori che intendono accettare gli
oneri di servizio pubblico contenuti nel presente documento devono presentare, entro 30 giorni dalla
data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea della comunicazione della
Commissione relativa all’imposizione dei citati oneri, formale accettazione da indirizzare all’Ente
Nazionale dell’Aviazione Civile”.
Infine, l’art. 3 D.M. 29 dicembre 2005 n. 35 ha ribadito che i vettori, che intendono accettare gli oneri di
servizio pubblico di cui allo stesso decreto, devono presentare, entro 30 giorni dalla data di
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Unione europea della comunicazione della Commissione
relativa all'imposizione dei citati oneri, formale accettazione dell'intero operativo di ciascuno dei gruppi
di rotte o singole rotte, così come indicato nell'allegato al decreto, con le modalità specificate
nell'allegato stesso.
Dall’esame di tutta la complessa normativa si evince che l’E.N.A.C. offre a tutti i vettori il servizio di
trasporto aereo su determinate rotte coperte da oneri di servizio pubblico. Sono stabiliti tempi e modi
perché gli operatori interessati manifestino la loro volontà di accettare l’offerta. In particolare,
nell’allegato al cit. D.M. n. 35 del 2005 è previsto che per l'accettazione dell'onere di servizio su
ciascuna delle rotte o dei pacchetti di rotte considerati è necessario il possesso, da parte di ciascun
vettore accettante, di requisiti minimi specificamente indicati. Gli operatori, che abbiano accettato gli
oneri e che siano in possesso di detti requisiti, gestiscono la rotta scelta. Ciò però non avviene
incondizionatamente, atteso che, al fine di evitare gli inconvenienti che deriverebbero dall’accettazione
di una rotta onerata da parte di più vettori, considerate le limitazioni ed i condizionamenti
infrastrutturali degli aeroporti coinvolti, l'Ente nazionale per l'aviazione civile, sentita la Regione
autonoma della Sardegna, deve, per la miglior cura dell'interesse pubblico, intervenire per contenere i
programmi operativi dei vettori accettanti in modo da renderli complessivamente proporzionati alle
esigenze di mobilità poste alla base dell'imposizione d'oneri. Tale intervento dovrà ispirarsi ad un'equa
ridistribuzione delle rotte e delle frequenze fra i vettori accettanti anche sulla base dei volumi di traffico
sulle rotte (o i pacchetti di rotte) in questione, accertati per ciascuno di essi nel biennio precedente.
In altri termini, per i singoli vettori non è indifferente la presentazione, da parte di altri operatori,
dell’accettazione di oneri perché il loro numero ha effetti immediati sul riparto dell’utenza. Pertanto,
come in ogni procedura latu sensu selettiva, i termini per manifestare la volontà di partecipare alla
procedura (id est, per presentare l’offerta o, in questo caso, l’accettazione degli oneri di servizio
pubblico) devono essere necessariamente di natura perentoria, a tutela del principio della par condicio
tra i concorrenti. Non è di ostacolo all’estensione al caso in esame dei principi che regolano le
procedure di evidenza pubblica la circostanza che la procedura attivata dall’E.N.A.C. non è volta
all’individuazione dell’unico vincitore della selezione, proprio perché è comunque comune ai
partecipanti ad entrambi i tipi di competizione l’interesse a vedere scremato il più possibile il numero
degli aspiranti all’assegnazione del servizio. E’ quindi comune la pretesa dei partecipanti a che sia
escluso colui che non ha rispettato il termine, previsto dalla lex specialis, per manifestare la propria
disponibilità all’ammissione alla procedura.
Né è possibile ritenere, come sostiene invece Alitalia, che l’interesse privato dei vettori a
ridimensionare il numero dei concorrenti si porrebbe in insanabile contrasto con quello pubblico a
consentire alla più ampia cerchia possibile di vettori di operare sulle rotte onerate in applicazione del
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principio della massima partecipazione. Infatti, anche detto principio, al quale generalmente si fa
riferimento per interpretare in bonam partem clausole dubbie dei disciplinari di gara, non esclude che l’
iter sia procedimentalizzato e siano individuati, nella sua scansione temporale, termini perentori.
In altri termini, e per concludere, il carattere perentorio del termine fissato per l’accettazione degli
oneri di servizio pubblico, pur se non risultante dal testo letterale delle disposizioni comunitarie e
nazionali, è ricavabile dalla funzione allo stesso affidata, e cioè quantificare ad una data certa gli
aventi titolo a gestire le rotte onerate da servizio pubblici. Esigenza, questa, che implica la necessità di
uno sbarramento temporale netto e sufficientemente anticipato anche al fine di consentire ai vettori
assegnatari l'espletamento di tutti gli incombenti organizzativi e funzionali all’inizio della gestione del
servizio.
Aggiungasi che, in applicazione di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza del
giudice amministrativo, ove manchi una specifica disposizione che espressamente individui la natura,
sollecitatoria o decadenziale, del termine, questo deve essere qualificato perentorio se dal suo inutile
decorso consegue la perdita della possibilità di azione da parte del soggetto a favore del quale quel
termine era stato previsto. Nel caso in esame, tale perdita è implicitamente sancita (art. 4, primo
comma, lett. d) del Regolamento CEE n. 2408 del 1992) con l’espressa previsione che ove alcun
vettore accetti gli oneri di sicurezza l’E.N.A.C. potrà bandire una gara pubblica. Ciò comporta la
necessità di individuare un dies a quo certo a decorrere dal quale sorge in capo a detto Ente il potere
di attivarsi per iniziare la procedura ad evidenza pubblica, termine che non può che coincidere con il
giorno successivo a quello stabilito ope legis per accettare gli oneri.
Né può influire su tale conclusione la circostanza, dedotta dalla ricorrente nella memoria depositata l’
8 luglio 2006, che l’E.N.A.C., con riferimento alle rotte Cagliari - Milano e vv. e Cagliari - Roma e vv.,
abbia escluso tale possibilità. Questa decisione dell’Ente non può infatti ragionevolmente essere
intesa come rinuncia ad assicurare la copertura di un servizio pubblico ma come scelta di un diverso
modus operandi, il quale - al pari della previsione della lett. d) del primo comma dell’art. 4 del
Regolamento CEE n. 2408 del 1992 - in tanto può essere intrapreso in quanto si è chiusa la
precedente fase e si è definitivamente accertato, per essere scaduti i relativi termini, che nessun
vettore ha accettato gli oneri di servizio.
Peraltro, proprio la ratio sottesa alla natura decadenziale del termine ne giustifica la legittimità, perché
risponde sia all’interesse dei privati a limitare, nel pieno rispetto delle regole di mercato, la platea di
concorrenti che a quello pubblico alla corretta scansione temporale della procedura di assegnazione
delle rotte. Di qui l’infondatezza della censura di illegittimità dell’art. 3 D.M. n. 35 del 2005.
Infine, non rileva accertare se, agli effetti della tempestività della manifestazione di volontà di Alitalia di
accettare gli oneri, debba farsi riferimento alla data (24 aprile 2006) apposta sulla lettera anziché a
quella in cui quest’ultima è pervenuta all’E.N.A.C.
E’ infatti assorbente la considerazione che dalla nota dell’Ente del 27 aprile 2006 risulta che la lettera
di accettazione di Alitalia è stata consegnata a mano presso gli Uffici dell’Ente e protocollata alla
suddetta data. Né sul punto la ricorrente ha provato - come era nelle sue possibilità - il contrario, e
cioè che la lettera era stata spedita il 24 aprile o depositando copia di una ricevuta fattasi
diligentemente rilasciare dal dipendente dell’E.N.A.C. al quale, nella predetta data, sarebbe stata
materialmente consegnata.
3. Il primo motivo di ricorso è infondato anche in punto di fatto.
Come già chiarito sub 2 l’accettazione degli oneri di sicurezza comporta l’osservanza di una serie di
formalità (ad es. dichiarazione del possesso dei requisiti) che presuppongono un’accettazione scritta.
Lo stesso art. 3 del D.M. n. 35 del 2005 precisa che entro il termine di trenta giorni deve pervenire
all’E.N.A.C.
“formale accettazione”. Non è quindi sufficiente, come afferma Alitalia, che risulti per facta
concludentia (ad
es. con la vendita di 220 biglietti per il giorno 2 maggio) la sua volontà di continuare a gestire la rotta
né può rilevare che con due atti, entrambi sottoscritti da E.N.A.C. e da Alitalia il 24 marzo 2006, sia
stato esteso fino all’1 maggio 2006 l’affidamento dei servizi di trasporto aereo di linea sulla rotta
Cagliari - Roma e vv. e Cagliari - Milano e vv., trattandosi della prosecuzione della precedente
gestione, necessaria per garantire la continuità del servizio proprio fino alla data (1 maggio 2006) in
cui avrebbero cominciato ad operare i vettori che avevano accettato i nuovi oneri.
4. Priva di pregio è anche la seconda censura, che ricollega l’illegittimità del provvedimento impugnato
alla mancata previa comunicazione dell’avviso di rigetto, ai sensi dell’art. 10 bis L. 7 agosto 1990 n.
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Tale norma, infatti, prevede l’obbligo in capo all’Amministrazione di comunicare tempestivamente al
privato i motivi ostativi all’accoglimento di una domanda da questi presentata. Si riferisce, quindi, ai
soli procedimenti iniziati ad istanza di parte. Nel caso in esame Alitalia non ha presentato ad E.N.A.C.
alcuna istanza, non potendosi certamente considerare tale l’accettazione degli oneri tardivamente
presentata, la quale deve essere piuttosto qualificata come manifestazione di volontà di aderire a tutte
le condizioni imposte dall’Ente pubblico per poter servire le rotte in questione. In altri termini, e per
concludere, come già chiarito sub 2, Alitalia ha, seppure tardivamente, accettato un’offerta presentata
dall’E.N.A.C.
5. Con il terzo motivo di ricorso Alitalia afferma che l’affidamento delle rotte Cagliari - Roma e vv. e
Cagliari - Milano e vv. è avvenuto senza il concerto tra l’ E.N.A.C. e la Regione Sardegna, previsto
come obbligatorio dall’ordinamento comunitario.
Preliminarmente il Collegio afferma l’interesse della ricorrente a proporre tale motivo di doglianza e,
quindi, l’ammissibilità dello stesso. Non è infatti applicabile al caso in esame il principio, elaborato
dalla giurisprudenza del giudice amministrativo, secondo cui il concorrente legittimamente escluso da
una procedura concorsuale non è legittimato ad impugnare i relativi atti, dato che l' interesse dello
stesso alla loro rimozione non è diverso da quello di qualunque terzo titolare di un interesse di mero
fatto non qualificabile, in quanto tale, come posizione giuridica di interesse legittimo.
Ed invero, l’eventuale accoglimento del motivo in esame comporterebbe l’obbligo dell’E.N.A.C. di
rinnovare il procedimento dalla fase immediatamente precedente l’assegnazione dell’esercizio delle
rotte Cagliari - Roma e vv. e Cagliari - Milano e vv., con la possibilità che, non raggiungendosi l’intesa
con la Regione Sardegna, l’ente suddetto debba assumere nuove e diverse determinazioni.
Peraltro, ciò premesso e vista la nuova documentazione acquisita dopo l’udienza pubblica del 12
ottobre u.s., la censura non risulta fondata in punto di fatto.
E’ ben vero, infatti, che i punto 1.5 della Comunicazione 2006/C 72/03, pubblicata sulla GUCE 24
marzo 2006, prevede espressamente che “l’E.N.A.C., di concerto con la Regione Autonoma della
Sardegna, verificherà l’adeguatezza della struttura dei vettori accettanti ed il possesso dei requisiti
minimi di accesso al servizio ai fini del soddisfacimento degli obiettivi perseguiti con l’imposizione di
oneri di servizio pubblico. All’esito della verifica i vettori ritenuti idonei ad effettuare i servizi onerati
verranno ammessi ad effettuare il servizio”.
Identica previsione è contenuta nell’allegato al D.M. n. 35 del 2005.
E’ dunque evidente che sia la normativa comunitaria che quella statale hanno condizionato
l’affidamento del servizio all’intesa tra l’E.N.A.C. e la Regione Sardegna, che devono congiuntamente
procedere all’accertamento del possesso dei requisiti minimi da parte degli operatori i quali,
presentando l’accettazione degli oneri, hanno espresso la volontà di ottenere l’affidamento della rotta.
Le norme precisano infatti che solo all’esito della verifica i vettori verranno ammessi ad effettuare il
servizio.
Da questa premessa in punto di diritto consegue la non condivisibilità, questa volta in punto di fatto,
delle due affermazioni sulle quali l’interventore ad opponendum Air One aveva fondato la propria
difesa nei confronti del terzo motivo di ricorso.
Non è infatti rispondente al vero che il punto 1.5 della Comunicazione 2006/C 72/03 non
prevederebbe la predetta concertazione, così come non è esatto che, al fine di ritenere assolto
l’obbligo di concertazione, sarebbe sufficiente l’intesa che si assume essere intervenuta tra l’E.N.A.C.
e la Regione Sardegna prima dell’emanazione del D.M. 29 dicembre 2005 n. 35, in sede di
conferenza di servizi svoltasi sotto la Presidenza della stessa Regione Sardegna. La normativa è
infatti chiara ed inequivoca nel richiedere che l’intesa intervenga dopo la presentazione, da parte dei
vettori, dell’accettazione degli oneri ed ha per oggetto la verifica congiunta da parte delle due Autorità
del possesso, da parte di ciascun vettore accettante, dei requisiti ritenuti necessari per la gestione del
servizio.
Senonché è documentato che alla verifica del possesso da parte dei vettori dei requisiti necessari per
ottenere lì’affidamento della rotta ha provveduto la Commissione incaricata della selezione dei vettori,
di cui è componente fisso un rappresentante della Regione Sardegna il quale nel caso in esame ha
partecipato ai lavori dell’organo collegiale ed alla redazione del deliberato finale.
E’ indubbio che il testo del preambolo della convenzione, con la proposizione “sentita la Regione
autonoma della Sardegna”, sembra assegnare a quest’ultima un ruolo meramente consultivo rispetto
alle determinazioni dell’Enac, in contrasto con il testo in equivoco del punto 1.5 della cit.
Comunicazione 2006/C/72/03, che invece riconosce ai due soggetti (Regione ed Enac) una posizione
assolutamente paritetica in sede di verifica dei requisiti di cui si è detto. Ma le incertezze di ordine
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interpretativo, che giustificano la censura della ricorrente, sono superate in punto di fatto dai dati
desumibili dalla documentazione ora in atti e non contestati.
6. Il ricorso deve pertanto essere respinto con conseguente reiezione anche dell’istanza di
risarcimento danni presentata da Alitalia, ma sussistono giuste ragioni per disporre l’integrale
compensazione tra le parti in causa delle spese e degli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il TAR Lazio, sezione terza-ter definitivamente pronunciando sul ricorso proposto, come in epigrafe,
dall’Alitalia Linee Aeree Italiane s.p.a., lo respinge.
Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 26 ottobre 2006. Depositato il 2 novembre 2006
04/11 Accolto il ricorso di Air One
Il Tar Lazio annulla la gara per l'acquisizione di Volare da parte di
Alitalia
Il TAR del Lazio, con sentenza depositata il 2 novembre scorsa, ha annullato la gara per l'acquisizione
di Volare, accogliendo il ricorso presentato dalla Air One contro il Ministero delle Attivita' Produttive
(ora dello Sviluppo Economico) e nei confronti del Commissario Straordinario delle Società del
Gruppo Volare in Amministrazione Straordinaria, della stessa Alitalia e di Volare S.p.A.
La sentenza dispone il parziale accoglimento del ricorso di Air One e la parziale inammissibilità per
difetto di giurisdizione dello stesso nella restante parte in cui non ha accolto, per tale motivo, la
declaratoria di nullità e/o inefficacia del contratto di compravendita del complesso aziendale Volare,
stipulato il 13 aprile 2006 tra il Commissario Straordinario pro tempore e la Volare S.p.A., costituita da
Alitalia.
Di seguito, il testo della sentenza.
TAR Lazio - sezione III ter
Sentenza 2 novembre 2006 n. 11613
(presidente Corsaro, estensore Dell'Utri)
Fatto
Con ricorso notificato il 27, 28 aprile e 2 maggio 2006 la Air One S.p.A., compagnia aerea italiana,
partecipante alla procedura indetta dal Commissario straordinario delle società Volare Group S.p.A.,
Volare Airlines S.p.A. ed Air Europe S.p.A. in amministrazione straordinaria, dott. Carlo Rinaldini, per
la cessione del relativo complesso aziendale, premesse notazioni in fatto circa la contestazione da
parte sua della partecipazione alla stessa procedura di Alitalia Linee Aeree Italiane S.p.A. e circa il
procedimento posto in essere, ha impugnato gli atti in epigrafe, concernenti l’aggiudicazione e la
vendita del complesso aziendale di cui trattasi in favore di quest’ultima, ed ha chiesto nel contempo la
declaratoria di nullità e/o inefficacia del contratto stipulato il 13 aprile 2006, deducendo:
1.- Violazione e falsa applicazione dei punti 5.3.1., n. (vi) e 6.4 del bando. Violazione dell’autolimite
della pubblica amministrazione. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, sviamento, ingiustizia
manifesta e disparità di trattamento.
Poiché dal verbale del 28 dicembre 2005 risulta che Alitalia ha prodotto una dichiarazione sostitutiva
del Presidente della Società in luogo dell’estratto del libro dei soci contenente l’elenco dei primi dieci
soci, espressamente richiesto dal bando che commina l’esclusione per la mancanza o, comunque, la
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non conformità alle modalità e formalità previste dallo stesso bando di anche uno solo dei documenti
prescritti, la medesima avrebbe dovuto essere immediatamente esclusa.
2.- Violazione e falsa applicazione del punto 6.1, n. 5) del bando di gara.
La valutazione delle offerte tecniche ed economiche, difformemente dalle prescrizioni del bando che
stabiliva come ciò dovesse avvenire alla presenza del notaio con redazione di verbale, è stata
effettuata dal Commissario straordinario senza la presenza del notaio, che si è limitato a ricevere la
dichiarazione del medesimo di aver valutato le offerte ed assegnato i punteggi, così privandosi di
certezza pubblica privilegiata tale delicatissima operazione, comprensiva della predisposizione dei
relativi criteri e rispettivi pesi.
3.- Violazione di ogni norma e principio in materia di predeterminazione dei criteri di valutazione delle
offerte. Eccesso di potere per sviamento, ingiustizia manifesta, irragionevolezza.
a.- E’ mancata un’effettiva predeterminazione dei criteri di valutazione delle offerte, posto che il
Commissario si è limitato a riprodurre i quattro generici “criteri” (in realtà “elementi”) del bando, senza
alcuna specificazione, e a prevedere il relativo peso in percentuale. Sicché il giudizio ne è risultato
arbitrario ed assolutamente svincolato da regole predeterminate ed uniformi, tanto che - ad esempio –
alla ricorrente ed ad Alitalia è stato attribuito lo stesso punteggio per i livelli occupazionali benché la
prima avesse offerto di mantenere i 707 dipendenti per un anno in più.
b.- I c.d. “criteri” e, segnatamente, i “pesi” sono stati elaborati successivamente all’apertura delle buste
contenenti sia le offerte economiche che quelle tecniche.
4.- Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, l. n. 241 del 1990 nonché del punto 6.2 del bando di
gara. Violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990: difetto e/o contraddittorietà di motivazione. Eccesso di
potere per violazione dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza, per disparità di trattamento ed
ingiustizia manifesta.
Come da bando, il Commissario era tenuto a valutare le offerte tenendo conto delle differenze in esse
presenti in ordine al regime temporale del mantenimento dei livelli occupazionali, mentre ha valutato
con lo stesso punteggio di Air One l’offerta Alitalia di mantenere gli occupati per il solo biennio minimo
da garantirsi, senza peraltro fornire alcuna motivazione al riguardo. Ove valutata secondo un corretto
criterio di proporzionalità, l’offerta della ricorrente sarebbe risultata prima in graduatoria.
5.- Eccesso di potere per contraddittorietà intrinseca, difetto assoluto di istruttoria, travisamento dei
fatti.
Il decreto impugnato riferisce solo una parte della nota del Presidente della CONSOB (sollecitata dallo
stesso Ministero a fornire elementi in merito alla notizia dell’operazione in questione ai soci di Alitalia),
senza menzionare l’omissione nel prospetto informativo di Alitalia di uno specifico riferimento
all’eventualità
di proporre un’offerta di acquisizione del Gruppo Volare e, soprattutto, senza dar conto del carattere
interlocutorio della stessa nota. Contraddittorietà si ravvisa laddove, a seguito di una precedente nota,
si era ritenuto inopportuno concludere l’iter di aggiudicazione e non anche a seguito della seconda
nota, altrettanto interlocutoria ed esprimente il perdurante dubbio circa la correttezza informativa di
Alitalia. Non vi è motivazione sul punto.
6.- Violazione e falsa applicazione dell’art. 5.1 del bando di gara. Violazione e falsa applicazione degli
artt. 1, 27, 37, 42 e 63, co. 2 e 3, D.Lgs. n. 270 del 1999, anche in combinato disposto con la
previsione del bando di gara. Illogicità e manifesto contrasto con le finalità ed i principi posti dalla
legge n. 270 del 1999 (art. 63).
Il contratto di acquisto del Gruppo Volare è stato stipulato da Volare S.p.A. con socio unico Alitalia;
ma, nonostante quanto prescritto dal bando, Alitalia ha partecipato alla gara senza evidenziare
nell’offerta la propria volontà di procedere all’eventuale acquisizione tramite una società veicolo di
recente costituzione e, di conseguenza, senza identificare chiaramente il soggetto diverso che
avrebbe formalmente acquistato. In tal modo ha violato il principio dell’immodificabilità della persona
che partecipa ad una procedura per la stipula di un contratto, ha violato la prescrizione di bando ed il
preciso impegno di acquistare direttamente, assunto con l’offerta priva di indicazione della volontà di
procedervi mediante una newco, nonché ha di conseguenza radicalmente modificato il contenuto della
propria offerta. Ciò altera le condizioni di gara, vìola la par condicio e vanifica la verifica dei requisiti di
ammissione. Essendo stato individuato il soggetto legittimato all’acquisto in una società che non
aveva preso parte alla procedura, risulta inficiato in radice il successivo contratto.
7.- Violazione delle stesse norme e principi di cui al precedente motivo. Violazione dell’art. 1 del
decreto 17 marzo 2006 del Ministero della attività produttive.
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L’art. 1 dell’impugnato decreto autorizzava il Commissario straordinario a stipulare il contratto
esclusivamente con Alitalia ed alle condizioni di cui all’offerta del 28 dicembre 2005; non indica perciò
la possibilità di acquisto da parte di soggetto diverso. Di qui un ulteriore profilo di nullità del contratto.
8.- Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 27, 37, 42 e 63, co. 2 e 3, D.Lgs. n. 270 del 1999,
anche in combinato disposto con le previsioni del bando di gara. Violazione falsa applicazione della
disciplina in materia di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria e di mobilità dei dipendenti.
Eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto connessi all’affidabilità
dell’aggiudicatario sulla salvaguardia delle attività aziendali in liquidazione. Sotto altro profilo, eccesso
di potere per illogicità e contraddittorietà interna al provvedimento ed esterna con i principi di buon
andamento ed economicità dell’azione amministrativa.
Alitalia, stante lo stato di profonda crisi in cui - nonostante gli aiuti di Stato, peraltro sorvegliati dalle
Autorità comunitarie - versa, tanto che si è fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, è priva del requisito
dell’affidabilità dell’acquirente e del relativo piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali anche in
ordine alla garanzia di mantenimento dei livelli occupazionali, prescritto dal cit. art. 63, co. 1.e 2.
Quindi il Ministero avrebbe dovuto negare la partecipazione alla gara della stessa Alitalia o,
quantomeno, sottoporre al proprio vaglio le misure che la stessa avrebbe potuto o dovuto adottare per
il riassorbimento del proprio personale ed il risanamento delle proprie attività; né poteva ritenere
adeguata la sanzione di cui all’art. 1456 c.c. inserita nel bando, giacché l’eventuale risoluzione non
giova alla conservazione delle attività imprenditoriali e dell’occupazione. Non considera il fatto che
Alitalia dichiara di ricorrere alla CIGS anche per i dipendenti del Gruppo Volare, senza spiegare come
possa assumerli senza riassorbire i propri dipendenti, come possa mantenere i benefici della CIGS
per i dipendenti propri e del Gruppo Volare, né come conservare e sommare i relativi sgravi
contributivi con l’assorbimento di ulteriori risorse da reintrodurre in un altro trattamento CIGS.
La situazione di Alitalia non è stata tenuta presente neppure ai fini dell’attribuzione del punteggio per
affidabilità e per il livello occupazionale garantito, per i quali identica valutazione è stata effettuata nei
riguardi di Air One. In tale contesto, la modificazione soggettiva realizzata con la costituzione di Volare
S.p.A. appare intesa ad eludere le predette gravissime criticità.
9.- Violazione e falsa applicazione della disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato e di
compatibilità con il mercato. Violazione e falsa applicazione della decisione della Commissione UE n.
270/2004.
Sotto altro profilo: Eccesso di potere per contraddittorietà con gli impegni assunti in sede comunitaria,
per carenza dei presupposti di fatto e di diritto connessi ai requisiti per l’ammissione della società
Alitalia alla gara. Sotto altro profilo: Eccesso di potere per violazione del principio della par condicio.
Per quanto esposto il Ministero non avrebbe dovuto non solo emettere l’impugnato decreto
autorizzativo, ma neanche ammettere Alitalia presentare offerta giacché alla data ultima (20 novembre
2005) non erano ancora operanti gli imponenti aiuti “di salvataggio” (non “di ristrutturazione”)
autorizzati dalla Commissione europea, idonei essi stessi a pregiudicarne l’ammissione in quanto
suscettibili – seppur indirettamente - di essere impiegati per falsare il gioco della concorrenza
nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica quale quella per cui è causa, quindi idonei alterare
la par condicio tra i partecipanti in contrasto con ogni regola e principio comunitario. D’altra parte la
Commissione europea aveva autorizzato gli aiuti di
salvataggio prendendo atto dell’impegno di Alitalia e del Governo italiano a non aumentare la capacità
dell’offerta e a non utizzare gli stessi aiuti per la copertura di nuovi investimenti; e l’acquisizione del
complesso aziendale è proprio un nuovo investimento, comportando aumento di capacità; né
l’acquisizione in questione era prevista nel piano di risanamento che ha rappresentato il presupposto
essenziale degli aiuti, senza i quali anche Alitalia sarebbe stata ammessa alla procedura di
amministrazione straordinaria.
Il Ministero non poteva superare quanto sopra prendendo atto del rimborso del “prestito ponte”, sia
perché proprio il Ministero ha autorizzato il Commissario straordinario a differire dal 20 al 28 dicembre
la scadenza per la presentazione delle offerte proprio per consentire ad Alitalia di effettuare il rimborso
- avvenuto sempre grazie agli impegni dello stesso Ministero – in data 21 dicembre, sia perché alla
data del 20 novembre prevista per la manifestazione dell’interesse Alitalia versava in un grave stato di
insolvenza sicché in carenza degli aiuti non avrebbe potuto effettuare tale manifestazione.
10.- Eccesso di potere per carenza, in capo ad Alitalia, dei requisiti di ammissione alla procedura di
evidenza pubblica per la cessione del complesso aziendale del Gruppo Volare in costanza di
procedura idonea a denotare stato di insolvenza della medesima Compagnia, per illogicità e manifesto
contrasto con le finalità ed i principi posti dalla legge n. 270 del 1999.
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Alitalia non poteva essere ammessa, atteso il divieto di partecipazione stabilito dal bando per le
imprese sottoposte a qualsiasi procedura che denoti lo stato di insolvenza, sia per la sua suddetta
situazione economico finanziaria, sia perché una siffatta procedura è quella di controllo di
compatibilità degli aiuti, nonché in quanto la sua partecipazione si pone in contrasto con le stesse
finalità della cessione, consistenti nella salvaguardia delle attività aziendali in liquidazione ed il
mantenimento dei livelli occupazionali attraverso il recupero di un effettivo equilibrio economico.
11.- Eccesso di potere, contraddittorietà ed illogicità del provvedimento ministeriale per omessa e/o
erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto relativi alle condizioni ed ai limiti imposti dalla
Commissione europea in ordine al procedimento di privatizzazione di Alitalia, ai fini dell’esclusione
dell’operazione di ricapitalizzazione come aiuto di Stato.
L’impegno di privatizzazione di Alitalia è stato sostanzialmente eluso sia per il comportamento statuale
quale privato investitore che per la limitatezza dell’intervento privato.
12.- Manifesta violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 22 e 25 della legge n. 287/1990. Eccesso di
potere per omessa e carente istruttoria. Violazione e falsa applicazione dell’art. 63 D.Lgs. n. 270/1999.
Il Ministero avrebbe dovuto inoltre verificare l’inesistenza di ulteriori impedimenti alla stregua della
normativa antitrust, peraltro espressamente segnalati dall’attuale ricorrente (quali il sommarsi – per
effetto della concentrazione - degli slots posseduti dal Gruppo Volare e da Alitalia sull’aeroporto di
Linate, tale da impedire all’istante di operarvi, specie per i collegamenti con l’aeroporto di Orly) ed
interessare l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, di cui avrebbe dovuto acquisire
preventivamente il parere.
Le parti intimate, con esclusione di Volare S.p.A., si sono costituite in giudizio; Alitalia ed il
Commissario straordinario, nella persona del dott. Carlo Rinaldini presente anche in proprio, hanno
svolto controdeduzioni; il secondo ha altresì eccepito il difetto di giurisdizione.
In relazione al deposito da parte di quest’ultimo, tra l’altro, della dichiarazione di offerta di Alitalia,
contenente l’indicazione di acquisto mediante società veicolo appositamente costituita, con atto
notificato il 22 ed il 26 maggio 2006 Air One ha proposto motivi aggiunti contestando la mancata
osservanza del punto 5.1 del bando, il quale imponeva all’offerente di identificare chiaramente una
società veicolo già costituita al momento dell’offerta e non consentiva la presentazione di un’offerta
per persona da nominare.
Con ordinanza collegiale 11 maggio 2006 n. 2657 la Sezione ha respinto l’istanza cautelare avanza
dalla ricorrente. Con ordinanza 23 maggio 2006 n. 2464 la Sezione VI del Consiglio di Stato ha
accolto l’appello proposto avverso la prima ed ha sospeso gli effetti degli atti impugnati, salvi gli
ulteriori provvedimenti di rinnovazione della gara e quelli volti alla salvaguardia medio tempore degli
interessi pubblici e privati.
Con memoria del 3 ottobre 2006 il Ministero dello sviluppo economico (già delle attività produttive) ha
svolto anch’esso controdeduzioni.
Con memoria del 13 seguente Air One ha replicato all’eccezione formulata dal Commissario
straordinario dott. Rinaldini ed alle avversarie argomentazioni difensive.
In data 17 ottobre 2006 si è costituito in giudizio anche in proprio il dott. Fabio Franchini, subentrato
quale Commissario straordinario, e con memoria del successivo giorno 20, richiamate le eccezioni
svolte, ha confutato tutte le proposte censure, soffermandosi in specie sulle due che hanno formato
oggetto di censura da parte del Consiglio di Stato in sede cautelare, ed ha inoltre sostenuto che
l’eventuale annullamento dell’atto conclusivo del procedimento amministrativo non può spiegare effetti
sul contratto, già stipulato anteriormente alla proposizione del ricorso.
Infine, in pari data ha prodotto memoria anche Alitalia, con cui ha ribadito ed ulteriormente illustrato le
proprie difese, rimarcando altresì l’inammissibilità della richiesta pronuncia di nullità e/o inefficacia del
contratto stipulato il 13 aprile 2006.
All’odierna udienza pubblica la causa è stata posta in decisione, previa ampia trattazione orale.
Diritto
1.- Com’è esposto nella narrativa che precede, col ricorso in esame la compagnia aerea Air One
S.p.A., partecipante alla “procedura di vendita del complesso aziendale del Gruppo Volare” (Volare
Group S.p.A., Volare Airlines S.p.A. e Air Europe S.p.A.) in amministrazione straordinaria indetta con
bando pubblicato il 25 ottobre 2005 e classificatasi al secondo posto della relativa graduatoria,
impugna il decreto ministeriale 17 marzo 2006, col quale il Commissario straordinario del Gruppo è
stato autorizzato ad aggiudicare la gara ad Alitalia Linee Aeree Italiane S.p.A. ed a stipulare con la
medesima il contratto di compravendita del Gruppo stesso, nonché gli atti della medesima procedura
tra i quali, in particolare, i due verbali in date 28 e 29 dicembre 2005, di “apertura dei plichi contenenti
le offerte di acquisto” e “selezione della migliore offerta” da parte del Commissario straordinario.
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Chiede, altresì, che sia dichiarato nullo e/o inefficace il detto contratto, stipulato il 13 aprile 2006 tra il
Commissario straordinario e Volare S.p.A., “società veicolo” appositamente costituita da Alitalia.
2.- In via preliminare, va esaminata l’eccezione formulata dalla difesa del Commissario straordinario
Carlo Rinaldini, richiamata dalla difesa del Commissario straordinario dott. Fabio Franchini, subentrato
al primo, con la quale si adduce, oltre all’inconferenza del richiamo di parte ricorrente all’art. 23 bis l.
n. 1034/71, “l’assoluto difetto di giurisdizione in capo al Giudice Amministrativo nelle controversie
aventi ad oggetto l’attività di gestione straordinaria e in generale di liquidazione dei complessi
aziendali in crisi, per ciò che attiene ai comportamenti posti in essere da Commissario straordinario”.
Si sostiene che, nonostante la presenza di profili procedimentali e provvedimentali di tipo
amministrativo, attinenti in particolare alla vigilanza del Ministero delle attività produttive, non per
questo la materia che attiene al salvataggio realizzata dal Commissario straordinario è attratta dalla
giurisdizione amministrativa, tant’è che l’art. 40 del D.Lgs. n. 270 del 1999 non gli conferisce alcun tipo
di funzione amministrativa, ma solo i poteri (privatistici) di gestione del complesso aziendale, e tenuto
conto che l’art. 1 della legge 23 agosto 1988 n. 391 (che riservava ai TAR la competenza, oltre che sui
ricorsi contro atti e provvedimenti di autorizzazione alla vendita dei beni di proprietà delle imprese
sottoposte ad amministrazione straordinaria, quelli “contro atti o provvedimenti adottati nel corso della
suddetta procedura di vendita”) è stato espressamente abrogato dall’art. 109 del D.Lgs. n. 270/99 il
quale, d’altra parte, all’art. 65 ribadisce che la sede naturale delle censure avverso l’attività del
Commissario straordinario è quella del giudice ordinario, vertendosi in tal caso in materia di diritti
soggettivi.
Al riguardo, il Collegio osserva che, se va condivisa la tesi del resistente secondo cui la fattispecie in
esame non rientra in alcuna delle ipotesi previste dall’art. 23 bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034
(aggiunto dall’art. 4 della legge 21 luglio 2000 n. 205), non trattandosi, in particolare, di procedura di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità (lett. b) né di servizi
pubblici o forniture (lett. c), e neppure, all’evidenza, di provvedimenti relativi alle procedure di
privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici (lett. e), l’eccezione di cui innanzi non può
invece che essere disattesa.
Invero, come oppone controparte il cit. art. 65 del D.Lgs. 8 luglio 1999 n. 270, nello stabilire che
“Contro gli atti e i provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, relativi alla liquidazione dei beni di imprese in
amministrazione straordinaria, è ammesso ricorso al tribunale in confronto del commissario
straordinario e degli altri eventuali interessati”, non fa altro che ribadire il tradizionale criterio di riparto
fondato sulla natura e consistenza della posizione giuridica fatta valere in giudizio, sicché, pur dopo
l’abrogazione dell’art. 1, co. 1, della legge 23 agosto 1988 n. 361, che in materia configurava la
giurisdizione amministrativa esclusiva, appartiene alla cognizione del giudice amministrativo
l’impugnazione da parte di un offerente alla procedura di vendita della serie procedimentale culminata
con l’autorizzazione ministeriale alla vendita dei beni dell’impresa insolvente, dal momento che le
posizioni soggettive ivi coinvolte non possono che essere qualificate di interesse legittimo (cfr., in tal
senso, TAR Liguria, Sez. II, 25 maggio 2005 n. 715).
In altri termini, il detto art. art. 65, lungi dal configurare a sua volta un’ipotesi di giurisdizione ordinaria
esclusiva, attribuisce al giudice ordinario le sole controversie riguardanti atti e provvedimenti relativi
alla liquidazione dei beni dell’impresa in amministrazione straordinaria “lesivi di diritti soggettivi”,
mentre per il resto opera il generale criterio di riparto della giurisdizione, in base al quale spetta al
giudice amministrativo ogni controversia relativa alla legittimità degli atti lesivi di posizioni di interesse
legittimo.
L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, equiparata per legge alla liquidazione
coatta, dà luogo, infatti, ad un procedimento amministrativo essenzialmente finalizzato al
mantenimento dell’occupazione, nell’ambito del quale anche la cessione dei singoli cespiti, pur
mediante strumenti di carattere privatistico, è volta a realizzare, oltre all’interesse dei creditori, le
finalità pubbliche della
salvaguardia dei livelli occupazionali e del risanamento economico dell’impresa.
Sulla base di tali premesse, è stato affermato in giurisprudenza che tale procedura è “presidiata da
esigenze di politica industriale di carattere generale, la cui valutazione è rimessa all’autorità di
vigilanza (Ministero delle attività produttive), con conseguente degradazione dei diritti soggettivi dei
privati coinvolti nel procedimento al ruolo d’interesse legittimo, implicante la sola pretesa alla
legittimità degli atti e dei provvedimenti attraverso i quali si sviluppa il procedimento”; ed in tale
prospettiva l’art. 1, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 391 aveva “la mera finalità di dar lume
agli interpreti e dissipare possibili equivoci in relazione al massiccio ricorso da parte dei privati
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all’autorità giudiziaria ordinaria con l’intento di sovrapporre le loro esigenze individuali a quelle
collettive che l’autorità di vigilanza è tenuta a tutelare (Cass. SS.UU. 20 dicembre 1990, n. 12068)”,
ragion per cui il ripetuto art. 65 “non introduceva un nuovo riparto della giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, avendo avuto riguardo alla consistenza delle posizioni giuridiche
coinvolte, quali risultavano dalle norme sostantive senza forzarle in ambito di tutela diversa attraverso
la degradazione, ovvero con l’introduzione ex novo di un ambito di giurisdizione esclusiva (investendo
il giudice amministrativo anche della cognizione di diritti soggettivi). Di modo che, anche se il
legislatore non fosse intervenuto, l’interprete sarebbe potuto giungere ugualmente alla conclusione
che rientrassero nell’ambito della giurisdizione generale amministrativa di legittimità tutte le
impugnazioni di atti amministrativi adottati nel corso della procedura di vendita (Cass. SS.UU. 23
agosto 1990, n. 8579)”. Con la conseguenza che “l’esplicita abrogazione dell’indicato art. 1 della legge
23 agosto 1988, n. 391 ad opera dell’art. 109 lett. b) del decreto legislativo n. 270/99 (Prodi bis), non
ha avuto neanch’essa alcuna incidenza sul riparto della giurisdizione che, come avveniva
precedentemente, continuava ad essere distribuita tra giudice ordinario e giudice amministrativo sulla
base della sostanziale posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio dall’interessato”.
Si è così riconosciuto che la controversia concernente l’autorizzazione ministeriale alla liquidazione
del complesso aziendale rientra nella competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, mentre
ricade in quella del giudice ordinario la controversia relativa al subprocedimento di liquidazione del
complesso aziendale instaurata dal creditore che, temendo le conseguenze di una vendita
antieconomica, contesti l’adeguatezza del prezzo e la legittimità delle previste modalità di pagamento,
la regolarità delle garanzie, la scomposizione dell’oggetto con l’attribuzione agli immobili di un valore
del tutto irrisorio; controversia, quest’ultima, intesa ad ottenere “tutela piena di diritto soggettivo” e,
dunque, “la posizione giuridica fatta valere al riguardo” va parimenti “qualificata come diritto soggettivo
pieno” (Cfr. Cons. St., Sez. VI, 12 aprile 2004 n. 1674).
Ricordato che l’oggetto della controversia in trattazione non è costituito dalla liquidazione del
complesso aziendale del Gruppo Volare, ma dalla procedura vendita dello stesso complesso, e che
parte ricorrente non è creditrice del medesimo né rivendica diritti sul relativo patrimonio, bensì è
soggetto partecipante a detta procedura conclusasi col provvedimento ministeriale impugnato, alla
stregua delle considerazioni che precedono deve ritenersi che la controversia rientri nell’ambito della
giurisdizione generale amministrativa di legittimità, tenuto conto che a fronte della procedura in parola
sono configurabili esclusivamente posizioni di interesse legittimo.
3.- Risolta nei sensi di cui innanzi la questione di giurisdizione sulla svolta impugnativa, nel merito già
il primo motivo di gravame si rileva fondato.
Con tale mezzo, rubricato violazione del bando ed eccesso di potere sotto vari profili, si deduce che
Alitalia avrebbe dovuto essere esclusa dalla competizione ai sensi del punto 6.4 dello stesso bando,
non avendo osservato la prescrizione che in sede di presentazione dell’offerta imponeva l’inclusione
nella busta A del documento n. 6 consistente in un “estratto del libro soci con l’indicazione di tutti i soci
o almeno dei dieci maggiori soci” (punto 5.3.1.vi), giacché essa aveva prodotto in luogo di tale
documento una dichiarazione sostitutiva del Presidente.
Il richiamato punto 6.4 del bando, denominato “cause di esclusione”, stabilisce l’esclusione dalla
procedura di vendita degli “Offerenti che avranno omesso di presentare anche uno solo dei documenti
richiesti (…) o che comunque non si siano attenuti alle modalità e formalità previste nel presente
Bando”.
Ora, nel verbale di apertura dei plichi in data 28 dicembre 2005 si dichiara che nelle buste degli
offerenti sono stati rinvenuti tutti i documenti prescritti “ad eccezione
1) del documento numero 6 (sei) della Busta ‘A’ dell’offerta ‘ALITALIA- LINEE AEREE ITALIANE
S.P.A.’ che in sostituzione dell’estratto del libro dei soci contenente l’elenco dei primi dieci azionisti
contiene una dichiarazione sostitutiva del Presidente della Società”.
Tuttavia, da tale carenza il Commissario straordinario non ha tratto le previste, tassative conseguenze
in caso di mancanza anche soltanto di un solo documento; e non v’è dubbio sulla mancanza del
documento n. 6, posto che la formula della prescrizione non consentiva equipollenti, richiedendo
soltanto ed esclusivamente l’estratto del libro soci. Tenuto conto di ciò, in ogni caso la presentazione
di tale dichiarazione si traduce nella non conformità del documento alle modalità e formalità previste, e
per ciò solo sanzionabile con l’esclusione anche per questo aspetto.
Né può sostenersi che, in base alla natura di società quotata di Alitalia, il documento prescritto non
sarebbe stato rappresentativo della compagine azionaria - peraltro notoria - per effetto, tra l’altro, dei
costanti e repentini cambiamenti della platea azionaria in funzione delle negoziazioni dei titoli e che, in
realtà, la dichiarazione ne assolverebbe la funzione, essendo idonea sotto il profilo formale in quanto
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l’estratto veniva richiesto senza precisazione di alcuna formalità, quale l’autenticazione, e sotto il
profilo sostanziale, in quanto ritenuta dall’ENAC sufficiente per la verifica della sussistenza dei
requisiti di nazionalità per il rilascio della licenza di vettore aereo.
Sta di fatto che il bando, costituente la lex specialis della procedura di vendita - non diversamente che
nel caso di una vera e propria procedura di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di lavori
pubblici o di pubblica utilità o di servizi pubblici o forniture da parte di un’amministrazione pubblica -,
richiedeva un “estratto del libro soci” e che la dichiarazione in parola in parola non lo è.
Né, sotto un aspetto maggiormente sostanziale, può seguirsi la tesi difensiva dell’Avvocatura dello
Stato e del Commissario Rinaldini, secondo cui giustamente quest’ultimo ha ritenuto la dichiarazione
equipollente al previsto estratto poiché “l’informazione che la procedura di amministrazione
straordinaria voleva trarre dal documento stesso poteva essere fornita anche da tale dichiarazione”.
Ciò perché la dichiarazione contiene non già l’indicazione quanto meno dei dieci maggiori soci, ossia
l’informazione che l’amministrazione straordinaria intendeva acquisire, bensì quella dei soli tre soci
con quote che superano la soglia del 2% del capitale sociale. E’ evidente che se tale fosse stato il
dato che si intendeva conoscere, e non quello dei dieci maggiori soci, il bando tanto avrebbe dovuto
richiedere in luogo di quest’ultimo. D’altro canto, si è già detto che il bando in parola costituisce la lex
specialis della procedura che, com’è noto, non è disapplicabile – ancorché in ipotesi non osservi il
principio del favor partecipationis - neanche da parte dello stesso soggetto emanante, di cui
costituisce autolimite e, nel contempo, regola esterna intesa ad assicurare la par condicio tra i
concorrenti e l’imparzialità delle scelte amministrative, sicché la sua inosservanza si risolve nella
violazione di tali principi (ed in ciò sta la lesione della sfera giuridica propria dell’istante in
conseguenza della rilevata difformità, radicandosi in tal modo il suo interesse a siffatta deduzione e
senza che abbia rilievo la circostanza che analoga dichiarazione ha prodotto anche altra concorrente,
non aggiudicataria né anteposta in graduatoria).
Infine, neppure ha rilievo la facoltà del Commissario di richiedere all’offerente integrazioni e
precisazioni, cui alludono ancora l’Avvocatura dello Stato ed il dott. Rinaldini. A prescindere
dall’effettiva sussistenza nella specie di una tal facoltà alla stregua sia della clausola di cui al punto
6.1, n. 3), del bando, sia dei principi generali in tema di irregolarità sanabili o meno, va invero
osservato che della stessa facoltà il Commissario non si è avvalso, avendo egli, in sostanza,
ammesso senz’altro Alitalia alla valutazione.
4.- L’accoglimento della doglianza trattata al paragrafo che precede consentirebbe all’evidenza
l’assorbimento degli altri motivi. Tuttavia, per completezza d’indagine il Collegio ritiene di procedere
all’ulteriore disamina dei motivi di gravame attinenti all’espletamento della gara, ed in particolare del
successivo mezzo, col quale si lamenta violazione del punto 6.1, n. 5), del bando per aver il
Commissario valutato le offerte non in presenza del notaio.
La doglianza è fondata.
Il cit. punto 6.1, n. 5, recita: “Il Commissario Straordinario (o soggetto da esso delegato) con
l’assistenza dei propri Advisor procederà, alla presenza del notaio, in una o più riunioni successive,
alla valutazione delle Offerte Tecniche ed Economiche relative alle Offerte rimaste in gara e
all’assegnazione dei relativi punteggi, secondo i criteri di valutazione indicati nella Sezione 6.2, di cui
verrà redatto apposito verbale dal notaio”.
Nella specie risulta quanto segue.
Col verbale notarile “di apertura di plichi contenenti offerte di acquisto del Gruppo Volare” in data 28
dicembre 2005 si dà atto, in chiusura (avvenuta alle ore 19,55), che “i plichi con i relativi contenuti
vengono
ritirati dal Commissario Straordinario onde consentirgli la valutazione delle offerte ai sensi dell’art. 63,
comma 3, del D.Lgs. 8 luglio 1999 n. 270, come previsto al punto 6.2 del Bando”.
Col verbale notarile “di selezione della migliore offerta di acquisto del Gruppo Volare” in data 29
seguente, aperto alle ore 10,15, dato atto della comparsa del dott. Rinaldini e, tra l’altro, del
precedente verbale, si espone che, completate le formalità di apertura delle buste, occorre proseguire
nella procedura e si richiama al riguardo il disposto dei punti 6.1 (n. 5, sopra riportato) e 6.5 (rubricato
“graduatoria”, secondo cui “completate le formalità di apertura delle buste, il Commissario
Straordinario (o soggetto da esso delegato), con l’assistenza degli advisors, procederà, alla presenza
del Notaio, in una o più riunioni successive, alla valutazione delle Offerte Vincolanti rimaste in gara,
alla determinazione della graduatoria delle stesse ed alla selezione della migliore Offerta”). Quindi
“Tutto ciò premesso e costituente con il seguito unico ed inscindibile contesto, alla mia presenza, il
Commissario Straordinario dichiara quanto segue:
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) di aver proceduto alla valutazione delle offerte (…) con l’assistenza degli Studi Legali (…), come da
documento che, sottoscritto dal Comparente e da me Notaio, si allega al presente atto sotto la lettera
“A”;
b) di aver stabilito l’assegnazione dei punteggi sotto indicati a ciascuna delle offerte pervenute e,
pertanto, di aver stabilito la seguente graduatoria (..)
c) di aver, pertanto, selezionato quale migliore offerta quella pervenuta dalla Società “ALITALIALINEE AEREE ITALIANE S.P.A.”, portante un prezzo non inferiore al valore di stima …”.
Il verbale si chiude alle ore 11,25.
Se le espressioni usate nella redazione del verbale hanno un senso (ed un senso debbono avere, non
essendo consentito all’interprete del testo - anche di un atto negoziale privato - prescindere dal
significato oggettivo delle parole, pur non intese in senso strettamente letterale), risulta da tali atti che:
- il giorno 28 dicembre 2005 il Commissario straordinario ha ritirato i plichi, completi del rispettivo
contenuto, relativi alle offerte di che trattasi;
- il giorno seguente, come detto alle ore 10,15, si è presentato davanti al notaio ed ha reso le
dichiarazioni suddette (“di aver proceduto …”. “di aver stabilito …”, “di aver selezionato …”),
evidentemente riferite ad attività già svolte e, dunque, non effettuate in quella sede, relative alle
operazioni di cui agli elaborati poi allegati a verbale.
Pertanto, risulta dagli stessi verbali che il Commissario straordinario non ha agito alla presenza del
notaio, non avendone questi dato atto nonostante il richiamo alla prescrizione di bando, né tanto meno
risulta che sia stato “redatto apposito verbale” della valutazione delle offerte e dell’assegnazione dei
relativi punteggi, come richiesto per queste operazioni dallo stesso bando (riportato punto 6.1)
In senso contrario non può attribuirsi rilievo alla dichiarazione del medesimo notaio rilasciata, dietro
richiesta del Commissario, in data 10 maggio 2006, con la quale si “conferma per quanto possa
occorrere che, come si evince dalla natura dell’atto stesso di cui in oggetto e dal suo contenuto, le
operazioni di valutazione delle offerte presentate per l’acquisizione del Complesso Aziendale del
Gruppo Volare sono state effettuate “in un unico ed inscindibile contesto” alla mia presenza e presso il
mio Studio …”.
A parte l’equivocità della dichiarazione successiva, quanto meno laddove si rifà alle dizioni utilizzate
nel verbale del 29 dicembre 2005 (“unico ed inscindibile contesto”) riferendone il senso alla
valutazione anziché, come dallo stesso verbale, alle premesse ed alle dichiarazioni che seguono,
resta il fatto, da un lato, della diversa natura e diversa efficacia probatoria dei due atti – il verbale e la
dichiarazione -, il secondo dei quali non è per legge assistito dalla fede privilegiata assegnata all’atto
pubblico; dall’altro lato, v’è il dato oggettivo dell’omessa redazione dello “apposito verbale” delle
operazioni di predisposizione dei criteri nonché - diversamente da quanto sostenuto dall’Avvocatura
dello Stato, anche - di attribuzione dei punteggi (operazioni di cui, peraltro, riesce difficile ipotizzare
l’esecuzione nel lasso di tempo di soli un’ora e dieci minuti, stante la loro complessità ed articolazione
e l’implicazione dell’esame di ponderosa documentazione presentata dalle cinque offerenti ammesse),
giacché le stesse operazioni sono descritte negli allegati, neppure richiamati quali parti integranti del
verbale stesso. Non senza dire che tale dichiarazione non è entrata a far parte del procedimento e,
dunque, di valutazione da parte dell’Autorità ministeriale emanante l’impugnato decreto, in data ben
ad essa anteriore.
Ed infine, parimenti irrilevanti sono la qualità di pubblico ufficiale del Commissario straordinario, a lui
conferita per quanto attiene alle sue funzioni dall’art. 40, D.Lgs. n. 270/1999, e la mancanza di alcun
potere del notaio in merito alla selezione della migliore offerta, dal momento che è la lex specialis –
avente la
suesposta valenza – a richiedere lo svolgimento delle attività di cui trattasi alla presenza del notaio e
la verbalizzazione delle medesime.
5- Ugualmente fondato è il motivo seguente, il quale è articolato in due censure, con la prima delle
quali si contesta la mancata predeterminazione di effettivi criteri di massima per la valutazione delle
offerte e con la seconda la fissazione dei “pesi” riservati a ciascuno dei quattro elementi individuati dal
bando in momento successivo all’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche e le offerte
economiche.
Con formula pressoché identica al disposto dell’art. 63, co. 3, D.Lgs. n. 270/1999, il bando richiedeva
al punto 6.2 che la valutazione delle offerte fosse effettuata “tenendo conto oltre che dell’ammontare
del prezzo offerto, dell’affidabilità dell’Offerente e del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali
da questi presentato, anche dei livelli occupazionali previsti e del loro mantenimento, anche
successivamente al biennio garantito successivo al trasferimento del Complesso Aziendale”.
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Coerentemente, il Commissario straordinario ha individuato i seguenti elementi: 1) prezzo offerto; 2)
affidabilità dell’offerente; 3) piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali; 4) livello occupazionale.
Dopodiché ha stabilito di attribuire agli stessi la “ponderazione” rispettivamente del 40%, 15%, 15% e
30%.
Ciò posto, in relazione alla seconda delle censure suaccennate deve rilevarsi che siffatta
determinazione forma oggetto dell’allegato ‘A’ al verbale del 29 dicembre 2005, come si è visto al
paragrafo precedente.
Tuttavia, dal verbale del giorno anteriore risulta che il Commissario straordinario “dà seguito
all’apertura delle buste ‘A’, ‘B’ e ‘C’ di tutti i plichi …”, ossia delle buste contenenti, oltre alla
documentazione amministrativa, l’offerta tecnica (busta B) e l’offerta economica (busta C) di ciascuno
dei cinque offerenti.
Chiarissimo è perciò, in punto di fatto, che la predeterminazione dei “pesi” in base ai quali valutare i
singoli quattro elementi è stata effettuata dopo che il Commissario si era posto di grado di prendere
conoscenza degli specifici contenuti delle offerte tecniche ed economiche.
In linea giuridica, il Collegio osserva come tale modus operandi si riveli in aperto contrasto con i
generalissimi e fondamentali canoni di garanzia di imparzialità, trasparenza e par condicio che,
secondo ampia, consolidata e pacifica giurisprudenza, debbono presidiare ogni forma di gara ad
evidenza pubblica, qual è la procedura di vendita di cui si discute. E’ evidente, invero, che anche solo
la mera possibilità della conoscenza dell’entità dell’offerta economica e delle caratteristiche di quella
tecnica metta in pericolo tale garanzia, comportando il rischio che i criteri siano plasmati ed adattati
alle offerte in modo che ne sortisca un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una di esse.
Nel caso in esame, ad esempio, la conoscibilità delle cinque, diverse offerte tecniche ed economiche
ben consentiva in astratto di assumere per i singoli elementi di valutazione una determinata misura
percentuale (ad es. 40%) in luogo di altra (ad es. 30 o 20%), talché nella combinazione delle rispettive
valutazioni ne risultasse attribuito un miglior punteggio complessivo ad un offerente anziché ad un
altro.
Ex adverso si oppone che l’iniziativa di vendita non comporterebbe “alcun obbligo legale (…) di
esperire qualsivoglia procedura concorsuale di selezione, né ancor meno di improntare la
contrattazione a regole e principi valevoli per le tipiche procedure ad evidenza pubblica”, e che, nella
specie, sarebbe stata delineata una procedura in cui “l’unica regola per la valutazione delle offerte e
l’individuazione del contraente migliore si sostanziava nell’obbligo di prendere in considerazione e di
verificare taluni fattori, peraltro mutuati pedissequamente dalla legge (…), senza alcun obbligo di
pesarli percentualmente e di graduarli preventivamente secondo valori numerici”.
Dimenticano però parti resistenti che lo stesso Commissario straordinario ha stabilito di procedere
adottando i valori di “ponderazione” di cui sopra, optando in tal modo – sia pur illegittimamente a buste
aperte – per una autolimitazione della propria discrezionalità di valutazione. D’altra parte, la presenza
di un bando propriamente di gara (tale anche nella definizione datagli nell’impugnato decreto
ministeriale del 17 marzo 2006), le regole dettate e le garanzie apprestate in esso conducono a
ritenere che sia stato prescelto un modello dell’intera procedura di vendita (meglio: di individuazione
del contraente) ispirato alle non dissimili regole e garanzie della gara ad evidenza pubblica, con la
conseguenza che tale soluzione imponeva poi l’osservanza quantomeno dei ricordati canoni
fondamentali, ai quali il Commissario, non diversamente da una amministrazione pubblica, deve
ritenersi vincolato, pena il venir meno di ogni utilità stessa della gara (cfr., in fattispecie analoga, cit.
TAR Liguria, Sez. II, n. 715/2005).
Neanche è valida la tesi secondo cui il Commissario avrebbe seguito la sequenza procedimentale
fissata
dal bando (non oggetto di impugnazione), che richiedeva, dopo una prima fase concernente la verifica
della integrità e della tempestività della ricezione dei plichi pervenuti, l’apertura dei plichi medesimi e
la verifica della presenza delle tre buste A, B e C, una seconda fase consistente nell’apertura di tutte e
tre tali buste per tutte le offerte e nella constatazione della presenza dei documenti ivi contenuti, come
indicati dal bando (punto 6.1.A). Ciò per il semplice motivo che nulla impediva al Commissario di
procedere alla specificazione dei criteri prima ancora di iniziare tale sequenza, oppure subito dopo la
prima fase.
Neppure possono essere seguite le parti resistenti laddove osservano come la verifica effettuata dal
Comitato di sorveglianza (verbale n. 11 del 23 gennaio 2006, richiamato nel decreto impugnato) abbia
dato un esito del tutto confermativo delle valutazioni effettuate dal Commissario sostenendo, di qui,
l’inidoneità delle doglianze in parola a riverberare sulla legittimità dell’aggiudicazione e, in ultima
analisi, la carenza di interesse alle relative deduzioni.
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La verifica in questione risulta infatti eseguita conservando la stessa proporzione dei “pesi” del 40%,
15%, 15% e 30% fissata appunto dal Commissario, rapportati rispettivamente a 400, 150, 150 e 300
anziché ciascuno a 1.000, come fatto dal Commissario. Anche in relazione a tale esito resta pertanto
integro l’interesse dell’istante a far valere il vizio riscontrato, stante la sua perdurante incidenza sulla
legittimità delle valutazioni operate dal Commissario straordinario, sulla conseguente aggiudicazione
e, in via derivata, sul decreto ministeriale del 17 marzo 2006, conclusivo della procedura.
5.- Corollario dell’esigenza dell’osservanza dei canoni essenziali di imparzialità, trasparenza e par
condicio tipici dell’evidenza pubblica, sopra evidenziata, è nella specie la necessità, attesa la
genericità dei criteri di legge e di bando - consistenti in realtà, va ribadito in questa sede, nella
previsione dei soli elementi di valutazione -, di predisporne una specificazione che tenesse conto dei
singoli aspetti a ciascuno connessi; necessità alla quale non assolve la semplice previsione dei
predetti “pesi”.
Circa tale necessità ed in generale, in tema di gare ad evidenza pubblica è ben noto principio
giurisprudenziale che, quando la scelta della migliore offerta non scaturisce da una meccanica
ricognizione dei prezzi offerti, ma segue al vaglio di una pluralità di elementi di natura tecnica ed
economica dell’offerta, suscettibili di valutazione sia in termini assoluti che comparativi, la
commissione giudicatrice della gara può legittimamente introdurre elementi di specificazione,
nell’ambito dei criteri generali stabiliti dal bando o dalla lettera d’invito, mediante la previsione di
sottovoci rispetto alle categorie generali già fissate, ove queste ultime non risultino adeguate a
rappresentare la peculiarità delle singole offerte; si tratta però non di una mera facoltà, ma di una
potestà il cui esercizio assume il carattere della doverosità tutte le volte che i margini di
discrezionalità, lasciati dalla disciplina generale della gara, risultino tanto ampi, quanto alle valutazioni
di convenienza ed agli apprezzamenti tecnici, che l’esame delle singole offerte richiede, da incidere
sull’espletamento della gara (cfr. ad es., Cons. St., Sez. V, 25 novembre 2002 n. 6479 e TAR Liguria,
Sez. II, 31 marzo 2004 , n. 312).
Tale principio, che ben si attaglia alla fattispecie in discussione per le ragioni spiegate innanzi,
consente di ritenere fondata anche la prima articolazione del terzo motivo.
6.- Quanto sin qui esposto conduce inevitabilmente all’annullamento degli atti accennati, a partire –
per le considerazioni di cui al precedente paragrafo 3) – dal verbale notarile del 28 dicembre 2005 e
con assorbimento di ogni ulteriore censura non esaminata, in accoglimento della rispettiva domanda
formulata da Air One.
A questo punto della trattazione viene in rilievo l’altra domanda avanzata nell’atto introduttivo del
giudizio, con la quale si chiede la declaratoria di nullità e/o inefficacia del contratto di compravendita
del Gruppo Volare stipulato tra il Commissario straordinario e la newco Volare S.p.A., costituita da
Alitalia, in ordine alla quale è stato eccepito il difetto di giurisdizione amministrativa.
Al riguardo, occorre ricordare le conclusioni alle quali il Collegio è pervenuto al paragrafo 2)
nell’affermare la sussistenza di giurisdizione amministrativa sulla domanda di annullamento
precedentemente esaminata, e cioè la ricomprensione della relativa controversia nell’ambito della
giurisdizione generale di legittimità.
In tale contesto, la domanda ora in trattazione non può aver accesso poiché per sua natura essa
ricadrebbe nel diverso ambito della giurisdizione esclusiva che qui appunto non ricorre.
Difatti, in tema di appalti pubblici proprio e solo sulla base della sussistenza della pienezza di
giurisdizione, che il legislatore del 1990 e del 2000 ha conferito al plesso giurisdizionale
amministrativo, è stata affermata
la spettanza della potestas decidendi in ordine alla declaratoria in parola da parte dello stesso giudice
che pronuncia la sentenza costitutiva di demolizione dell’atto gravato. In altri termini, si è ritenuto che
la concentrazione e la pienezza di tutela proprie della giurisdizione esclusiva sulle procedure di
affidamento - tali da superare il sistema che imponeva al cittadino di moltiplicare i giudizi passando
dall’una all’altra giurisdizione per conseguire il bene dell’effettività della tutela stessa - consentissero al
giudice amministrativo di indagare anche sugli effetti prodotti dall’annullamento della procedura sul
contratto stipulato (cfr., tra le tante, Cons. St., Sez. V, 28 maggio 2004 n. 3465).
Devesi dunque declinare la giurisdizione in favore del giudice ordinario. Tale affermazione, ma anche
l’assunto secondo cui l’ormai acquisita situazione proprietaria del complesso aziendale in capo ad
Alitalia avrebbe prodotto effetti irreversibili, nulla tolgono all’attuale permanenza dell’interesse
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dell’istante alla pronuncia demolitoria, se non altro in considerazione della possibilità del ripristino per
equivalente della posizione giuridica lesa.
7.- In conclusione, il ricorso va in parte accolto ed parte dichiarato inammissibile.
Quanto alle spese di causa, nella complessità della vicenda il Collegio ravvisa giusti motivi affinché ne
possa essere disposta la compensazione tra tutte le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione III ter, così dispone sul ricorso in epigrafe:
a.- lo accoglie in parte, nei sensi di cui in motivazione, e per l’effetto annulla gli atti impugnati;
b.- lo dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione nella restante parte.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 26 ottobre 2006.
Francesco Corsaro PRESIDENTE
Angelica Dell'Utri ESTENSORE
Depositato il 2 novembre 2006
02/11 Quale tutela nelle gare d'appalto
Codice de Lise, al via il nuovo servizio telematico per adire l'Autorita'
sui Contratti Pubblici
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha approvato lo scorso 10
ottobre il Regolamento recante la nuova procedura di soluzione delle controversie prevista dall'art. 6,
comma 7, lett n) del Codice del Contratti Pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163).
Stazioni appaltanti e aziende partecipanti possono adesso rivolgere all'Autorità un'istanza per ottenere
la possibile soluzione di una questione insorta durante lo svolgimento della procedura di gara, e
l'Autorità formulerà in tempi brevissimi (30 giorni dall'inoltro dell'istanza) un parere relativo alla
questione sollevata. Peraltro, fino alla definizione della questione da parte dell'Autorità, la stazione
appaltante non potrà porre
in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione stessa.
La sede di Roma dello Studio Legale Giurdanella attiva pertanto un nuovo servizio legale on line,
impegnandosi a svolgere, per conto dei soggetti interessati, ogni attività tecnico-giuridica prevista
dalla suddetta procedura innanzi all'Autorità Contratti pubblici. L'utente del servizio dovrà limitarsi a
conferire a distanza l'incarico allo Studio Legale, compilando uno specifico modulo elettronico; sarà
poi lo Studio ad occuparsi della redazione dell'istanza, del suo deposito, dell'eventuale audizione
presso l'Autorità, e di ogni altro rapporto con l'Autorità stessa. Ulteriori vantaggi del servizio sono
l'approfondimento giuridico della questione da parte dello Studio Legale, nonché l'esclusivo utilizzo di
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strumenti telematici, che determina, oltre ad un'ulteriore accelerazione dei tempi, l'abbattimento dei
costi della procedura in questione.
27/10 Diritto Amministrativo 2007
Codice dei Contratti Pubblici 163/2006 e SpA pubbliche
Codice dei Contratti Pubblici; Proroga e rinnovo dei contratti; SpA miste e affidamenti in house;
Strumenti deflattivi del contenzioso amministrativo; Effetti dell'annullamento dell'aggiudicazione sul
contratto. Sono alcuni degli argomenti trattati dagli autori di Giurdanella.it, nel volume a più mani,
"Diritto Amministrativo, Temi e Percorsi", appena uscito in libreria, per la Esselibri - Simone e
coordinato da Carlo Buonauro, giudice amministrativo.
Di seguito, il sommario degli scritti:
Carmelo Giurdanella
Gli strumenti deflattivi del contenzioso amministrativo
Premessa
La partecipazione al procedimento
Il preavviso di rigetto
Gli accordi con la pubblica amministrazione
Rassegna giurisprudenziale
Bibliografia
Carmelo Giurdanella, Benedetta Caruso
Proroga e divieto di rinnovo dei contratti alla luce del Codice dei contratti pubblici
Premessa
Evoluzione legislativa e giurisprudenziale degli istituti del rinnovo e della proroga
Possibilità di rinnovo e proroga dei contratti dopo la legge n. 62/2005
Il Codice dei contratti pubblici
Rassegna giurisprudenziale
Bibliografia
Carmelo Giurdanella, Benedetta Caruso
Gli effetti dell'annullamento dell'aggiudicazione sul contratto
L'illegittimità successiva e derivata del provvedimento amministrativo
Le conseguenze dell'annullamento dell'aggiudicazione sul contratto stipulato tra P.A. e aggiudicatario
Le varie tesi: la tesi dell'annullabilità del contratto
La tesi della nullità del contratto
la tesi dell'inefficacia sopravvenuta cd. relativa del contratto
La tesi della caducazione automatica del contratto
Il Codice dei contratti
Rassegna giurisprudenziale
Bibliografia
Carmelo Giurdanella, Ilenia Miccichè
Gli affidamenti in house providing: delimitazione dell'istituto alla luce dell'interpretazione
comunitaria e problematiche connesse
Definizione e delimitazione dell'istituto: regola o eccezione ?
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Requisito del "controllo analogo"
Requisito della "attività prevalente"
Le pronunce della Corte di Giustizia
Rassegna giurisprudenziale
25/10 parere del Consiglio di Stato sul
Decreto correttivo al Codice dei Contratti Pubblici 163/2006
Consiglio di Stato
Sezione Consultiva per gli Atti Normativi
Adunanza del 28 settembre 2006
Parere n. 3641 /2006
Oggetto:
Ministero delle infrastrutture.
Schema di decreto legislativo contenente modifiche al decreto legislativo 12 aprile 2006, n.
163, recante il codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
La Sezione,
Vista la relazione, trasmessa con nota, prot. n. 0013580 del 13 settembre 2006, pervenuta il 15
settembre 2006, con la quale il Ministero delle infrastrutture, Ufficio legislativo, ha chiesto il parere
sullo schema di decreto legislativo indicato in oggetto.
Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore Consigliere Guido Salemi;
Premesso e Considerato
a) Lo schema di decreto legislativo in esame, deliberato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 23
giugno 2006, apporta modifiche al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante il “Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e
2004/18/CE” ed è stato predisposto ai sensi dell’art. 25, comma 3, della legge 18 aprile 2005, n. 62,
che consente l’adozione di disposizioni correttive ed integrative del Codice entro due anni dalla sua
emanazione, in relazione alla dichiarata finalità di:
- rideterminare l’efficacia temporale di alcune disposizioni del Codice, con particolare riferimento ad
istituti giuridici di nuova introduzione, limitando l’intervento a quelle disposizioni a recepimento
facoltativo, ai sensi della normativa europea, ovvero ad altre disposizioni che, seppure modificate, non
incidono sugli obblighi nazionali di adeguamento alle direttive comunitarie;
- apportare alcune modifiche consequenziali rese indispensabili in relazione al differimento dell’entrata
in vigore dei summenzionati istituti;
- valorizzare i contenuti che più direttamente possono esprimere forme di tutela effettiva e sostanziale
per i principi di libera concorrenza, trasparenza, pubblicità, non discriminazione, proporzionalità;
- assicurare l’adeguamento pieno ed effettivo alla decisioni della Commissione europea in materia di
contratti pubblici medio tempore intervenute;
- apportare al testo alcune correzioni di natura prevalentemente formale, ovvero dettate dall’esigenza
di adeguamento a normative sopravvenute su disposizioni richiamate, ma esterne allo stesso.
Riferisce preliminarmente l’Amministrazione che lo schema di decreto legislativo è stato trasmesso
alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, la quale, nella seduta del 3 agosto 2006, ha
chiesto l’inserimento, in un atto avente forza di legge, di una disposizione di carattere transitorio, in
attesa di ulteriori interventi modificativi sul decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che è stata così
formulata: “Fino alla data di entrata in vigore del decreto legislativo correttivo ed integrativo del
decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, da adottarsi d’intesa con la Conferenza Unificata, si
applicano, anche in deroga all’art. 4 del citato decreto legislativo n. 163 del 2006, le disposizioni
normative delle Regioni e delle Province autonome in materia di appalti di lavori, servizi e forniture
concernenti la stipulazione e l’approvazione dei contratti, il responsabile unico del procedimento, la
pubblicazione dei bandi e le procedure di affidamento degli appalti d’importo alla soglia comunitaria,
se non in contrasto con la normativa comunitaria”.
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In relazione alla suesposta proposta di modifica, l’Amministrazione esprime parere contrario per la
considerazione di fondo che la stessa tocca una problematica (quella, cioè del rapporto tra la
normazione statale e la disciplina regionale nella materia) della quale lo schema di decreto correttivo
in esame non ha inteso mutare alcunché rispetto a quanto definito con il decreto legislativo 12 aprile
2006, n. 163, anche all’esito delle valutazioni espresse dal Consiglio di Stato, in occasione del parere
reso all’esito dell’Adunanza del 6 febbraio 2006.
Al riguardo si concorda con l’avviso contrario dell’Amministrazione.
In particolare si ribadisce che nei contratti al di sotto della soglia comunitaria compete allo Stato la
fissazione di comuni principi, che assicurino trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione e
che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’applicabilità alle Regioni dei
principi desumibili dalla normativa nazionale di recepimento della disciplina comunitaria, là dove
impongono la gara, fissano l’ambito soggettivo ed oggettivo di tale obbligo, limitano il ricorso alla
trattativa privata e collegano alla violazione dell’obbligo sanzioni civili e forme di responsabilità (Corte
cost. n. 345 del 2004).
In ogni caso, appare opportuno soprassedere ad eventuali modificazioni dell’art. 4 del codice, come
pure del successivo art. 5, in attesa di conoscere le decisioni della Corte costituzionale sui ricorsi di
legittimità costituzionale che, in relazione a dette norme, sono stati recentemente proposti dalle
Regioni Piemonte, Lazio e Abruzzo.
b) Quanto ai sei articoli di cui si compone lo schema di decreto legislativo si svolgono le osservazioni
che seguono.
Art.1 (Termini di efficacia)
Come osservato dall’Amministrazione, le norme contenute nel presente articolo sono entrate a far
parte della legislazione vigente con l’art. 1-octies delle disposizioni contenute in tale legge, in vigore
del decreto legge 12 maggio 2006, n. 173, convertito nella legge 12 luglio 2006, n. 228.
Tale articolo va, pertanto, stralciato dal testo del provvedimento.
Con riferimento all’art. 49, comma 10, del codice, contenuto nell’art. 1, comma 2, dello schema di
decreto, il quale fa divieto all’impresa ausiliaria di assumere a qualsiasi titolo il ruolo di appaltatore o di
subappaltatore, deve, peraltro, rappresentarsi l’esigenza di recepire sin da adesso l’avviso
manifestato, sia pure in un parere informale, dal Servizio legale della Commissione europea in ordine
alla coerenza del citato art. 49, comma 10, con la normativa comunitaria (“…il divieto per l’impresa
ausiliaria di partecipare alla realizzazione dell’appalto a qualsiasi titolo può annientare la portata
dell’avvalimento. Perché non dovrebbe poter partecipare come subappaltatore? Il subappalto non può
essere vietato dalla stazione appaltante. Se c’è un caso in cui può essere utile il ricorso al sub appalto
è proprio quando le capacità della società ausiliaria sono necessarie alla realizzazione dell’appalto.
Altrimenti, in questo caso, diventa obbligatorio raggrupparsi. E perché, invece, non potrebbero
indicare nell’offerta che la società ausiliaria realizzerà la parte per la quale è competente”).
Pertanto, allo scopo di prevenire l’instaurazione di una procedura di infrazione, si propone, la
soppressione dell’art. 49, comma 10, e, in sua sostituzione, la previsione a favore dei concorrenti della
facoltà per i
medesimi di avvalersi nell’esecuzione dei lavori della società ausiliaria, nei limiti della competenza di
questa ultima.
Art. 2 (Disposizioni correttive)
Al n. 1, lett. b), si prevede di introdurre, dopo la lettera f) dell’art. 40, comma 4, del codice, la lettera fbis, con il quale si consente, in sede regolamentare, di “disciplinare le modalità per il coordinamento in
materia di vigilanza sull’attività degli organismi di attestazione avvalendosi delle strutture e delle
risorse già a disposizione per tale finalità e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica”.
Riferisce in proposito l’Amministrazione che, al fine di assicurare una integrale e penetrante vigilanza
sull’attività delle S.O.A, fermo quanto già disposto nel codice relativamente al ruolo dell’Autorità di
vigilanza sui lavori pubblici, si affida all’emanando regolamento generale per lavori, servizi e forniture
di cui all’art. 5 – destinato a disciplinare anche il sistema di qualificazione – la definizione delle
modalità di coordinamento della vigilanza sull’attività delle S.O.A. Soggiunge l’Amministrazione che
già l’art. 4 del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in data 19 aprile 2005 riconosce
alle competenti articolazioni del Ministero medesimo attribuzioni in tema di qualificazione delle
imprese, anche con la possibilità di rispondere a quesiti, adottare pareri e circolari in materia di lavori
pubblici con riferimento al sistema di qualificazione delle imprese, con la conseguente necessità di
coordinamento con l’Autorità di vigilanza e l’Osservatorio dei lavori pubblici.
La Sezione ritiene che siffatte considerazioni non siano suscettive di condivisione.
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E’ noto che nell’ambito della complessiva riforma del sistema dei lavori e delle opere pubbliche,
avviata con la legge n. 109 del 1994 e successive modificazioni ed integrazioni, il Legislatore ha
innovato il sistema di verifica della qualificazione delle imprese a progettare e realizzare opere
pubbliche, abbandonando il criterio della gestione della materia da parte di una amministrazione che è
anche stazione appaltante e quindi parte del rapporto ed affidandola ad organismi di diritto privato,
preventivamente autorizzati dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, che la esercitava sulla
base delle disposizioni legislative di cui all’art. 4 della legge n. 109 del 1994 e regolamentari di cui al
d.P.R. n. 34 del 2004, e ora del nuovo Codice, in attuazione dell’espresso criterio di delega di cui
all’art. 25, comma 1, lett. c), della legge n. 62 del 2005, anche nei settori delle forniture e dei servizi.
Dal citato quadro normativo emerge, con specifico riferimento alla vigilanza sugli organismi di
attestazione, che:
- l’Autorità indica in maniera vincolante le condizioni che le S.O.A. devono rispettare nel contenuto
dell’atto che esse adottano (rilascio, modifica, revoca, diniego dell’attestazione);
- può sanzionare la S.O.A. che rimane inadempiente alle indicazioni, addirittura con la revoca
dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività;
- le S.O.A. sono tenute ad inviare all’Autorità tutte le attestazioni che rilasciano;
- l’Autorità controlla le attestazioni, oltre che su iniziativa degli operatori nel mercato, anche di propria
iniziativa, mediante periodico controllo a campione.
Recependo un orientamento manifestato da questo Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI,
n. 991 del 2004), il codice, all’art. 6, comma 7, lettera m), ha espressamente disposto che,
nell’esercizio della vigilanza, “l’Autorità può annullare, in caso di constatata inerzia degli organismi di
attestazione, le attestazioni rilasciate in difetto dei presupposti stabiliti dalle norme vigenti, nonché
sospendere, in via cautelare, dette attestazioni”. Stante la posizione di preminenza attribuita
all’Autorità nel sistema di vigilanza sull’attività degli organismi di attestazione, non è possibile
prevedere, in via regolamentare, forme di coordinamento che possano prescindere da tale posizione.
Del resto, già nel sistema vigente, l’Autorità esercita attività di direzione e di coordinamento, come è
confermato proprio dal citato d.m. 19 aprile 2005, concernente l’individuazione degli uffici di livello
dirigenziale non generale dell’allora Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che, all’art. 4, ha
attribuito alla Divisione IV, della Direzione Generale per la regolazione dei lavori pubblici del
Dipartimento per le infrastrutture stradali, l’edilizia e la regolazione dei lavori pubblici, competenze
nella materia dei rapporti con la vigilanza sui lavori pubblici, attribuendo, tra l’altro, a detta Divisione “il
coordinamento con l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici per l’identificazione di linee guida comuni
per la giusta interpretazione ed applicazione della normativa di settore”. Dal tenore di tale disposizione
emerge, infatti, chiaramente che l’attività dell’organo di amministrazione attiva nell’interpretazione e
attuazione della normativa non ha solo il vincolo dei comuni principi ermeneutici ma anche quello
derivante dalle determinazioni e dagli orientamenti assunti dall’Autorità. A ciò si aggiunga – ed è
argomento dirimente – che solo in questo quadro centrato sulla tutela del mercato e della concorrenza
e non più sulla mera tutela della stazione appaltante si giustifica ed anzi si impone l’esclusione di una
competenza regionale, se non addirittura locale, esclusione che nel sistema precedente sarebbe stata
inaccettabile. Alla stregua delle suesposte considerazioni si esprime l’avviso che la disposizione in
esame debba essere eliminata dal testo dello schema di decreto legislativo. Al n. 8, la formulazione è
condivisibile ma occorre modificare la numerazione del comma da “1 bis”a “2”, non essendoci commi
ulteriori.
Non si hanno osservazioni da formulare sulle altre disposizioni. Art. 3 (Disposizioni di coordinamento)
Riferisce l’Amministrazione che in tale articolo sono contenute disposizioni volte, per lo più, alla mera
correzione di errori materiali del testo del Codice.
Ciò peraltro non è esatto per il n. 7 che introducendo una modifica all’art. 110, comma 21, in realtà
innova in modo sostanziale le procedure sotto soglia estendendo ad esse il sistema della gara. Con
riferimento, poi, al n. 10, esso è volto a correggere un mero refuso materiale, contenuto nell’art. 194,
comma 10 (terminali di gassificazione anziché di riclassificazione). Tuttavia l’Amministrazione, sul
presupposto che il contenuto del comma appaia non del tutto omogeneo alla materia disciplinata nel
codice, pone il quesito se sia opportuno conservarne traccia all’interno del medesimo codice, ovvero
assicurarne la permanere vigenza con la disposizione dalla quale è tratta (art. 5, comma 10, del
decreto legge n. 35 del 2005, convertito con modificazioni nella legge n. 80 del 2005, peraltro
espressamente abrogata per effetto dell’art. 256 del decreto legislativo n. 163 del 2006). In proposito
si condivide l’avviso, con l’avvertenza che la reviviscenza della norma possa realizzarsi modificando
l’art. 256 del codice nel senso di limitare l’abrogazione del citato art. 5 ai commi da 1 a 9 e da 10 a 13,
nonché ai commi 16-sexies e 16-septies dell’articolo stesso. Con il numero 15 si prevede di modificare
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l’art. 253, comma 21 del codice sostituendo le parole “di intesa” con la parola “sentita”; in particolare,
detta norma dispone che “in relazione alle attestazioni rilasciate dalle SOA dal 1° marzo 2000 alla
data di entrata in vigore del codice, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di intesa
con l’Autorità, emanato ai sensi dell’art. 17 comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabiliti
i criteri, le modalità e le procedure per la verifica dei certificati dei lavori pubblici e delle fatture utilizzati
ai fini del rilascio delle attestazioni SOA. La verifica è conclusa entro un anno dall’entrata in vigore del
predetto decreto”.
Tenuto conto delle osservazioni sopra esposte sul ruolo attribuito dalla legge all’Autorità, si esprime
parere contrario alla suddetta modifica.
Per il resto non si hanno osservazioni da formulare.
Art. 4 (Adeguamento a decisioni della Commissione europea)
L’articolo in esame sopprime la lettera f) dell’art. 177, comma 4, del codice, il quale, riproducendo il
contenuto dell’art. 20-octies, comma 4 del d.lgs. n. 190 del 2002, il quale ha previsto un nuovo criterio
per l’aggiudicazione degli appalti ai contraenti generali con il sistema dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, concernente la maggiore entità di lavori e servizi che il contraente generale si impegna
ad affidare ad imprese nominate in sede di offerta.
A seguito della procedura di infrazione n. 2005/4311, avviata dalla Commissione Europea nei
confronti della Repubblica italiana, la disposizione in questione è stata abrogata dall’art. 1-octies
aggiunto dalla legge 12 luglio 2006 n. 228 in sede di conversione del decreto legge 12 maggio 2006,
n. 173.
Conformemente a quanto osservato dall’Amministrazione, va disposto lo stralcio dell’articolo.
Art. 5 (Disposizioni finanziarie)
Sulla disposizione contenuta in tale articolo, che mira a garantire l’assenza di riflessi finanziari dalle
disposizioni contenute nello schema di decreto, non si hanno osservazioni da formulare.
Art.6 (Disposizioni transitorie)
Detto articolo detta disposizioni volte a disciplinare, al primo comma, l’entrata in vigore delle modifiche
introdotte (identificate nel giorno successivo a quello di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana) e, al secondo comma, il regime normativo applicabile alle procedure già iniziate
alla data di entrata in vigore dello schema di decreto.
Conformemente a quanto osservato dall’Amministrazione, si esprime l’avviso che detto secondo
comma debba essere stralciato dal testo del provvedimento, atteso che le disposizioni ivi contenute
sono già state introdotte nell’ordinamento dal citato art. 1-octies del decreto legge n. 173 del 2006.
Ne consegue che il titolo dell’articolo deve essere mutato in “Entrata in vigore”.
P.Q.M.
Esprime parere favorevole con le osservazioni sopra indicate.
(Il Presidente della Sezione, Giancarlo Coraggio)
25/10 Appalti
Il parere della Conferenza unificata sul decreto correttivo al Codice dei
Contratti Pubblici
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Conferenza unificata
Parere, ai sensi dell’art.25, comma 2, della legge 18 aprile 2005, n.62, sullo schema di decreto
legislativo recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in
attuazione delle direttive 2004/17 e 2004/18/CE
(Rep. Atti n. 960/CE del 27 luglio 2006)
La Conferenza unificata
Nell’odierna seduta del 27 luglio 2006;
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VISTE le direttive 2004/17 e 2004/18, che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti
degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali
e le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi;
VISTA la legge 18 aprile 2005, n. 62, art. 25, che al comma 1, delega il Governo a recepire le direttive
2004/17 e 2004/18 prevedendo la raccolta, in un unico testo normativo, sia della disciplina degli
appalti e concessioni di rilevanza comunitaria, sia degli appalti e concessioni sotto soglia comunitaria;
VISTO lo schema di decreto legislativo predisposto dal Governo in attuazione della delega prevista
dal citato articolo 25 della L. n. 62/2005, esaminato dalla Conferenza Unificata nella Seduta del 9
febbraio 2006, nel corso della quale le Regioni hanno espresso parere negativo con le osservazioni
contenute in due documenti coordinati, consegnati nel corso della Seduta;
VISTO il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante “Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture”, emanato in attuazione delle direttive 2004/17 e 2004/18CE;
VISTO l’articolo 25, comma 3, della citata legge n. 62/2005 che prevede la possibilità di emanare
disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, entro due anni dalla
sua data di entrata in vigore;
VISTO lo schema di decreto legislativo recante “Disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 12 aprile
2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, a norma dell’art.
25, comma 3, della legge 18 aprile 2005, n. 62, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 23
giugno 2006,
VISTI gli esiti della riunione tecnica del 10 luglio 2006, nel corso della quale le Regioni hanno
espresso parere favorevole sullo schema di decreto in esame condizionato all’apertura di un tavolo
tecnico per discutere le ulteriori modifiche da apportare al codice degli appalti;
VISTI gli esiti dell’odierna Seduta, nel corso della quale le Regioni hanno espresso parere favorevole
sullo schema di decreto legislativo in esame, con la richiesta di aprire un tavolo tecnico volto alla
modifica del decreto legislativo recante il Codice dei contratti pubblici, e a individuare, in attesa di tale
provvedimento, misure idonee a regolare e rendere chiaro il regime vigente in rapporto alla
legislazione regionale;
CONSIDERATO che l’ANCI, l’UPI e l’UNCEM hanno espresso parere favorevole sullo schema,
secondo
quanto contenuto nel documento che, allegato al presente atto, ne costituisce parte integrante (All.
sub.A), contenente alcune considerazioni;
CONSIDERATO che il Ministro per le infrastrutture ha ritenuto di poter aderire alla richiesta delle
Regioni di apertura di un tavolo tecnico, per la revisione del decreto legislativo recante il Codice dei
contratti pubblici e che il citato tavolo avrà sede presso la Conferenza
ESPRIME PARERE FAVOREVOLE
nei termini di cui in premessa, sullo schema di decreto legislativo recante il Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17 e 2004/18/CE.
Il Presidente
On.le Prof. Linda Lanzillotta
Il Segretario
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Dott. Riccardo Carpino
CONFERENZA UNIFICATA
27 luglio 2006
Elenco A – punto 6) all’ordine del giorno
SCHEMA DI DECRETO DEGISLATIVO RELATIVO A DISPOSIZIONI INTEGRATIVE E
CORRETTIVE DEL DECRETO LEGISLATIVO 12 APRILE 2006, N. 163, RECANTE IL CODICE DEI
CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI A LAVORI, SERVIZI E FORNITURE, A NORMA DELL’ART. 25,
COMMA 3, DELLA LEGGE 18 APRILE 2005, N. 62
PREMESSA
L’introduzione del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, risponde anche
all’esigenza in sede europea di recepire le direttive comunitarie 2004/17 e 2004/18.
In sede di Conferenza Unificata l’ANCI ha espresso parere non favorevole sul decreto legislativo del
12 aprile 2006, n. 163 c.d. Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture motivando
tale decisione nel merito del provvedimento allora in esame e sottolineando la necessità di procedere
ad importanti modifiche al testo allora presentato.
Il 12 luglio u.s. è stato convertito il c.d. Decreto Milleproroghe (l. 228/06) dove sono state inserite
all’interno alcuni degli emendamenti formulati durante gli incontri tra Governo ed Autonomie locali
anche in riferimento alla incertezza della disciplina nel periodo transitorio dopo che l’art. 256 del
Codice aveva abrogato le norme di riferimento mentre il decreto correttivo in esame, a sua volta, rinvia
al 1 febbraio 2007 l’entrata in vigore delle medesime disposizioni normative.
Il testo del decreto correttivo in oggetto muove delle correzioni per lo più di carattere formale ed in
ogni caso si esprime parere favorevole.
CONSIDERAZIONI A LATERE
Inoltre sarebbe stato il caso, per lo meno per due questioni urgenti procedere ad una modifica del
D.Lgs. 163/06 prevedendole all’interno di future previsioni di carattere correttivo, ed in particolare:
Regime di pubblicità: ovvero l’introduzione dell’art. 122, comma 5 del D.Lgs. 163/06 in cui è sancito
l’obbligo di pubblicazione in Gazzette Ufficiale per i contratti di importo pari o superiore a €
500.000,00.
Precedentemente le pubblicazioni in G.U. erano obbligatorie per i contratti pari o superiori a €
1.000.000,00. Questo comporterà delle ripercussioni notevoli, dal punto di vista economico, alle casse
comunali.
Responsabilità dei procedimenti interni all’amministrazione: ovvero con l’introduzione del comma 5
dell’art. 10 del D.lgs. n. 163/2006 il responsabile del procedimento “deve essere un dipendente di
ruolo”. Tale precisazione, così tassativamente formulata, rischia di creare non pochi problemi ai
Comuni, che si vedono costretti ad affidare necessariamente gli incarichi di responsabile del
procedimento al personale a tempo indeterminato in organico; tale previsione crea, dunque, notevoli
difficoltà operative soprattutto alla luce dei rigorosi vincoli in materia di assunzioni e di contenimento
dei costi del personale intervenuti negli ultimi anni. Il ricorso a formule flessibili di utilizzo del personale
per l’affidamento di incarichi di responsabilità, meno rigide rispetto all’assunzione a tempo
indeterminato, anche avvalendosi ad esempio di personale comandato o distaccato da altro ente,
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rappresenta una valida soluzione per reperire personale altamente qualificato riducendo al contempo i
costi in un ottica di complessiva razionalizzazione degli oneri del personale pubblico.
25/10 In Gazzetta
Il procedimento per la risoluzione delle controversie innanzi
all'Autorita' sui Contratti Pubblici
E' stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di ieri (n. 248 del 24.10.2006) il Regolamento sul
procedimento per la soluzione delle controversie, ai sensi del Codice dei Contratti Pubblici, innanzi
all'Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture.
Si tratta dei nuovi poteri attribuiti all'Autorità dall'articolo 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo
12 aprile 2006 n. 163.
Abbiamo già pubblicato sul sito il regolamento e lo schema.
25/10 Friuli Venezia Giulia
Applicabilita' alle Regioni del Codice dei Contratti Pubblici
Circolare del Friuli Venezia Giulia sull'applicabilita' alle regioni del codice dei contratti pubblici, e in
definitiva sul riparto di competenza Stato-Regioni in materia di lavori pubblici.
Si osserva che "anche dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e sino
all’emanazione della normativa regionale di recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, per
i lavori pubblici da realizzarsi nel territorio regionale, debbano continuare a trovare applicazione le
leggi regionali".
Il D.Lgs. 163/2006 andrà dunque applicato solo in quelle specifiche parti “riservate” alla normativa
statale e "salva la necessità in ogni caso di disapplicare le disposizioni regionali che debbono ritenersi
in contrasto con i principi dell’ordinamento comunitario".
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Direzione centrale ambiente e lavori pubblici
Circolare del 21 luglio 2006
(prot. ALD/DIR/ 23820 E/35/14)
Oggetto: Decreto Lgs 163/2006 e LR 14/2002. Competenze dello Stato e della Regione in materia
di Lavori Pubblici
Con la presente si intende fare chiarezza sulla portata applicativa, nell’ambito della nostra Regione,
del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (cd. “Codice dei contratti pubblici”), emanato in
attuazione della disposizione contenuta nell’art. 25 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge
comunitaria 2004) che ha delegato il Governo a recepire nel nostro ordinamento le direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE.
L’art. 4 del succitato Codice ha attratto alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la parte principale
degli ambiti di disciplina che costituiscono la materia dei contratti pubblici (art. 4 comma 3) lasciando
alla potestà delle Regioni la regolazione dei profili di ordine organizzativo – procedurale – economico.
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La previsione sopra richiamata va peraltro letta avendo riguardo anche a quanto disposto dall’art. 4,
punto 9, dello Statuto regionale (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 e successive modifiche ed
integrazioni) che individua espressamente i lavori pubblici tra le materie attribuite alla potestà
legislativa primaria della Regione.
Fatta eccezione per quelle materie che l’art. 117 della Costituzione riserva alla competenza statale
esclusiva (quali: tutela della concorrenza; ordine pubblico e sicurezza; ordinamento civile;
giurisdizione e norme processuali), nonché per le quali opera l’esplicito rinvio da parte della normativa
regionale, continua pertanto a permanere in capo alla Regione un ampio potere dispositivo nella
materia di che trattasi, in armonia con i caratteri di autonomia di cui la Regione gode e che – giuste
sentenze della Corte cost. n. 345/2004 e n. 272/2004 – non possono essere illegittimamente
compressi (in parere del consiglio di Stato del 6 febbraio 2006, sezione 355/06).
Sulla base di queste considerazioni si ritiene quindi che, anche dopo l’entrata in vigore del decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e sino all’emanazione della normativa regionale di recepimento delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, per i lavori pubblici da realizzarsi nel territorio regionale, debbano
continuare a trovare applicazione la L.R. 14/2002, come modificata dalla L.R. 9/2006, ed i D.P.Reg.
0165/82003 e 0166/2003 come rivisti e modificati secondo le (...) di derivazione comunitaria- mentre il
D.Lgs. 163/2006 andrà applicato (salve le modifiche in corso di applicazione) in quelle specifiche parti
“riservate” alla normativa statale.
Si precisa da ultimo, per ordine di chiarezza, la necessità in ogni caso di disapplicare quelle
disposizioni che debbono ritenersi in contrasto con i principi dell’ordinamento comunitario, come già
precisato nella circolare dd. 17 maggio 2006 – prot. N. ALP 16450 E/35/14 – in attesa del rispettivo
adeguamento nel senso previsto dalla recente legge regionale 26 maggio 2006, n. 9.
Trieste, 21 luglio 2006
Il Direttore centrale
Dott. Franco Scubogna
25/10 Appalti in Sicilia
Sull'applicabilita' del Codice dei Contratti Pubblici alle Regioni
Circolare della Regione Sicilia sui limiti di applicabilita' delle nuove disposizione contenute
nel Codice dei Contratti Pubblici, approvato con decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163, alle
Regioni a statuto speciali.
Il codice dei contratti, secondo la Regione Sicilia, deve essere certamente applicato ove
recepisca norme comunitarie immediatamente precettive (direttive "self executing").
Al di fuori di tali ipotesi, anche dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 163/2006, e
"sino all'emanazione della normativa regionale di adeguamento", troverebbe applicazione in
Sicilia la legislazione regionale in materia di lavori pubblici, "fermo restando l'obbligo della
Regione di adeguarsi ai principi fondamentali del codice dei contratti che costituiscono norme
di grande riforma economico-sociale".
Regione Sicilia
Assessorato dei Lavori Pubblici
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Circolare 18 settembre 2006
Decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture in attuazione delle direttive nn. 2004/17/CE e 2004/18/CE Applicazione nella Regione siciliana.
L'entrata in vigore del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 - Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive comunitarie nn. 2004/17/CE e
2004/18/CE, ha posto la questione dell'immediata efficacia del predetto decreto legislativo
nell'ordinamento della Regione siciliana, dotata di competenza legislativa esclusiva in materia
di lavori pubblici.
L'Ufficio legislativo e legale della Presidenza della Regione, all'uopo interpellato, ha, con
parere 4 agosto 2006, n. 13583.198.11.06, formulato i necessari chiarimenti al riguardo che
costituiscono oggetto della presente circolare.
Il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 ha ridisciplinato la materia degli appalti pubblici
coordinando le disposizioni relative ai settori ordinari (disciplinati dalla direttiva n. 2004/18),
quelli relativi ai settori cosiddetti speciali (disciplinati dalla direttiva n. 2004/17), fino ad oggi
distinte nel nostro ordinamento, riunendo in maniera organica le regolamentazioni degli
appalti sopra e sotto soglia comunitaria, e abrogando, ad un tempo, tutta la previdente
legislazione interna.
Occorre effettuare una distinzione tra la disciplina concernente le forniture di beni, gli appalti
di servizi e gli appalti inerenti ai settori esclusi e la disciplina relativa agli appalti di lavori.
1) Per le prime tre tipologie di appalti il legislatore regionale ha operato un rinvio dinamico
alla disciplina statale, richiamando, agli artt. 31, 32, e 33 della legge regionale n. 7/2002,
rispettivamente i decreti legislativi nn. 358/92, 157/95 e 158/95, e successive modifiche ed
integrazioni; poiché tali normative sono state abrogate dal decreto legislativo n. 163/2006,
quest'ultima disciplina risulta immediatamente applicabile in virtù del predetto rinvio
"dinamico" alle norme statali che consente l'adeguamento della legge regionale alle modifiche
eventualmente intervenute nell'ordinamento statale.
Tale affermazione trova un correttivo nell'ipotesi in cui vi sia una diversa regolamentazione
della stessa materia ad opera di una disposizione regionale. Per esempio, nell'ipotesi di norme
che regolano la pubblicità dei bandi di gara per gli appalti di forniture di beni e per gli appalti
di servizi, sussistendo una specifica disciplina regionale, l'art. 35 della legge regionale n.
7/2002 e successive modifiche ed integrazioni, non potrà farsi luogo all'applicazione dell'art.
66 del decreto legislativo n. 163/06.
2) Diversa è la fattispecie riguardante la materia dei lavori pubblici.
Il comma 3 dell'art. 4 del decreto legislativo n. 163/2006, rubricato " Competenze legislative
di Stato, regioni e province autonome", enumera una serie di materie, che, in ossequio all'art.
117, comma 2, della Costituzione, come novellato a seguito della legge costituzionale n.
3/2001, di riforma del titolo V della Costituzione, (che, a sua volta, ha individuato le materie
in cui sussiste la legislazione esclusiva statale) sono rimesse alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato e per le quali non è ammessa alcuna disciplina regionale difforme. Tale
disposizione del codice, tuttavia, non può riguardare le regioni a statuto speciale, atteso che la
specifica esclusività della competenza legislativa della Regione siciliana in materia di lavori
pubblici deriva non tanto dal novellato art. 117 Cost., quanto dall'art. 14, lett. g), dello Statuto
della Regione siciliana, approvato con R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455.
Così come è pacifico considerare che la modifica del titolo V non ha inciso sull'assetto della
precedente distribuzione di competenze tra Stato e Regioni speciali, se non nel senso di
ampliare anche per queste le materie di competenza esclusiva, così, allo stesso modo, l'art. 4,
comma 3, del decreto legislativo n.
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163/06, che enuclea le materie di competenza esclusiva dello Stato, non ha refluenze sulla
previsione statutaria dell'esercizio esclusivo della funzione legislativa della Regione in tale
materia.
Quanto predetto non significa naturalmente che la competenza esclusiva della Regione in
materia di lavori pubblici non trovi dei limiti; questi sono costituiti in primo luogo dal rispetto
della Costituzione, dello Statuto e delle relative norme di attuazione, nonché dai vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali ed infine dei principi
delle grandi riforme economico-sociali.
Il comma 4 dell'art. 4 del codice dei contratti prevede "Nelle materie di competenza normativa
regionale, concorrente o esclusiva, le disposizioni del presente codice si applicano alle regioni
nelle quali non sia ancora in vigore la normativa di attuazione e perdono comunque efficacia a
decorrere dall'entrata in vigore della normativa di attuazione adottata da ciascuna regione".
Tale disposizione non sembra riguardare le regioni a statuto speciale e ciò è confermato dal
successivo comma 5 che statuisce "Le regioni a statuto speciale e le province autonome di
Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli
statuti e nelle relative norme di attuazione".
Per verificare se vi siano disposizioni contenute nel codice dei contratti che possono avere
immediata efficacia nella Regione, sembra necessario esaminare, sinteticamente, la
legislazione ad oggi vigente in materia di lavori pubblici.
L'art. 1 della legge regionale 2 agosto 2002, n. 7, ha statuito che la legge 11 febbraio 1994, n.
109, (recante "Legge quadro in materia di lavori pubblici"), "si applica nel territorio della
Regione siciliana nel testo vigente alla data di approvazione della presente legge".
Alla stregua di un'interpretazione strettamente letterale, poiché il rinvio alla norma statale
contenuto nella legge regionale n. 7/2002, è un rinvio "statico" o ricettizio, la legge statale
richiamata è stata applicata nell'ordinamento regionale secondo la formulazione vigente al
momento dell'entrata in vigore di quella regionale di recepimento.
Quindi, le modifiche o le abrogazioni apportate dal legislatore statale alla normativa nazionale
recepita, non hanno avuto effetto sull'ordinamento della Regione se non a seguito di
un'ulteriore intervento del legislatore regionale, ad eccezione di quelle norme concernenti
materie che sono riservate all'esclusiva competenza dello Stato. Tali norme, infatti, sono state
formalmente recepite dal legislatore regionale con le leggi regionali nn. 7/2002 e 7/2003, e
pertanto le loro successive modificazioni, ivi comprese quelle del codice dei contratti, hanno
diretta applicazione nell'ordinamento regionale senza trovare preclusioni nel menzionato
rinvio statico. Ci si riferisce ad esempio alla materia dell'arbitrato o della giurisdizione su cui
la Regione siciliana non ha potestà legislativa.
Il codice dei contratti, inoltre, va applicato ove recepisca norme comunitarie immediatamente
precettive (direttive "self executing"). Si pensi, a titolo esemplificativo all'istituto del dialogo
competitivo (art. 58 ) o dell'avvalimento (art. 49), la cui entrata in vigore, tuttavia, con decreto
legge n. 173/2006, convertito in legge 12 luglio 2006, n. 228 (cosiddetta "legge
milleproroghe"), è stata differita (per l'avvalimento solo relativamente al comma 10 che
riguarda il divieto di subappalto), differimenti che, ovviamente, trovano pure applicazione
pure essi in Sicilia.
Pertanto, al di fuori delle surriferite ipotesi, si ritiene che, anche dopo l'entrata in vigore del
decreto legislativo n. 163/2006, e sino all'emanazione della normativa regionale di
adeguamento, trovi applicazione in Sicilia la legislazione regionale in materia di lavori
pubblici, fermo restando l'obbligo della Regione di adeguarsi ai principi fondamentali del
codice dei contratti che costituiscono norme di grande riforma economico-sociale.
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24/10 Tendenze Evolutive del diritto amministrativo, II Edizione
Corso di formazione avanzata in Contrattualistica Pubblica
(Catania, 30 novembre 2006 - 15 febbraio 2007)
Catania, 30 novembre 2006 - 15 febbraio 2007
giovedì 30 novembre 2006
Avv. Gabriella Caudullo
OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ DELLA P.A. NELLE FASI PRODROMICHE ALL’AGGIUDICAZIONE DEI CONTRATTI
PUBBLICI DI LAVORI, FORNITURE E SERVIZI: L’EVIDENZA PUBBLICA
giovedì 7 dicembre 2006
Avv. Claudia Ferlito
LA FASE INTERMEDIA INTERCORRENTE TRA L’AGGIUDICAZIONE E LA STIPULA DEI CONTRATTI PUBBLICI:
OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ DELLA P.A.
Avv. Benedetta Caruso
RIPARTO DI GIURISDIZIONE E TUTELA RISARCITORIA DALL’ AGGIUDICAZIONE ALLA STIPULA DEL
CONTRATTO
giovedì 14 dicembre 2006
Avv. Benedetta Caruso
ESECUZIONE DEI CONTRATTI PUBBLICI DI LAVORI, SERVIZI E FORNITURE: RILIEVI IN TEMA DI
RESPONSABILITA’ DELLA P.A.
Avv. Carmelo Giurdanella
L’ARBITRATO NEGLI APPALTI PUBBLICI
giovedì 21 dicembre 2006
Avv. Gabriella Caudullo
LA PARTECIPAZIONE DELLE IMPRESE ALLE GARE D’APPALTO MEDIANTE CONSORZI, ASSOCIAZIONI
TEMPORANEE E AVVALIMENTO
Avv. Benedetta Caruso
PROROGA E DIVIETO DI RINNOVO DEI CONTRATTI ALLA LUCE DEL CODICE. LE SORTI DEL CONTRATTO IN
CASO DI ANNULLAMENTO DELLA GARA
giovedì 11 gennaio 2007
Avv. Carmelo Giurdanella – Avv. Fabrizio Traina
S.P.A. MISTE E PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DEI CONTRATTI PUBBLICI: IL TEMA DEL «IN HOUSE
PROVIDING»
giovedì 18 gennaio 2007
44 di 220
Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
Avv. Gabriella Caudullo
LA L. 241/90 NEL PROCEDIMENTO AD EVIDENZA PUBBLICA: ACCESSO, PARTECIPAZIONE, PREAVVISO DI
RIGETTO
Dott.ssa Vania Scalambrieri
MECCANISMI DI RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE: IL RICORSO INNANZI ALL’AUTORITA’ DI
VIGILANZA SUI CONTRATTI PUBBLICI
giovedì 25 gennaio 2007
Avv. Elio Guarnaccia
COMUNICAZIONI, INVII E TRASMISSIONI NELLE PROCEDURE DI GARA. L'UTILIZZO DELLE TECNOLOGIE
INFORMATICHE
Avv. Gabriella Caudullo
GLI APPALTI DI PROGETTAZIONE DEI LAVORI PUBBLICI DOPO LA RIFORMA
giovedì 1 febbraio 2007
Avv. Carmelo Giurdanella
IL PROCESSO AMMINISTRATIVO IN MATERIA DI APPALTI
venerdì 9 febbraio 2007
Avv. Ernesto Belisario
I DECRETI CORRETTIVI AL CODICE: INNOVAZIONI E SPUNTI CRITICI
giovedì 15 febbraio 2007
Dott. Stefano Minieri – Avv. Carmelo Giurdanella
INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLA MATERIA: DALLE NORME COMUNITARIE ALL’EMANAZIONE DEL CODICE
DEI CONTRATTI PUBBLICI. IL TEMA DELLA COMPETENZA A LEGIFERARE: RAPPORTI TRA FONTI STATALI E
REGIONALI
19/10 Gare d'appalto
Lo schema di istanza per adire l'Autorita' sui Contratti Pubblici
Istanza di parere per la soluzione delle controversie ex articolo 6, comma 7, lettera n) del d. lgs.
n. 163/2006
All'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
Ufficio affari giuridici
Settore precontenzioso
Via di Ripetta, 246
00186 Roma - Fax 06.36723362
classifica della richiesta (barrare quello di riferimento)
Lavori/ Servizi/ Forniture
45 di 220
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1. A) Soggetti richiedenti
1.1 Stazione appaltante ed indicazione del nominativo e della qualifica del soggetto che formula la
richiesta (la richiesta di parere deve pervenire dalla persona fisica titolata ad esprimere all'esterno la
volontà del soggetto richiedente):
…………………………………………
1.2 indirizzo ………………………………………………………………
1.3 recapito telefonico ……………………………………………………
1.4 numero fax ……………………………………………………………
1.1.1 denominazione sociale impresa ……………………………………
1.1.2 indirizzo ……………………………………………………………..
1.1.3 recapito telefonico …………………………………………………...
1.1.4 numero fax ……………………………………………………………
B) Eventuali controinteressati …………………………………………..
2. Pendenza di giudizio: l’istante è tenuto a comunicare se per la fattispecie in esame risulta pendente
un ricorso innanzi all'autorità giudiziaria.
Si/ No
3. Individuazione dell’intervento
3.1 Tipologia appalto
Appalto di lavori pubblici
Appalto di forniture
Appalto di servizi
Contratto misto
Concessione di lavori
Concessione di servizi
Contratti relativi ai settori speciali, come definiti dalla parte III del D.Lgs. 163/06
Contratti esclusi dall’applicazione del D.Lgs. 163/06 (artt.16-27)
Appalto avente ad oggetto la progettazione e l’esecuzione
Project financing
Lavori in economia
Concorso di progettazione
46 di 220
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Concorso di idee
3.2 Procedura di scelta del concorrente:
Procedura aperta
Procedura ristretta
Procedura ristretta semplificata
Procedura negoziata con pubblicazione del bando di gara
Procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara
Accordo quadro
Dialogo competitivo
Altro
3.3 Oggetto dell’appalto : ………………………..……………………….…….………………
Data di pubblicazione del bando: ….. /.….. / …….
Termine ultimo per la presentazione delle offerte: ….. / …... / ……
Importo a base d’asta ……………………………………
Nome del responsabile del procedimento ..........………….
3.4 Criterio di aggiudicazione
di istanza presentata dalla S.A. - Dichiarazione di impegno (detta dichiarazione deve contenere
l’impegno della S.A. a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione,
fino alla definizione della stessa da parte dell’Autorità.):
…………………………………………………………………………………………………… .
Data,
Firma di colui che
prezzo più basso
offerta economicamente più vantaggiosa
4. Oggetto della richiesta e rappresentazione delle rispettive posizioni delle parti (da indicare in modo
sintetico):
……………………………………………………………… ..
……………………………………………………………… ..
5. Eventuale richiesta di audizione SI/ NO
6. Elenco dei documenti citati nella presente richiesta ed allegati alla medesima:
6.1 bando di gara/disciplinare
6.2 capitolato speciale
6.3 verbali di gara
6.4 deliberazioni
6.5 altro
In caso sottoscrive la richiesta. …………………………
19/10 gara d’apalto lo schema di istanza per adire lìautorità sui contratti pubblici
19/10 Gare d'appalto
Il testo del regolamento sulle controversie innanzi all'Autorita' sui
Contratti Pubblici
Autorita' per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori , servizi e forniture
Deliberazione del 10 ottobre 2006
"Regolamento sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma
7, lettera n) del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163"
Art. 1
(Oggetto)
47 di 220
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1. Il presente regolamento disciplina la procedura per la soluzione delle controversie di cui all’art. 6,
comma 7, lettera n) del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163.
Art. 2
(Soggetti richiedenti)
1. La stazione appaltante, una parte interessata ovvero più parti interessate possono, singolarmente o
congiuntamente, rivolgere all’Autorità istanza di parere per la formulazione di una ipotesi di soluzione
della questione insorta durante lo svolgimento delle procedure di gara degli appalti pubblici di lavori,
servizi e forniture.
2. A pena di improcedibilità, l’istanza deve essere sottoscritta dalla persona fisica legittimata ad
esprimere all’esterno la volontà del soggetto richiedente.
Art. 3
(Presentazione e contenuti dell’istanza)
1. L’istanza, da inoltrare secondo il modello presente sul sito dell’Autorità, può essere trasmessa
tramite:
-raccomandata del servizio postale;
- fax;
- per posta elettronica certificata ai sensi della normativa vigente.
2. L’istanza deve obbligatoriamente contenere le seguenti informazioni:
- intestazione riportante la seguente dicitura “istanza di parere per la soluzione delle controversie ex
articolo 6, comma 7, lettera n) del d. Lgs. n. 163/2006”;
- indicazione del/i soggetto/i richiedente/i;
- eventuali soggetti controinteressati;
- rappresentare l’eventuale pendenza, per la fattispecie in esame, di un ricorso innanzi all'autorità
giudiziaria;
- oggetto della gara ed importo a base d’asta;
- compiuta e succinta descrizione della fattispecie cui attiene la controversia, con allegazione della
documentazione di riferimento;
- sintetica rappresentazione delle rispettive posizioni delle parti;
- eventuale richiesta di audizione.
3. Quando l’istanza è formulata dalla stazione appaltante, la stessa deve contenere l’impegno della
medesima a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino alla
definizione della stessa da parte dell’Autorità.
Art. 4
(Avvio dell’istruttoria)
1. l’Ufficio Affari Giuridici - Settore Precontenzioso apre l’istruttoria rendendo noto l’avvio del
procedimento ed il nominativo del relativo responsabile, mediante comunicazione formale da inviarsi
entro cinque giorni dal ricevimento dell’istanza al protocollo dell’Autorità, nei confronti:
- del/i sottoscrittore/i dell’istanza;
- dei controinteressati chiaramente identificati nell’istanza stessa.
2. In detta comunicazione è altresì riportato che in caso di mancata partecipazione al contraddittorio
documentale e/o orale di una delle parti interessate, l’Autorità valuterà la questione sulla base degli
elementi di fatto in suo possesso.
3. La comunicazione di avvio del procedimento contiene la fissazione della data dell’eventuale
audizione di cui al successivo articolo 5.
4. Quando l’istanza è presentata da una parte diversa dalla stazione appaltante, con la comunicazione
di avvio del procedimento l’Autorità formula alla stazione appaltante l’invito a non porre in essere atti
pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione, fino alla definizione della stessa da parte
dell’Autorità.
5. Ove ritenuto necessario dall’Ufficio Affari Giuridici - Settore Precontenzioso, con la comunicazione
di avvio del procedimento, si chiedono alle parti interessate ulteriori informazioni e deduzioni sulla
questione oggetto dell’istanza, fissando il termine di cinque giorni dalla data della comunicazione
stessa per la ricezione di memorie scritte e/o documenti.
6. In caso di eventuale audizione di cui al successivo articolo 5, l’integrazione documentale dovrà
pervenire all’Autorità entro il giorno precedente la data dell’audizione.
Art. 5
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Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
(Partecipazione all’istruttoria)
1. Se richiesta dalle parti interessate, singolarmente o congiuntamente, la “Commissione per la
soluzione delle controversie”, di cui al successivo articolo 6, procede all’audizione delle stesse.
2. Anche se non richiesta dalle parti, l’audizione di cui al comma 1. ha luogo nel caso in cui l’Ufficio
Affari Giuridici – Settore Precontenzioso lo ritenga necessario al fine di chiarire aspetti rilevanti della
fattispecie sottoposta all’esame dell’Autorità.
3. L’audizione è effettuata entro dieci giorni dalla data di acquisizione al protocollo dell’Autorità
dell’istanza di parere.
4. All’audizione partecipa, in qualità di relatore, il responsabile del procedimento che espone alla
“Commissione per la soluzione delle controversie”, di cui al successivo articolo 6, la questione
sottoposta all’attenzione dell’Autorità.
5. Il responsabile del procedimento redige processo verbale dell’audizione.
Art. 6
(Commissione per la soluzione delle controversie)
1. Presso l’Autorità è istituita la “Commissione per la soluzione delle controversie” presieduta a
rotazione da un membro del Consiglio dell’Autorità e composta da esperti nei settori degli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, nominati dal Consiglio dell’Autorità.
2. La Commissione adotta con propria deliberazione il parere sulla questione oggetto della
controversia.
3. Fino alla costituzione di detta Commissione, le competenze e le attività ad essa attribuite sono
svolte dal Consiglio dell’Autorità.
Art. 7
(Adozione del parere)
1. Il dirigente responsabile dell’Ufficio Affari Giuridici trasmette alla Commissione di cui all’art. 6 la
relazione istruttoria finale redatta dal responsabile del procedimento, contenente l’ipotesi di soluzione
della questione, entro il termine di dieci giorni dalla data di avvio del procedimento ovvero dalla data di
ricezione dell’eventuale integrazione documentale ovvero dalla data dell’eventuale audizione.
2. La Commissione adotta la propria deliberazione entro il termine di dieci giorni dalla data di
trasmissione della relazione istruttoria finale.
3. L’Ufficio Affari Giuridici trasmette tempestivamente alle parti interessate la deliberazione della
Commissione.
4. L’Ufficio Affari Giuridici cura la raccolta sistematica delle deliberazioni della Commissione nel sito
massimario dell’Autorità.
(Roma, 10 ottobre 2006)
19/10 Gare d'appalto
La nuova procedura di risoluzione delle controversie innanzi
all'Autorita' sui Contratti Pubblici
L'Autorita' per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha approvato, lo scorso 10
ottobre, il Regolamento recante la nuova procedura di soluzione delle controversie ed il relativo
formulario per l’inoltro delle richieste di parere.
L'1 luglio scorso, con l'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, sono state ampliate le
competenze dell’Autorita' per la vigilanza sui lavori pubblici, ora denominata "Autorita' per la vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture".
In particolare, ai sensi dell’articolo 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo n. 163/2006, l'Autorita'
esprime ora parere non vincolante, "su iniziativa della stazione appaltante e di una o più delle altre
parti relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, eventualmente
formulando una ipotesi di soluzione".
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Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
La stazione appaltante dovra' evitare di porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della
questione, fino alla definizione della stessa da parte dell’Autorità.
Il Presidente, nel comunicato diramato lo stesso giorno, ha chiarito che "l’Autorità provvederà a
formulare parere esclusivamente alle richieste inoltrate utilizzando l’apposito modello presente nel
sito".
Inoltre, "relativamente alle questioni che rivestono carattere di generalità", l’Autorità provvederà ad
unificare per tematiche le singole fattispecie, per l’emanazione di atti a valenza generale.
L'Autorita' infine, individuera' le tariffe "sulla base del costo effettivo" per l'accesso alla procedura.
(Roma, 10 ottobre 2006
13/10Secondo Di Pietro
Il responsabile del procedimento nel codice appalti
Il Ministro delle Infrastrutture Di Pietro, in risposta ad un'interrogazione scritta, presentata innanzi all'8°
Commissione Permanente della Camera dei Deputati, ha chiarito se il responsabile del procedimento
secondo il nuovo codice appalti debba o meno essere necessariamente un dipendente di ruolo.
Di seguito, il testo dell'interrogazione e la risposta in Commissione del Ministro.
Ministro delle Infrastrutture
Risposta a interrogazione scritta (3 ottobre 2006)
"Il responsabile del procedimento nel codice appalti"
L'interrogazione
"Al Ministro delle infrastrutture.
Per sapere - premesso che:
da numerosi Enti Locali, in particolare quelli di piccola dimensione, arrivano preoccupate segnalazioni
per il contenuto del comma 5 dell'articolo 10 del codice degli appalti pubblici approvata con decreto
legislativo n. 163 del 2006 (Gazzetta Ufficiale n. 10 del 2 maggio 2006) secondo cui il responsabile del
procedimento dei pubblici appalti «deve essere un dipendente di ruolo»;questa disposizione così
tassativa sembra precludere la possibilità di ricorrere a personale a tempo determinato ex articolo
110, commi 1 e 2, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL), approvato con
decreto legislativo n. 267 del 2000, ed anche di poter ricorrere a convenzioni con altri enti, onde
potersi avvalere di personale cui affidare la responsabilità dei procedimenti. Non solo, ma in questo
modo si rende impraticabile la possibilità di avvalersi di personale comandato o distaccato da altri enti;
tale norma si prefigura come deleteria soprattutto per i piccoli comuni stanti anche i vincoli in materia
di assunzioni -: se non intenda assumere iniziative normative per ovviare a tale situazione che di fatto
blocca qualsiasi iniziativa in ambito di appalti pubblici per tutti gli enti locali sprovvisti del responsabile
del procedimento (19 luglio 2006)"
La risposta del Ministro
"La questione sollevata dai deputati interroganti riguarda le segnalazioni inviate da diversi enti locali in
ordine al disposto dell'articolo 10, comma 5 del decreto legislativo n. 163 del 2006 recante il Codice
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Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture nella parte in cui si dispone che per le
amministrazioni aggiudicatrici il responsabile del procedimento «deve essere un dipendente di ruolo».
Ciò parrebbe precludere, a parere di detti enti locali, la possibilità di ricorrere a personale a tempo
determinato ex articolo 110, commi 1 e 2, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali o
a personale comandato ovvero distaccato da altri enti.
In merito, si osserva che la lettura del citato articolo 10, comma 5 del decreto legislativo n. 163 del
2006 deve avvenire in combinato con quanto disposto al comma 7 del medesimo articolo laddove «nel
caso in cui l'organico delle amministrazioni aggiudicatrici presenti carenze accertate o in esso non sia
compreso alcun soggetto in possesso della specifica professionalità necessaria per lo svolgimento dei
compiti propri del responsabile del procedimento, secondo quanto attestato dal dirigente competente, i
compiti di supporto all'attività del responsabile del procedimento possono essere affidati con le
procedure indicate nel decreto per l'affidamento di incarichi di servizi ai soggetti aventi le specifiche
competenze previste dal Codice. Risulta evidente che, in presenza di determinate condizioni quale
carenza di organico o carenza di professionalità accertate e attestate, il dirigente e/o il segretario
comunale possa farsi affiancare da un tecnico in possesso delle specifiche competenze. Per una
visione completa della materia, si deve altresì analizzare l'articolo 91, comma 8, dello stesso Codice
dei contratti pubblici nella parte in cui vieta l'affidamento di attività di progettazione, direzione lavori,
collaudo, indagine e attività di supporto a mezzo di contratti a tempo determinato o altre procedure
diverse da quelle previste. Nel merito, appare chiaro l'intento del legislatore di evitare, per quanto
possibile, il ricorso a professionalità esterne all'Amministrazione pubblica per l'affidamento di incarichi
di responsabile. Le disposizioni in esame debbono tuttavia essere collocate nel più ampio contesto
della riforma del pubblico impiego che ha introdotto la possibilità di attribuire funzioni dirigenziali o di
alta professionalità anche ad esterni all'Amministrazione tramite contratto individuale di lavoro di diritto
privato, a determinate condizioni quali una elevata qualificazione professionale, posti limitati ad una
percentuale dell'organico, eccetera. In tale quadro si colloca l'articolo 11 del citato testo unico degli
enti locali che consente a questi ultimi, ove necessario, la copertura dei posti di responsabili di servizi
o di uffici di qualifica dirigenziale o di alta
specializzazione mediante la stipula di contratti a tempo determinato - di diritto pubblico o,
eccezionalmente, di diritto privato - nella misura non superiore al 5 per cento del totale della dotazione
organica della dirigenza. Viene previsto, sostanzialmente, la possibilità di nomina di un dirigente e/o
direttivo e l'incardinamento funzionale dello stesso nell'ente tramite un contratto di diritto privato a
tempo determinato. È possibile che alla struttura cui si è preposti inseriscano funzioni di responsabile
del procedimento per determinate materie".
(Roma, 3 ottobre 2006)
12/10 Decreto Bersani
Circolare Minilavoro su lavoro nero e sicurezza nei cantieri
Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
Direzione generale per l'attivita' ispettiva
Circolare 28 settembre 2006 n. 29
Oggetto: Art. 36 bis D.L. n. 223/2006 (conv. con L. n. 248/2006).
Come noto, il D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2006 (in G.U. n. 186
dell'11 agosto 2006), ha introdotto all'art. 36 bis "Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la
promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro".
La normativa, al fine di assicurare una più efficace azione di prevenzione oltre che di repressione del
lavoro sommerso nonché di riduzione del fenomeno infortunistico dei luoghi di lavoro, da un lato
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interviene a potenziare i poteri e le prerogative del personale ispettivo del Ministero del lavoro e della
previdenza sociale e, dall'altro, introduce nuovi adempimenti volti a rendere più "trasparenti" le
modalità di assunzione e di impiego del personale dipendente, riformulando, altresì, in senso
conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale, la c.d. maxisanzione per il lavoro "nero" già
prevista dall'art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002 (conv. da L. n. 73/2002).
Si ritiene utile fornire alcuni chiarimenti operativi sulle predette novità, al fine di una corretta
interpretazione delle previsioni normative in fase di prima applicazione.
Provvedimento di sospensione dei lavori nel cantiere
L'art. 36 bis del D.L. n. 223/2006 si caratterizza, anzitutto, per aver concentrato l'attenzione sulle
ricadute che l'utilizzo di manodopera irregolare può avere sulle problematiche di sicurezza nei luoghi
di lavoro. Già in passato, infatti, si era avuto modo di constatare che le imprese che ricorrono a
manodopera irregolare sono anche quelle che presentano maggiori tassi infortunistici; invero, prima
d'oggi nessuna disposizione normativa aveva espressamente e direttamente collegato i due fenomeni,
operando la presunzione secondo cui il lavoro irregolare determina automaticamente anche una
condizione di criticità sul fronte della sicurezza sul lavoro.
Tale collegamento emerge in particolare dalla previsione di cui al comma 1 del predetto articolo il
quale prevede che "(…) il personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale,
anche su segnalazione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e dell'Istituto nazionale
per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), può adottare il provvedimento di sospensione
dei lavori nell'ambito dei cantieri edili qualora riscontri l'impiego di personale non risultante dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria, in misura pari o superiore al 20 per cento del totale
dei lavoratori regolarmente occupati nel cantiere ovvero in caso di reiterate violazioni della disciplina in
materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui agli articoli 4, 7 e
9 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, e successive modificazioni".
La ratio della disposizione, come accennato in premessa, individua una "presunzione" da parte
dell'ordinamento circa la situazione di pericolosità che si verifica in cantiere in conseguenza del ricorso
a manodopera "non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria" giacché la
stessa, oltre a non essere regolare sotto il profilo strettamente lavoristico, non ha verosimilmente
ricevuto alcuna "formazione ed informazione" sui pericoli che caratterizzano l'attività svolta nel settore
edile.
In primo luogo va chiarito l'ambito di applicazione della disposizione che – stante il riferimento a
"l'ambito dei cantieri edili" – sembra coincidere con le imprese che svolgono le attività descritte
dall'allegato I del D.Lgs. n. 494/1996, nel quale sono ricomprese sia aziende inquadrate o inquadrabili
previdenzialmente come imprese edili sia imprese non edili che operano comunque nell'ambito delle
realtà di cantiere.
Si tratta in particolare di imprese che svolgono:
1) lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento,
ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere
fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri
materiali, comprese le linee elettriche, le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali,
ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di
ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro;
2) scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per i lavori edili o di ingegneria
civile.
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Per quanto concerne l'"oggetto" del provvedimento di sospensione dei lavori si ritiene che lo stesso
vada riferito ad ogni singola azienda che, nell'ambito del cantiere, presenti i presupposti di irregolarità
individuati dalla disposizione in esame e non riguardi invece il cantiere considerato nella sua
interezza, tranne evidentemente le ipotesi in cui nel cantiere operi una sola azienda. Tale
orientamento risponde alla logica di non penalizzare, con un provvedimento che sospenda la
complessiva attività del cantiere, anche le imprese che in detto ambito operano in condizioni di
regolarità e alle quali sarebbe peraltro inibita la prosecuzione dei lavori senza poter nemmeno incidere
in alcun modo sulla regolarizzazione delle violazioni riscontrate; regolarizzazione che viene posta dal
legislatore quale condizione per la ripresa dei lavori stessi.
Venendo invece alle condizioni individuate dalla norma per l'adozione del provvedimento di
sospensione si ritiene opportuno chiarire quanto segue.
Con riferimento al personale "non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria" si
precisa che lo stesso va individuato nel personale totalmente sconosciuto alla P.A. in quanto non
iscritto nella documentazione obbligatoria né oggetto di alcuna comunicazione prescritta dalla
normativa lavoristica e previdenziale. Ne consegue che, da tale formulazione, restano esclusi ad
esempio gli eventuali rapporti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (o altre forme di
lavoro autonomo) che, seppur ritenuti fittizi, risultano comunque iscritti sul libro matricola, così come
previsto dal D.Lgs. n. 38/2000. Viceversa, eventuali forme di collaborazione occasionale ritenute non
genuine, in assenza di qualunque formalizzazione su libri o documenti obbligatori, potranno, invece,
contribuire alla determinazione della percentuale di personale irregolare.
Relativamente al calcolo della percentuale del personale "in nero" va in secondo luogo chiarito che
detta percentuale va rapportata alla totalità dei lavoratori della singola impresa operanti nel cantiere al
momento dell'accesso ispettivo (e non già complessivamente in forza all'azienda) risultanti dalle
"scritture o da altra documentazione obbligatoria" come sopra chiarito. A titolo esemplificativo si
consideri l'ipotesi di un'impresa con 30 dipendenti in forza che occupa in un cantiere, al momento
dell'accesso ispettivo, 10 lavoratori, di cui 3 non iscritti sul libro matricola. Detta impresa potrà essere
destinataria del provvedimento di sospensione in quanto i 3 lavoratori irregolari – rapportati ai 7
lavoratori regolarmente occupati (i 3 lavoratori irregolari vanno dunque esclusi dalla base di calcolo) –
rappresentano oltre il 40% della totalità della manodopera.
Ancora con riferimento ai presupposti di adozione del provvedimento di sospensione, un ulteriore
chiarimento attiene alla ipotesi "di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei
tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale". In tal caso, in particolare, il termine "reiterate" va
interpretato come ripetizione di una o più delle diverse condotte illecite contemplate nella norma in
esame, riferita ad almeno un lavoratore, in un determinato arco temporale (l'art. 8 bis della L. n.
689/1981, ad esempio, prende in considerazione gli ultimi 5 anni), tale da non poter considerare la
condotta stessa meramente occasionale.
Altre osservazioni attengono al carattere "discrezionale" del provvedimento cautelare in esame. In
proposito va ricordato che la ratio della disposizione è quella di garantire l'integrità psicofisica dei
lavoratori operanti nel settore edile e tale finalità deve opportunamente guidare il personale ispettivo
nell'esercizio del potere discrezionale riconosciuto dalla disposizione. Proprio sulla base di tale
premessa, quindi, considerata l'oggettività e la determinatezza dei presupposti normativi, si ritiene che
il provvedimento di sospensione dei lavori nel cantiere debba essere "di norma adottato" ogniqualvolta
si riscontri la sussistenza di uno o ambedue i presupposti sopra indicati, salvo valutare circostanze
particolari che suggeriscano, sotto il profilo dell'opportunità, di non adottare il provvedimento in
questione.
In particolare, un utile criterio volto ad orientare la valutazione dell'organo di vigilanza va legato alla
natura del rischio dell'attività svolta dai lavoratori irregolari, tenendo conto che il provvedimento può
non essere adottato:
53 di 220
Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza (http://www.onps.org)
quando il rischio per la salute e sicurezza dei lavoratori risulta di lieve entità in relazione alla
specificaattività svolta nel cantiere (es. tinteggiatura interna, posa in opera di rivestimenti
ecc.);
2) quando l'interruzione dell'attività svolta dall'impresa determini a sua volta una situazione di pericolo
per l'incolumità dei lavoratori delle altre imprese che operano nel cantiere (si pensi, ad esempio, alla
sospensione di uno scavo in presenza di una falda d'acqua o a scavi aperti in strade di grande traffico,
a demolizioni il cui stato di avanzamento abbia già pregiudicato la stabilità della struttura residua e/o
adiacente o, ancora, alla necessità di ultimare eventuali lavori di rimozione di materiale nocivo quale
l'amianto).
Tenendo conto di quanto sopra evidenziato e rilevata la necessità che l'obbligo di motivazione
comporta sempre una adeguata valutazione dei presupposti del provvedimento di sospensione, si
richiama l'attenzione del personale ispettivo sull'esigenza di specificare, oltre che nel provvedimento
stesso, anche nel verbale di accertamento, le specifiche fasi di lavorazione effettuate dall'azienda al
momento della verifica ispettiva.
La necessaria valutazione di tali circostanze comporta, quale conseguente corollario, che nelle ipotesi
in cui gli ispettori di vigilanza degli istituti previdenziali e assicurativi accertino la sussistenza dei
presupposti che legittimano l'adozione del provvedimento di sospensione, gli stessi ne diano
immediata comunicazione, mediante trasmissione del verbale anche in via telematica, alla Direzione
provinciale del lavoro, affinché quest'ultima mediante proprio personale attivi le dovute valutazioni ai
fini dell'adozione del provvedimento di sospensione dei lavori.
Si sottolinea, inoltre, che l'informativa ai competenti uffici del Ministero delle infrastrutture relativa
all'adozione del provvedimento di sospensione va fatta a cura della Direzione provinciale del lavoro e
non già da parte del personale ispettivo che adotta il provvedimento medesimo.
L'art. 36 bis, al comma 2, stabilisce inoltre che "è condizione per la revoca del provvedimento da parte
del personale ispettivo
a) la regolarizzazione dei lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione
obbligatoria;
b) l'accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di reiterate violazioni alla
disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui al
decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, e successive modificazioni. È comunque fatta salva
l'applicazione delle sanzioni penali e amministrative vigenti".
In proposito occorre chiarire che per la regolarizzazione dei lavoratori "in nero", oltre alla registrazione
degli stessi sui libri obbligatori, al pagamento delle sanzioni amministrative e civili ed al versamento
dei relativi contributi previdenziali ed assicurativi, è necessaria anche l'ottemperanza agli obblighi più
immediati di natura prevenzionistica di cui al D.Lgs. n. 626/1994,con specifico riferimento almeno alla
sorveglianza sanitaria (visite mediche preventive) e alla formazione ed informazione sui pericoli legati
all'attività svolta nel cantiere nonché alla fornitura dei dispositivi di protezione individuale.
A tal proposito, si coglie l'occasione per ricordare al personale ispettivo che, ogniqualvolta venga
accertata la presenza di manodopera "in nero" nelle attività edili, configurandosi nella quasi totalità dei
casi la violazione degli obblighi, puniti penalmente, legati alla sicurezza dei lavoratori (almeno in
riferimento all'omessa sorveglianza sanitaria e alla mancata formazione ed informazione), il predetto
personale ispettivo dovrà adottare il provvedimento di prescrizione obbligatoria relativo a tali ipotesi
contravvenzionali e verificare, conseguentemente, l'ottemperanza alla prescrizione impartita.
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Per quanto invece concerne il "ripristino delle regolari condizioni di lavoro" nelle ipotesi di violazioni in
materia di tempi di lavoro e di riposi, detto ripristino non può che aversi con il solo pagamento delle
relative sanzioni amministrative, stante l'impossibilità sostanziale di unareintegrazione dell'ordine
giuridico violato, trattandosi di condotte di natura commissiva, come peraltro già chiarito con circolare
n. 8/2005 di questo Ministero.
L'inosservanza del provvedimento di sospensione dei lavori configura l'ipotesi di reato di cui all'art.
650 c.p. il quale punisce "chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per
ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico o d'igiene" con l'arresto sino a tre mesi
e l'ammenda
sino ad € 206. In tal caso, infatti, si è in presenza di un provvedimento emanato per ragioni di
sicurezza e tutela della salute dei lavoratori che, quale bene costituzionalmente tutelato, rientra
nell'ambito della nozione di sicurezza pubblica (in tal senso Cass. sez. III 17 novembre 1960 e Cass.
sez. III 14 febbraio 1995 n. 3375).
Ultime osservazioni attengono alla possibilità di impugnare il provvedimento cautelare in sede
amministrativa. Al riguardo, pur in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso –
contrariamente a quanto avviene con riferimento ad altri poteri ispettivi (ad es. diffida accertativa ex
art. 12 del D.Lgs. n. 124/2004, impugnabile presso il Comitato regionale per i rapporti di lavoro di cui
all'art. 17 dello stesso decreto) – sembra potersi ammettere un ricorso di natura gerarchica alle
Direzioni regionali del lavoro territorialmente competenti, secondo quanto stabilito in via generale dal
D.P.R. n. 1199 del 1971. Resta comunque inalterata la possibilità, da parte della Direzione provinciale
del lavoro, di revocare il provvedimento di sospensione dei lavori in via di autotutela, ai sensi degli artt.
21 quinquies e 21 nonies della L. n. 241/1990.
Si allega, in calce alla presente circolare, il modello da utilizzare per l'adozione del provvedimento di
sospensione dei lavori, già diramato con nota prot. n. 25/I/0002975 del 24 agosto 2006.
Lavoro nei cantieri: tessera di riconoscimento o registro
Il comma 3 dell'art. 36 bis introduce l'obbligo per i datori di lavoro, nell'ambito dei cantieri edili, di
munire il personale occupato, a decorrere dal 1º ottobre 2006, di apposita tessera di riconoscimento
corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro.
Anche in tal caso il campo di applicazione della previsione va individuato con riferimento a tutte le
imprese che svolgono le attività di cui all'Allegato I del D.Lgs. 494/1996.
Tenuto conto delle finalità della disposizione volta alla immediata identificazione e riconoscibilità del
personale operante in cantiere, i lavoratori sono tenuti a portare indosso in chiara evidenza detta
tessera di riconoscimento; medesimo obbligo fa capo ai lavoratori autonomi che operano nel cantiere
stesso, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto (ad es. artigiani).
I dati contenuti nella tessera di riconoscimento devono consentire l'inequivoco ed immediato
riconoscimento del lavoratore interessato e pertanto, oltre alla fotografia, deve essere riportato in
modo leggibile almeno il nome, il cognome e la data di nascita. La tessera inoltre deve indicare il
nome o la ragione sociale dell'impresa datrice di lavoro.
La previsione normativa stabilisce ancora che, in via alternativa, i soli datori di lavoro che occupano
meno di dieci dipendenti (cioè massimo nove) possono assolvere all'obbligo di esporre la tessera
"mediante annotazione, su apposito registro di cantiere vidimato dalla Direzione provinciale del lavoro
territorialmente competente da tenersi sul luogo di lavoro, degli estremi del personale giornalmente
impiegato nei lavori".
Con riferimento all'ambito applicativo della previsione si precisa che il suddetto limite numerico va
riferito al personale stabilmente in forza all'azienda, tenendo presente che per il computo dello stesso
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"si tiene conto di tutti i lavoratori impiegati a prescindere dalla tipologia dei rapporti di lavoro instaurati,
ivi compresi quelli autonomi". Il riferimento ai lavoratori autonomi, evidentemente, è da interpretarsi nel
senso di comprendere nel calcolo i lavoratori non subordinati che intrattengono comunque un rapporto
continuativo con l'impresa (ad es. collaboratori coordinati e continuativi a progetto e associati in
partecipazione).
Dalla formulazione della norma, inoltre, si evince che l'obbligo di tenere il registro in argomento è
riferito a ciascun cantiere, cosicché l'impresa interessata è tenuta ad istituire più registri qualora
impegnata contemporaneamente in lavori da effettuare in luoghi diversi.
Viceversa, in caso di lavori da realizzarsi in tempi diversi, sarà possibile utilizzare il medesimo registro
evidenziando tuttavia separatamente il giorno ed il luogo cui le annotazioni si riferiscono.
Tale registro non può mai essere rimosso dal luogo di lavoro in quanto altrimenti si vanifica la finalità
per la
quale lo stesso è stato istituito; va altresì precisato che le annotazioni sullo stesso vanno effettuate
necessariamente prima dell'inizio dell'attività lavorativa giornaliera in quanto trattasi di un registro "di
presenza" in cantiere.
Per quanto concerne le modalità di vidimazione del registro da parte delle Direzioni provinciali del
lavoro è possibile rinviare in via analogica a quanto previsto dal T.U. n. 1124/1965 con riferimento ai
libri di paga e matricola.
Sotto il profilo sanzionatorio, la mancata tenuta sul luogo di lavoro del registro ovvero l'irregolare
tenuta dello stesso comporta in capo al datore di lavoro la medesima sanzione prevista con
riferimento alle tessere di riconoscimento (da €100 ad € 500 per ciascun lavoratore), essendo il
registro uno strumento alternativo ed equipollente alle stesse.
Nei confronti di tali sanzioni si ricorda da ultimo che non è ammessa la procedura di diffida di cui
all'articolo 13 del D.Lgs. n. 124/2004 per espressa previsione normativa.
Edilizia: comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro
Il comma 6 dell'art. 36 bis ha previsto l'immediata operatività della previsione di cui all'art. 86, comma
10 bis, del D.Lgs. n. 276/2003 stabilendo che "nei casi di instaurazione di rapporti di lavoro nel settore
edile, i datori di lavoro sono tenuti a dare la comunicazione di cui all'articolo 9-bis, comma 2, del
decreto-legge 1º ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n.
608, e successive modificazioni, il giorno antecedente a quello di instaurazione dei relativi rapporti,
mediante documentazione avente data certa".
Come noto, tale previsione era precedentemente subordinata all'emanazione del decreto
interministeriale, non ancora adottato, di cui al comma 7 dell'art. 4 bis, del D.Lgs. n. 181/2000 cui
viene demandata la definizione dei moduli unificati per le comunicazioni obbligatorie.
In proposito va specificato che le imprese tenute a tale adempimento sono le imprese edili in senso
stretto, non potendo trovare applicazione lo stesso criterio interpretativo adottato con riferimento al
comma 1 dell'art. 36 bis che, come già detto, fa riferimento alle imprese rientranti nel campo di
applicazione del D.Lgs. n. 494/1996. Ciò significa, in sostanza, che va tenuto presente
l'inquadramento – ovvero l'inquadrabilità – previdenziale delle imprese in questione ai fini della
applicazione della norma.
Quanto alla modalità di comunicazione dell'assunzione, che deve risultare da documentazione
"avente data certa", si deve ritenere che tale circostanza sia desumibile, oltre che dalla tradizionale
raccomandata a/r, anche da comunicazioni telematiche (fax ovvero posta elettronica certificata).
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Occorre precisare che, in caso di instaurazione di rapporti di lavoro in un giorno immediatamente
successivo a una giornata festiva, l'adempimento in questione potrà essere effettuato anche nella
stessa giornata festiva, stante il tenore letterale della previsione normativa e considerata la possibilità
di avvalersi di strumenti telematici (fax e posta elettronica certificata).
Si ricorda, da ultimo, che la violazione dell'obbligo di comunicazione preventiva di instaurazione del
rapporto di lavoro è punita con la sanzione amministrativa di cui all'art. 19, comma 3, del D.Lgs. n.
276/2003, pari ad una somma da € 100 ad € 500.
Maxisanzione per il lavoro "nero"
L'art. 36 bis, comma 7, modifica la c.d. maxisanzione per il lavoro nero, introdotta nel 2002 dal D.L. n.
12/2002 (conv. da L. n. 73/2002). La legge di conversione del D.L. n. 223/2006 stabilisce che "ferma
restando l'applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l'impiego di lavoratori non
risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, è altresì punito con la sanzione
amministrativa da € 1.500 a € 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150 per ciascuna
giornata di lavoro effettivo. L'importo delle sanzioni civili connesse all'omesso versamento dei
contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a €
3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata".
Senza modificare il comma 4 dell'art. 3 del D.L. 12/2002 – secondo il quale "alla constatazione della
violazione procedono gli organi preposti ai controlli in materia fiscale, contributiva e del lavoro" – l'art.
36 bis sostituisce invece il comma 5 del predetto articolo, stabilendo che alla contestazione della
sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 14 della L. n. 689/1981 provvede il personale ispettivo della
Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente, Direzione che provvederà
successivamente ad emettere l'eventuale ordinanza di ingiunzione o di archiviazione. È infine stabilito
che nei confronti della sanzione non è ammessa la procedura di diffida di cui all'art. 13 del D.Lgs. n.
124/2004.
In proposito va anzitutto sottolineato che la sanzione si aggiunge ("ferma restando l'applicazione delle
sanzioni già previste dalla normativa in vigore") ad ogni ulteriore provvedimento di carattere
sanzionatorio legato all'utilizzo di manodopera irregolare (omessa comunicazione di assunzione,
omessa consegna della relativa dichiarazione, omessa denuncia all'INAIL del codice fiscale ecc.).
Va inoltre sottolineato che la fattispecie in argomento si realizza attraverso "l'impiego" di qualunque
tipologia di lavoratore a qualunque titolo e per qualsiasi ragione non risultante dalle scritture o da altra
documentazione obbligatoria, restando invece fuori dall'applicazione della sanzione tutte le forme di
prestazione lavorativa che occultano rapporti di lavoro subordinato dietro altre tipologie contrattuali (ad
es. contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto) sempre che risultino dalla
documentazione aziendale o da comunicazioni effettuate ad amministrazioni pubbliche.
Per quanto concerne l'importo sanzionatorio, è prevista una sanzione amministrativa da "€ 1.500 a €
12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo" e una
sanzione di natura civile connessa all'omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun
lavoratore non inferiore a € 3.000, "indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa
accertata".
Al riguardo si sottolinea che trattasi di una sanzione proporzionale che prevede un importo minimo e
massimo (€ 1.500 - € 12.000) ed un importo in misura fissa di € 150 per ciascuna giornata di lavoro
effettivo. Tale ultimo importo (€ 150 giornaliere) costituisce una mera maggiorazione della sanzione
edittale e perciò per esso non trova applicazione l'art. 16 della L. n. 689/1981.
Per quanto attiene ai profili contributivi, la sanzione civile prevista dalla norma trova applicazione
evidentemente con esclusivo riferimento ai contributi evasi, trattandosi di rapporti di lavoro totalmente
in nero. La quantificazione della stessa in misura comunque non inferiore ad € 3.000 per ciascun
lavoratore, e distintamente riferita alla contribuzione previdenziale e alla assicurazione INAIL,
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costituisce una scelta del legislatore che interviene a stabilire una soglia minima di tale misura afflittiva
nelle ipotesi in cui la quantificazione della stessa risulti inferiore a tale importo. Va peraltro precisato
che la sanzione trova evidentemente applicazione nelle ipotesi in cui sia scaduto il termine per il
versamento dei contributivi relativi al periodo di paga in corso al momento dell'accertamento.
Occorre infine precisare il regime sanzionatorio applicabile alle fattispecie di "impiego di lavoratori non
risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria", nelle ipotesi in cui la condotta sia
iniziata anteriormente all'entrata in vigore della L. n. 248/2006 (12 agosto 2006) e proseguita oltre tale
data. Trattasi, in altre parole, di un problema di successione di leggi nel tempo che sanzionano
condotte di natura permanente quale, per l'appunto, quella in esame.
Va premesso, anzitutto, che nel campo degli illeciti amministrativi trova applicazione il principio del
tempus regit actum, secondo il quale la disciplina applicabile è quella in vigore al momento della
commissione della violazione, senza che – come avviene invece in campo penale – debba valutarsi il
principio del favor rei alla luce delle previsioni sanzionatorie sopravvenute (v. circ. n. 37/2003). Per
quanto attiene alla consumazione dell'illecito di natura permanente tuttavia – come sostenuto dalla
dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria (Consiglio di Stato, sez. IV, 25 novembre 2003, n. 7769)
– bisogna tenere presente che lo stesso si realizza, non con l'inizio ma con la cessazione del
comportamento lesivo che, di norma, coincide con la data dell'accertamento da parte del personale
ispettivo. Nel caso in esame, pertanto, il rapporto di lavoro "in nero" iniziato prima del 12 agosto 2006
e proseguito oltre tale data rientra nel campo di applicazione della nuova disciplina introdotta dall'art.
36 bis, comma 7 che prevede, quale organo competente alla irrogazione della sanzione, la Direzione
provinciale del lavoro e non già l'Agenzia delle Entrate.
Facendo riserva di fornire ulteriori e più approfonditi chiarimenti in ordine alle problematiche sopra
evidenziate, si invita il personale ispettivo di attenersi alle indicazioni fornite con la presente circolare
04/10 Decreto Bersani
Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri interviene su tariffe e pubblicita'
Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha diramato, lo scorso 18 settembre, una circolare interpretativa
sulle novita' contenute nel decreto Bersani (D.L. 223/2006, come convertito dalla legge 248/2006), con
cui sono state introdotte disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi
professionali.
Tariffe inferiori ai minimi ma adeguate all'importanza dell'opera e al decoro della professione
La circolare si sofferma in particolare sugli "effetti concreti dell'abrogazione generalizzata di tutte le
disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero professionali
ed intellettuali, l'obbligatorietà delle tariffe nel settore dei contratti pubblici e nel settore privato", e
conclude nel senso che è ora possibile pattuire compensi professionali in deroga ai minimi stabiliti
dalle tariffe professionali, ma "il compenso deve essere adeguato all'importanza dell'opera e al decoro
della professione".
Pubblicità come elemento propulsivo della concorrenza.
Il decreto Bersani ha abrogato tutte le norme che prevedevano, per i liberi professionisti, il divieto
anche parziale di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le
caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni.
Osserva il CNI: "è chiara la ratio ispiratrice della norma, finalizzata ad attribuire alla pubblicità il ruolo
di elemento propulsivo della concorrenza".
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Pubblicità informativa
L'attività pubblicitaria che il professionista potrà porre in essere dovrà essere di tipo informativo;
quindi, "finalizzata a comunicare all'esterno i titoli e le specializzazioni professionali le caratteristiche
del servizio offerto, il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni".
Secondo il CNI, devono, di conseguenza, "ritenersi esclusi i messaggi pubblicitari volti a richiamare
l'attenzione su elementi marginali o addirittura diversi su quelli richiamati dalla norma".
In conclusione, alla luce del decreto Bersani, "soltanto rendendo noti i corrispettivi ai quali i
professionisti si impegnano a rendere la propria opera professionale, sarà possibile dare portata
pratica alla abrogazione delle norme che prevedevano l'obbligatorietà dei minimi tariffari".
Consiglio Nazionale degli Ingegneri
Circolare del 18 settembre 2006, protocollo CNI n. 3118
Osservazioni e considerazioni sull'interpretazione della l. 4 agosto 2006, n. 248 di conversione
del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, recante 'disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia di
entrate e contrasto all'evasione fiscale'
1. Premessa.
La presente circolare ha natura interpretativa ed è finalizzata a fornire indicazioni agli Ordini
professionali ed ai loro iscritti in ordine all'interpretazione delle norme del d.l. 4 Luglio 2006, n. 223,
come convertito dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, con cui sono state introdotte disposizioni urgenti per la
tutela della
concorrenza nel settore dei servizi professionali.
In particolare, oggetto della circolare saranno gli effetti concreti dell'abrogazione generalizzata di tutte
le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero
professionali ed intellettuali, l'obbligatorietà delle tariffe nel settore dei contratti pubblici e nel settore
privato.
Inoltre, verranno fornite prime e generali indicazioni sul potere di vigilanza attribuito dalla l. 4 agosto
2006, n. 248 agli ordini in merito alla veridicità ed alla trasparenza del messaggio pubblicitario.
2. L'abrogazione delle norme legislative e regolamentari che prevedono con riguardo alle
attività libero professionali l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime nel settore degli appalti
pubblici e nel settore privato.
Una prima questione che la presente circolare intende chiarire riguarda l'effettiva portata della norma
con cui sono state abrogate, in via generalizzata, tutte le disposizioni legislative e regolamentari
recanti l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime.
In particolare, si ritiene necessario distinguere il settore dei contratti pubblici dal settore privato. Ciò in
ragione di alcuni argomenti che - a nostro parere - inducono a ritenere non operante in materia di
contratti pubblici l'abrogazione dell'art. 92 del d.lgs. 163/06.
In sostanza, in base alla disposizione appena citata, il Codice degli appalti rinvia ad un apposito
regolamento ministeriale la determinazione dei corrispettivi minimi per alcune attività tipiche della
professione di ingegnere (1), statuendo il carattere inderogabile di tali corrispettivi e prevedendo la
nullità dell'eventuale patto contrario (2).
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Nelle more dell'emanazione del decreto previsto dal citato art. 92 trova applicazione l'analogo decreto
emanato in base all'art. 17 della L. 109/94.
Infatti, l'art. 253 comma 17 del d.lgs. n. 163/06 stabilisce che, fino alla ridefinizione delle tabelle dei
corrispettivi prevista dall'art. 92 del d.lgs. 163/06, "continua ad applicarsi quanto previsto nel decreto
del Ministro della Giustizia del 4 Aprile 2001 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 26 Aprile
2001"
L'interpretazione qui sostenuta, in base alla quale l'art. 2 comma 1 let. a) del decreto Bersani (con cui
è disposta l'abrogazione di tutte le disposizioni di legge e di regolamento che prevedono
l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime) non incide sul d.lgs. 163/06, noto come Codice dei Contratti
dei contratti pubblici, è confermata dagli argomento di seguito specificati.
a) In primo luogo, vale richiamare il tenore dell'art. 255 del d.lgs 163/06, che prevede la c.d."clausola
di resistenza".
In base a tale disposizione ogni intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie dallo stesso
disciplinate, andrebbe attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle
specifiche disposizioni in esso contenute.
La disposizione, che riproduce la norma di tenore analogo prevista dall'art. 1 comma 4 della l. 109/94,
implica la possibilità incidere su una delle materie disciplinate dal codice soltanto attraverso
l'introduzione di un'esplicita previsione normativa.
Al riguardo, in primo luogo, sembra porsi la questione relativa all'omesso riferimento, nel testo dell'art.
255, all'abrogazione quale modalità di intervento normativo incidente sul codice. Ma, a meno di volere
giungere a conclusioni illogiche, sembra da accogliere la tesi in base alla quale anche l'abrogazione
delle disposizioni contenute nel codice, seppure non espressamente richiamata, sarebbe sottoposta
alla predetta clausola di resistenza. Del resto l'abrogazione di una o più disposizioni del d.lgs.
163/2006 configurerebbe un intervento ancor più radicale rispetto a quelli espressamente citati
(modifica, integrazione, deroga o sospensione).
Tale orientamento sembra trovare un avallo nella relazione di accompagnamento al d.lgs. 163/2006,
che, nella parte che riguarda l'art. 255, inquadra il medesimo tra le disposizioni meramente riproduttive
dell'art. 1 comma 4 della l. 109/1994, in cui, invece, l'abrogazione era espressamente contemplata.
Tale circostanza sembra consentire di interpretare l'omesso riferimento all'abrogazione, nell'ambito
della disposizione dell'art. 255, quale semplice dimenticanza, inidonea a mutare l'effettiva portata della
clausola di resistenza nella nuova norma rispetto a quella previgente.
Semmai il problema si pone su altro piano. Occorre rilevare, infatti, come la dottrina costituzionalistica
abbia sempre dubitato della reale portata delle disposizioni legislative che considerano la sola
abrogazione espressa quale meccanismo di intervento su una determinata disciplina normativa
preesistente. La dottrina maggioritaria ritiene, infatti, che solo una fonte normativa superiore possa
restringere o allargare la forza delle leggi nella prospettiva della loro successione nel tempo (3).
Pertanto, la clausola "di sola abrogazione espressa" si configurerebbe, al massimo, come un invito
all'autolimitazione rivolto al futuro legislatore, magari allo scopo di preservare l'organicità e la coerenza
di un determinato testo legislativo (si pensi, appunto, al caso dei Codici o dei Testi unici). Tuttavia, pur
riconoscendo che ogni legge in ogni tempo può derogare o sovrapporsi con effetto abrogativo alle
norme delle leggi preesistenti, si può ritenere che la riserva di sola abrogazione espressa rivesta,
comunque, nei casi dubbi, una valenza interpretativa in favore della sopravvivenza della norma cui si
rivolge.
b) Ad ogni modo, la non riconducibilità delle disposizioni del codice degli appalti nell'ambito di
applicazione dell'art. 2 del decreto "Bersani" sembra possa essere dimostrata anche in base a due
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ordini di considerazioni, espressione dell'applicazione del criterio di specialità nella successione di
leggi nel tempo.
Da un lato, infatti, il d.lgs. 163/06 configura un autonomo nucleo organico di norme, un "microsistema" utilizzato dal legislatore per disciplinare un vasto assetto di interessi e che deve essere
valutato in ragione della propria logica settoriale.
Ciò indurrebbe a ritenere che norme generali, quali l'art. 2, non siano in grado di incidere sulla
disposizione speciale, seppure anteriore.
Dall'altro lato, l'intervento legislativo volto a incentivare il rilancio economico e la concorrenza nel
settore delle prestazioni professionali - caratterizzato per la sua generalità - è intervenuto ridefinendo il
sistema di regole relativo alle tariffe professionali rivolgendosi ad un assetto di interessi in parte
diverso da quello, particolare, che il legislatore del codice degli appalti ha tenuto presente proprio con
riguardo alle disposizioni in materia di prestazioni di ingegneria.
In materia di contratti pubblici, infatti, l'obbligo di ricorrere a procedure di evidenza pubblica, nonché il
fondamentale ruolo della progettazione e dei servizi affini nell'ambito del processo di realizzazione di
un'opera pubblica, inducono a ritenere che il sistema dei corrispettivi minimi - e non delle tariffe (ma
sul punto vedi infra) - costituisca un complesso normativo speciale, in quanto tale sottratto agli effetti
dell'abrogazione disposta dall'art. 2 del d.l. 223/06.
c) La non incidenza dell'abrogazione delle norme sull'obbligatorietà di tariffe minime rispetto alle
previsioni del codice degli appalti sembra potersi trarre anche dall'interpretazione letterale dell'art. 2
comma 1 let. a) del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, come convertito dalla l. 4 agosto 2006, n. 248.
Infatti, tale disposizione ha abrogato le norme di legge e di regolamento contenenti l'obbligatorietà di
tariffe fisse o minime.
L'art. 92 del d.lgs 163/06, invece, rinvia ad un regolamento ministeriale l'individuazione dei corrispettivi
minimi che devono essere stabiliti per alcune tipologie di attività rispetto ai quali le tariffe
rappresentano meri parametri di riferimento, come è dato evincere dal comma 2 del citato articolo, in
base al quale tali corrispettivi vengono stabiliti "tenendo conto delle tariffe previste per le categorie
professionali interessate".
Tale disposizione non fa altro che confermare la differenza tra tariffe e corrispettivi, differenza che
consente di definire l'ambito di applicazione del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla l. 4 agosto
2006, n. 248, in cui non sembra possano essere ricondotte le disposizioni del codice degli appalti in
materia di
corrispettivi per le attività tecniche contemplate dall'art. 92.
Peraltro, tale opzione ermeneutica sembra confermata dalla legge di conversione al decreto che ha
aggiunto al comma 2 dell'articolo 2 il seguente periodo: "nelle procedure ad evidenza pubblica le
stazioni appaltanti possono utilizzare le tariffe, ove motivatamente ritenute adeguate, quale criterio o
base di riferimento per la determinazione dei compensi per attività professionali".
Tale norma, infatti, qualificando le tariffe come meri criteri per la determinazione dei corrispettivi
riafferma la differenza tra queste e quelle, confermando al tempo stesso l'interpretazione qui proposta.
Tale disposizione, comunque, non è ridotta al rango di mero criterio interpretativo in quanto essa ha
una sua autonoma portata in relazione alle prestazioni professionali di ingegneria diverse da quelle
indicate nell'art. 90 del d. lgs. 163/06, ovvero affidate da soggetti aggiudicatori diversi da quelli tenuti
all'applicazione degli artt. 90 e ss. d. lgs. 163/06.
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d) Infine, ad ulteriore conferma dell'interpretazione in base alla quale l'abrogazione delle norme
contenenti l'obbligatorietà di tariffe minime non incide sul codice degli appalti, si sottolineano alcuni
argomenti di carattere sostanziale.
Infatti, le disposizioni in tema di affidamento dei servizi di ingegneria contemplati dall'articolo 90,
impongono lo svolgimento di procedure concorsuali in cui il corrispettivo posto a base di gara è,
proprio per l'intrinseca natura di una procedura di gara, sottoposto a ribasso, anche laddove venisse
utilizzato il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Di conseguenza, lasciare alle stazioni appaltanti la possibilità di scendere al di sotto di corrispettivi
minimi comporterebbe come conseguenza un'eccessiva riduzione dei compensi per le prestazioni
professionali di ingegneria.
Ciò avrebbe come ulteriore conseguenza la violazione dei parametri - rappresentati, per un verso, dal
decoro della professione e, per altro verso, dall'importanza dell'opera - cui la misura del compenso
professionale deve comunque essere riferita, nonché l'inevitabile peggioramento della qualità delle
prestazioni di ingegneria che hanno un'importanza vitale nella realizzazione delle opere pubbliche.
Infatti, il decreto non ha assolutamente inciso sulla portata applicativa dell'art. 2233 c.c. in base alla
quale la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della
professione.
Si consideri che la sanzione di nullità per i patti posti in deroga ai corrispettivi professionali minimi,
stabiliti dal d.m. previsto dall'art. 90 del d.lgs. 163/06 è espressione di una precisa valutazione del
legislatore in ordine alla rilevanza pubblicistica degli interessi sottesi alla misura dei compensi per le
attività professionali funzionali alla realizzazione di opere pubbliche.
Le considerazioni sopra svolte sembrano - a nostro avviso - tali da ritenere che la riforma, introdotta
con il decreto "Bersani", abbia determinato, con riguardo ai servizi professionali di ingegneria, il
seguente nuovo assetto normativo:
1) i corrispettivi delle prestazioni di ingegneria, richiamate nell'art. 90 del d.lgs. 163/06, non possono
essere posti in deroga ai corrispettivi minimi, atteso il carattere speciale della disciplina in materia di
contratti pubblici, in quanto tale sottratta all'abrogazione in forza del decreto "Bersani";
2) i contratti stipulati con corrispettivi inferiori ai minimi sono affetti da nullità, che ha carattere parziale
ed è sottoposta al meccanismo della sostituzione automatica delle clausole nulle. Di conseguenza, il
patto posto in deroga verrebbe sostituito dal corrispondete corrispettivo minimo previsto dalla tabella;
4) attualmente continua a trovare applicazione la tabella prevista dal d.m. 4 aprile 2001;
5) le stazioni appaltanti, chiamate ad affidare gli incarichi di ingegneria contemplati dall'art. 90 del
d.lgs. 163/06, dovranno porre a base della procedura per l'affidamento i corrispettivi individuati dalla
tabella di cui sopra, con l'avvertenza che il corrispettivo risultante dall'eventuale ribasso non dovrà
essere inferiore ai
minimi, salvo il disposto dell'art. 4, comma 12bis della legge 26 Aprile 1989, n. 155 che consente, per i
soggetti aggiudicatori in esso indicati, il ribasso del 20 per cento rispetto ai minimi;
6) le stazioni appaltanti per le prestazioni professionali diverse da quelle indicate dal citato articolo 90,
ed i soggetti aggiudicatori non tenuti all'applicazione degli artt. 90 e ss. applicheranno l'art. 2 comma 2
del d. l. 223/06 e, quindi, potranno utilizzare le tariffe, ove motivatamente ritenute adeguate, quale
criterio o base di riferimento per la determinazione dei compensi per attività professionali, e non
saranno tenute all'applicazione dei corrispettivi minimi di cui al citato d.m., né ad esse risulterà
applicabile la sanzione della nullità;
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7) nell'ambito individuato nel precedente punto 6, però, non si può escludere che i professionisti siano
sottoposti all'obbligo, sanzionabile in sede disciplinare, di individuare la misura del compenso in modo
che essa risulti adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione.
3. ... nel settore privato.
Tali considerazioni, valide per il settore degli appalti pubblici, non trovano invece riscontro nel settore
privato.
Infatti, l'abrogazione disposta dall'art. 2 comma 1 let. a) del decreto legge n. 223/2006, come
modificato dalla legge di conversione spiega sicura efficacia in relazione disposizione dell'articolo
unico della legge 5 maggio 1976, n. 340 che ha aggiunto un comma all'articolo unico della legge n.
143/1958, secondo cui "i minimi di tariffa per gli onorari a vacazione, a percentuale ed a quantità,
fissati falla legge 2 marzo 1949, n 143, o stabiliti secondo il disposto della presente legge, sono
inderogabili. L'inderogabilità non si applica agli onorari a discrezione per le prestazioni di cui
all'articolo 5 del testo unico approvato con la citata legge 2 marzo 1949, n. 143".
In particolare, deve intendersi abrogato l'articolo unico della legge 143/1958 nella parte in cui,
modificato dalla legge 340/1976, aveva sancito l'inderogabilità dei minimi tariffari.
A ben riflettere, con riguardo alle prestazioni professionali di ingegneria nel settore privato,
l'abrogazione introdotta con il decreto "Bersani" non sembra avere un impatto dirompente.
Ciò in quanto la norma che statuiva il principio dell'inderogabilità dei minimi tariffari non era presidiata
da una sanzione espressa di nullità per i patti negoziali posti in deroga.
Opzione ermeneutica questa, ormai consolidata nelle pronunce della Corte di Cassazione, secondo la
quale non è affetto da nullità il patto in deroga ai minimi inderogabili di tariffe professionali, essendo
questi stabiliti nell'interesse delle categorie professionali, interesse che può essere tutelato
adeguatamente in sede disciplinare.
La norma che prevedeva l'inderogabilità dei minimi tariffari nel settore privato, infatti, non era posta
nell'interesse generale della collettività, il solo idoneo giustificare l'imperatività del precetto ed a
rendere eventualmente nulli i patti ad esso contrari, bensì era posta nell'interesse della categoria
professionale.
Tale giudizio è stato, invece, differente, da parte del legislatore, in materia di prestazioni professionali
di ingegneria rese nei confronti di soggetti aggiudicatori per la realizzazione di opere pubbliche. In
questo settore, infatti, come precisato, la rilevanza di interessi generali, connessi alla realizzazione di
opere pubbliche, ha indotto il legislatore a comminare la sanzione della nullità per i patti posti in
deroga alle tariffe professionali.
Da ciò scaturisce che, nel settore privato, l'obbligatorietà dei minimi tariffari non trova più applicazione,
con la conseguenza che non potranno più essere sanzionati, quali violazioni delle norme
deontologiche, i patti negoziali posti in deroga ai minimi tariffari.
La determinazione dei compensi professionali nel settore privato sarà, pertanto, integralmente
rimessa alle libere pattuizioni tra privati e potrà anche discostarsi dalle tariffe professionali, che
assolveranno ad una
funzione meramente sussidiaria rispetto al generale potere di stabilire liberamente il compenso di cui
all'art. 2233 c.c.
Tuttavia, particolare attenzione si richiede agli ordini professionali nell'ambito dell'esercizio dei poteri
disciplinari in quanto, se è vero che il decreto "Bersani", con riguardo alle prestazioni rese dagli
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ingegneri, ha sottratto alla potestà disciplinare i professionisti che, nell'esercizio della professione,
pongano in essere patti in deroga ai minimi tariffari, è altrettanto vero che non risulta abrogata la
disposizione del secondo comma dell'art. 2233 c.c. in base alla quale "in ogni caso la misura del
compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione".
Di conseguenza, il professionista potrà pattuire compensi professionali in deroga ai minimi stabiliti
dalle tariffe professionali, ma non potrà, comunque, pattuire compensi di entità tale da menomare il
decoro della professione e, dunque, tali da violare il disposto del secondo comma dell'art. 2233 c.c.
Sotto questo profilo, l'attività di verifica del rispetto delle regole deontologiche da parte degli ordini
professionali acquista una maggiore importanza, trattandosi adesso di verificare in concreto la
proporzione tra attività posta in essere e compenso pattuito al fine di scrutinarne la compatibilità con il
nuovo sistema di regole deontologiche.
Sotto tale profilo, una prima indicazione operativa consiste nella possibilità per gli ordini professionali
di utilizzare i minimi tariffari quali indici sintomatici. In sostanza, la pattuizione di compensi in deroga ai
minimi, laddove questi erano stati normativamente considerati inderogabili, rappresenterebbe l'indizio
di una prestazione posta in violazione della regola codicistica che impone il rispetto del decoro della
professione, rispetto alla quale, il professionista, chiamato in sede disciplinare dovrebbe fornire la
prova contraria.
In conclusione, dunque, gli effetti prodotti dall'abrogazione delle disposizioni legislative e
regolamentari che prevedevano l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ha determinato il seguente
nuovo assetto normativo:
1) le parti possono pattuire compensi professionali in deroga ai minimi stabiliti dalle tariffe
professionali, ma sono tenute al rispetto del principio in base al quale il compenso deve essere
adeguato all'importanza dell'opera e al decoro della professione;
2) in caso di mancanza di convenzione pattizia sul compenso questo può essere determinato in base
alle tariffe professionali o dagli usi e, se non può essere in tal modo determinato, esso sarà stabilito
dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionali a cui il professionista appartiene;
3) il compenso, comunque, deve essere di misura tale da risultare adeguato all'importanza dell'opera
e al decoro della professione;
4) il compenso fissato in spregio ai criteri dettati dall'articolo 2233 c.c., richiamati al precedente punto,
può assumere rilevanza in sede disciplinare, sia pure con valenza meramente indiziaria.
4. La possibilità di svolgere attività pubblicitaria da parte dei professionisti ed il nuovo compito
di controllo sulla trasparenza e sulla veridicità dell'informazione pubblicitaria assegnato agli
ordini professionali.
Altra importante novità è l'introduzione da parte del decreto "Bersani" della possibilità per i
professionisti di svolgere attività pubblicitaria.
L'art. 2 comma 1 lett. b), infatti, abroga le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con
riferimento alle attività libero professionali, il divieto anche parziale di svolgere pubblicità informativa
circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i
costi complessivi delle prestazioni; la pubblicità dovrà rispondere, dunque, a criteri di trasparenza e
veridicità del messaggio, il cui rispetto sarà verificato dall'ordine, mentre sono individuati con
precisione gli elementi
dell'attività professionale che possono essere reclamizzati all'esterno.
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Una prima notazione riguarda la tipologia di attività pubblicitaria che il professionista può porre in
essere: si tratta, infatti, di pubblicità informativa; quindi, finalizzata a comunicare all'esterno i titoli e le
specializzazioni professionali le caratteristiche del servizio offerto, il prezzo e i costi complessivi delle
prestazioni. Devono, di conseguenza, ritenersi esclusi i messaggi pubblicitari volti a richiamare
l'attenzione su elementi marginali o addirittura diversi su quelli richiamati dalla norma.
È chiara la ratio ispiratrice della norma, finalizzata ad attribuire alla pubblicità il ruolo di elemento
propulsivo della concorrenza.
Soltanto rendendo noti i corrispettivi ai quali i professionisti si impegnano a rendere la propria opera
professionale, infatti, è possibile dare portata pratica alla abrogazione delle norme che prevedevano
l'obbligatorietà dei minimi tariffari.
È evidente che l'attività pubblicitaria posta in essere dovrà essere veritiera e trasparente.
Si apre dunque, un altro fronte per gli ordini professionali che acquistano un importanza
fondamentale, con il nuovo assetto normativo, proprio in ragione dell'attribuzione ad essi del compito,
qualificabile quale munus publico, di vigilare sulla vedicità sulla trasparenza e, verosimilmente, anche
sulla decorosità dell'attività pubblicitaria.
Roma, 18 settembre 2006
F.to per il CNI, il segretario, Renato Buscaglia, il presidente, Ferdinando Luminoso
Note
(1) Tali attività, indicate - sembrerebbe in modo tassativo - dal comma 1 dell'art. 90 del d.lgs. 163/06,
sono quelle relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla
direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo, alle attività del responsabile del
procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici.
(2) In base a tale disposizione "il Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro delle Infrastrutture
e dei Trasporti, determina, con proprio decreto, le tabelle dei corrispettivi delle attività (che possono
essere espletate dai soggetti di cui al comma 1 dell'articolo 90), tenendo conto delle tariffe previste per
le categorie professionali interessate. I corrispettivi sono minimi inderogabili ai sensi dell'ultimo comma
dell'articolo unico della legge 4 marzo 1958, n. 143, introdotto dall'articolo unico della legge 5 maggio
1976, n. 340. Ogni patto contrario è nullo. I corrispettivi delle attività di progettazione sono calcolati, ai
fini della determinazione dell'importo da porre a base dell'affidamento, applicando le aliquote che il
decreto di cui al comma 2 stabilisce".
La norma, poi, individua le modalità concrete di determinazione dei corrispettivi con riguardo alle varie
tipologie di attività.
In base al comma 4 dell'art. 92, inoltre, "i corrispettivi determinati ai sensi del comma 3, fatto salvo
quanto previsto dal comma 12-bis dell'articolo 4 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 65, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, sono minimi inderogabili ai sensi dell'ultimo comma
dell'articolo unico della legge 4 marzo 1958, n. 143, introdotto dall'articolo unico della legge 5 maggio
1976, n. 340. Ogni patto contrario è nullo".
(3) In proposito, A. Ruggeri, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino 2005, 62 ss.; in senso
opposto, P. Carnevale, Riflessioni sul problema dei vincoli all'abrogazione futura: il caso delle leggi
concernenti clausole"di sola abrogazione espressa" nella più recente prassi legislativa, in Dir.soc.,
1998 407 ss.
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28/09 DECRETO BERSANI
Diritto amministrativo Europeo
2006
31/10 Corte di Giustizia
La responsabilita' per danni dello Stato per violazione del diritto
comunitario
Uno Stato membro e' responsabile per i danni causati da una violazione manifesta del diritto
comunitario, compiuta da un giudice.
E la violazione e' sempre da ritenere "manifesta" quando la decisione interviene ignorando la
giurisprudenza della Corte di Giustizia.
E' quanto ha di recente stabilito la Corte di Giustizia, nel procedimento intentato dalla societa'
Traghetti del Mediterraneo contro lo Stato italiano.
Questi i fatti.
Nel 1981 l'impresa di trasporti marittimi la Traghetti del Mediterraneo (TDM) citava in giudizio la
Tirrenia di Navigazione, un'impresa concorrente, dinanzi al Tribunale di Napoli. La TDM intendeva
ottenere il risarcimento del danno che, a suo avviso, la concorrente le aveva arrecato a causa della
sua politica di prezzi bassi sul mercato del cabotaggio marittimo tra l'Italia continentale e le isole della
Sardegna e della Sicilia grazie al conseguimento di sovvenzioni pubbliche.
La TDM ha sostenuto, in particolare, che il comportamento contestato costituiva un atto di
concorrenza sleale, nonché un abuso di posizione dominante, vietato dal Trattato CE.
La domanda di risarcimento è stata respinta in tutti e tre i gradi di giudizio, ossia dal Tribunale di
Napoli, poi successivamente, dalla Corte d'appello di Napoli e, infine, dalla Corte di Cassazione.
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Ritenendo che la sentenza di tale ultimo giudice fosse fondata su un'errata interpretazione delle
norme comunitarie, il curatore fallimentare della TDM, società nel frattempo messa in liquidazione, ha
citato in giudizio la Repubblica italiana dinanzi al Tribunale di Genova.
Il suo ricorso è diretto ad ottenere il risarcimento del danno che la TDM avrebbe subito a seguito degli
errori di interpretazione commessi dal giudice supremo e a seguito della violazione dell'obbligo di
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee.
Il Tribunale di Genova ha chiesto alla Corte di Giustizia se il diritto comunitario e, in particolare, i
principi sanciti dalla Corte nella sentenza "Köbler" ostino ad una normativa nazionale quale la legge
italiana che, da un lato, esclude ogni responsabilità dello Stato membro per i danni causati a seguito
di una violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale di ultimo
grado allorquando tale violazione risulti da un'interpretazione delle norme di diritto o da una
valutazione dei fatti e delle prove ad opera di tale organo giurisdizionale e che, dall’altro lato, limita,
peraltro, tale responsabilità ai soli casi del dolo e della colpa grave del giudice.
La Corte di Giustizia, con la decisione che si riporta, ha anzitutto affermato che "il principio per il quale
uno Stato membro è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli per violazioni del diritto comunitario
ad esso imputabili vale in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario, e
qualunque sia l’organo di tale Stato la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione".
Secondo i Giudici europei, "escludere ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato
per il motivo che la violazione contestata al giudice nazionale riguarda l'interpretazione delle norme
giuridiche ovvero la valutazione effettuata da quest’ultimo su fatti o prove equivarrebbe a privare della
sua stessa sostanza il principio della responsabilità dello Stato e avrebbe come conseguenza che i
singoli non beneficerebbero di alcuna tutela giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di
ultimo grado commettesse un errore manifesto nell'esercizio di tali attività di interpretazione o di
valutazione".
La violazione delle norme comunitarie è da ritenere "manifesta", in relazione ad un certo numero di
criteri quali:
- il grado di chiarezza e di precisione della norma violata,
- il carattere scusabile o inescusabile dell’errore di diritto commesso,
- la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale.
La violazione "manifesta" è in ogni caso presunta quando la decisione interessata interviene
ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia. In conclusione, limitare la
sussistenza della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, è contrario al
diritto comunitario ove tale limitazione conduca ad escludere la sussistenza di responsabilità nel caso
in cui sia commessa una violazione manifesta del diritto vigente. Di seguito, il testo della decisione
della Corte di Giustizia.
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione
Sentenza del 13 giugno 2006
(presidente Skouris, estensore Timmermans)
Nel procedimento C-173/03,
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avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE,
dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella
causa
Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione,
contro
Repubblica italiana,
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sul principio e sulle condizioni per la sussistenza della
responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per i danni arrecati ai singoli da una violazione del
diritto comunitario, allorquando tale violazione è imputabile a un organo giurisdizionale nazionale.
2 Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una causa intentata contro la Repubblica italiana dalla
Traghetti del Mediterraneo SpA, impresa di trasporti marittimi, attualmente in liquidazione (in
prosieguo: la «TDM»), al fine di ottenere il risarcimento del danno che essa avrebbe subito a causa di
un’erronea interpretazione, da parte della Corte suprema di cassazione, delle norme comunitarie
relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato e, in particolare, per il rifiuto opposto da quest’ultima alla
sua richiesta di sottoporre alla Corte le pertinenti questioni di interpretazione del diritto comunitario.
Contesto normativo nazionale
3 Ai sensi dell’art. 1, n. 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 [sul] risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e [sulla] responsabilità civile dei magistrati (GURI n. 88 del 15
aprile 1988, pag. 3; in prosieguo: la «legge n. 117/88»), detta legge si applica «a tutti gli appartenenti
alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività
giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano
all’esercizio della funzione giudiziaria».
4 L’art. 2 della legge n. 117/88 prevede:
«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento
giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni
ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni
patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione
di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta
incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla
legge oppure senza motivazione».
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5 Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia
«il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso
il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il
provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di
deposito in cancelleria».
6 Gli articoli seguenti della legge n. 117/88 precisano le condizioni e le modalità per proporre
un’azione di risarcimento del danno ai sensi degli artt. 2 o 3 di detta legge, così come le azioni che
possono essere intraprese, a posteriori, nei confronti del magistrato che si sia reso colpevole di dolo o
colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, se non addirittura di un diniego di giustizia.
I fatti all’origine della controversia nella causa principale e le questioni pregiudiziali
7 La TDM e la Tirrenia di Navigazione (in prosieguo: la «Tirrenia») sono due imprese di trasporti
marittimi che, negli anni ’70, effettuavano regolari collegamenti marittimi tra l’Italia continentale e le
isole della Sardegna e della Sicilia. Nel 1981, mentre era stata sottoposta alla procedura di
concordato, la TDM citava la Tirrenia in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli al fine di ottenere il
risarcimento del pregiudizio che essa avrebbe subito, negli anni precedenti, a causa della politica di
prezzi bassi praticata da quest’ultima.
8 La TDM invocava, a tal riguardo, tanto la violazione, da parte della sua concorrente, dell’art. 2598, n.
3, del codice civile italiano, relativo agli atti di concorrenza sleale, quanto la violazione degli artt. 85,
86, 90 e 92 del Trattato CEE (divenuti, rispettivamente, artt. 85, 86, 90 e 92 del Trattato CE, a loro
volta diventati artt. 81 CE, 82 CE, 86 CE, e, in seguito a modifica, 87 CE) per il fatto che, a suo parere,
la Tirrenia aveva violato le norme fondamentali di tale Trattato, e in particolare aveva abusato della
propria posizione dominante sul mercato in questione, praticando tariffe notevolmente inferiori al
prezzo di costo grazie al conseguimento di sovvenzioni pubbliche la cui legittimità sarebbe stata
dubbia alla luce del diritto comunitario.
9 Con sentenza del Tribunale di Napoli 26 maggio 1993, confermata in appello dalla sentenza 13
dicembre 1996 della Corte d’appello di Napoli, tale domanda di risarcimento veniva tuttavia respinta
dai giudici italiani, poiché le sovvenzioni concesse dalle autorità di tale Stato erano legittime in quanto
perseguivano obiettivi di interesse generale connessi, in particolare, allo sviluppo del Mezzogiorno ed
in quanto, in ogni caso, non recavano pregiudizio all’esercizio di attività di trasporto marittimo diverse
e concorrenti rispetto a quelle censurate dalla TDM. Pertanto, nessun atto di concorrenza sleale
poteva essere imputato alla Tirrenia.
10 Ritenendo, da parte sua, che queste due sentenze fossero viziate da errori di diritto, in quanto
fondate, in particolare, su un’interpretazione erronea delle norme del Trattato in materia di aiuti di
Stato, il curatore fallimentare della TDM proponeva contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli
un ricorso in cassazione, nell’ambito del quale invitava la Corte suprema di cassazione a sottoporre
alla Corte, ai sensi dell’art. 177, terzo comma, del Trattato CE (divenuto articolo 234, terzo comma,
CE), le pertinenti questioni d’interpretazione del diritto comunitario.
11 Con sentenza 19 aprile 2000, n. 5087 (in prosieguo: la «sentenza 19 aprile 2000»), la Corte
suprema di cassazione tuttavia rifiutava di accogliere tale istanza poiché la soluzione adottata
dai giudici di merito rispettava la lettera delle pertinenti disposizioni del Trattato ed era, per di
più, perfettamente conforme alla giurisprudenza della Corte, in particolare alla sentenza 22
maggio 1985, causa 13/83, Parlamento/Consiglio (Racc. pag. 1513).
12 Per giungere a tale conclusione, la Corte suprema di cassazione rilevava, da un lato, riguardo alla
presunta violazione degli artt. 90 e 92 del Trattato, che tali articoli permettono di derogare, a certe
condizioni, al divieto generale degli aiuti di Stato al fine di favorire lo sviluppo economico di regioni
svantaggiate o di soddisfare domande di beni e servizi che il gioco della libera concorrenza non
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permette di soddisfare pienamente. Orbene, secondo tale giudice, tali condizioni ricorrerebbero
appunto nella fattispecie in quanto, nel corso del periodo contestato (cioè tra il 1976 e il 1980), i
trasporti di massa tra l’Italia continentale e le sue isole maggiori potevano essere assicurati, attesi i
loro costi, solo per via marittima, cosicché sarebbe stato necessario soddisfare la domanda, sempre
più pressante, per tale tipo di servizi affidando la gestione di tali trasporti ad un concessionario
pubblico che praticava una tariffa imposta.
13 Secondo lo stesso giudice, la distorsione della concorrenza che deriverebbe dall’esistenza di tale
concessione non comporterebbe, tuttavia, l’illegittimità automatica dell’aiuto accordato. In effetti,
l’attribuzione di una tale concessione di servizio pubblico comporterebbe sempre, implicitamente, un
effetto distorsivo della concorrenza e la TDM non sarebbe riuscita a dimostrare che la Tirrenia avesse
tratto vantaggio dall’aiuto accordato dallo Stato per realizzare utili connessi ad attività diverse da
quelle per cui le sovvenzioni erano state effettivamente concesse.
14 Dall’altro lato, quanto al motivo relativo alla violazione degli artt. 85 e 86 del Trattato, la Corte
suprema di cassazione lo ha respinto in quanto infondato poiché, all’epoca dei fatti della controversia,
l’attività di cabotaggio marittimo non era ancora stata liberalizzata e poiché la natura ed il contesto
territoriale limitati di tale attività non consentivano di individuare chiaramente il mercato rilevante ai
sensi dell’art. 86 del Trattato. In siffatto contesto, tale giudice ha, tuttavia, rilevato che, se era difficile
identificare detto mercato, una concorrenza reale poteva nondimeno esercitarsi nel settore interessato
dal momento che l’aiuto concesso nella fattispecie riguardava solamente una delle attività tra quelle,
numerose, tradizionalmente svolte da un’impresa di trasporto marittimo e che era per di più limitata ad
un solo Stato membro.
15 In tali circostanze, la Corte suprema di cassazione ha, di conseguenza, respinto il ricorso per cui
era stata adita, dopo aver rigettato anche le censure sollevate dalla TDM riguardo alla violazione delle
disposizioni nazionali relative agli atti di concorrenza sleale e all’omissione da parte della Corte
d’appello di Napoli di statuire sulla domanda della TDM diretta a sottoporre alla Corte le pertinenti
questioni d’interpretazione. Precisamente tale decisione di rigetto è all’origine del procedimento
pendente dinanzi al giudice del rinvio.
16 Infatti, ritenendo che la sentenza 19 aprile 2000 fosse fondata su un’errata interpretazione delle
norme del Trattato in materia di concorrenza e di aiuti di Stato e sulla premessa erronea dell’esistenza
di una giurisprudenza costante della Corte in materia, il curatore fallimentare della TDM, società nel
frattempo messa in liquidazione, citava la Repubblica italiana dinanzi al Tribunale di Genova per
ottenere la condanna di quest’ultima al risarcimento del danno che tale impresa avrebbe subito a
causa degli errori di interpretazione commessi dalla Corte suprema di cassazione e a causa della
violazione dell’obbligo di rinvio che graverebbe a carico di quest’ultimo organo giurisdizionale ai sensi
dell’art. 234, terzo comma, CE.
17 A tal riguardo, fondandosi, segnatamente, sulla decisione della Commissione 21 giugno 2001,
2001/851/CE, relativa agli aiuti di Stato corrisposti dall’Italia alla compagnia marittima Tirrenia di
Navigazione (GU L 318, pag. 9) – decisione riguardante, sì, sovvenzioni concesse successivamente
al periodo controverso nella causa principale, ma adottata al termine di un procedimento avviato dalla
Commissione delle Comunità europee prima dell’udienza dibattimentale della Corte suprema di
cassazione nella causa conclusasi con sentenza 19 aprile 2000 – la TDM sostiene che, se
quest’ultimo giudice si fosse rivolto alla Corte, l’esito del ricorso in cassazione sarebbe stato
completamente diverso. Al pari della Commissione, nella summenzionata decisione, la Corte avrebbe,
infatti, rilevato la dimensione comunitaria delle attività di cabotaggio marittimo così come le difficoltà
inerenti alla valutazione della compatibilità di sovvenzioni pubbliche con le norme del Trattato in
materia di aiuti di Stato, il che avrebbe portato la Corte di cassazione a dichiarare illegittimi gli aiuti
concessi alla Tirrenia.
18 La Repubblica italiana contesta la ricevibilità stessa di tale azione di risarcimento, basandosi sul
tenore della legge n. 117/88, ed in particolare sul suo art. 2, n. 2, ai sensi del quale l’interpretazione di
norme giuridiche effettuata nell’ambito dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali non potrebbe
comportare la responsabilità dello Stato. Tuttavia, nel caso in cui la ricevibilità di tale ricorso dovesse
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essere ammessa dal giudice del rinvio, essa sostiene, in subordine, che il ricorso deve in ogni caso
essere respinto poiché non ricorrerebbero i presupposti per un rinvio pregiudiziale e la sentenza 19
aprile 2000, passata in giudicato, non potrebbe più essere rimessa in discussione.
19 In risposta a tali argomentazioni, la TDM si interroga sulla compatibilità della legge n. 117/88 con le
prescrizioni del diritto comunitario. Essa sostiene, in particolare, che le condizioni di ricevibilità delle
azioni previste da tale legge e la prassi seguita in materia dagli organi giurisdizionali nazionali (tra cui
la stessa Corte suprema di cassazione) sono talmente restrittive che rendono eccessivamente difficile,
se non addirittura impossibile, il conseguimento di un risarcimento da parte dello Stato dei danni
causati da provvedimenti giurisdizionali. Di conseguenza, una tale normativa sarebbe in contrasto con
i principi sanciti dalla Corte, in particolare, nelle sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e
C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357), e 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93,
Brasserie du pêcheur et Factortame (Racc. pag. I-1029).
20 Pertanto, nutrendo dubbi quanto alla soluzione da dare alla controversia dinanzi ad esso pendente
nonché quanto alla possibilità di estendere al potere giudiziario i principi sanciti dalla Corte, nelle
sentenze citate al punto precedente, relative alle violazioni del diritto comunitario commesse
nell’esercizio di un’attività legislativa, il Tribunale di Genova ha deciso di sospendere il giudizio e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se uno Stato [membro] risponda a titolo di responsabilità extracontrattuale nei confronti dei singoli
cittadini degli errori dei propri giudici nell’applicazione del diritto comunitario o della mancata
applicazione dello stesso e in particolare del mancato assolvimento da parte di un giudice di ultima
istanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234, comma 3, del
Trattato.
2) Nel caso in cui debba ritenersi che uno Stato membro risponda degli errori dei propri giudici
nell’applicazione del diritto comunitario e in particolare dell’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di
Giustizia da parte di un giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 234, comma 3, del Trattato, se osti
all’affermazione di tale responsabilità – e sia quindi incompatibile con i principi del diritto comunitario –
una normativa nazionale in tema di responsabilità dello Stato per errori dei giudici che:
– esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di diritto e di
valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria,
– limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice».
21 A seguito della pronuncia della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler (Racc. pag. I10239), il cancelliere della Corte ha inviato copia di tale sentenza al giudice del rinvio chiedendogli se,
alla luce del contenuto della sentenza, ritenesse utile mantenere la sua domanda pregiudiziale.
22 Con lettera 13 gennaio 2004, pervenuta alla cancelleria della Corte il 29 gennaio seguente, il
Tribunale di Genova, sentite le parti della causa principale, ha ritenuto che la summenzionata
sentenza Köbler fornisse una risposta esauriente alla prima delle due questioni da esso proposte, di
modo che non è più necessario che la Corte si pronunci su di essa.
23 Esso ha, invece, ritenuto utile mantenere la sua seconda questione affinché la Corte si pronunci,
«anche alla luce dei principi affermati (…) nella sentenza Köbler», sulla questione se «osti
all’affermazione della responsabilità dello stato per violazioni imputabili a un organo giurisdizionale
nazionale una normativa nazionale in tema di responsabilità dello stato per errori del giudice che,
come quella italiana, esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di
diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria e limita la
responsabilità dello stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice».
Sulla questione pregiudiziale
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24 In via preliminare, occorre rilevare che la causa pendente dinanzi al giudice del rinvio ha per
oggetto un’azione diretta a far sorgere la responsabilità dello Stato per una decisione, non
impugnabile, emessa da un organo giurisdizionale supremo. La questione proposta dal giudice del
rinvio deve quindi essere intesa come vertente, in sostanza, sulla questione se il diritto comunitario e,
in particolare, i principi sanciti dalla Corte nella summenzionata sentenza Köbler, ostino ad una
normativa nazionale come quella di cui alla causa principale, che, da un lato, esclude ogni
responsabilità dello Stato membro per i danni causati ai singoli a seguito di una violazione del diritto
comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado allorquando tale
violazione risulta da un’interpretazione delle norme di diritto o da una valutazione dei fatti e delle prove
ad opera di tale organo giurisdizionale e che, dall’altro lato, limita, peraltro, tale responsabilità ai soli
casi del dolo e della colpa grave del giudice.
25 Per la TDM, come per la Commissione, tale questione richiede chiaramente una risposta
affermativa. Infatti, dal momento che la valutazione dei fatti e delle prove nonché l’interpretazione
delle norme di diritto sarebbero inerenti all’attività giurisdizionale, l’esclusione, in tali casi, della
responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito dell’esercizio di tale attività
equivarrebbe, in pratica, ad esonerare quest’ultimo da ogni responsabilità per violazioni del diritto
comunitario imputabili al potere giudiziario.
26 Per quanto riguarda, peraltro, la limitazione di detta responsabilità ai soli casi del dolo o della colpa
grave del giudice, anch’essa sarebbe di natura da condurre ad un’esenzione di fatto da ogni
responsabilità dello Stato, poiché, da un lato, la nozione stessa di «colpa grave» non sarebbe lasciata
alla libera valutazione del giudice chiamato a statuire su un’eventuale domanda di risarcimento dei
danni causati da una decisione giurisdizionale, ma sarebbe rigorosamente delimitata dal legislatore
nazionale, che enumererebbe preliminarmente – ed in modo tassativo – le ipotesi di colpa grave.
27 Secondo la TDM si desumerebbe, dall’altro lato, dall’esperienza acquisita in Italia nell’attuazione
della legge n. 117/88 che gli organi giurisdizionali di detto Stato, in particolare, la Corte suprema di
cassazione, darebbero una lettura estremamente restrittiva di tale legge, così come delle nozioni di
«colpa grave» e di «negligenza inescusabile». Questi nozioni sarebbero interpretate da tale ultimo
organo giurisdizionale come una «violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma» o
contenente una lettura di essa «in termini contrastanti con ogni criterio logico», il che condurrebbe, in
pratica, al rigetto quasi sistematico delle denunce presentate contro lo Stato italiano.
28 Al contrario, secondo il governo italiano, sostenuto, su tale punto, dall’Irlanda e dal governo del
Regno Unito, una normativa nazionale come quella di cui alla causa principale sarebbe perfettamente
conforme ai principi stessi del diritto comunitario dal momento che essa realizzerebbe un giusto
equilibrio tra la necessità di preservare l’indipendenza del potere giudiziario e gli imperativi della
certezza del diritto, da un lato, e la concessione di una tutela giurisdizionale effettiva ai singoli nei casi
più evidenti di violazioni del diritto comunitario imputabili al potere giudiziario, dall’altro lato.
29 In tale ottica, ove dovesse essere riconosciuta, la responsabilità degli Stati membri per i danni
risultanti da tali violazioni dovrebbe dunque essere limitata ai soli casi in cui si possa identificare una
violazione sufficientemente grave del diritto comunitario. Tuttavia, essa non potrebbe sussistere
qualora un organo giurisdizionale nazionale abbia deciso una controversia sulla base di
un’interpretazione degli articoli del Trattato che si rispecchi adeguatamente nella motivazione fornita
da tale organo giurisdizionale.
30 A tal riguardo, occorre ricordare che, nella summenzionata sentenza Köbler, pronunciata
successivamente alla data in cui il giudice del rinvio s’è rivolto alla Corte, quest’ultima ha ricordato che
il principio per il quale uno Stato membro è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli per violazioni
del diritto comunitario che gli sono imputabili ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione
del diritto comunitario, qualunque sia l’organo di tale Stato la cui azione od omissione ha dato origine
alla trasgressione (v. punto 31 di detta sentenza).
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31 Al riguardo, fondandosi in particolare sul ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario
nella tutela dei diritti che derivano ai singoli dalle norme comunitarie, nonché sulla
circostanza che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce, per definizione, l’ultima
istanza dinanzi alla quale essi possono far valere i diritti che il diritto comunitario conferisce
loro, la Corte ne ha dedotto che la tutela di tali diritti sarebbe indebolita – e la piena efficacia
delle norme comunitarie che conferiscono simili diritti sarebbe rimessa in questione – se fosse
escluso che i singoli potessero ottenere, a talune condizioni, il risarcimento dei danni loro
arrecati da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo
giurisdizionale di ultimo grado (v. sentenza Köbler, cit., punti 33-36).
32 È vero che, considerate la specificità della funzione giurisdizionale nonché le legittime esigenze
della certezza del diritto, la responsabilità dello Stato, in un caso del genere, non è illimitata. Come la
Corte ha affermato, tale responsabilità può sussistere solo nel caso eccezionale in cui l’organo
giurisdizionale che ha statuito in ultimo grado abbia violato in modo manifesto il diritto vigente. Al fine
di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di
risarcimento danni deve, a tal riguardo, tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione
sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma
violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto,
della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata
osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai
sensi dell’art. 234, terzo comma, CE (sentenza Köbler, cit., punti 53-55).
33 Considerazioni analoghe, connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione
giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano, allo stesso modo, a
che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto
comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti
dall’interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale.
34 Da un lato, infatti, l’interpretazione delle norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria
dell’attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di
fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti –
nazionali e/o comunitarie – al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.
35 Dall’altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente
venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice
dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea,
in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (v., a questo riguardo,
la summenzionata sentenza Köbler, punto 56), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre,
in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
36 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 52 delle sue conclusioni, escludere, in simili
circostanze, ogni responsabilità dello Stato a causa del fatto che la violazione del diritto comunitario
deriva da un’operazione di interpretazione delle norme giuridiche effettuata da un organo
giurisdizionale equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio sancito dalla Corte nella
citata sentenza Köbler. Tale constatazione vale, a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di
ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l’interpretazione uniforme delle norme
giuridiche.
37 Si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera
generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione
imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove.
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38 Da un lato, infatti, una simile valutazione costituisce, così come l’attività di interpretazione delle
norme giuridiche, un altro aspetto essenziale dell’attività giurisdizionale poiché, indipendentemente
dall’interpretazione effettuata dal giudice nazionale investito di una determinata causa, l’applicazione
di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione che egli avrà compiuto sui fatti del
caso di specie così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle
parti in causa.
39 Dall’altro lato, una tale valutazione – che richiede a volte analisi complesse – può condurre
ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente, sia essa effettuata nell’ambito
dell’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o
all’ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell’ambito dell’applicazione di norme che richiedono una
qualificazione giuridica dei fatti.
40 Escludere, in tali casi, ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato poiché la
violazione contestata al giudice nazionale riguarda la valutazione effettuata da quest’ultimo su fatti o
prove equivarrebbe altresì a privare di effetto utile il principio sancito nella summenzionata sentenza
Köbler, per quanto riguarda le manifeste violazioni del diritto comunitario che sarebbero imputabili agli
organi giurisdizionale.
Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale
responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad
escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia
stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della
sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler.
41 Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 87-89 delle sue conclusioni, ciò avviene, in
particolare, in materia di aiuti di Stato. Escludere, in tale settore, qualunque responsabilità dello Stato
poiché la violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale
risulterebbe da una valutazione dei fatti rischia di condurre a un indebolimento delle garanzie
procedurali offerte ai singoli in quanto la salvaguardia dei diritti che essi traggono dalle pertinenti
disposizioni del Trattato dipende, in larga misura, da successive operazioni di qualificazione giuridica
dei fatti. Orbene, nell’ipotesi in cui la responsabilità dello Stato fosse esclusa in maniera assoluta, a
seguito delle valutazioni operate su determinati fatti da un organo giurisdizionale, tali singoli non
beneficerebbero di alcuna protezione giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo
grado commettesse un errore manifesto nel controllo delle summenzionate operazioni di
qualificazione giuridica dei fatti.
42 Riguardo, infine, alla limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o di colpa grave
del giudice, occorre ricordare, come rilevato al punto 32 della presente sentenza, che la Corte, nella
summenzionata sentenza Köbler, ha dichiarato che la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai
singoli a causa di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale
nazionale di ultimo grado poteva sorgere nel caso eccezionale in cui tale organo giurisdizionale
avesse violato in modo manifesto il diritto vigente.
43 Tale violazione manifesta si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il
grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell’errore
di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del
suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, ed è presunta, in ogni caso,
quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in
materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).
44 Pertanto, se non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al
grado di una violazione, da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato per
violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, tali
criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di
una manifesta violazione del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della summenzionata
sentenza Köbler.
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45 Il diritto al risarcimento sorgerà, dunque, se tale ultima condizione è soddisfatta, non appena sarà
stato stabilito che la norma di diritto violata ha per oggetto il conferimento di diritti ai singoli e che
esiste un nesso di causalità diretto tra la violazione manifesta invocata e il danno subito
dall’interessato (v., segnatamente, a tale riguardo, le summenzionate sentenze Francovich e a., punto
40; Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 51, nonché Köbler, punto 51). Come risulta, in
particolare, dal punto 57 della citata sentenza Köbler, tali tre condizioni sono, in effetti, necessarie e
sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la
responsabilità dello Stato possa essere accertata a condizioni meno restrittive in base al diritto
nazionale.
46 Alla luce di quanto sopra considerato, si deve quindi risolvere la questione proposta dal giudice del
rinvio, come riformulata con la sua lettera 13 gennaio 2004, nel senso che il diritto comunitario osta ad
una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per
i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo
giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione
delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo
giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza
di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse
ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia
stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della citata
sentenza Köbler.
Sulle spese
47 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la
responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto
comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione
controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle
prove operate da tale organo
31/10 Dal 6 novembre
Il regolamento con le nuove regole sul bagaglio a mano negli aerei
Nuove regole sulla sicurezza in tutti gli aeroporti dell'Unione Europea (e in Norvegia, Islanda e
Svizzera).
Sono state introdotte dal Regolamento della Commissione Europea del 4 ottobre scorso, pubblicato
nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 17 ottobre. Decorsi i venti giorni previsti di vacatio
legis, le nuove norme entrano in vigore il 6 prossimo novembre.
Le nuove previsioni, che trovano applicazione anche sui voli nazionali, mirano a prevenire le nuove
minacce terroristiche, effettuate con utilizzo di esplosivi in forma liquida.
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In base al nuovo regolamento è consentito portare a bordo, nel bagaglio a mano, solo una piccola
quantità di liquidi, in recipienti ciascuno di capacità massima di 100 millilitri o di misura equivalente,
che dovranno essere inseriti in sacchetti di plastica trasparente e risigillabili con capienza massima di
un litro oppure di dimensioni, ad esempio, di circa 18 cm x 20 cm. Questi sacchetti dovranno essere
trasportati separatamente dall'altro bagaglio a mano.
Per ogni passeggero sarà consentita solo una busta
Tra gli articoli liquidi che sarà possibile portare a bordo solo in piccole quantità vi sono: acqua ed altre
bevande, profumi, gel (inclusi prodotti gelatinosi per capelli e per la cura del corpo come bagno
schiuma e doccia schiuma), sostanze in pasta (incluso il dentifricio), mascara, creme, lozioni ed oli,
spray, contenuto di recipienti pressurizzati (incluse schiume da barba, altre schiume e deodoranti),
miscele di liquidi e solidi, nonché ogni altro prodotto di consistenza analoga.
E' pure utile consultare il documento informativa per i passeggeri, pubblicato sul sito dell'Ente
Nazionale per l'Aviazione Civile (ENAC).
Di seguito, il testo del Regolamento, in cui tuttavia, l'allegato è stato secretato (cfr. il terzo
"considerando").
Commissione delle Comunità Europee
Regolamento (CE) n. 1546/2006 del 4 ottobre 2006
recante modifica del regolamento (CE) n. 622/2003 della Commissione che stabilisce talune
misure di applicazione delle norme di base comuni sulla sicurezza dell'aviazione
(Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 17.10.2006)
La Commissione delle Comunità Europee
visto il trattato che istituisce la Comunità europea,
visto il regolamento (CE) n. 2320/2002 del Parlamento europeo essere introdotti negli aeromobili. e
del Consiglio, del 16 dicembre 2002, che istituisce norme comuni per la sicurezza dell'aviazione civile
(1), in particolare
l’articolo 4, paragrafo 2,
considerando quanto segue:
1) A norma del regolamento (CE) n. 2320/2002 la Commissione è tenuta ad adottare, se necessario,
misure di attuazione delle norme di base comuni per la sicurezza dell'aviazione in tutta la Comunità
europea. Il regolamento (CE) n. 622/2003 della Commissione, del 4 aprile 2003, che stabilisce talune
misure di applicazione delle norme di base comuni sulla sicurezza dell'aviazione (2) è stato il primo
atto normativo contenente tali misure.
2) Sono necessarie misure che precisino ulteriormente le norme di base comuni, in particolare per far
fronte al rischio crescente connesso all'introduzione di esplosivi liquidi negli aeromobili. Tali misure
devono essere riesaminate ogni sei mesi, alla luce dell’evoluzione tecnica, delle implicazioni di
carattere operativo per gli aeroporti e dell’impatto sui passeggeri.
3) A norma del regolamento (CE) n. 2320/2002 e al fine di prevenire atti di interferenza illecita, le
misure istituite nell’allegato del regolamento (CE) n. 622/2003 devono essere segrete e non devono
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essere pubblicate. La stessa regola vale necessariamente per tutti gli atti modificativi. I passeggeri
devono comunque essere chiaramente informati delle regole applicabili agli articoli che non possono
essere introdotti negli aeromobili.
4) Il regolamento (CE) n. 622/2003 deve essere modificato di conseguenza.
5) Le misure di cui al presente regolamento sono conformi al parere del comitato per la sicurezza
dell'aviazione civile,
Ha adottato il seguente regolamento
Articolo 1
L'allegato del regolamento (CE) n. 622/2003 è modificato conformemente all'allegato del presente
regolamento.
Ai fini della riservateza del presente allegato si applica l'articolo 3 del suddetto regolamento.
Articolo 2
Il presente regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno
degli Stati membri.
Bruxelles, 4 ottobre 2006.
Allegato
A norma dell’articolo 1, l'allegato è stato segregato
Note
(1) Regolamento modificato dal regolamento (CE) n. 849/2004.
(2) Regolamento modificato da ultimo dal regolamento (CE) n. 240/2006
31/10 Corte di Giustizia
L'avvocato puo' esercitare all'estero senza conoscere la lingua
Ogni avvocato ha diritto ad esercitare stabilmente la sua attività in qualsiasi Stato membro con il suo
titolo professionale d'origine senza essere soggetto alla preventiva verifica delle sue conoscenze
linguistiche.
E' quanto ha affermato la Corte di Giustizia, con sentenza, depositate il 19 settembre scorso.
Il Lussemburgo prevedeva, per chi volesse esercitare la professione di avvocato nel proprio territorio,
il requisito della "padronanza della lingua della legislazione e delle lingue amministrative e giudiziarie"
ed imponeva una previa verifica di tali conoscenze. La Corte ha chiarito che il professionista dovrà
comunque essere in possesso, in concreto e in relazione alla peculiarità della vicenda da lui seguita,
delle necessarie conoscenze giuridiche e linguistiche. Infine, la Corte ha affermato che i rimedi
"interni" previsti per tali casi dall'ordinamento lussemburghese non forniscono le medesime garanzie
di imparzialità dei rimedi giurisdizionali: "in caso di diniego dell'iscrizione al foro dello Stato membro
ospitante, un ricorso presentato dinanzi ad un collegio disciplinare composto esclusivamente o
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prevalentemente di avvocati locali non può essere ritenuto equivalente al rituale ricorso giurisdizionale
che la direttiva impone agli Stati membri di prevedere per tali casi".
Corte di giustizia, Grande Sezione
Sentenza del 19 settembre 2006
(presidente Skouris, relatore Lenaerts)
cause C-506/04 e C-193/05
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della
professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica
(GU L 77, pag. 36).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta in seguito al rifiuto, da parte
del conseil de l’ordre des avocats du barreau de Luxembourg (Consiglio dell’ordine degli avvocati del
foro di Lussemburgo; in prosieguo: il «consiglio dell’ordine») d’iscrivere il sig. Graham J. Wilson,
cittadino del Regno Unito, all’albo dell’ordine degli avvocati di Lussemburgo.
Contesto normativo
La direttiva 98/5
3 Ai sensi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 98/5:
«Gli avvocati hanno il diritto di esercitare stabilmente le attività di avvocato precisate all’articolo 5 in
tutti gli altri Stati membri con il proprio titolo professionale di origine».
4 L’art. 3 della direttiva 98/5, rubricato «Iscrizione presso l’autorità competente», dispone quanto
segue:
«1. L’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la
sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro.
2. L’autorità competente dello Stato membro ospitante procede all’iscrizione dell’avvocato su
presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità
competente dello Stato membro di origine. Essa può esigere che l’attestato dell’autorità competente
dello Stato membro di origine non sia stato rilasciato prima dei tre mesi precedenti la sua
presentazione. Essa dà
comunicazione dell’iscrizione all’autorità competente dello Stato membro di origine.
5 L’art. 5 della direttiva 98/5, intitolato «Campo di attività», stabilisce quanto segue:
«1. Salvo i paragrafi 2 e 3, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine svolge le
stesse attività professionali dell’avvocato che esercita con il corrispondente titolo professionale dello
Stato membro ospitante, e può, in particolare, offrire consulenza legale sul diritto del proprio Stato
membro d’origine, sul diritto comunitario, sul diritto internazionale e sul diritto dello Stato membro
ospitante. Esso rispetta comunque le norme di procedura applicabili dinanzi alle giurisdizioni nazionali.
2. Gli Stati membri che autorizzano una determinata categoria di avvocati a redigere sul loro territorio
atti che conferiscono il potere di amministrare i beni dei defunti o riguardanti la costituzione o il
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trasferimento di diritti reali immobiliari, che in altri Stati membri sono riservati a professioni diverse da
quella dell’avvocato, possono escludere da queste attività l’avvocato che esercita con un titolo
professionale di origine rilasciato in uno di questi ultimi Stati membri.
3. Per l’esercizio delle attività relative alla rappresentanza ed alla difesa di un cliente in giudizio e nella
misura in cui il proprio diritto riservi tali attività agli avvocati che esercitano con un titolo professionale
dello Stato membro ospitante, quest’ultimo può imporre agli avvocati che ivi esercitano con il proprio
titolo professionale di origine di agire di concerto con un avvocato che eserciti dinanzi alla
giurisdizione adita e il quale resta, eventualmente, responsabile nei confronti di tale giurisdizione,
oppure con un “avoué” patrocinante dinanzi ad essa.
Ciononostante, per assicurare il buon funzionamento della giustizia, gli Stati membri possono stabilire
norme specifiche di accesso alle Corti supreme, quali il ricorso ad avvocati specializzati».
6 L’art. 9 della direttiva 98/5, rubricato «Motivazione e ricorso giurisdizionale», dispone quanto segue:
«Le decisioni con cui viene negata o revocata l’iscrizione di cui all’articolo 3 e le decisioni che
infliggono sanzioni disciplinari devono essere motivate.
Tali decisioni sono soggette a ricorso giurisdizionale di diritto interno».
7 L’art. 10, della direttiva 98/5, rubricato «Assimilazione all’avvocato dello Stato membro ospitante»,
contiene le seguenti disposizioni:
«1. L’avvocato che eserciti con il proprio titolo professionale di origine e che abbia comprovato
l’esercizio per almeno tre anni di un’attività effettiva e regolare nello Stato membro ospitante, e
riguardante il diritto di tale Stato, ivi compreso il diritto comunitario, è dispensato dalle condizioni di cui
all’articolo 4, paragrafo 1, lettera b) della direttiva [del Consiglio 21 dicembre 1988] 89/48/CEE
[relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano
formazioni professionali di una durata minima di tre anni (GU 1989 L 19, pag. 16)] per accedere alla
professione di avvocato dello Stato membro ospitante. Per attività effettiva e regolare si intende
l’esercizio reale dell’attività senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita
quotidiana.
3. Un avvocato che eserciti con il proprio titolo professionale di origine, che dimostri un’attività effettiva
e regolare per un periodo di almeno tre anni nello Stato membro ospitante, ma di durata inferiore
relativamente al diritto di tale Stato membro, può ottenere dall’autorità competente di detto Stato
membro l’accesso alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante e il diritto di esercitarla
con il titolo professionale corrispondente a tale professione in detto Stato membro, senza dover
rispettare le condizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, lettera b) della direttiva 89/48 (…), alle
condizioni e secondo le modalità qui di seguito indicate:
a) L’autorità dello Stato membro ospitante prende in considerazione l’attività effettiva e
regolare nel corsodel periodo sopra precisato, nonché le conoscenze e le esperienze
professionali nel diritto dello Stato membro ospitante, nonché la partecipazione del
richiedente a corsi o seminari che vertono sul diritto dello Stato membro ospitante, compreso
l’ordinamento della professione e la deontologia professionale.
Il diritto nazionale
8 Ai sensi dell’art. 5 della legge 10 agosto 1991 sulla professione di avvocato (Mémorial A 1991, pag.
1110; in prosieguo: la «legge 10 agosto 1991»):
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«Nessuno può esercitare la professione di avvocato se non ha ottenuto l’iscrizione all’albo di un ordine
degli avvocati stabilito nel Granducato di Lussemburgo».
9 L’art. 6 della legge 10 agosto 1991 dispone quanto segue:
«(1) Ai fini dell’iscrizione all’albo è necessario:
a) presentare le necessarie garanzie d’onorabilità.
b) dimostrare di ottemperare alle condizioni d’ammissione al tirocinio.
Eccezionalmente, il Consiglio dell’ordine può dispensare da determinati requisiti di ammissione al
tirocinio coloro che abbiano completato il tirocinio professionale nel loro Stato d’origine e possano
comprovare una pratica professionale di almeno cinque anni.
c) avere la cittadinanza lussemburghese o la cittadinanza di uno Stato membro delle Comunità
europee. Il Consiglio dell’ordine, sentito il parere del Ministro della Giustizia può, dietro prova di
reciprocità da parte del paese non membro della Comunità europea di cui il candidato è cittadino,
dispensare quest’ultimo dalla predetta condizione. Lo stesso vale per i candidati che godono dello
status di rifugiati politici e che beneficiano del diritto d’asilo nel Granducato di Lussemburgo.
(2) Prima di potere essere iscritti all’albo, i candidati avvocati, presentati dal presidente dell’ordine o
dal suo delegato, prestano il seguente giuramento dinanzi alla Cour de cassation: “Giuro fedeltà al
Granduca, obbedienza alla costituzione e alle leggi dello Stato, di non venire mai meno al rispetto
dovuto ai tribunali e di non patrocinare alcuna causa che io non creda giusta secondo coscienza”».
10 Tali requisiti per l’iscrizione sono stati modificati dall’art. 14 della legge 13 novembre 2002, che
recepisce nel diritto lussemburghese la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio
1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato
membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica e recante: 1. modifica della legge
modificata 10 agosto 1991, sulla professione di avvocato; 2. modifica della legge 31 maggio 1999,
sulla domiciliazione delle società (Mémorial A 2002, pag. 3202; in prosieguo: la «legge 13 novembre
2002»).
11 Il detto art. 14 ha aggiunto, in particolare, all’art. 6, n. 1, della legge 10 agosto 1991, il punto d), che
stabilisce il seguente requisito per l’iscrizione:
«abbia padronanza della lingua della legislazione e delle lingue amministrative e giudiziarie ai sensi
della legge 24 febbraio 1984 sul regime linguistico».
12 La lingua della legislazione è disciplinata dall’art. 2 della legge 24 febbraio 1984, sul regime
linguistico (Mémorial A 1984, pag. 196) nei seguenti termini:
«Gli atti legislativi e i relativi regolamenti d’attuazione sono redatti in francese. Quando gli atti
legislativi e regolamentari sono accompagnati da una traduzione, fa fede solo il testo francese.
Quando regolamenti diversi da quelli di cui al comma precedente sono emanati da un organismo dello
Stato, dei comuni o degli enti pubblici in una lingua diversa dal francese, fa fede solo il testo nella
lingua utilizzata da tale organismo per la stesura.
Questo articolo non deroga alle disposizioni applicabili in materia di convenzioni internazionali».
13 Le lingue amministrative e giudiziarie sono disciplinate dall’art. 3 della legge 24 febbraio 1984, sul
regime linguistico, nei seguenti termini:
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«In materia amministrativa, contenziosa o non contenziosa, e in materia giudiziaria è possibile
utilizzare la lingua francese, tedesca o lussemburghese, fatte salve le disposizioni speciali vigenti in
specifiche materie».
14 Ai sensi dell’art. 3, n. 1, della legge 13 novembre 2002, l’avvocato che ha conseguito la qualifica in
uno Stato membro diverso dal Granducato di Lussemburgo (in prosieguo: l’«avvocato europeo») deve
aver ottenuto l’iscrizione all’albo di uno degli ordini degli avvocati di quest’ultimo Stato membro per
potervi esercitare con il proprio titolo d’origine.
15 In forza dell’art. 3, n. 2, della stessa legge:
«Il Consiglio dell’ordine degli avvocati del Granducato di Lussemburgo, cui l’avvocato europeo
presenti istanza di poter esercitare con il suo titolo professionale d’origine, procede all’iscrizione
dell’avvocato europeo all’albo degli avvocati di tale ordine al termine di un colloquio che permette al
Consiglio dell’ordine di verificare che l’avvocato europeo abbia la padronanza almeno delle lingue di
cui all’art. 6, n. 1, lett. d), della legge 10 agosto 1991, dietro presentazione dei documenti elencati
all’art. 6, n. 1, lett. a), c), prima frase, e d) della legge 10 agosto 1991 e dell’attestato di iscrizione
dell’avvocato europeo presso l’autorità competente dello Stato membro d’origine
16 In conformità all’art. 3, n. 3, della legge 13 novembre 2002, le decisioni di diniego dell’iscrizione di
cui al n. 2 di tale articolo devono essere motivate e notificate all’avvocato interessato e possono
essere «impugnate ai sensi degli artt. 26, nn. 7 e segg., della legge 10 agosto 1991 alle condizioni e
modalità ivi precisate».
17 L’art. 26, n. 7, della legge 10 agosto 1991 prevede, tra l’altro, in caso di diniego dell’iscrizione
all’albo di un ordine di avvocati, la possibilità di adire il Conseil disciplinaire et administratif.
18 La composizione di tale organo è disciplinata come segue dall’art. 24 di detta legge:
«1. La presente legge prevede l’istituzione di un Conseil disciplinaire et administratif composto da
cinque avvocati iscritti all’elenco I degli avvocati, di cui quattro sono eletti a maggioranza relativa
dall’assemblea generale dell’ordine di Lussemburgo e uno dall’assemblea generale dell’ordine di
Diekirch. L’assemblea generale dell’ordine di Lussemburgo elegge quattro supplenti e l’assemblea
generale dell’ordine di Diekirch elegge un supplente. Tutti i membri effettivi sono, laddove
impossibilitati, sostituiti conformemente al grado di anzianità da un supplente dell’ordine di
appartenenza e, laddove fossero impossibilitati i supplenti del proprio ordine, da un supplente dell’altro
ordine.
2. Il mandato dei membri è di due anni a partire dal 15 settembre successivo alla loro elezione. In
caso di vacanza di un posto di membro effettivo o membro supplente, il sostituto sarà cooptato dal
Conseil disciplinaire et administratif. Le funzioni dei membri effettivi e supplenti cooptati terminano alla
data di scadenza delle funzioni del rispettivo membro eletto sostituito. I membri del Conseil
disciplinaire et administratif possono essere rieletti.
3. Il Conseil disciplinaire et administratif elegge un presidente ed un vicepresidente. Laddove
presidente e vicepresidente fossero impossibilitati a svolgere le loro funzioni, il Conseil è presieduto
dal membro titolare
che vanta maggiore anzianità. Il membro più giovane del Consiglio svolge la funzione di segretario.
4. Per essere membro del Conseil disciplinaire et administratif è necessario avere la cittadinanza
lussemburghese, essere iscritti nell’elenco I degli avvocati da almeno cinque anni e non essere
membro di un Consiglio dell’ordine.
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5. Qualora non fosse possibile comporre il Conseil disciplinaire et administratif secondo le modalità
predette, i suoi membri sono designati dal Consiglio dell’ordine cui appartengono i membri da
sostituire».
19 L’art. 28, n. 1, della legge 10 agosto 1991 prevede la possibilità di impugnare le decisioni del
Conseil disciplinaire et administratif.
20 Nella versione precedente alla legge 13 novembre 2002, il n. 2 di tale articolo disponeva quanto
segue:
«A tale scopo è creato un Conseil disciplinaire et administratif d’appel (Consiglio disciplinare ed
amministrativo d’appello) composto da due magistrati della Corte d’appello e da un aggiunto
giudiziario iscritto nell’elenco I degli avvocati.
I membri togati e i rispettivi supplenti, nonché il cancelliere assegnato al Consiglio, sono nominati con
decreto granducale su proposta della Corte suprema per la durata di due anni. Le rispettive indennità
sono fissate con regolamento granducale.
L’aggiunto giudiziario e il suo sostituto sono nominati con decreto granducale per la durata di due
anni. Sono scelti da una lista di tre avvocati, iscritti nell’elenco I degli avvocati da almeno cinque anni,
proposta da ciascun Consiglio dell’ordine per ogni funzione.
La funzione di aggiunto giudiziario è incompatibile con quella di membro di un Consiglio dell’ordine o
con quella di membro del Conseil disciplinaire et administratif.
Il Conseil disciplinaire et administratif d’appel si riunisce nei locali della Corte suprema ed usufruisce
dei suoi servizi di cancelleria».
21 L’art. 28, n. 2, della legge 10 agosto 1991, come modificato dall’art. 14 della legge 13 novembre
2002, dispone ora:
«A tale scopo è creato un Conseil disciplinaire et administratif d’appel composto da due magistrati
della Corte d’appello e da tre avvocati-aggiunti giudiziari iscritti nell’elenco I dell’albo degli avvocati.
Gli avvocati-aggiunti giudiziari ed i loro sostituti sono nominati con decreto granducale per la durata di
due anni. Sono scelti da una lista di cinque avvocati presso la Corte iscritti all’elenco I dell’albo degli
avvocati da almeno cinque anni, proposta da ciascun Consiglio dell’ordine per ogni funzione.
Il giudice con maggiore anzianità di servizio presiede il Conseil disciplinaire et administratif d’appel».
22 In conformità all’art. 8, n. 3, della legge 10 agosto 1991, come modificato dall’art. 14, V, della legge
13 novembre 2002, l’albo degli avvocati di ciascun ordine contiene quattro elenchi, ossia:
«1. L’elenco I degli avvocati che soddisfano i requisiti degli artt. 5 e 6 e che hanno superato l’esame di
fine tirocinio previsto dalla legge;
2. L’elenco II degli avvocati che soddisfano i requisiti degli artt. 5 e 6;
3. L’elenco III degli avvocati onorari;
4. L’elenco IV degli avvocati che esercitano con il titolo professionale di origine».
Causa principale e questioni pregiudiziali
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23 Il sig. Wilson è un barrister di nazionalità britannica. Egli è membro dell’ordine degli avvocati
d’Inghilterra e del Galles dal 1975. Esercita la professione di avvocato nel Lussemburgo dal 1994.
24 Il 29 aprile 2003 il sig. Wilson veniva convocato dal consiglio dell’ordine per sostenere il colloquio
previsto dall’art. 3, n. 2, della legge 13 novembre 2002.
25 Il 7 maggio 2003 il sig. Wilson si presentava a tale colloquio accompagnato da un avvocato
lussemburghese, ma il consiglio dell’ordine non consentiva che quest’ultimo assistesse al detto
colloquio.
26 Con lettera raccomandata di data 14 maggio 2003, il consiglio dell’ordine notificava al sig. Wilson
la sua decisione di negargli l’iscrizione all’albo degli avvocati nell’elenco IV degli avvocati che
esercitano con il titolo professionale d’origine. Tale decisione veniva motivata nei seguenti termini:
«Dopo che il consiglio dell’ordine la ha informata che non ammette l’assistenza di un avvocato, non
prevista dalla legge, lei ha rifiutato di sostenere il colloquio senza essere assistito dall’avv. (…). Il
consiglio dell’ordine, pertanto, non è in grado di verificare le sue conoscenze linguistiche ai sensi
dell’art. l’art. 6, n. 1, lett. d), della legge 10 agosto 1991 (…)».
27 In tale lettera, il consiglio dell’ordine informava il sig. Wilson che, «[c]onformemente all’art. 26, n. 7,
della legge 10 agosto 1991, la presente decisione può essere oggetto di impugnazione da esperire
mediante ricorso dinanzi al Conseil disciplinaire et administratif (casella postale 575, L-1025,
Lussemburgo) entro un termine di quaranta giorni dall’invio della presente».
28 Con atto introduttivo 28 luglio 2003, il sig. Wilson ha presentato un ricorso di annullamento avverso
tale decisione di diniego dinanzi al tribunal administratif de Luxembourg (Tribunale amministrativo di
Lussemburgo).
29 Con sentenza 13 maggio 2004, tale tribunale si è dichiarato incompetente a decidere il detto
ricorso.
30 Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria della Cour administrative (Corte d’appello
amministrativa) il 22 giugno 2004, il sig. Wilson ha proposto appello avverso la detta sentenza.
31 Il giudice del rinvio spiega che la questione della compatibilità con l’art. 9 della direttiva 98/5 del
procedimento di ricorso istituito dalla normativa lussemburghese si ripercuote direttamente su quella
della competenza dei giudici amministrativi a dirimere la controversia della causa principale. Nel
merito, esso si pone la questione della compatibilità con il diritto comunitario delle disposizioni
lussemburghesi che istituiscono una verifica delle conoscenze linguistiche degli avvocati europei che
desiderano esercitare in Lussemburgo.
32 In tali circostanze, la Cour administrative ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 9 della direttiva 98/5/ (…) debba essere interpretato nel senso che esclude un
procedimento di ricorso quale quello previsto dalla legge 10 agosto 1991, come modificata dalla legge
13 novembre 2002;
2) più in particolare, se organi quali il Conseil disciplinaire et administratif e il Conseil disciplinaire et
administratif d’appel rappresentino organi competenti a conoscere dei “ricors[i] giurisdizional[i] di diritto
interno” ai sensi dell’art. 9 della direttiva 98/5 e se [tale articolo] debba essere interpretato nel senso
che esclude un mezzo di ricorso che imponga di adire uno o più organi di tale natura prima di poter
adire su una questione di diritto una “corte o un tribunale” ai sensi del [detto articolo];
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3) se le autorità competenti di uno Stato membro siano autorizzate a subordinare il diritto di
un avvocato di un [altro] Stato membro di esercitare stabilmente la professione di avvocato
con il proprio titolo professionale di origine, nei settori di attività specificati dall’art. 5 della
direttiva [98/5], al requisito della padronanza delle lingue di tale [primo] Stato membro;
4) in particolare, se le autorità competenti possano disporre che tale diritto all’esercizio della
professione sia subordinato al superamento, da parte dell’avvocato, di un esame orale di lingua in
tutte o in alcune delle tre lingue principali dello Stato membro ospitante, al fine di consentire alle
autorità competenti di verificare se l’avvocato conosca le tre lingue e, in tal caso, quali debbano
essere le garanzie procedurali eventualmente richieste».
Sulla prima e la seconda questione
Sulla competenza della Corte a risolvere tali questioni e sulla loro ricevibilità
33 L’ordre des avocats du barreau de Luxembourg (ordine degli avvocati del foro di Lussemburgo),
sostenuto dal governo lussemburghese, afferma che le prime due questioni non rientrano nella
competenza della Corte. A suo avviso, infatti, con tali questioni il giudice del rinvio chiede
l’interpretazione dell’art. 9 della direttiva 98/5 alla luce delle disposizioni nazionali. Orbene, esso è
dell’avviso che la Corte non è competente né a verificare la compatibilità di disposizioni nazionali con
il diritto comunitario, né ad interpretare tali disposizioni.
34 È vero che, nell’ambito di un procedimento ex art. 234 CE, non spetta alla Corte pronunciarsi sulla
compatibilità di norme del diritto interno con disposizioni del diritto comunitario (v., in particolare,
sentenza 7 luglio 1994, causa C-130/93, Lamaire, Racc. pag. I-3215, punto 10). Inoltre, nell’ambito del
sistema di cooperazione giudiziaria istituito dal detto articolo, l’interpretazione delle norme nazionali
incombe ai giudici nazionali e non alla Corte (v., in particolare, sentenza 12 ottobre 1993, causa C37/92, Vanacker e Lesage, Racc. pag. I-4947, punto 7).
35 Per contro, la Corte è competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione
propri del diritto comunitario che gli consentano di valutare la compatibilità di norme di diritto interno
con la normativa comunitaria (v, in particolare, sentenza Lamaire, cit., punto 10).
36 Nel caso di specie, le prime due questioni implicano una richiesta di interpretazione dell’art. 9 della
direttiva 98/5, destinata a consentire al giudice del rinvio di valutare la compatibilità del procedimento
istituito dalla normativa lussemburghese con tale articolo. Pertanto, esse rientrano nella competenza
della Corte.
37 L’ordre des avocats du barreau de Luxembourg sostiene inoltre che la decisione di rinvio non
contiene indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle modalità di funzionamento degli organi
competenti a conoscere del ricorso oggetto della causa principale, il che, a suo avviso, impedisce alla
Corte di fornire una risposta utile al giudice del rinvio sulle prime due questioni.
38 A tale proposito, occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, l’esigenza di
giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale impone che
quest’ultimo definisca l’ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso
spieghi almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate (v., in particolare, sentenze 21
settembre 1999, causa C-67/96, Albany, Racc. pag. I-5751, punto 39, e 11 aprile 2000, cause riunite
C-51/96 e C-191/97, Deliège, Racc. pag. I-2549, punto 30).
39 Le informazioni fornite nelle decisioni di rinvio pregiudiziale devono non solo consentire alla Corte
di dare risposte utili, ma altresì dare ai governi degli Stati membri, nonché agli altri interessati, la
possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia. Spetta
alla Corte vigilare affinché tale possibilità sia salvaguardata, tenuto conto del fatto che, a norma della
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suddetta disposizione, agli interessati vengono notificate solo le decisioni di rinvio (v. in particolare,
sentenze Albany, cit., punto 40, e 12 aprile 2005, causa C-145/03, Keller, Racc. pag. I-2529, punto
30).
40 Nel caso di specie, da un lato, dalle osservazioni presentate dalle parti della causa principale
emerge che i governi degli Stati membri e la Commissione delle Comunità europee sono stati in grado
di prendere posizione adeguatamente sulle prime due questioni.
41 Dall’altro, la Corte si considera sufficientemente edotta dalle informazioni contenute nella decisione
di rinvio e nelle osservazioni che le sono state presentata da potere risolvere efficacemente le
questioni che le sono state sottoposte.
42 Da quanto esposto risulta che la Corte deve risolvere le prime due questioni.
Nel merito
43 Con le prime due questioni, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede alla
Corte, in sostanza, di interpretare la nozione di ricorso giurisdizionale di diritto interno ai sensi dell’art.
9 della direttiva 98/5 con riferimento ad una procedura di ricorso come quella prevista dalla normativa
lussemburghese.
44 In proposito, occorre ricordare che l’art. 9 della direttiva 98/5 stabilisce che le decisioni dell’autorità
competente dello Stato membro ospitante che respingono l’iscrizione di un avvocato che desidera
esercitarvi le sue attività con il suo titolo professionale d’origine devono essere soggette a ricorso
giurisdizionale di diritto interno.
45 Da tale disposizione si evince che gli Stati membri sono tenuti ad adottare provvedimenti
sufficientemente efficaci per raggiungere lo scopo della direttiva 98/5 e a garantire che i diritti in tal
modo attribuiti possano essere effettivamente fatti valere dagli interessati dinanzi ai giudici nazionali
(v., per analogia, sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punto 17).
46 Come sottolineato dal governo francese e dalla Commissione, il controllo giurisdizionale imposto
dalla detta disposizione è espressione di un principio generale del diritto comunitario che deriva dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è inoltre sancito agli artt. 6 e 13 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (v., in
particolare, sentenze Johnston, cit., punto 18; 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens e a., Racc.
pag. 4097, punto 14; 27 novembre 2001, causa C-424/99, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9285,
punto 45, e 25 luglio 2002, causa C-459/99, MRAX, Racc. pag. I-6591, punto 101).
47 Ai fini dell’effettiva tutela giurisdizionale dei diritti previsti dalla direttiva 98/5, l’organo chiamato a
decidere i ricorsi contro le decisioni di diniego dell’iscrizione di cui all’art. 3 di tale direttiva deve
corrispondere alla nozione di giudice come definita dal diritto comunitario.
48 La detta nozione è stata definita, nella giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alla nozione di
giudice nazionale ai sensi dell’art. 234 CE, enunciando una serie di requisiti che l’organo in questione
deve presentare, quali la sua origine legale, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua
giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche
(v., in questo senso, tra le altre, sentenze 30 giugno 1966, causa 61/65, Vaassen-Göbbels, Racc. pag.
377, 395, e 17 settembre 1997, causa C-54/96, Dorsch Consult, Racc. pag. I-4961, punto 23) nonché
l’indipendenza e l’imparzialità (v., in questo senso, tra le altre, sentenze 11 giugno 1987, causa 14/86,
Pretore di Salò/X, Racc. pag. I-2545, punto 7; 21 aprile 1988, causa 338/85, Pardini, Racc. pag. 2041,
punto 9, e 29 novembre 2001, causa C-17/00, De Coster, Racc. pag. I-9445, punto 17).
49 La nozione di indipendenza, intrinseca alla funzione giurisdizionale, implica innanzi tutto che
l’organo interessato si trovi in posizione di terzietà rispetto all’autorità che ha adottato la decisione
oggetto del ricorso (v., in questo senso, in particolare, sentenza 30 marzo 1993, causa C-24/92,
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Corbiau, Racc. pag. I-1277, punto 15 e 30 maggio 2002, causa C-516/99, Schmid, Racc. pag. I-4573,
punto 36).
50 Essa presenta inoltre due aspetti.
51 Il primo aspetto, avente carattere esterno, presuppone che l’organo sia tutelato da pressioni
o da interventi dall’esterno idonei a mettere a repentaglio l’indipendenza di giudizio dei suoi
membri per quanto riguarda le controversie loro sottoposte (v., in questo senso, sentenze 4
febbraio 1999, causa C-103/97, Köllensperger e Atzwanger, Racc. pag. I-551, punto 21, e 6
luglio 2000, causa C-407/98, Abrahamsson e Anderson, Racc. pag. I-5539, punto 36; v.
anche, nello stesso senso, Corte eur. D.U., sentenza Campbell e Fell c. Regno Unito del 28
giugno 1984, serie A n. 80, § 78). Tale indispensabile libertà da siffatti elementi esterni
richiede talune garanzie idonee a tutelare la persona che svolge la funzione giurisdizionale,
come, ad esempio, l’inamovibilità (v., in questo senso, sentenza 22 ottobre 1998, cause riunite
C-9/97 e C-118/97, Jokela e Pitkäranta, Racc. pag. I-6267, punto 20).
52 Il secondo aspetto, avente carattere interno, si ricollega alla nozione di imparzialità e riguarda
l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi concernenti l’oggetto di
quest’ultima. Questo aspetto impone il rispetto dell’obiettività (v., in questo senso, sentenza
Abrahamsson e Anderson, cit., punto 32) e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione da dare
alla controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica.
53 Tali garanzie di indipendenza e di imparzialità implicano l’esistenza di disposizioni, relative, in
particolare, alla composizione dell’organo e alla nomina, durata delle funzioni, cause di astensione, di
ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i
singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità del detto organo rispetto a elementi esterni ed alla
sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti (v, al riguardo, citate sentenze Dorsch Consult, punto
36; Köllensperger e Atzwanger, punti 20-23, nonché De Coster, punti 18-21; v. anche, in questo
senso, Corte eur. D.U., sentenza De Cubber c. Belgio del 26 ottobre 1984, serie A n. 86, § 24).
54 Nel caso di specie, la composizione del Conseil disciplinaire et administratif, come stabilita dall’art.
24 della legge 10 agosto 1991, è caratterizzata dalla esclusiva presenza di avvocati di nazionalità
lussemburghese, iscritti nell’elenco I dell’albo degli avvocati – ossia l’elenco degli avvocati che
esercitano con il titolo professionale lussemburghese e che hanno superato l’esame di fine tirocinio –
eletti dalle rispettive assemblee generali dell’ordine degli avvocati di Lussemburgo e di quello di
Diekirch.
55 Per quanto riguarda il Conseil disciplinaire et administratif d’appel, la modifica apportata all’art. 28,
n. 2, della legge 10 agosto 1991 dall’art. 14 della legge 13 novembre 2002 attribuisce peso
preponderante ai membri aggiunti, che devono essere iscritti nel medesimo elenco e sono presentati
dal consiglio di ciascuno degli ordini di cui al punto precedente di questa sentenza, rispetto ai
magistrati di professione.
56 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 47 delle conclusioni, le decisioni di diniego
dell’iscrizione di un avvocato europeo adottate dal conseil de l’ordre – i cui membri, a norma dell’art.
16 della legge 10 agosto 1991, sono avvocati iscritti nell’elenco I dell’albo degli avvocati – in primo
grado sono soggette al controllo di un organo composto esclusivamente di avvocati iscritti nello stesso
elenco e, in appello, di un organo prevalentemente composto di tali avvocati.
57 Pertanto, in tali condizioni, un avvocato europeo cui il conseil de l’ordre abbia negato l’iscrizione
nell’elenco IV dell’albo degli avvocati ha dei motivi legittimi di temere che, a seconda dei casi, la
totalità o la maggior parte dei membri di tali organi abbiano un comune interesse contrario al suo,
ossia quello di confermare una decisione che esclude dal mercato un concorrente che ha acquisito la
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sua qualifica professionale in un altro Stato membro, nonché di paventare il venir meno
dell’equidistanza dagli interessi in causa (v., in questo senso, Corte eur. D.U., sentenza Langborger c.
Svezia del 22 giugno 1989, serie A, n. 155, § 35).
58 Le disposizioni che disciplinano la composizione di organi come quelle in esame nella causa
principale non risultano quindi idonee a fornire un’adeguata garanzia di imparzialità.
59 Contrariamente a quanto afferma l’ordre des avocats du barreau de Luxembourg, i timori suscitati
da tali norme in materia di composizione non possono essere fugati dalla possibilità di esperire un
ricorso in cassazione, prevista dall’art. 29, n. 1, della legge 10 agosto 1991, avverso le sentenze del
Conseil disciplinaire et administratif d’appel.
60 L’art. 9 della direttiva 98/5, infatti, pur non escludendo la previa presentazione di un
ricorso dinanzi ad un organo non giurisdizionale, non prevede però che l’interessato possa
esperire il rimedio giurisdizionale solo dopo l’eventuale esaurimento di rimedi di altra natura.
In ogni caso, quando un ricorso dinanzi ad un organo non giurisdizionale è previsto dalla
normativa nazionale, il detto art. 9 richiede un acceso effettivo ed entro un termine
ragionevole (v., per analogia, sentenza 15 ottobre 2002, cause riunite C-238/99 P, C-244/99 P,
C-245/99 P, C-247/99 P, C-250/99 P-C-252/99 P e C-254/99 P, Limburgse Vinyl
Maatschappij e a./Commissione, Racc. pag. I-8375, punti 180-205 e 223-234) ad un giudice ai
sensi del diritto comunitario, competente a pronunciarsi sia in fatto che in diritto.
61 Ebbene, a prescindere dalla questione della compatibilità del previo passaggio per due organi non
giurisdizionali con il requisito del termine ragionevole, la competenza della Cour de cassation del
Granducato di Lussemburgo è limitata alle questioni di diritto, per cui essa non dispone di una piena
giurisdizione (v., in questo senso, Corte eur. D.U., sentenza Incal c. Turchia del 9 giugno 1998,
Recueil des arrêts e décisions 1998-IV, pag. 1547, § 72).
62 Alla luce di quanto precede, occorre risolvere le prime due questioni dichiarando che l’art. 9 della
direttiva 98/5 va interpretato nel senso che osta ad un procedimento di ricorso nel contesto del quale
la decisione di diniego dell’iscrizione di cui all’art. 3 della detta direttiva deve essere contestata, in
primo grado, dinanzi ad un organo composto esclusivamente di avvocati che esercitano con il titolo
professionale dello Stato membro ospitante e, in appello, dinanzi ad un organo composto
prevalentemente di siffatti avvocati, quando il ricorso in cassazione dinanzi al giudice supremo di tale
Stato membro consente un controllo giurisdizionale solo in diritto e non in fatto.
Sulla terza e la quarta questione
63 Con la terza e la quarta questione, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio vuole
appurare se, ed eventualmente a quali condizioni, il diritto comunitario consenta allo Stato membro
ospitante di subordinare il diritto di un avvocato ad esercitare stabilmente le sue attività nel detto Stato
membro con il suo titolo professionale d’origine ad una verifica della padronanza delle lingue di tale
Stato membro.
64 In proposito, come emerge dal sesto ‘considerando’ della direttiva 98/5, con essa il
comunitario ha inteso, in particolare, porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative
d’iscrizione presso le autorità competenti, da cui derivavano ineguaglianze ed ostacoli
circolazione (v. anche, in tal senso, sentenza 7 novembre 2000, causa
Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I-9131, punto 64).
legislatore
ai requisiti
alla libera
C-168/98,
65 In tale contesto, l’art. 3 della direttiva 98/5 prevede che l’avvocato che intende esercitare in uno
Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi
presso l’autorità competente di detto Stato membro, la quale è tenuta a procedere all’iscrizione «su
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presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità
competente dello Stato membro di origine».
66 In considerazione dell’obiettivo della direttiva 98/5, richiamato al precedente punto 64, si deve
ritenere, come fanno il governo del Regno Unito e la Commissione, che il legislatore comunitario, con
l’art. 3 della direttiva medesima, abbia effettuato la completa armonizzazione dei requisiti preliminari
richiesti ai fini dell’esercizio del diritto conferito dalla direttiva stessa.
67 La presentazione all’autorità competente dello Stato membro ospitante di un certificato di iscrizione
presso l’autorità competente dello Stato membro d’origine risulta, in tal modo, l’unico requisito cui
deve essere subordinata l’iscrizione dell’interessato nello Stato membro ospitante, che gli consente di
esercitare la sua attività in quest’ultimo Stato membro con il suo titolo professionale d’origine.
68 Tale analisi trova conferma nell’esposizione dei motivi della proposta di direttiva del Parlamento
Europeo e del Consiglio volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno
Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica [COM(94) 572 def.], ove, nel
commento all’art. 3, si precisa che «[l]’iscrizione [presso l’autorità competente dello Stato membro
ospitante] avviene di diritto qualora il richiedente presenti il documento attestante la propria iscrizione
presso l’autorità competente dello Stato membro di origine».
69 Come la Corte ha gia avuto occasione di rilevare, il legislatore comunitario, al fine di
facilitare l’esercizio della libertà fondamentale di stabilimento di una determinata categoria di
avvocati migranti, ha preferito non optare per un sistema di previo controllo delle conoscenze
degli interessati (v. sentenza Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, cit., punto 43).
70 La direttiva 98/5, pertanto, non consente che l’iscrizione di un avvocato europeo presso l’autorità
competente dello Stato membro ospitante possa essere subordinata ad un colloquio inteso a
consentire all’autorità medesima di valutare la padronanza, da parte dell’interessato, delle lingue di
tale Stato membro.
71 Come sottolineato dal sig. Wilson, dal governo del Regno Unito e dalla Commissione, la rinuncia
ad un sistema di previo controllo delle conoscenze, in particolare linguistiche, dell’avvocato europeo
coesiste tuttavia, nella direttiva 98/5, con una serie di norme volte a garantire, ad un livello accettabile
nella Comunità, la protezione degli assistiti ed una buona amministrazione della giustizia (v. sentenza
Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, cit., punti 32 e 33).
72 Ad esempio, l’obbligo imposto dall’art. 4 della direttiva 98/5 agli avvocati europei di esercitare nello
Stato membro ospitante con il proprio titolo professionale di origine è diretto, secondo il nono
‘considerando’ della direttiva medesima, a consentire di operare la distinzione tra tali avvocati e quelli
integrati nella professione del detto Stato membro, in modo che l’assistito sia informato del fatto che il
professionista cui affida la tutela dei propri interessi non ha conseguito la propria qualifica nello Stato
membro medesimo (v., in tal senso, sentenza Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, cit., punto 34) e
non possiede necessariamente adeguate conoscenze linguistiche per la gestione della causa.
73 Quanto alle attività relative alla rappresentanza ed alla difesa di un cliente in giudizio, gli Stati
membri possono imporre agli avvocati europei che esercitano con il proprio titolo professionale di
origine, a termini dell’art. 5, n. 3, della direttiva 98/5, di agire di concerto con un avvocato che eserciti
dinanzi alla giurisdizione adita e il quale resta, eventualmente, responsabile nei confronti di tale
giurisdizione, oppure con un «avoué» patrocinante dinanzi ad essa. Tale facoltà consente di ovviare
ad eventuali carenze dell’avvocato europeo quanto alla padronanza delle lingue giudiziarie dello Stato
membro ospitante.
74 Ai sensi degli artt. 6 e 7 della direttiva 98/5, l’avvocato europeo non è tenuto solo al rispetto delle
regole professionali e deontologiche dello Stato membro di origine, ma anche di quelle dello Stato
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membro ospitante, a pena di incorrere in sanzioni disciplinari e nella propria responsabilità
professionale (v. sentenza Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, cit., punti 36-41). Tra le regole
deontologiche applicabili agli avvocati ricorre generalmente, come previsto dal codice di deontologia
adottato dal Consiglio degli ordini forensi europei (CCBE), l’obbligo per i professionisti interessati,
corredato di sanzioni disciplinari, di non assumere incarichi in merito ai quali essi siano, o dovrebbero
essere, consapevoli della loro incompetenza, ad esempio per una carenza nelle conoscenze
linguistiche (v., in tal senso, sentenza Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, cit., punto 42). La
comunicazione con la clientela, con le autorità amministrative e con le associazioni professionali dello
Stato membro ospitante, al pari del rispetto delle regole deontologiche emanate dalle autorità del detto
Stato membro, infatti, è tale da richiedere all’avvocato europeo adeguate conoscenze linguistiche
ovvero il ricorso ad un’assistenza in caso di conoscenze insufficienti.
75 Come osservato dalla Commissione, si deve ancora sottolineare che uno degli obiettivi della
direttiva 98/5, a termini del suo quinto ‘considerando’, consiste nel rispondere «dando agli avvocati la
possibilità di esercitare stabilmente con il loro titolo professionale d’origine in uno Stato membro
ospitante, […] alle esigenze degli utenti del diritto, che a motivo del flusso crescente delle attività
commerciali, dovuto particolarmente alla creazione del mercato interno, chiedono consulenze in
occasione di operazioni transfrontaliere nelle quali si trovano spesso strettamente connessi il diritto
internazionale, il diritto comunitario e i diritti nazionali». Siffatte questioni internazionali, al pari delle
cause disciplinate dal diritto di uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante, possono non
richiedere un grado di conoscenza delle lingue di quest’ultimo Stato membro tanto elevato quanto
quello richiesto per la gestione di cause in cui sia applicabile il diritto del detto Stato membro.
76 Si deve osservare, infine, che l’assimilazione dell’avvocato europeo all’avvocato dello
Stato membro ospitante, che la direttiva 98/5 intende facilitare, a termini del suo
quattordicesimo ‘considerando’, richiede, ai sensi dell’art. 10 della direttiva medesima, che
l’interessato dimostri un’attività effettiva e regolare per un periodo di almeno tre anni
attinente al diritto di tale Stato membro ovvero, nell’ipotesi di durata inferiore, ogni altra
conoscenza, attività formativa o esperienza professionale relativa al detto diritto. Una siffatta
misura consente all’avvocato europeo che intenda integrarsi nella professione dello Stato
membro ospitante di acquisire familiarità con la lingua ovvero le lingue di tale Stato membro.
77 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre risolvere la terza e la quarta questione
dichiarando che l’art. 3 della direttiva 98/5 deve essere interpretato nel senso che l’iscrizione di un
avvocato presso l’autorità competente di uno Stato membro diverso da quello in cui egli ha acquisito
la sua qualifica, ai fini dell’esercizio, in tale Stato, della sua attività con il titolo professionale d’origine,
non può essere subordinata ad un previo controllo della padronanza delle lingue dello Stato membro
ospitante.
Sulle spese
78 Nei confronti delle parti nella causa principale, il presente procedimento costituisce un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da
altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’art. 9 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a
facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello
in cui è stata acquistata la qualifica, va interpretato nel senso che osta ad un procedimento di ricorso
nel contesto del quale la decisione di diniego dell’iscrizione di cui all’art. 3 della detta direttiva deve
essere contestata, in primo grado, dinanzi ad un organo composto esclusivamente di avvocati che
esercitano con il titolo professionale dello Stato membro ospitante e, in appello, dinanzi ad un organo
composto prevalentemente di siffatti avvocati, quando il ricorso in cassazione dinanzi al giudice
supremo di tale Stato membro consente un controllo giurisdizionale solo in diritto e non in fatto.
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2) L’art. 3 della direttiva 98/5 deve essere interpretato nel senso che l’iscrizione di un avvocato presso
l’autorità competente di uno Stato membro diverso da quello in cui egli ha acquisito la sua qualifica ai
fini dell’esercizio, in tale Stato, della sua attività con il titolo professionale d’origine, non può essere
subordinata ad un previo controllo della padronanza delle lingue dello Stato membro ospitante.
28/09 Dagli atti della Camera
La relazione al disegno di legge comunitaria 2006
Disegno di legge n. 1042 AC (al Senato poi n. 1014/AS)
Relazione
Onorevoli Deputati! - Con il presente disegno di legge, che riproduce l'analogo provvedimento
presentato nella XIV legislatura (atto Senato n. 3794), il Governo adempie all'obbligo di proporre al
Parlamento l'approvazione del testo legislativo che la legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante norme
generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di
esecuzione degli obblighi comunitari, ha individuato come lo strumento cardine, ancorché non
esclusivo, per l'adeguamento dell'ordinamento interno al diritto comunitario. La struttura del disegno di
legge in esame, pur differenziandosi il meno possibile dalle linee portanti già ampiamente
sperimentate nelle precedenti leggi comunitarie, recepisce le innovazioni recate dalla riforma del 2005
e in particolare segue lo schema indicato all'articolo 9 della citata legge n. 11 del 2005. Il capo I
contiene le disposizioni che conferiscono al Governo delega legislativa per l'attuazione di direttive
(elencate negli allegati A e B) che richiedono l'introduzione di normative organiche e complesse. Viene
anche conferita delega al Governo per l'adozione di decreti legislativi recanti sanzioni penali e
amministrative di competenza statale per l'adempimento di obblighi derivanti dall'ordinamento
comunitario. L'articolo 1 regola il procedimento per l'adozione dei decreti legislativi; la responsabilità
dello stesso è attribuita al Presidente del Consiglio dei ministri o al Ministro per le politiche europee al
quale, nel rispetto delle competenze dei Ministeri di settore, spetta di operare per assicurare la
conformità del disegno di legge all'obbligo comunitario da assolvere. Oggetto della delega legislativa,
che deve essere esercitata entro diciotto mesi, sono le direttive comprese nell'allegato A e
nell'allegato B; quest'ultimo si differenzia dal primo in quanto individua le direttive per il cui
recepimento occorre osservare una procedura «aggravata» dalla sottoposizione del relativo schema
di provvedimento attuativo al parere dei competenti organi parlamentari, derogandosi, per tale
aspetto, alla disciplina generale della delega legislativa contenuta nella legge 23 agosto 1988, n. 400
(articolo 14, comma 4), che contempla l'intervento consultivo delle Commissioni parlamentari solo per
deleghe ultrabiennali. Si sottolinea, altresì, che il passaggio per le Commissioni parlamentari è
previsto anche per i decreti legislativi di cui all'allegato A che prevedano l'eventuale ricorso allo
strumento delle sanzioni penali ai fini della repressione della violazione degli obblighi comunitari. Il
comma 7 prevede la cosiddetta «clausola di cedevolezza», già inserita nei vari decreti legislativi di
recepimento in materie di competenza regionale in conformità alla legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3. La disposizione prevede che i decreti legislativi a tale fine eventualmente adottati nelle
materie riservate alla competenza legislativa delle regioni e delle province autonome, qualora queste
ultime non abbiano provveduto con proprie norme attuative secondo quanto previsto dall'articolo 117,
quinto comma, della Costituzione, entrino in vigore alla scadenza del termine stabilito per l'attuazione
della normativa comunitaria e perdano efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della
normativa attuativa regionale o provinciale. Il potere sostitutivo dello Stato trova chiaro fondamento
nella circostanza che l'Unione europea costituisce un'unione di Stati e che lo Stato nel suo complesso,
nella qualità di interlocutore primario della Comunità e dei partner europei, rappresenta il soggetto
responsabile dell'adempimento degli obblighi comunitari. Di qui il corollario, a più riprese ribadito dalla
Corte costituzionale, alla stregua del quale, ferma restando la competenza in prima istanza delle
regioni e delle province autonome nelle materie di rispettiva competenza legislativa, allo Stato
competono tutti gli strumenti necessari per non trovarsi impotente di fronte a violazioni di norme
comunitarie determinate da attività positive od omissive dei soggetti dotati di autonomia costituzionale.
«Gli strumenti consistono non in avocazioni di competenze a favore dello Stato, ma in interventi
repressivi o sostitutivi e suppletivi - questi ultimi anche in via preventiva, ma cedevoli di fronte
all'attivazione dei poteri regionali e provinciali normalmente competenti - rispetto a violazioni o carenze
nell'attuazione e nell'esecuzione di norme comunitarie da parte delle Regioni e delle Province
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autonome di Trento e di Bolzano» (Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 1996; si veda, inoltre, la
sentenza n. 425 del 1999. Entrambe le sentenze sono relative all'esercizio di competenza esclusiva
da parte delle province autonome di Trento e di Bolzano). L'ammissibilità di un intervento suppletivo
anticipato e cedevole è corroborata, oltre che dal dettato della citata legge n. 11 del 2005, anche da
analoghe norme contenute nelle precedenti leggi comunitarie. Segnatamente, detta anticipazione del
meccanismo sostitutivo fa sì che la supplenza, pur se concepita anticipatamente, sortisca il suo
risultato nel momento stesso dell'inadempimento, così evitando ritardi tali da esporre l'Italia a
sistematiche procedure di infrazione. La disposizione è finalizzata ad evitare l'inadempimento
nell'attuazione della normativa comunitaria da parte delle regioni e delle province autonome,
prevedendo una procedura sostitutiva, se necessario, anticipata: i decreti legislativi sostitutivi entrano
comunque in vigore solo alla scadenza del termine stabilito per l'attuazione della normativa
comunitaria e si caratterizzano per il fatto di essere cedevoli, nel senso che perdono efficacia con
riferimento alle regioni che, anche dopo la scadenza del termine, provvedano al recepimento delle
direttive nel rispetto dei vincoli comunitari e dei princìpi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale.
L'utilizzo di tale forma di sostituzione preventiva è stato già favorevolmente valutato in numerose
occasioni dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano. L'articolo 2 detta princìpi e criteri di carattere generale per l'esercizio delle
deleghe al fine dell'attuazione delle direttive comunitarie, in gran parte già contenuti nelle precedenti
leggi comunitarie. L'articolo 3 conferisce una delega biennale al fine di consentire la gestione di una
politica sanzionatoria dei comportamenti che costituiscono violazione di precetti comunitari non
trasfusi in leggi nazionali, perché contenuti o in direttive attuate con fonti non primarie, inidonee quindi
a istituire sanzioni penali, o in regolamenti comunitari, direttamente applicabili. Come è noto, infatti,
non esiste una normazione comunitaria per le sanzioni in ragione della netta diversità dei sistemi
nazionali. I regolamenti e le direttive lasciano quindi agli Stati membri di regolare le conseguenze della
loro inosservanza. L'articolo 4 riproduce una disposizione già contenuta in precedenti leggi
comunitarie in materia di oneri relativi a prestazioni e controlli da eseguire da parte di uffici pubblici in
applicazione delle normative comunitarie. Al comma 2 si prevede la riassegnazione delle entrate
derivanti dalle tariffe previste al comma
1 alle amministrazioni che effettuano le prestazioni e i controlli.
L'articolo 5 delega il Governo all'adozione di testi unici delle disposizioni dettate in attuazione delle
deleghe conferite con le leggi comunitarie annuali. La previsione di tale delega rappresenta uno
strumento utile per operare un'azione periodica di coordinamento e di riordino del sistema normativo,
muovendo dalle conseguenze ordinamentali indotte dall'intervento delle norme comunitarie.
L'articolo 6 prevede l'attuazione di direttive comunitarie attraverso lo strumento regolamentare, in
ossequio a quanto disposto dagli articoli 9, comma 1, lettera d), e 11 della legge 4 febbraio 2005, n.
11. Il capo II individua princìpi fondamentali in base ai quali informare l'esercizio da parte delle regioni
e delle province autonome dell'attività normativa nelle materie di competenza concorrente, ai sensi del
terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione.
L'articolo 7 attua una specifica previsione della legge n. 11 del 2005 [articolo 9, comma 1, lettera f)],
recando disposizioni che individuano i princìpi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le
province autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione agli atti
comunitari nelle materie di competenza concorrente. La disposizione, anche in base alla
giurisprudenza della Corte costituzionale, individua, in particolare, alcuni princìpi fondamentali nel cui
rispetto le regioni e le province autonome provvedono all'attuazione, per quanto di competenza, delle
direttive comunitarie, di cui agli allegati al presente disegno di legge, in materie particolarmente
rilevanti, quali «tutela e sicurezza del lavoro», «professioni» e «tutela della salute».Il capo III contiene
disposizioni dirette a modificare o abrogare disposizioni statali vigenti in contrasto con l'ordinamento
comunitario ovvero predispongono condizioni normative migliori per il recepimento e l'attuazione della
disciplina comunitaria.
L'articolo 8 individua i criteri e i princìpi direttivi per l'attuazione della direttiva 2005/14/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, sull'assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli. In particolare, sono stabiliti i nuovi massimali minimi
obbligatori di copertura per l'assicurazione di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei
veicoli a motore e dei natanti. I massimali minimi obbligatori attualmente ammontano,
indipendentemente dal numero delle vittime o dalla natura dei danni, a 774.685,35 euro per le
autovetture, i veicoli per trasporto di cose, i ciclomotori e i motoveicoli ad uso privato, le macchine
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operatrici e i carrelli e le macchine agricole, mentre per gli autobus e per le gare e competizioni
sportive di veicoli a motore ammontano a 2.582.284,50 euro (decreto del Presidente della Repubblica
19 aprile 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 153 del 2 luglio 1993). Tali massimali sono
aggiornati a 5.000.000 di euro per sinistro nel caso di danni alle persone, indipendentemente dal
numero delle vittime, e a 1.000.000 di euro per sinistro nel caso di danni alle cose, indipendentemente
dal numero delle vittime. Èanche previsto un periodo transitorio di cinque anni, a decorrere dalla data
dell'11 giugno 2007 prevista per l'attuazione della direttiva in questione, per adeguare gli importi
minimi di copertura obbligatoria per i danni alle cose e per i danni alle persone.
Si fissa, inoltre, ai fini del risarcimento da parte del Fondo di garanzia per le vittime della strada dei
danni alle cose causati da un veicolo non identificato, una franchigia di importo pari a 500 euro,
qualora per lo stesso incidente il Fondo sia intervenuto anche per il risarcimento di gravi danni alle
persone.
Le disposizioni necessarie per l'attuazione della direttiva in questione andranno a modificare il codice
delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209.
Le nuove disposizioni non comportano oneri a carico del bilancio dello Stato.
L'articolo 9 modifica l'articolo 7 della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore
farmaceutico), concernente la titolarità e gestione della farmacia. Finalità della disposizione è quella di
rendere coerente tutta la disciplina del settore farmaceutico eliminando una previsione in contrasto
con il principio che affida, in via esclusiva, la titolarità degli esercizi a farmacisti in possesso
dell'abilitazione professionale. La legge dispone che, anche quando titolare della farmacia non sia una
persona fisica, ma una società, questa sia costituita esclusivamente da farmacisti iscritti all'albo della
provincia in cui ha sede la società. In contraddizione con detto principio, le norme oggetto della
modifica consentono all'erede (che sia coniuge o erede in linea diretta entro il secondo grado) di un
farmacista titolare di farmacia o socio di società titolare di farmacia di continuare a gestire l'esercizio
(o a partecipare alla sua gestione con gli altri soci) fino al compimento del trentesimo anno di età
ovvero, se successivo, fino al termine di dieci anni dal trasferimento mortis causa dell'esercizio o della
quota societaria. La questione è stata oggetto di specifico rilievo da parte della Commissione europea.
L'articolo 10 attua l'articolo 37, paragrafo 2, della direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, con una
norma transitoria che consente l'esercizio della professione di odontoiatra ai laureati in medicina e
chirurgia il cui corso di studio abbia avuto inizio entro il 31 dicembre 1994.
L'articolo 11 è finalizzato a creare le condizioni per rendere possibile, in tempi ravvicinati, la
realizzazione di un sistema nazionale conforme, per i profili sanzionatori, alla normativa comunitaria
nel settore della classificazione tradizionale e automatizzata delle carcasse bovine, di cui al
regolamento (CEE) n. 344/91 della Commissione, del 13 febbraio 1991; in particolare, la modifica
recata dal regolamento (CE) n. 1215/2003 della Commissione, del 7 luglio 2003, alla predetta norma
di base, che ha dato facoltà agli Stati membri di autorizzare tecniche automatizzate, non è attualmente
presidiata da specifiche sanzioni, mentre, per quanto attiene l'ambito applicativo, è stata emanata dal
competente Ministero delle politiche agricole e forestali una circolare illustrativa delle relative
procedure operative, in data 22 marzo 2005, rendendo così accessibile agli operatori la nuova forma
di classificazione.
L'articolo in esame interviene, quindi, a sanare la lacuna normativa esistente nei confronti del citato
regolamento (CEE) n. 344/91, a seguito dell'intervenuta modifica riguardante i controlli delle
operazioni di classificazione automatizzata, laddove l'articolo 3, paragrafo 3, da un lato rinvia alla
disposizione generale del regolamento (CEE) n. 1186/90 del Consiglio, del 7 maggio 1990,
disciplinante il settore, che prevede la predisposizione da parte degli Stati membri di misure
appropriate per sanzionare comportamenti che non rispettino gli obblighi derivanti dal regolamento
medesimo, dall'altro individua particolari fattispecie di infrazioni da perseguire, fra cui la classificazione
ad opera di personale privo della prescritta licenza.
Nel contempo, si è ritenuto necessario intervenire anche sulle procedure non automatizzate già
presidiate dall'ordinamento, ai sensi della legge 8 luglio 1997, n. 213, nel cui ambito applicativo
eventuali violazioni di obblighi e adempimenti sono risultate finora di difficile sanzionabilità, in quanto i
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soggetti coinvolti (titolare dello stabilimento e tecnico classificatore) sono stati solo con la recente
modifica regolamentare meglio identificati in base alle rispettive competenze. Il riassetto del
complesso delle misure applicative sanzionatorie ha comportato altresì un adeguamento degli importi
pecuniari, rimodulati a seconda delle irregolarità riscontrate, distinguendo le responsabilità del titolare
dello stabilimento da quelle del tecnico classificatore nonché effettuando un preciso raccordo con le
norme nazionali di attuazione, emanate successivamente alla citata legge n. 213 del 1997.
L'articolo, in particolare, prevede la sostituzione integrale dell'articolo 3 della legge 8 luglio 1997, n.
213, nel senso di comminare sanzioni amministrative nei confronti dei titolari degli stabilimenti
interessati, distinte per la fattispecie della classificazione tradizionale e per quella automatizzata,
introducendo l'articolo 3-bis per tale ultima procedura. Da ultimo, con l'articolo 3-ter, in caso di
comportamenti non conformi alle norme comunitarie e nazionali di settore, è disposta la revoca, previa
diffida, delle prescritte forme di abilitazione e di licenza ad operare, rispettivamente per i tecnici
classificatori e per i titolari degli stabilimenti autorizzati all'uso di classificazione automatizzata. Inoltre,
per quanto concerne le competenze in materia irrogatoria, fermo restando il rinvio per gli accertamenti
e le procedure alla legge 24 novembre 1981, n. 689, tenuto conto che si tratta di un sistema di
controllo svolto a livello decentrato, è stata prevista la cosiddetta «clausola di cedevolezza», con
riferimento agli organi regionali da individuare, per assicurare la necessaria continuità al sistema che
attualmente prevede l'Ispettorato centrale repressione frodi del Ministero delle politiche agricole,
alimentari e forestali quale organo dell'Amministrazione preposto alla irrogazione sanzionatoria.
L'articolo 12 sostituisce il comma 3 dell'articolo 7 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, di
recepimento della direttiva 98/8/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, che
disciplina la materia dell'immissione sul mercato dei biocidi, in quanto non riproduce fedelmente la
norma
prevista dall'articolo 5, paragrafo 2, della suddetta direttiva.
L'articolo ha, pertanto, lo scopo di conformare il decreto legislativo alla disciplina comunitaria, per
consentire una corretta e completa applicazione del regime autorizzatorio armonizzato tra tutti gli Stati
membri.
Con tale articolo è stato sostituito il riferimento al decreto legislativo 16 luglio 1998, n. 285, con il
decreto legislativo 14 marzo 2003, n. 65, in quanto quest'ultimo, all'articolo 20, ha abrogato il primo.
L'articolo 13 modifica il decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194. La prima modifica consiste nella
integrale sostituzione del comma 1 dell'articolo 11 e trova giustificazione nel fatto che il decreto
legislativo n. 194 del 1995, con il quale è stata recepita la direttiva 91/414/CEE, non ha riportato
integralmente quanto specificato al paragrafo 1 dell'articolo 11 della direttiva medesima.
Tale direttiva, infatti, prevede la possibilità di limitare o proibire l'uso o la vendita di un prodotto
fitosanitario «autorizzato o che è tenuto ad autorizzare ai sensi dell'articolo 10» facendo riferimento sia
a quei prodotti che sono già stati autorizzati da un altro Stato membro (procedura dell'articolo 10), sia
a quelli che, invece, sono stati autorizzati per la prima volta in Italia dal Ministero della salute.
L'attuale formulazione del comma 1 dell'articolo 11 del citato decreto legislativo n. 194 del 1995 limita
la predetta possibilità di intervenire in via cautelativa solo per i prodotti già autorizzati in un altro Stato
membro.
La seconda modifica è volta a introdurre il comma 4-bis dell'articolo 20, prevedendo l'aumento del
numero degli esperti della Commissione consultiva prodotti fitosanitari. Ciò in considerazione della
notevole mole di lavoro necessaria per mantenere gli impegni assunti a livello comunitario. Non si
pone un problema di copertura finanziaria della norma in quanto le spese della suddetta Commissione
consultiva sono a carico degli interessati alle attività svolte dalla Commissione stessa, secondo tariffe
e modalità stabilite con decreti ministeriali.
L'articolo 14 è finalizzato a modificare il comma 2 dell'articolo 11 del regolamento di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 23 aprile 2001, n. 290, fissando i criteri direttivi; la previsione normativa
trova giustificazione nella circostanza che l'Unione europea ha da tempo avviato la revisione delle
sostanze attive che sono presenti nei prodotti fitosanitari registrati e in commercio negli Stati membri.
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L'obiettivo della revisione è quello di tutelare la salute dei consumatori e degli operatori attraverso una
più corretta utilizzazione dei prodotti fitosanitari e una riduzione del loro impatto ambientale.
Secondo la direttiva 91/414/CEE la procedura di revisione prevede la presentazione da parte delle
aziende di una documentazione aggiornata che viene valutata dagli Stati membri al fine di creare una
lista positiva (allegato I della direttiva) di sostanze attive che possono essere utilizzate nella
formulazione di prodotti fitosanitari. Le sostanze attive attualmente in commercio sono 800 e l'Unione
europea ha diluito nel tempo la procedura di revisione. Dette sostanze sono state suddivise in quattro
liste di revisione, definite con appositi regolamenti (regolamento (CEE) n. 3600/92 della Commissione,
dell'11 dicembre 1992; regolamento (CE) n. 451/2000 della Commissione, del 28 febbraio 2000;
regolamento (CE) n. 1112/2002 della Commissione, del 20 giugno 2002; regolamento (CE) n.
1490/2002 della Commissione, del 14 agosto 2002). Poiché nell'articolato del regolamento di cui al
decreto del Presidente della Repubblica n. 290 del 2001 sono citati soltanto i primi due regolamenti n.
3600/92 e n. 451/2002, ciò impedisce che possa avere seguito l'istruttoria relativa alla proroga di
autorizzazione per l'immissione in commercio di prodotti fitosanitari la cui sostanza attiva è stata
inclusa negli allegati dei successivi regolamenti comunitari, ma di cui non esiste attualmente, nel citato
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 290 del 2001, alcun riferimento
normativo. Ne consegue la necessità di modificare il citato comma 2.
L'articolo 15 disciplina la materia della preparazione e del commercio degli alimenti per animali, di cui
alla legge 15 febbraio 1963, n. 281, depenalizzata con il decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507,
nell'ambito della generale depenalizzazione dei reati minori, come tutto il settore della produzione,
commercio e igiene degli alimenti e delle bevande.
Con il decreto-legge 11 gennaio 2001, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2001, n.
49, sono stati nuovamente penalizzati i soli articoli 22 e 23 della citata legge n. 281 del 1963, mentre
in occasione del recepimento delle direttive 2001/102/CE del Consiglio, del 27 novembre 2001,
2002/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 maggio 2002, 2003/57/CE della
Commissione, del 17 giugno
2003, 2003/100/CE della Commissione, del 31 ottobre 2003, sono state previste sanzioni penali per la
violazione di alcune disposizioni concernenti i prodotti destinati all'alimentazione degli animali (articolo
9 del decreto legislativo 10 maggio 2004, n. 149).
In proposito, occorre evidenziare che tutta la materia della sicurezza alimentare concernente gli
alimenti e anche i mangimi è disciplinata dal regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che fissa tutte le procedure e gli obblighi a carico degli operatori.
Per tale regolamento è stato predisposto un decreto legislativo recentemente entrato in vigore
(decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 190).
Con l'articolo proposto, pertanto, si persegue la finalità di uniformare la disciplina sanzionatoria della
materia in questione.
L'articolo 16 costituisce novella legislativa alla parte VI del codice del consumo, di cui al decreto
legislativo 6 settembre 2005, n. 206.
Con tale articolo, ai primi due commi, si individua nel Ministero dello sviluppo economico l'autorità
competente per la cooperazione in materia di tutela dei consumatori, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo
1, lettera c), del regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27
ottobre 2004, relativamente all'applicazione della normativa in materia di servizi turistici (parte III, titolo
IV, capo II, del codice del consumo), di clausole abusive nei contratti (parte III, titolo I, del codice del
consumo), e di garanzie nella vendita di beni di consumo (parte IV, titolo III, capo I, del codice del
consumo), per i quali non sono state indicate autorità di riferimento in sede di recepimento delle
direttive corrispondenti (rispettivamente il decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 111, la legge 6
febbraio 1996, n. 52, e il decreto legislativo 2 febbraio 2002, n. 24) e di elaborazione del codice del
consumo.
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Il comma 3 estende l'operatività dei poteri dell'autorità competente per le infrazioni transfrontaliere
anche alle infrazioni nazionali, al fine di evitare un diverso e discriminatorio livello di tutela dei
consumatori nelle medesime materie, in caso di infrazioni nazionali rispetto alle infrazioni
infracomunitarie.
Il comma 4 disciplina le modalità di esercizio dei poteri dell'autorità competente, ai sensi dell'articolo
4, paragrafo 6, del citato regolamento (CE) n. 2006/2004, disponendo che, per l'attività sul territorio, il
Ministero dello sviluppo economico possa avvalersi della collaborazione delle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura, di altre autorità pubbliche, nonché delle associazioni dei
consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, e perciò iscritte all'elenco di cui
all'articolo 137 del codice del consumo. Si precisa che l'attività delle associazioni dei consumatori e
degli utenti in tale materia rimane circoscritta alle azioni inibitorie di cui all'articolo 139 del codice del
consumo.
Il penultimo comma rinvia ad un successivo regolamento di attuazione la disciplina delle procedure
istruttorie per l'esercizio dei poteri da parte dell'autorità competente, sulla falsariga di quello previsto
per la pubblicità ingannevole e comparativa (articolo 26, comma 9, del codice del consumo).
Infine, l'ultimo comma dell'articolo in esame individua nel Ministero dello sviluppo economico l'autorità
competente a designare l'ufficio unico di collegamento, responsabile dell'applicazione del regolamento
(CE) n. 2006/2004, definito all'articolo 3, lettera d), di tale regolamento.
L'articolo 17 reca disposizioni attuative degli obblighi di cui al regolamento (CE) n. 865/2004 del
Consiglio, del 29 aprile 2004, in materia di organizzazione comune di mercato dell'olio di oliva,
prevedendo obblighi di comunicazione mensili all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) di
elementi relativi alla produzione di olio di oliva realizzata.
La norma prevede, altresì, che le modalità e la tempistica delle comunicazioni siano fissate con
decreto ministeriale, sentita la Conferenza Stato-regioni.
Il comma 3 reca disposizioni sanzionatorie.
L'articolo 18 reca disposizioni in tema di trasformazione del Centro nazionale di informazione e
documentazione europea (CIDE).
Il CIDE è stato costituito con contratto tra il Governo italiano e la Commissione europea nella forma di
Gruppo europeo di interesse economico (GEIE), ai sensi della legge 23 giugno 2000, n. 178.
La Commissione europea, con decisione C(2005) 4477 del 28 novembre 2005, ha ritenuto di non
rinnovare la sua partecipazione ai Centri nazionali di informazione sull'Europa nella forma di GEIE
(«Grandi centri» esistenti a Parigi, Lisbona e Roma) dopo la scadenza dei rispettivi contratti istitutivi
(dicembre 2006 per Lisbona e marzo 2007 per Parigi e Roma). Con la stessa decisione, in coerenza
con il Piano d'azione SEC(2005) 985 del 20 luglio 2005, relativo al miglioramento della comunicazione
sull'Europa, la Commissione offre ai Governi dei Paesi membri e, in particolare, alla Repubblica
francese, alla Repubblica del Portogallo e alla Repubblica italiana, nuove forme di collaborazione
definite «partenariati di gestione», nelle quali è, tra l'altro, previsto di utilizzare lo strumento collaudato
dei Grandi centri per fare fronte alle esigenze di informazione dell'opinione pubblica sulle attività
dell'Unione europea, in maniera coordinata e permanente.
Il partenariato di gestione, così come delineato dalla comunicazione della Commissione sulla
attuazione della strategia d'informazione e di comunicazione dell'Unione europea - COM(2004) 196
del 20 aprile 2004 - istituisce un rapporto strutturato tra le parti, che governa il piano di comunicazione
concordato. A questo fine, è previsto un accordo pluriennale con lo Stato membro per assicurare un
contributo finanziario della Comunità all'organismo scelto e proposto dal Governo nazionale. Spetta
dunque al Governo, in stretta collaborazione con il Parlamento nazionale, di aggiornare e di adeguare
lo strumento esistente, in modo da renderlo capace di assolvere ai compiti di informazione,
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documentazione e formazione verso i cittadini italiani e determinate categorie di utenti, in
cooperazione strutturata con la Commissione europea.
Completano il presente disegno di legge gli allegati A, B e C.
I primi due allegati contengono l'elencazione delle direttive da recepire con decreto legislativo e,
come per gli anni precedenti, la differenza è data dall'iter di approvazione parzialmente diverso, dal
momento che per le sole direttive contenute nell'allegato B è previsto l'esame degli schemi di decreto
da parte delle competenti Commissioni parlamentari.
L'allegato C contiene l'elenco delle direttive per le quali il Governo è autorizzato all'emanazione di
regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988.
Va ricordato che l'articolo 8, comma 5, della legge n. 11 del 2005, impone l'obbligo alla relazione al
disegno di legge comunitaria:
a) di riferire sullo stato di conformità dell'ordinamento interno al diritto comunitario e sullo stato di
eventuali procedure di infrazione, dando conto, in particolare, della giurisprudenza della Corte di
giustizia delle Comunità europee relativa alle eventuali inadempienze e violazioni degli obblighi
comunitari da parte della Repubblica italiana;
b) di fornire l'elenco delle direttive attuate o da attuare in via amministrativa;
c) di dare partitamente conto delle ragioni dell'eventuale omesso inserimento delle direttive il cui
termine di recepimento è già scaduto e di quelle il cui termine di recepimento scade nel periodo di
riferimento, in relazione ai tempi previsti per l'esercizio della delega legislativa.
28/09 Approvata dalla Camera, e' al Senato
disegno di legge comunitaria 2006
Dopo l'approvazione alla Camera dei Deputati, avvenuta lo scorso 21 settembre, è stato trasmesso al
Senato il disegno di legge comunitaria per il 2006.
E' la legge 4 febbraio 2005 n. 11 ("Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo
normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari"), in
sostituzione della precedente legge 86/89, a stabilisce un'apposita procedura di recepimento della
normativa comunitaria, mediante presentazione al Parlamento -entro il 31 gennaio di ogni anno- di un
disegno di legge annuale, con il quale dovrebbe essere assicurato l'adeguamento periodico
dell'ordinamento nazionale a quello comunitario. Il disegno di legge comunitaria 2006 contiene
anzitutto, al capo I, la delega al Governo per l'attuazione delle direttive comunitarie contenute negli
allegati A e B. L'art. 1, c. 7, prevede un intervento suppletivo, anticipato e cedevole da parte dello
Stato in caso di inadempienza delle regioni nell'attuazione delle direttive, nel rispetto dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario e dei princìpi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello Stato.
La norma stabilisce inoltre la necessaria indicazione espressa della natura sostitutiva e cedevole dei
provvedimenti statali suppletivi.
L'articolo 2 reca i princìpi e criteri direttivi generali della delega legislativa.
Con l'articolo 6, si autorizza il Governo a dare attuazione alle direttive comprese nell'allegato C, con
successivi regolamenti (di delegificazione).
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Il capo II, in adempimento di un obbligo recato dalla legge n. 11 del 2005, reca disposizioni che
individuano i princìpi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano la
propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l'applicazione di atti comunitari nelle
materie di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
Il capo III, infine, reca modificazioni e abrogazioni di disposizioni vigenti in contrasto con gli obblighi
derivanti dall'appartenenza all'Unione europea nonché criteri specifici di delega ed autorizzazione e
disposizioni particolari.
L'articolo 7 mira a facilitare alle regioni e alle province autonome l'esercizio della loro competenza
legislativa concorrente nel recepimento di atti comunitari, individuando i princìpi fondamentali che le
regioni e le province autonome sono tenute a rispettare.
L'articolo 10 reca, in materia di acquisizione del titolo di odontoiatra, un'apposita norma transitoria.
Il disegno di legge stabilisce che i decreti legislativi eventualmente adottati nelle materie riservate alla
competenza legislativa delle regioni e delle province autonome, qualora queste ultime non abbiano
provveduto con proprie norme attuative secondo quanto previsto dall'articolo 117, quinto comma, della
Costituzione, entrano in vigore alla scadenza del termine stabilito per l'attuazione della normativa
comunitaria e perdono efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della normativa attuativa
regionale o provinciale.
Riportiamo di seguito il disegno di legge n. 1014 AS, in attesa della sua definitiva approvazione.
Disegno di legge di iniziativa governativa n. 1014/AS (già n. 1042 AC)
Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
europee – Legge comunitaria 2006
Capo I
DELEGA AL GOVERNO PER L’ATTUAZIONE DI DIRETTIVE COMUNITARIE
Art. 1.
(Delega al Governo per l’attuazione di direttive comunitarie)
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive
comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B. Per le direttive il cui termine di recepimento sia già
scaduto ovvero scada nei sei mesi successivi alla data di entrata in vigore della presente legge, il
termine per l’adozione dei decreti legislativi di cui al presente comma è ridotto a sei mesi.
2. I decreti legislativi sono adottati, nel rispetto dell’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400, su
proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le politiche europee e del Ministro
con competenza istituzionale prevalente per la materia, di concerto con i Ministri degli affari esteri,
della giustizia, dell’economia e delle finanze e con gli altri Ministri interessati in relazione all’oggetto
della direttiva.
3. Gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive comprese nell’elenco di cui
all’allegato B, nonché, qualora sia previsto il ricorso a sanzioni penali, quelli relativi all’attuazione delle
direttive comprese nell’elenco di cui all’allegato A sono trasmessi, dopo l’acquisizione degli altri pareri
previsti dalla legge, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica affinché su di essi sia
espresso il parere dei competenti organi parlamentari. Decorsi quaranta giorni dalla data di
trasmissione, i decreti sono emanati anche in mancanza del parere. Qualora il termine per
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l’espressione del parere parlamentare di cui al presente comma, ovvero i diversi termini previsti dai
commi 4 e 9, scadano nei trenta giorni che precedono la scadenza dei termini previsti ai commi 1 o 5
o successivamente, questi ultimi sono prorogati di novanta giorni.
4. Gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive che comportano conseguenze
finanziarie sono corredati dalla relazione tecnica di cui all’articolo 11-ter, comma 2, della legge 5
agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni. Su di essi è richiesto anche il parere delle
Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari. Il Governo, ove non intenda conformarsi
alle condizioni formulate con riferimento all’esigenza di garantire il rispetto dell’articolo 81, quarto
comma, della Costituzione, ritrasmette alle Camere i testi, corredati dei necessari elementi integrativi
di informazione, per i pareri definitivi delle Commissioni competenti per i profili finanziari, che devono
essere espressi entro venti giorni. La procedura di cui al presente comma si applica in ogni caso per
gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive: 2005/32/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 6 luglio 2005; 2005/33/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 luglio
2005; 2005/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005; 2005/47/CE del
Consiglio, del 18 luglio 2005; 2005/56/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre
2005; 2005/61/CE della Commissione, del 30 settembre 2005; 2005/62/CE della Commissione, del 30
settembre 2005; 2005/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005;
2005/71/CE del Consiglio, del 12 ottobre 2005; 2005/81/CE della Commissione, del 28 novembre
2005; 2005/85/CE del Consiglio, del 1º dicembre 2005; 2005/94/CE del Consiglio, del 20 dicembre
2005; 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006.
5. Entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al
comma 1, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi fissati dalla presente legge, il Governo può
emanare, con la procedura indicata nei commi 2, 3 e 4, disposizioni integrative e correttive dei
decreti legislativi adottati ai sensi del comma 1, fatto salvo quanto previsto dal comma 6.
6. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1,
adottati per il recepimento di direttive per le quali la Commissione europea si sia riservata di
adottare disposizioni di attuazione, il Governo è autorizzato, qualora tali disposizioni siano
state effettivamente adottate, a recepirle
nell’ordinamento nazionale con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 1,
della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, secondo quanto disposto dagli
articoli 9 e 11 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, e con le procedure ivi previste.
7. In relazione a quanto disposto dall’articolo 117, quinto comma, della Costituzione e
dall’articolo 16, comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, si applicano le disposizioni di
cui all’articolo 11, comma 8, della medesima legge n. 11 del 2005.
8. Il Ministro per le politiche europee, nel caso in cui una o più deleghe di cui al comma 1
non risultino ancora esercitate decorsi quattro mesi dal termine previsto dalla direttiva per la
sua attuazione, trasmette alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica una relazione
che dà conto dei motivi addotti dai Ministri con competenza istituzionale prevalente per la
materia a giustificazione del ritardo. Il Ministro per le politiche europee ogni sei mesi informa
altresì la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sullo stato di attuazione delle
direttive da parte delle regioni e delle province autonome nelle materie di loro competenza.
9. Il Governo, quando non intende conformarsi ai pareri parlamentari di cui al comma 3,
relativi a sanzioni penali contenute negli schemi di decreti legislativi recanti attuazione delle
direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B, ritrasmette con le sue osservazioni
e con eventuali modificazioni i testi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica.
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Decorsi trenta giorni dalla data di trasmissione, i decreti sono adottati anche in mancanza di
nuovo parere.
Art. 2.
(Princìpi e criteri direttivi generali della delega legislativa)
1. Salvi gli specifici princìpi e criteri direttivi stabiliti dalle disposizioni di cui al capo IV e in aggiunta a
quelli contenuti nelle direttive da attuare, i decreti legislativi di cui all’articolo 1 sono informati ai
seguenti princìpi e criteri direttivi generali:
a) le amministrazioni direttamente interessate provvedono all’attuazione dei decreti legislativi con le
ordinarie strutture amministrative;
b) ai fini di un migliore coordinamento con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla
normativa da attuare, sono introdotte le occorrenti modificazioni alle discipline stesse, fatte salve le
materie oggetto di delegificazione ovvero i procedimenti oggetto di semplificazione amministrativa;
c) al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza
delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sono previste sanzioni amministrative e penali per le
infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente,
dell’ammenda fino a 150.000 euro e dell’arresto fino a tre anni, sono previste, in via alternativa o
congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi costituzionalmente
protetti. In tali casi sono previste: la pena dell’ammenda alternativa all’arresto per le infrazioni che
espongano a pericolo o danneggino l’interesse protetto; la pena dell’arresto congiunta a quella
dell’ammenda per le infrazioni che rechino un danno di particolare gravità. Nelle predette ipotesi, in
luogo dell’arresto e dell’ammenda, possono essere previste anche le sanzioni alternative di cui agli
articoli 53 e seguenti del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, e la relativa competenza del
giudice di pace. La sanzione amministrativa del pagamento di una somma non inferiore a 150 euro e
non superiore a 150.000 euro è prevista per le infrazioni che ledano o espongano a pericolo interessi
diversi da quelli indicati nel secondo periodo della presente lettera. Nell’ambito dei limiti minimi e
massimi previsti, le sanzioni indicate dalla presente lettera sono determinate nella loro entità, tenendo
conto della diversa potenzialità lesiva dell’interesse protetto che ciascuna infrazione presenta in
astratto, di specifiche qualità personali del colpevole, comprese quelle che impongono particolari
doveri di prevenzione, controllo o vigilanza, nonché del vantaggio patrimoniale che l’infrazione può
recare al colpevole o alla persona o all’ente nel cui interesse egli agisce. Entro i limiti di pena indicati
dalla presente lettera sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle
leggi vigenti per le violazioni omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei
decreti legislativi;
d) eventuali spese non contemplate da leggi vigenti e che non riguardano l’attività ordinaria delle
amministrazioni statali o regionali possono essere previste nei decreti legislativi recanti le norme
necessarie per dare attuazione alle direttive nei soli limiti occorrenti per l’adempimento degli obblighi
di attuazione delle direttive stesse; alla relativa copertura, nonché alla copertura delle minori entrate
eventualmente derivanti dall’attuazione delle direttive, in quanto non sia possibile fare fronte con i
fondi già assegnati alle competenti amministrazioni, si provvede a carico del fondo di rotazione di cui
all’articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, per un ammontare complessivo non superiore a 50
milioni di euro;
e) all’attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o con decreto
legislativo si procede, se la modificazione non comporta ampliamento della materia regolata,
apportando le corrispondenti modificazioni alla legge o al decreto legislativo di attuazione della
direttiva modificata;
f) nella predisposizione dei decreti legislativi si tiene conto delle eventuali modificazioni delle direttive
comunitarie comunque intervenute fino al momento dell’esercizio della delega;
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g) quando si verifichino sovrapposizioni di competenze fra amministrazioni diverse o comunque siano
coinvolte le competenze di più amministrazioni statali, i decreti legislativi individuano, attraverso le più
opportune forme di coordinamento, rispettando i princìpi di sussidiarietà, differenziazione,
adeguatezza e leale collaborazione e le competenze delle regioni e degli altri enti territoriali, le
procedure per salvaguardare l’unitarietà dei processi decisionali, la trasparenza, la celerità, l’efficacia
e l’economicità nell’azione amministrativa e la chiara individuazione dei soggetti responsabili.
Art. 3.
(Delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di disposizioni comunitarie)
1. Al fine di assicurare la piena integrazione delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale, il
Governo, fatte salve le norme penali vigenti, è delegato ad adottare, entro due anni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative per le
violazioni di direttive comunitarie attuate in via regolamentare o amministrativa, ai sensi delle leggi
comunitarie vigenti, e di regolamenti comunitari vigenti alla data di entrata in vigore della presente
legge, per le quali non siano già previste sanzioni penali o amministrative.
2. La delega di cui al comma 1 è esercitata con decreti legislativi adottati ai sensi dell’articolo 14 della
legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per
le politiche europee e del Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri competenti per materia. I
decreti legislativi si informano ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c).
3. Gli schemi di decreto legislativo di cui al presente articolo sono trasmessi alla Camera dei deputati
e al Senato della Repubblica per l’espressione del parere da parte dei competenti organi parlamentari
con le modalità e nei termini previsti dai commi 3 e 9 dell’articolo 1.
Art. 4.
(Oneri relativi a prestazioni e controlli)
1. In relazione agli oneri per prestazioni e controlli si applicano le disposizioni di cui all’articolo 9,
comma 2, della legge 4 febbraio 2005, n. 11.
2. Le entrate derivanti dalle tariffe determinate ai sensi del comma 1, qualora riferite all’attuazione
delle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B, nonché di quelle da recepire con lo
strumento regolamentare, sono attribuite alle amministrazioni che effettuano le prestazioni e i controlli,
mediante riassegnazione ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10
novembre 1999, n. 469.
Art. 5.
(Delega al Governo per il riordino normativo nelle materie interessate dalle direttive
comunitarie)
1. Il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, con
le modalità di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 1, entro il termine di diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge, testi unici delle disposizioni dettate in attuazione delle deleghe conferite
per il recepimento di direttive comunitarie, al fine di coordinare le medesime con le altre norme
legislative vigenti nelle stesse materie, apportando le sole modificazioni necessarie a garantire la
semplificazione e la coerenza logica, sistematica e lessicale della normativa.
2. I testi unici di cui al comma 1 riguardano materie o settori omogenei.
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3. Per le disposizioni adottate ai sensi del presente articolo si applica quanto previsto al comma 7
dell’articolo 1.
Art. 6.
(Attuazione di direttive comunitarie con regolamento autorizzato)
1. Il Governo è autorizzato a dare attuazione alle direttive comprese nell’elenco di cui all’allegato C
con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988,
n. 400, secondo quanto disposto dagli articoli 9 e 11 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, e con le
procedure ivi previste, previo parere dei competenti organi parlamentari ai quali gli schemi di
regolamento sono trasmessi con apposite relazioni cui è allegato il parere del Consiglio di Stato e che
si esprimono entro quaranta giorni dall’assegnazione. Decorso il predetto termine, i regolamenti sono
emanati anche in mancanza di detti pareri.
2. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri né minori entrate
per la finanza pubblica.
Capo II
INFORMAZIONI AL PARLAMENTO SUL CONTENZIOSO COMUNITARIO E SUI FLUSSI
FINANZIARI CON L’UNIONE EUROPEA
Art. 7.
(Introduzione degli articoli 15-bis e 15-ter della legge 4 febbraio 2005, n. 11)
1. Dopo l’articolo 15 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, sono inseriti i seguenti:
«Art. 15-bis. - (Informazione al Parlamento su procedure giurisdizionali e di pre-contenzioso
riguardanti l’Italia). – 1. Il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per le politiche europee,
sulla base delle informazioni ricevute dalle amministrazioni competenti, trasmette ogni sei mesi alle
Camere e alla Corte dei conti un elenco, articolato per settore e materia:
a) delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee e degli altri organi giurisdizionali
dell’Unione europea relative a giudizi di cui l’Italia sia stata parte o che abbiano rilevanti conseguenze
per l’ordinamento italiano;
b) dei rinvii pregiudiziali disposti ai sensi dell’articolo 234 del Trattato istitutivo della Comunità europea
o dell’articolo 35 del Trattato sull’Unione europea, da organi giurisdizionali italiani;
c) delle procedure di infrazione avviate nei confronti dell’Italia ai sensi degli articoli 226 e 228 del
Trattato istitutivo della Comunità europea, con informazioni sintetiche sull’oggetto e sullo stato del
procedimento nonché sulla natura delle eventuali violazioni contestate all’Italia;
d) dei procedimenti di indagine formale avviati dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia ai
sensi dell’articolo 88, paragrafo 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per le politiche europee,
trasmette ogni sei mesi alle Camere e alla Corte dei conti informazioni sulle eventuali conseguenze di
carattere finanziario degli atti e delle procedure di cui al comma 1.
3. Nei casi di particolare rilievo o urgenza o su richiesta di una delle due Camere, il Presidente del
Consiglio dei ministri o il Ministro per le politiche europee trasmette alle Camere, in relazione a
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specifici atti o procedure, informazioni sulle attività e sugli orientamenti che il Governo intende
assumere e una valutazione dell’impatto sull’ordinamento.
Art. 15-ter. - (Relazione trimestrale al Parlamento sui flussi finanziari con l’Unione europea). – 1. Il
Governo presenta ogni tre mesi alle Camere una relazione sull’andamento dei flussi finanziari tra
l’Italia e l’Unione europea. La relazione contiene un’indicazione dei flussi finanziari ripartiti per
ciascuna rubrica e sottorubrica contemplata dal quadro finanziario pluriennale di riferimento
dell’Unione europea. Per ciascuna rubrica e sottorubrica sono riportati la distribuzione e lo stato di
utilizzo delle risorse erogate dal bilancio dell’Unione europea in relazione agli enti competenti e alle
aree geografiche rilevanti».
Capo III
PRINCÌPI FONDAMENTALI DELLA LEGISLAZIONE CONCORRENTE
Art. 8.
(Individuazione di princìpi fondamentali in particolari materie di competenza concorrente)
1. Sono princìpi fondamentali, nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano la
propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti comunitari di
cui agli allegati alla presente legge in materia di «tutela e sicurezza del lavoro», i seguenti:
a) salvaguardia delle disposizioni volte a tutelare in modo uniforme a livello nazionale il bene tutelato
«tutela e sicurezza del lavoro», con particolare riguardo all’esercizio dei poteri sanzionatori;
b) possibilità per le regioni e le province autonome di introdurre, laddove la situazione lo renda
necessario, nell’ambito degli atti di recepimento di norme comunitarie incidenti sulla materia «tutela e
sicurezza del lavoro» e per i singoli settori di intervento interessati, limiti e prescrizioni ulteriori rispetto
a quelli fissati dallo Stato, con contestuale salvaguardia degli obiettivi di protezione perseguiti nella
medesima tutela dalla legislazione statale.
2. Sono princìpi fondamentali, nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano la
propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti comunitari di
cui agli allegati alla presente legge nella materia «tutela della salute», i seguenti:
a) salvaguardia delle disposizioni volte a tutelare in modo uniforme a livello nazionale il bene tutelato
«salute», con particolare riguardo all’esercizio dei poteri sanzionatori;
b) limitazione degli interventi regionali e provinciali in materie concernenti la tutela della salute e le
scelte terapeutiche comunque incidenti su diritti fondamentali della persona interessata, qualora
l’opzione normativa non risulti fondata sull’elaborazione di indirizzi basati sulla verifica dello stato delle
conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite tramite istituzioni e organismi
nazionali o sopranazionali e non costituisca il risultato di tale verifica;
c) possibilità per le regioni e le province autonome di introdurre, nell’ambito degli atti di recepimento di
norme comunitarie incidenti sulla tutela della salute e per i singoli settori di intervento interessati, limiti
e prescrizioni più severi di quelli fissati dallo Stato, con contestuale salvaguardia degli obiettivi di
protezione della salute perseguiti dalla legislazione statale.
3. Le regioni a statuto speciale e le province autonome danno attuazione o assicurano l’applicazione
degli atti comunitari di cui al presente articolo compatibilmente con le disposizioni dei rispettivi statuti
speciali di autonomia e delle relative norme di attuazione.
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4. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica.
Capo IV
DISPOSIZIONI PARTICOLARI DI ADEMPIMENTO, CRITERI SPECIFICI DI DELEGA LEGISLATIVA
Art. 9.
(Introduzione dell’articolo 26-bis della legge 25 gennaio 2006, n. 29, recante attuazione della
direttiva 2005/14/CE sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli)
1. Dopo l’articolo 26 della legge 25 gennaio 2006, n. 29, è aggiunto il seguente:
«Art. 26-bis. - (Attuazione della direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11
maggio 2005, che modifica le direttive 72/166/CEE, 84/5/CEE, 88/357/CEE, 90/232/CEE e la direttiva
2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, sull’assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli). – 1. Nella predisposizione del decreto legislativo per
l’attuazione della direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005,
che modifica le direttive
72/166/CEE, 84/5/CEE, 88/357/CEE, 90/232/CEE e la direttiva 2000/26/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, il
Governo è tenuto a seguire, oltre ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 3, anche i seguenti
princìpi e criteri direttivi:
a) prevedere che l’assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a
motore sia obbligatoria almeno per i seguenti importi:
1) nel caso di danni alle persone, un importo minimo di copertura pari a euro 5.000.000 per sinistro,
indipendentemente dal numero delle vittime;
2) nel caso di danni alle cose, un importo minimo di copertura pari a euro 1.000.000 per sinistro,
indipendentemente dal numero delle vittime;
b) prevedere un periodo transitorio di cinque anni, dalla data dell’11 giugno 2007 prevista per
l’attuazione della direttiva, per adeguare gli importi minimi di copertura obbligatoria per i danni alle
cose e per i danni alle persone secondo quanto indicato alla lettera a);
c) prevedere, ai fini del risarcimento da parte del Fondo di garanzia per le vittime della strada costituito
presso la Concessionaria servizi assicurativi pubblici – CONSAP Spa, in caso di danni alle cose
causati da un veicolo non identificato, una franchigia di importo pari a euro 500 a carico della vittima
che ha subìto i danni alle cose, qualora nello stesso incidente il Fondo sia intervenuto per gravi danni
alle persone».
2. All’articolo 1, comma 4, della legge 25 gennaio 2006, n. 29, dopo le parole: «2004/113/CE» sono
inserite le seguenti: «, 2005/14/CE».
Art. 10.
(Introduzione dell’articolo 9-bis della legge 18 aprile 2005, n. 62, e altre disposizioni per
l’attuazione della direttiva 2004/39/CE, come modificata dalla direttiva 2006/31/CE, in materia di
mercati degli strumenti finanziari)
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1. Dopo l’articolo 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62, è inserito il seguente:
«Art. 9-bis. – (Attuazione della direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21
aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e
93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che
abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio, nonché della direttiva 2006/31/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, che modifica la direttiva 2004/39/CE). – 1. Nella
predisposizione del decreto legislativo per l’attuazione della direttiva 2004/39/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica
le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio, nonché della direttiva 2006/31/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, che modifica la direttiva 2004/39/CE, il
Governo è tenuto a seguire, oltre ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, anche i seguenti
princìpi e criteri direttivi:
a) apportare al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, le modifiche e le integrazioni
necessarie al corretto e integrale recepimento della direttiva e delle relative misure di esecuzione
nell’ordinamento nazionale attribuendo le competenze rispettivamente alla Banca d’Italia e alla
Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) secondo i princìpi di cui agli articoli 5 e 6
del citato testo unico, e successive modificazioni, e confermando la disciplina prevista per i mercati
all’ingrosso di titoli di Stato;
b) recepire le nozioni di servizi e attività di investimento, nonché di servizi accessori e strumenti
finanziari contenute nell’allegato I alla direttiva; attribuire alla CONSOB, d’intesa con la Banca d’Italia,
il potere di recepire le disposizioni adottate dalla Commissione ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2,
della direttiva;
c) prevedere che l’esercizio nei confronti del pubblico, a titolo professionale, dei servizi e delle attività
di investimento sia riservato alle banche e ai soggetti abilitati costituiti in forma di società per azioni,
ferma restando l’abilitazione degli agenti di cambio ad esercitare le attività previste dall’ordinamento
nazionale;
d) prevedere che la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione sia consentita anche alle società
di gestione di mercati regolamentati previa verifica della sussistenza delle condizioni indicate dalla
direttiva;
e) individuare nella CONSOB, in coordinamento con la Banca d’Italia, l’autorità unica competente per i
fini di collaborazione con le autorità competenti degli Stati membri stabiliti nella direttiva e nelle relative
misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea secondo la procedura di cui all’articolo 64,
paragrafo 2, della medesima direttiva;
f) stabilire i criteri generali di condotta che devono essere osservati dai soggetti abilitati nella
prestazione dei servizi e delle attività di investimento e dei servizi accessori, ispirati ai princìpi di cura
dell’interesse del cliente, tenendo conto dell’integrità del mercato e delle specificità di ciascuna
categoria di investitori, quali i clienti al dettaglio, i clienti professionali e le controparti qualificate;
g) prevedere che siano riconosciute come controparti qualificate, ai fini dell’applicazione delle regole
di condotta, le categorie di soggetti espressamente individuate come tali dalla direttiva, nonché le
corrispondenti categorie di soggetti di Paesi terzi; attribuire alla CONSOB, sentita la Banca d’Italia, il
potere di disciplinare con regolamento, tenuto conto delle misure di esecuzione adottate dalla
Commissione europea secondo la procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della direttiva, i requisiti
di altre categorie di soggetti che possono essere riconosciuti come controparti qualificate;
h) attribuire alla CONSOB, sentita la Banca d’Italia, il potere di disciplinare con regolamento, in
conformità alla direttiva e alle relative misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea,
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secondo la procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della medesima direttiva, le seguenti materie
relative al comportamento che i soggetti abilitati devono tenere:
1) le misure e gli strumenti per identificare, prevenire, gestire e rendere trasparenti i conflitti di
interesse, inclusi i princìpi che devono essere seguiti dalle imprese nell’adottare misure organizzative
e politiche di gestione dei conflitti;
2) gli obblighi di informazione, con particolare riferimento al grado di rischiosità dei prodotti finanziari e
delle gestioni di portafogli di investimento offerti; a tale fine, la CONSOB può avvalersi della
collaborazione delle associazioni maggiormente rappresentative dei soggetti abilitati e del Consiglio
nazionale dei consumatori e degli utenti previsto dall’articolo 136 del codice del consumo, di cui al
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206;
3) la valutazione dell’adeguatezza delle operazioni;
4) l’affidamento a terzi, da parte dei soggetti abilitati, di funzioni operative;
5) le misure da adottare per ottenere nell’esecuzione degli ordini il miglior risultato possibile per i
clienti, ivi incluse le modalità di registrazione e conservazione degli ordini stessi;
i) disciplinare l’attività di gestione dei sistemi multilaterali di negoziazione conferendo alla
CONSOB il potere di stabilire con proprio regolamento i criteri di funzionamento dei sistemi
stessi;
l) al fine di garantire l’effettiva integrazione dei mercati azionari e il rafforzamento
dell’efficacia del processo di formazione dei prezzi, eliminando gli ostacoli che possono
impedire il consolidamento delle informazioni messe a disposizione del pubblico nei diversi
sistemi di negoziazione, attribuire alla CONSOB, sentita la Banca d’Italia per i mercati
all’ingrosso di titoli obbligazionari privati e pubblici, diversi dai titoli di Stato, nonché per gli
scambi di strumenti previsti dall’articolo 1, comma 2, lettera d), del testo unico di cui al
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e di strumenti finanziari derivati su titoli pubblici,
su tassi di interesse e su valute, e al Ministero dell’economia e delle finanze, sentite la Banca
d’Italia e la CONSOB, per i mercati all’ingrosso dei titoli di Stato, il potere di:
1) disciplinare il regime di trasparenza pre-negoziazione e post-negoziazione per le operazioni
riguardanti azioni ammesse alla negoziazione nei mercati regolamentati, effettuate nei mercati
medesimi, nei sistemi multilaterali di negoziazione e dagli internalizzatori sistematici;
2) estendere, in tutto o in parte, quando ciò sia necessario per la tutela degli investitori, il
regime di trasparenza delle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari diversi dalle
azioni ammesse alle negoziazioni nei mercati regolamentati;
m) conferire alla CONSOB il potere di disciplinare con regolamento, in conformità alla
direttiva e alle misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea, secondo la
procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della medesima direttiva, le seguenti materie:
1) il contenuto e le modalità di comunicazione alla CONSOB, da parte degli intermediari,
delle operazioni concluse riguardanti strumenti finanziari ammessi alle negoziazioni nei
mercati regolamentati prevedendo anche l’utilizzo di sistemi di notifica approvati dalla
CONSOB stessa;
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2) l’estensione degli obblighi di comunicazione alla CONSOB delle operazioni concluse da
parte degli intermediari anche agli strumenti finanziari non ammessi alle negoziazioni sui
mercati regolamentati quando ciò sia necessario al fine di assicurare la tutela degli investitori;
3) i requisiti di organizzazione delle società di gestione dei mercati regolamentati;
n) prevedere che la CONSOB possa individuare i criteri generali ai quali devono adeguarsi i
regolamenti, adottati ai sensi dell’articolo 62 del testo unico di cui al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, di gestione e organizzazione dei mercati
regolamentati in materia di ammissione, sospensione e revoca degli strumenti finanziari dalle
negoziazioni, di accesso degli operatori e di regolamento delle operazioni concluse su tali
mercati, in conformità ai princìpi di trasparenza, imparzialità e correttezza stabiliti dalla
direttiva e dalle misure di esecuzione adottate dalla Commissione europea, secondo la
procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della medesima direttiva;
o) conferire alla CONSOB, d’intesa con la Banca d’Italia, il potere di disciplinare con
regolamento, in conformità alla direttiva e alle relative misure di esecuzione adottate dalla
Commissione europea, secondo la procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della
medesima direttiva, i criteri non discriminatori e trasparenti in base ai quali subordinare la
designazione e l’accesso alle controparti centrali o ai sistemi di compensazione, garanzia e
regolamento ai sensi degli articoli 34, 35 e 46 della direttiva;
p) conferire alla CONSOB il potere di disporre la sospensione o la revoca di uno strumento
finanziario dalla negoziazione;
q) prevedere che la CONSOB vigili affinché la prestazione in Italia di servizi di investimento
da parte di succursali di intermediari comunitari avvenga nel rispetto delle misure di
esecuzione degli articoli 19, 21, 22, 25, 27 e 28 della direttiva, ferme restando le competenze
delle altre autorità stabilite dalla legge;
r) prevedere la possibilità per gli intermediari di avvalersi di promotori finanziari, secondo i
princìpi già previsti dal testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e
successive
modificazioni;
s) attribuire alla Banca d’Italia e alla CONSOB i poteri di vigilanza e di indagine previsti
dall’articolo 50 della direttiva, secondo i criteri e le modalità previsti dall’articolo 187-octies
del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58;
t) prevedere, fatte salve le sanzioni penali già previste dal testo unico di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, per le violazioni delle regole
dettate in attuazione della direttiva: l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie non
inferiori nel minimo a euro 2.500 e non superiori nel massimo a euro 250.000; la
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche; l’esclusione della facoltà di
pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e
successive modificazioni; l’adeguamento alla complessità dei procedimenti sanzionatori dei
termini entro i quali procedere alle contestazioni; la pubblicità delle sanzioni, salvo che la
pubblicazione possa mettere gravemente a rischio i mercati finanziari o arrecare un danno
sproporzionato alle parti coinvolte;
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u) estendere l’applicazione del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, alla tutela degli interessi collettivi dei consumatori nelle materie previste dalla
direttiva;
v) prevedere procedure per la risoluzione stragiudiziale di controversie relative alla
prestazione di servizi e di attività di investimento e di servizi accessori da parte delle imprese
di investimento, che consentano anche misure di efficace collaborazione nella composizione
delle controversie transfrontaliere;
z) disciplinare i rapporti con le autorità estere anche con riferimento ai poteri cautelari
esercitabili nelle materie previste dalla direttiva.
2. Entro due anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1, il
Governo, nel rispetto dei princìpi e dei criteri direttivi e delle procedure previsti dalla presente
legge, può emanare disposizioni correttive e integrative del medesimo decreto legislativo,
anche per tenere conto delle eventuali misure di esecuzione adottate dalla Commissione
europea secondo la procedura di cui all’articolo 64, paragrafo 2, della direttiva
successivamente alla predetta data.
3. All’attuazione del presente articolo si provvede nell’ambito delle risorse umane,
strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica».
2. Ai fini del recepimento della direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 21 aprile 2004, come modificata dalla direttiva 2006/31/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 5 aprile 2006, il termine per l’esercizio della delega previsto dall’articolo 1
della legge 18 aprile 2005, n. 62, è
prorogato fino al 31 gennaio 2007.
3. Dopo il comma 1 dell’articolo 25 del testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, è inserito il
seguente:
«1-bis. Nei mercati regolamentati di strumenti finanziari previsti dall’articolo 1, comma 2,
lettere f), g), h), i) e j), su merci e sui relativi indici, limitatamente al settore dell’energia, le
negoziazioni in conto proprio possono essere effettuate da soggetti diversi da quelli di cui al
comma 1 del presente articolo».
4. All’articolo 78 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, è
aggiunto, in fine, il seguente comma:
«3-bis. L’attività di organizzazione e gestione dei sistemi di scambi organizzati di strumenti
finanziari è riservata ai soggetti abilitati alla prestazione di servizi di investimento, alle società
di gestione dei mercati regolamentati e, limitatamente agli strumenti finanziari derivati su
tassi di interesse e valute, anche ai soggetti che organizzano e gestiscono scambi di fondi
interbancari».
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5. La disposizione di cui al comma 4 entra in vigore centottanta giorni dopo la data di
pubblicazione della presente legge nella Gazzetta Ufficiale.
6. Gli articoli 9, 10 e 14, comma 1, lettera a), della legge 28 dicembre 2005, n. 262, sono
abrogati.
Art. 11.
(Attuazione della direttiva 2005/71/CE del Consiglio, del 12 ottobre 2005, relativa a una
procedura specificamente concepita per l’ammissione di cittadini di paesi terzi a fini di
ricerca scientifica)
1. Nella predisposizione del decreto legislativo per l’attuazione della direttiva 2005/71/CE del
Consiglio, del 12 ottobre 2005, relativa a una procedura specificamente concepita per
l’ammissione di cittadini di paesi terzi a fini di ricerca scientifica, il Governo è tenuto a
seguire, oltre ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, anche il seguente principio e
criterio direttivo: prevedere che la domanda di ammissione possa essere accettata anche
quando il cittadino del paese terzo si trova già regolarmente sul territorio dello Stato italiano.
Art. 12.
(Attuazione della direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1º dicembre 2005, recante
norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e
della revoca dello status di rifugiato)
1. Nella predisposizione del decreto legislativo per l’attuazione della direttiva 2005/85/CE del
Consiglio, del 1º dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati
membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, il Governo è tenuto
a seguire, oltre ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, anche i seguenti princìpi e
criteri direttivi:
a) tenere conto, nella scelta delle opzioni che la direttiva prevede, di quelle più aderenti al
disposto dell’articolo 10 della Costituzione;
b) nel caso in cui il richiedente asilo sia cittadino di un Paese terzo sicuro, ovvero, se apolide,
vi abbia in precedenza soggiornato abitualmente, ovvero provenga da un Paese di origine
sicuro, prevedere che la domanda di asilo è dichiarata infondata, salvo che siano invocati
gravi motivi per non ritenere sicuro quel Paese nelle circostanze specifiche in cui si trova il
richiedente.
Art. 13.
(Modifiche alla legge 24 luglio 1985, n. 409. Attuazione della direttiva 2005/36/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, in materia di diritti acquisiti
per l’esercizio della professione di odontoiatra)
1. All’articolo 19, comma 1, della legge 24 luglio 1985, n. 409, e successive modificazioni, è
aggiunta, infine, la seguente lettera:
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«b-bis) ai medici che hanno iniziato la loro formazione universitaria in medicina dopo il 31
dicembre 1984 e che sono in possesso di un diploma di specializzazione triennale in campo
odontoiatrico il cui corso di studi ha avuto inizio entro il 31 dicembre 1994 e che si sono
effettivamente e lecitamente dedicati, a titolo principale, all’attività di cui all’articolo 2 per tre
anni consecutivi nel corso dei cinque anni che precedono il rilascio dell’attestato».
2. All’articolo 20, comma 1, della legge 24 luglio 1985, n. 409, e successive modificazioni, è
aggiunta, in fine, la seguente lettera:
«b-bis) i medici che hanno iniziato la loro formazione universitaria in medicina dopo il 31
dicembre 1984 e che sono in possesso di un diploma di specializzazione triennale in campo
odontoiatrico il cui corso di studi ha avuto inizio entro il 31 dicembre 1994».
Art. 14.
(Modifiche alla legge 8 luglio 1997, n. 213, recante classificazione delle carcasse bovine,
in applicazione di regolamenti comunitari)
1. L’articolo 3 della legge 8 luglio 1997, n. 213, è sostituito dal seguente:
«Art. 3. - (Sanzioni per violazione delle disposizioni in materia di tecniche di classificazione
non automatizzata). – 1. Salvo che il fatto costituisca reato, il titolare dello stabilimento, che
vìola l’obbligo di identificazione e di classificazione di cui all’articolo 1, comma 1, è soggetto
alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 3.000 a euro 18.000.
2. Il titolare dello stabilimento che utilizza una marchiatura o etichettatura difforme da quanto
previsto dall’articolo 2 del regolamento di cui al decreto del Ministro per le politiche agricole
4 maggio 1998, n. 298, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma
da euro 1.000 a euro 6.000.
3. Salvo che il fatto costituisca reato, il titolare dello stabilimento che vìola le disposizioni di
cui all’articolo 1, comma 2, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da euro 2.000 a euro 12.000.
4. Salvo che il fatto costituisca reato, il tecnico classificatore, quale definito all’articolo 1,
comma 1, che effettua le operazioni di identificazione e classificazione delle carcasse bovine
con modalità difformi da quelle stabilite da atti normativi nazionali o comunitari, è soggetto
alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 500 a euro 3.000, se la
difformità, rilevata al controllo su un numero di almeno 40 carcasse, ai sensi dell’articolo 3
del regolamento (CEE) n. 344/91 della Commissione, del 13 febbraio 1991, e successive
modificazioni, supera la percentuale del 5 per cento.
5. Il decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 29, è abrogato».
2. Dopo l’articolo 3 della legge 8 luglio 1997, n. 213, come sostituito dal comma 1 del
presente articolo, sono inseriti i seguenti:
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«Art. 3-bis. - (Sanzioni per violazione delle disposizioni in materia di tecniche di
classificazione automatizzata). – 1. Salvo che il fatto costituisca reato, il titolare dello
stabilimento che, in assenza della licenza di cui all’articolo 3, paragrafo 1-bis, del
regolamento (CEE) n. 344/91, della Commissione, del 13 febbraio 1991, utilizza tecniche di
classificazione automatizzata è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da euro 6.000 a euro 36.000. Salvo che il fatto costituisca reato, alla medesima
sanzione è soggetto il titolare dello stabilimento che modifica le specifiche delle tecniche di
classificazione, in assenza dell’approvazione delle autorità competenti, ai sensi dell’articolo 3,
paragrafo 1-quater, del citato regolamento (CEE) n. 344/91.
2. Salvo che il fatto costituisca reato, il titolare dello stabilimento che vìola le disposizioni di
cui all’articolo 1, paragrafi 2 e 2-bis, del citato regolamento (CEE) n. 344/91, e successive
modificazioni, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro
1.000 a euro 6.000.
3. Il titolare dello stabilimento che vìola le disposizioni sulla identificazione delle categorie
delle carcasse, ovvero sulla redazione dei rapporti di controllo, di cui all’articolo 3, paragrafo
1-ter, del citato regolamento (CEE) n. 344/91, è soggetto alla sanzione amministrativa del
pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 6.000.
4. Qualora nel corso dei controlli di cui all’articolo 3, paragrafo 2, del citato regolamento
(CEE) n. 344/91, e successive modificazioni, venga rilevato che il livello di precisione della
macchina classificatrice sia inferiore a quello ottenuto nel corso della prova di certificazione,
il titolare dello stabilimento è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da euro 500 a euro 3.000.
Art. 3-ter. - (Disposizioni finali). – 1. Se nei cinque anni successivi alla commissione
dell’illecito di cui all’articolo 3, comma 4, della presente legge, accertata con provvedimento
esecutivo, il tecnico classificatore vìola nuovamente la medesima norma, l’organo competente
al rilascio della licenza, ai sensi dell’articolo 2 del regolamento di cui al decreto del Ministro
delle risorse agricole, alimentari e forestali 6 maggio 1996, n. 482, secondo la gravità della
violazione, sospende o revoca l’abilitazione.
2. Se nei cinque anni successivi alla commissione dell’illecito di cui all’articolo 3-bis,
comma 4, accertata con provvedimento esecutivo, il titolare dello stabilimento vìola
nuovamente la medesima norma, l’organo competente al rilascio della licenza, di cui
all’articolo 3 del regolamento (CEE) n. 344/91, della Commissione, del 13 febbraio 1991, e
successive modificazioni, secondo la gravità della violazione, sospende per un tempo
determinato ovvero revoca la licenza.
3. Fino all’individuazione dell’organo competente da parte delle singole regioni e province
autonome, le sanzioni di cui agli articoli 3 e 3-bis sono irrogate dal Ministero delle politiche
agricole alimentari e forestali – Ispettorato centrale repressione frodi, ai sensi dell’articolo 11
del regolamento di cui al decreto del Ministro per le politiche agricole 4 maggio 1998, n. 298.
4. Ai fini degli accertamenti e delle procedure di cui al comma 3 e per quanto non previsto
dalla presente legge, restano ferme le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e
successive modificazioni».
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Art. 15.
(Modifica all’articolo 7 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, recante
attuazione dalla direttiva 98/8/CE, in materia di immissione sul mercato di biocidi)
1. Il comma 3 dell’articolo 7 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, è sostituito dal
seguente:
«3. Non è consentito il rilascio dell’autorizzazione all’immissione sul mercato per l’impiego
da parte del pubblico di un biocida classificato a norma del decreto legislativo 14 marzo 2003,
n. 65, e successive modificazioni, come “tossico“ o “molto tossico“, “cancerogeno di
categoria 1 o 2“, “mutageno di categoria 1 o 2“ o “tossico per la riproduzione di categoria 1 o
2“, fermo restando che per l’impiego professionale ed industriale l’autorizzazione
all’immissione sul mercato può essere sottoposta ad eventuali restrizioni di uso».
Art. 16.
(Modifiche al decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194, recante attuazione della direttiva
91/414/CEE, in materia di immissione in commercio di prodotti fitosanitari)
1. Al decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 11, il comma 1 è sostituito dal seguente:
«1. Il Ministro della salute, sentita la Commissione di cui all’articolo 20, qualora vi siano
motivi validi per ritenere che un prodotto fitosanitario da esso autorizzato o che è tenuto ad
autorizzare ai sensi dell’articolo 10 costituisca un rischio per la salute umana e degli animali o
per l’ambiente, provvede, con proprio decreto da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, a
limitarne o proibirne provvisoriamente l’uso e la vendita, notificando immediatamente il
provvedimento agli altri Stati membri e alla Commissione europea»;
b) all’articolo 20, al comma 5 è premesso il seguente:
«4-bis. Il Ministro della salute può disporre che la Commissione consultiva si avvalga di
esperti nelle discipline attinenti agli studi di cui agli allegati II e III, nel numero massimo di
cinquanta, inclusi in un apposito elenco da adottare con decreto del Ministro della salute,
sentiti i Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali, dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare e dello sviluppo economico, sulla base delle esigenze relative alle attività
di valutazione e consultive derivanti dall’applicazione del presente decreto. Le spese derivanti
dall’attuazione del presente comma sono poste a carico degli interessati alle attività svolte
dalla Commissione ai sensi del comma 5».
Art. 17.
(Criteri direttivi per le modifiche al regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 23
aprile 2001, n. 290, in materia di immissione in commercio e vendita di prodotti fitosanitari)
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1. Il Governo è autorizzato a modificare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, il comma 2 dell’articolo 11 del regolamento di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 23 aprile 2001, n. 290, in base ai seguenti criteri direttivi:
a) prevedere la possibilità di disporre la proroga dell’autorizzazione all’immissione in
commercio qualora si tratti di un prodotto contenente una sostanza attiva oggetto dei
regolamenti della Commissione europea, di cui all’articolo 8, paragrafo 2, secondo capoverso,
della direttiva 91/414/CEE del Consiglio, del 15 luglio 1991, e fino all’iscrizione della
sostanza attiva medesima nell’allegato I del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194, e
successive modificazioni;
b) prevedere che la proroga di cui alla lettera a) sia disposta a condizione che non siano
sopravvenuti dati scientifici tali da alterare gli elementi posti a base del provvedimento di
autorizzazione.
2. Il Governo è altresì autorizzato a modificare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge, l’articolo 38 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 23 aprile 2001, n. 290, e successive modificazioni, in base ai seguenti princìpi e
criteri direttivi:
a) prevedere, nel rispetto della normativa comunitaria relativa all’immissione in commercio
dei prodotti fitosanitari, nonché degli obblighi derivanti dall’osservanza del diritto
comunitario, che il solfato di rame, gli zolfi grezzi o raffinati, sia moliti, sia ventilati, gli zolfi
ramati e il solfato ferroso, i prodotti elencati nell’allegato II, parte B, del regolamento (CEE)
n. 2092/91 del Consiglio, del 24 giugno 1991, e successive modificazioni, e i prodotti elencati
nell’allegato 2 del citato regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 290
del 2001, siano soggetti a una procedura semplificata di autorizzazione, quando non siano
venduti con denominazione di fantasia;
b) demandare a un decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro delle politiche
agricole alimentari e forestali, l’individuazione delle modalità tecniche di attuazione della
procedura semplificata di cui alla lettera a), in modo da garantire il rispetto dei requisiti di
tutela della salute previsti dalla normativa comunitaria.
Art. 18.
(Modifiche al decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, recante attuazione della direttiva
1999/5/CE, riguardante le apparecchiature radio, le apparecchiature terminali di
telecomunicazione ed il reciproco riconoscimento della loro conformità)
1. All’articolo 3 del decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, il comma 2 è sostituito dal
seguente:
«2. Le apparecchiature radio sono costruite in modo da utilizzare in maniera efficace lo
spettro attribuito alle radiocomunicazioni di Terra e spaziali e le risorse orbitali, evitando
interferenze dannose».
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2. Il numero 3 dell’allegato VII annesso al decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, è
sostituito dal seguente:
«3. La marcatura CE è apposta sul prodotto o sulla placca di identificazione. La marcatura
CE è apposta, inoltre, sull’imballaggio, se presente, e sulla documentazione che accompagna
il prodotto».
Art. 19.
(Introduzione dell’articolo 144-bis del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, recante disposizioni per la tutela dei consumatori)
1. Dopo l’articolo 144 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005,
n. 206, è inserito il seguente:
«Art. 144-bis. – (Cooperazione tra le autorità nazionali per la tutela dei consumatori). – 1. Il
Ministero dello sviluppo economico svolge le funzioni di autorità pubblica nazionale, ai sensi
dell’articolo 3, lettera c), del regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 27 ottobre 2004, sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili
dell’esecuzione della normativa per la tutela dei consumatori.
2. In particolare, i compiti di cui al comma 1 riguardano la disciplina in materia di:
a) servizi turistici, di cui alla parte III, titolo IV, capo II;
b) clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, di cui alla parte III, titolo I;
c) garanzia nella vendita dei beni di consumo, di cui alla parte IV, titolo III, capo I;
d) credito al consumo, di cui alla parte III, titolo II, capo II, sezione I;
e) commercio elettronico, di cui alla parte III, titolo III, capo II.
3. Il Ministero dello sviluppo economico esercita le funzioni di cui al citato regolamento (CE)
n. 2006/2004, nelle materie di cui al comma 1, anche con riferimento alle infrazioni lesive
degli interessi collettivi dei consumatori in ambito nazionale.
4. Per lo svolgimento dei compiti di cui al comma 1, il Ministero dello sviluppo economico
può avvalersi delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e può definire
forme stabili di collaborazione con altre pubbliche amministrazioni. Limitatamente ai poteri
di cui all’articolo 139, può avvalersi delle associazioni dei consumatori e degli utenti di cui
all’articolo 137.
5. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico adottato ai sensi dell’articolo 17,
comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono disciplinati i procedimenti istruttori
previsti dal presente articolo. In mancanza, i procedimenti sono regolati dalla legge 7 agosto
1990, n. 241, e successive modificazioni.
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6. Il Ministero dello sviluppo economico designa l’ufficio unico di collegamento responsabile
dell’applicazione del citato regolamento (CE) n. 2006/2004».
Art. 20.
(Comunicazioni periodiche all’AGEA in materia di produzione di olio di oliva e di olive da
tavola)
1. Al fine di adempiere agli obblighi di cui all’articolo 6 del regolamento (CE) n. 2153/2005
della Commissione, del 23 dicembre 2005, i frantoi e le imprese di trasformazione delle olive
da tavola sono tenuti a comunicare mensilmente, anche attraverso le organizzazioni di
categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale o i centri autorizzati di assistenza
fiscale (CAAF), all’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) gli elementi relativi alla
produzione di olio di oliva e di olive da tavola.
2. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, sentita la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento
e di Bolzano, sono definiti i dati, le modalità e la tempistica delle comunicazioni di cui al
comma 1.
3. La violazione dell’obbligo di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione
amministrativa da euro 500 a euro 10.000 in relazione alla gravità della violazione accertata.
L’irrogazione delle sanzioni è disposta dall’AGEA, anche avvalendosi dell’Agenzia per i
controlli e le azioni comunitarie nel quadro del regime di aiuto alla produzione dell’olio di
oliva (Agecontrol Spa).
4. In relazione alla nuova disciplina dell’organizzazione comune di mercato dell’olio di oliva
di cui al regolamento (CE) n. 865/2004 del Consiglio, del 29 aprile 2004, all’articolo 7,
comma 3, della legge 27 gennaio 1968, n. 35, e successive modificazioni, dopo le parole:
«quantità nominali unitarie seguenti espresse in litri:» sono inserite le seguenti: «0,05,».
Art. 21.
(Modifiche all’articolo 29 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, in materia di rimborso di
tributi)
1. Al comma 2 dell’articolo 29 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, sono aggiunte, in fine,
le seguenti parole: «, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di
presunzioni».
Art. 22.
(Abrogazione della legge 10 agosto 2000, n. 250, recante norme per l’utilizzazione dei
traccianti di
evidenziazione nel latte in polvere destinato ad uso zootecnico)
1. La legge 10 agosto 2000, n. 250, è abrogata.
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Art. 23.
(Modifica dell’articolo 14 del decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 18, in materia di
servizi di assistenza a terra negli aeroporti)
1. L’articolo 14 del decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 18, è sostituito dal seguente:
«Art. 14. - (Protezione sociale). – 1. Fatte salve le disposizioni normative e contrattuali di
tutela, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, nel caso di trasferimento
delle attività concernenti una o più categorie di servizi di assistenza a terra di cui agli allegati
A e B, al fine di individuare gli strumenti utili a governare gli effetti sociali derivanti dal
processo di liberalizzazione, il Ministro dei trasporti, di concerto con il Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, garantisce il coinvolgimento dei soggetti sociali, anche a mezzo di
opportune forme di concertazione».
Art. 24.
(Modifiche all’articolo 21 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 ottobre 1999, n.
504, in materia di accise sugli oli minerali)
1. All’articolo 21 del testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla
produzione e sui consumi e le relative sanzioni penali ed amministrative, di cui al decreto
legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti
modificazioni:
a) al comma 6-bis, lettera b), le parole: «lire 560.000 per 1.000 litri» sono sostituite dalle
seguenti: «euro 298,92 per 1.000 litri»;
b) dopo il comma 6-ter è aggiunto il seguente:
«6-quater. Con cadenza semestrale dall’inizio del progetto sperimentale di cui al comma 6bis, i Ministeri dello sviluppo economico e delle politiche agricole alimentari e forestali
comunicano al Ministero dell’economia e delle finanze i costi industriali medi dei prodotti
agevolati di cui al medesimo comma 6-bis, rilevati nei sei mesi immediatamente precedenti.
Sulla base delle suddette rilevazioni, al fine di evitare la sovracompensazione dei costi
addizionali legati alla produzione, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di
concerto con il Ministro dello sviluppo economico, con il Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio e del mare e con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, da
emanare entro sessanta giorni dalla fine del semestre, è eventualmente rideterminata la misura
dell’agevolazione di cui al medesimo comma 6-bis».
Art. 25.
(Attuazione delle decisioni dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri
dell’Unione europea riuniti in sede di Consiglio del 21 ottobre 2001, del 28 aprile 2004 e
del 10 novembre 2004, relative a privilegi e immunità accordati ad agenzie e meccanismi
istituiti dall’Unione europea nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune e
della politica europea di sicurezza e di difesa e ai membri del loro personale)
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1. È data attuazione alle seguenti decisioni dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri
dell’Unione europea riuniti in sede di Consiglio, le quali sono obbligatorie e vincolanti a
decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge:
a) decisione del 21 ottobre 2001, relativa a privilegi e immunità accordati all’Istituto per gli
studi sulla sicurezza e al centro satellitare dell’Unione europea nonché ai loro organi e al loro
personale;
b) decisione del 28 aprile 2004, relativa a privilegi e immunità accordati ad ATHENA;
c) decisione del 10 novembre 2004, relativa a privilegi e immunità accordati all’Agenzia
europea per la difesa e ai membri del suo personale.
Art. 26.
(Modifiche alla legge 16 aprile 1987, n. 183, concernenti organismi consultivi con
competenze in materia di politiche comunitarie)
1. L’articolo 4 e i commi 2 e 3 dell’articolo 19 della legge 16 aprile 1987, n. 183, sono
abrogati.
Allegato A
(Articolo 1, commi 1 e 3)
2005/68/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2005, relativa alla
riassicurazione e recante modifica delle direttive 73/239/CEE e 92/49/CEE del Consiglio
nonché delle direttive 98/78/CE e 2002/83/CE.
2006/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 febbraio 2006, relativa alla
gestione della qualità delle acque di balneazione e che abroga la direttiva 76/160/CEE.
Allegato B
(Articolo 1, commi 1 e 3)
2005/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 luglio 2005, relativa all’istituzione
di un quadro per l’elaborazione di specifiche per la progettazione eco-compatibile dei prodotti
che consumano energia e recante modifica della direttiva 92/42/CEE del Consiglio e delle
direttive 96/57/CE e 2000/55/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.
2005/33/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 luglio 2005, che modifica la
direttiva 1999/32/CE in relazione al tenore di zolfo dei combustibili per uso marittimo.
2005/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa
all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni.
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2005/47/CE del Consiglio, del 18 luglio 2005, concernente l’accordo tra la Comunità delle
ferrovie europee (CER) e la Federazione europea dei lavoratori dei trasporti (ETF) su taluni
aspetti delle condizioni di lavoro dei lavoratori mobili che effettuano servizi di
interoperabilità transfrontaliera nel settore ferroviario.
2005/56/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, relativa alle fusioni
transfrontaliere delle società di capitali.
2005/61/CE della Commissione, del 30 settembre 2005, che applica la direttiva 2002/98/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le prescrizioni in tema di
rintracciabilità e la notifica di effetti indesiderati ed incidenti gravi.
2005/62/CE della Commissione, del 30 settembre 2005, recante applicazione della direttiva
2002/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme e le
specifiche comunitarie relative ad un sistema di qualità per i servizi trasfusionali.
2005/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, sull’omologazione
dei veicoli a motore per quanto riguarda la loro riutilizzabilità, riciclabilità e recuperabilità e
che modifica la direttiva 70/156/CEE del Consiglio.
2005/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, relativa al
miglioramento della sicurezza dei porti.
2005/71/CE del Consiglio, del 12 ottobre 2005, relativa a una procedura specificamente
concepita per l’ammissione di cittadini di paesi terzi a fini di ricerca scientifica.
2005/81/CE della Commissione, del 28 novembre 2005, che modifica la direttiva
80/723/CEE relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e le loro
imprese pubbliche nonché fra determinate imprese.
2005/85/CE del Consiglio, del 1º dicembre 2005, recante norme minime per le procedure
applicate negli
Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
2005/89/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 gennaio 2006, concernente
misure per la sicurezza dell’approvvigionamento di elettricità e per gli investimenti nelle
infrastrutture.
2005/94/CE del Consiglio, del 20 dicembre 2005, relativa a misure comunitarie di lotta
contro l’influenza aviaria e che abroga la direttiva 92/40/CEE.
2006/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, relativa alla
gestione dei rifiuti delle industrie estrattive e che modifica la direttiva 2004/35/CE.
2006/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, concernente la licenza
comunitaria dei controllori del traffico aereo.
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2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la
conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la
direttiva 2002/58/CE.
2006/25/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, sulle prescrizioni
minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli
agenti fisici (radiazioni ottiche artificiali) (diciannovesima direttiva particolare ai sensi
dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, concernente
l’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e recante abrogazione della
direttiva 93/76/CEE del Consiglio.
2006/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2006, che modifica la
direttiva 1999/62/CE relativa alla tassazione a carico di autoveicoli pesanti adibiti al trasporto
di merci su strada per l’uso di alcune infrastrutture.
2006/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2006, relativa alle
macchine e che modifica la direttiva 95/16/CE (rifusione).
2006/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativa all’accesso
all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio (rifusione).
2006/49/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativa
all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi (rifusione).
2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante
l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e
donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).
Allegato C
(Articolo 6, comma 1)
2005/45/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, riguardante il
reciproco riconoscimento dei certificati rilasciati dagli Stati membri alla gente di mare e
recante modificazione della direttiva 2001/25/CE.
19/09 Lo Stato deve rimborsare l'IVA alle imprese
La sentenza della Corte di Giustizia sulla detraibilita' IVA
La Corte di Giustizia delle Comunita' europee, con sentenza pubblicata il 14 settembre scorso,
emessa in sede di interpretazione pregiudiziale della sesta direttiva europea sull'IVA tesa
all'armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in materia (77/388), ha escluso
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limitazioni alla detraibilita' dell'IVA su beni come autoveicoli e carburanti utilizzati
nell'attivita' d'impresa.
Si tratta della causa C-228/05, instaurata su richiesta di pronuncia pregiudiziale proposta alla
Corte dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, nel procedimento tra
Stradasfalti Srl e Agenzia delle Entrate - Ufficio di Trento.
La Corte ha così statuito, in sintesi:
"La sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, non autorizza
uno Stato membro ad escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni dell’imposta sul valore
aggiunto ... ove siano privi di indicazioni quanto alla loro limitazione temporale e/o facciano
parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo
di bilancio e a consentire il rimborso del debito pubblico".
"Qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente alla
sesta direttiva 77/388, le autorità tributarie nazionali non possono opporre ad un soggetto
passivo una disposizione che deroga al principio del diritto alla detrazione dell’imposta sul
valore aggiunto enunciato da tale direttiva. Il soggetto passivo cui sia stata applicata tale
misura derogatoria deve poter ricalcolare il suo debito d’imposta sul valore aggiunto
conformemente alle disposizioni della sesta direttiva 77/388 nella misura in cui i beni e i
servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta".
Di seguito, il testo integrale della decisione della Corte di Giustizia.
Corte di Giustizia delle Comunità europee, III Sezione
sentenza del 14 settembre 2006
(presidente Rosas, estensore Puissochet)
Procedimento C-228/05 (avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta
alla Corte dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, con ordinanza 21 marzo
2005, nel procedimento tra Stradasfalti Srl e Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento).
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 17, n. 7, della
sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle
legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di
imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (GU L 145, pag. 1; in prosieguo: la
«sesta direttiva»).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la società a
responsabilità limitata Stradasfalti Srl (in prosieguo: la «Stradasfalti») e l’Agenzia delle
Entrate – Ufficio di Trento, in merito al rimborso dell’imposta sul valore aggiunto (in
prosieguo: l’«IVA») che la Stradasfalti sostiene di aver indebitamente versato negli anni
2000-2004 per l’acquisto, l’uso e la manutenzione di veicoli da turismo che non formano
oggetto dell’attività propria di tale società.
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Contesto normativo
La normativa comunitaria
3 L’art. 17 della sesta direttiva, intitolato «Origine e portata del diritto a deduzione», dispone,
al suo n. 2, lett. a), che «[n]ella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue
operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui
è debitore (...) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli
saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo».
4 L’art. 17, n. 6, della sesta direttiva prevede quanto segue:
«Al più tardi entro un termine di quattro anni a decorrere dalla data di entrata in vigore della
presente direttiva, il Consiglio, con decisione all’unanimità adottata su proposta della
Commissione, stabilisce le spese che non danno diritto a deduzione dell’imposta sul valore
aggiunto. Saranno comunque escluse dal diritto a deduzione le spese non aventi un carattere
strettamente professionale, quali le spese suntuarie, di divertimento o di rappresentanza.
Fino all’entrata in vigore delle norme di cui sopra, gli Stati membri possono mantenere tutte
le esclusioni previste dalla loro legislazione nazionale al momento dell’entrata in vigore della
presente direttiva».
5 Ai sensi dell’art. 17, n. 7, della sesta direttiva:
«Fatta salva la consultazione prevista dall’articolo 29, ogni Stato membro può, per motivi
congiunturali, escludere totalmente o in parte dal regime di deduzioni la totalità o parte dei
beni di investimento o altri beni. Per mantenere condizioni di concorrenza identiche, gli Stati
membri possono, anziché rifiutare la deduzione, tassare i beni fabbricati dallo stesso soggetto
passivo o acquistati dal medesimo all’interno del paese, oppure importati, in modo che questa
imposizione non superi l’ammontare dell’imposta sul valore aggiunto che graverebbe
sull’acquisto di beni analoghi».
6 L’art. 29, nn. 1 e 2, della sesta direttiva dispone quanto segue:
«1. È istituito un comitato consultivo dell’imposta sul valore aggiunto [in prosieguo: il
«Comitato IVA»], in appresso denominato “comitato”.
2. Il comitato si compone di rappresentanti degli Stati membri e della Commissione.
Il comitato è presieduto da un rappresentante della Commissione.
Il segretariato del comitato è assicurato dai servizi della Commissione».
Normativa nazionale
7 La normativa nazionale rilevante figura all’art. 19 bis 1, intitolato «Esclusione o riduzione
della detrazione per alcuni beni e servizi», del decreto del Presidente della Repubblica 26
ottobre 1972, n. 633 (Supplemento ordinario alla GURI n. 292 dell’11 novembre 1972; in
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prosieguo: il «DPR n. 633/72»), nella sua formulazione risultante dall’art. 3 del decreto
legislativo 2 settembre 1997, n. 313 (Supplemento ordinario alla GURI n. 219 del 27
dicembre 1997).
8 Il detto art. 19 bis 1 dispone quanto segue:
«In deroga alle disposizioni di cui all’articolo 19:
c) l’imposta relativa all’acquisto o alla importazione di ciclomotori, di motocicli e di
autovetture ed autoveicoli indicati nell’articolo 54, lettere a) e c), del decreto legislativo 30
aprile 1992, n. 285, non compresi nell’allegata tabella B e non adibiti ad uso pubblico, che
non formano oggetto dell’attività propria dell’impresa, e dei relativi componenti e ricambi,
nonché alle prestazioni di servizi di cui al terzo comma dell’articolo 16 ed a quelle di
impiego, custodia, manutenzione e riparazione relative ai beni stessi, non è ammessa in
detrazione salvo che per gli agenti o rappresentanti di commercio;
d) l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di carburanti e lubrificanti destinati ad
autovetture e veicoli, aeromobili, navi e imbarcazioni da diporto è ammessa in detrazione se è
ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto, all’importazione o all’acquisizione
mediante contratti di locazione finanziaria, di noleggio e simili di dette autovetture, veicoli,
aeromobili e natanti».
9 L’efficacia di tale disposizione è stata limitata al 31 dicembre 2000 dall’art. 7, terzo comma,
della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Supplemento ordinario alla GURI n. 302 del 27
dicembre 1999).
10 La misura è stata poi prorogata e il suo campo di applicazione modificato con l’art. 30,
quarto comma, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Supplemento ordinario alla GURI n.
302 del 29 dicembre 2000), a termini del quale:
«L’indetraibilità dell’imposta sul valore aggiunto afferente le operazioni aventi per oggetto
ciclomotori, motocicli, autovetture e autoveicoli di cui alla lettera c) del comma 1 dell’articolo
19-bis 1 del [DPR n. 633/72], prorogata da ultimo al 31 dicembre 2000 dall’articolo 7, comma
3, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, è ulteriormente prorogata al 31 dicembre 2001;
tuttavia limitatamente all’acquisto, all’importazione e all’acquisizione mediante contratti di
locazione finanziaria, noleggio e simili di detti veicoli la indetraibilità è ridotta al 90 per cento
del relativo ammontare ed al 50 per cento nel caso di veicoli con propulsori non a
combustione interna».
11 Tale testo è rimasto in vigore per effetto di ulteriori provvedimenti annuali di proroga. La
scadenza è stata infatti modificata dall’art. 9, quarto comma, della legge 28 dicembre 2001, n.
448, poi dall’art. 2, tredicesimo comma, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, dall’art. 2,
diciassettesimo comma, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e, infine, dall’art. 1, comma
503, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che ne ha prorogato gli effetti fino al 31 dicembre
2005.
La controversia principale e le questioni pregiudiziali
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12 La Stradasfalti è una società a responsabilità limitata di diritto italiano, con sede legale in
provincia di Trento, che opera nel settore delle costruzioni stradali.
13 Essa dispone di veicoli aziendali che non formano oggetto dell’attività propria
dell’impresa, e per il cui acquisto, uso, manutenzione e rifornimento di carburante non ha
potuto beneficiare della detraibilità dell’IVA ad essi afferente, secondo quanto previsto dalla
normativa italiana.
14 Il 7 luglio 2004 la Stradasfalti, ritenendo tale normativa incompatibile con le disposizioni
della sesta direttiva relative alla detraibilità dell’IVA, chiedeva all’Agenzia delle Entrate –
Ufficio di Trento la restituzione di circa EUR 31 340, a titolo di rimborso dell’IVA
indebitamente pagata dal 2000 al 2004 per l’acquisto, l’uso, la manutenzione ed il
rifornimento di carburante dei propri veicoli aziendali.
15 Con varie decisioni adottate il 15 luglio 2004, l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento
respingeva tale istanza.
16 Il 22 novembre 2004, la Stradasfalti proponeva un ricorso alla Commissione tributaria di
primo grado di Trento per ottenere l’annullamento di tali decisioni ed il rimborso dell’IVA
per i periodi considerati.
17 In tale contesto, la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha deciso di
sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva (…) in relazione al n. 2 dello stesso
articolo vada interpretato nel senso che:
a) il detto articolo si oppone a considerare “consultazione del comitato IVA” di cui all’art. 29
della citata direttiva, la semplice notifica da parte di uno Stato membro dell’adozione di una
norma di legge nazionale, come quella di cui all’attuale art. 19 bis 1 D.P.R. n. 633/72, lett. c)
e d) e successive proroghe, che limita il diritto di detrazione dall’IVA relativa all’impiego e
manutenzione dei beni di cui al paragrafo 2 dell’art. 17, sulla base di una semplice presa
d’atto da parte del comitato IVA;
b) lo stesso si oppone egualmente a considerare come misura ricadente nel suo campo di
applicazione una qualsivoglia limitazione del diritto a fruire della detrazione IVA connessa
all’acquisto, impiego e manutenzione dei beni sub a) introdotta prima della consultazione del
comitato IVA e mantenuta in vigore attraverso numerose proroghe legislative, ripetutesi a
catena e senza soluzione di continuità da oltre venticinque anni;
c) in caso di risposta affermativa alla questione sub 1 b) si chiede che la Corte indichi i criteri
sulla scorta dei quali si possa determinare l’eventuale durata massima delle proroghe, in
relazione ai motivi congiunturali presi in considerazione dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva;
ovvero che precisi se l’inosservanza della temporaneità delle deroghe (ripetute nel tempo)
attribuisca al contribuente il diritto a fruire della detrazione;
2) qualora i requisiti e le condizioni della procedura di cui all’art. 17, n. 7, sopra richiamato,
non risultassero rispettati, dica la Corte se l’art. 17, n. 2, della citata direttiva vada interpretato
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nel senso che esso si oppone a che una norma di legge nazionale od una prassi amministrativa
adottata da uno Stato membro dopo l’entrata in vigore della sesta direttiva (1º gennaio 1979
per l’Italia) possa limitare la detrazione dell’IVA connessa all’acquisto, impiego e
manutenzione di determinati autoveicoli, in via oggettiva e senza limitazioni di tempo».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione, sub a)
18 Con la prima questione, sub a), il giudice del rinvio chiede se l’art. 17, n. 7, prima frase,
della sesta direttiva vada interpretato nel senso che si oppone a che si consideri
«consultazione del comitato IVA» di cui all’art. 29 della citata direttiva, la notifica da parte di
uno Stato membro dell’adozione di una norma di
legge nazionale che limita il diritto di detrazione dell’IVA afferente all’impiego e alla
manutenzione dei beni di cui all’art. 17, n. 2, laddove il comitato IVA si è limitato a prendere
atto di tale notifica.
Osservazioni presentate alla Corte
19 La Commissione sostiene che la consultazione del comitato IVA, prevista dall’art. 29 della
sesta direttiva costituisce un’imprescindibile condizione procedurale per l’esercizio delle
deroghe congiunturali relative all’IVA. La consultazione di tale comitato deve permettere ai
rappresentanti degli Stati membri e della Commissione di esaminare congiuntamente le
misure nazionali che derogano al principio della detraibilità dell’IVA. Al riguardo, non basta
a configurare una consultazione la mera notifica al comitato IVA della normativa nazionale
adottata o in via di adozione, né una presa d’atto, da parte di tale comitato, della normativa
nazionale ad esso notificata.
20 Una conferma di tale interpretazione dell’art. 29 della sesta direttiva sarebbe offerta dalle
varie versioni linguistiche della formula usata dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva. Inoltre,
nella sentenza 8 gennaio 2002, causa C-409/99, Metropol e Stadler (Racc. pag. I-81), la Corte
ha già statuito che la consultazione del comitato IVA era un presupposto per l’adozione di
qualsiasi misura basata sul detto art. 17, n. 7.
21 Per quanto riguarda la misura in questione nella controversia principale, il governo italiano
ha consultato il comitato IVA nel 1980 e ha illustrato, attraverso il proprio rappresentante, il
contenuto e la portata della misura nella riunione del comitato tenutasi in quell’anno. Esso ha
seguito la stessa procedura in occasione delle successive proroghe della misura, consultando il
comitato nel 1990, nel 1995, nel 1996, nel 1999 e nel 2000.
22 La Commissione riconosce che la consultazione del comitato IVA ha avuto luogo dopo
l’entrata in vigore della misura derogatoria e che ci si può chiedere se l’art. 17, n. 7, della
sesta direttiva imponga questa consultazione prima di tale entrata in vigore. Tuttavia, la
procedura seguita dalle autorità italiane nel caso di specie sembra rispettosa delle prerogative
del comitato IVA e conforme alla prassi seguita dagli altri Stati membri. La Commissione
rimette quindi la decisione su tale questione alla saggezza della Corte.
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23 Il governo italiano, da parte sua, sostiene che la procedura seguita nel caso di specie non
ha violato l’obbligo di consultazione del comitato IVA. Infatti, questo è stato investito di
un’espressa domanda del governo italiano, sulla base della quale i servizi della Commissione
hanno potuto elaborare un documento di lavoro, prima che il fascicolo fosse sottoposto a tale
comitato. Quella che il giudice del rinvio chiama «una semplice presa d’atto» è in realtà la
decisione conclusiva della procedura di consultazione prevista dall’art. 17, n. 7, della sesta
direttiva, adottata dal comitato IVA.
24 In ogni caso, anche nell’ipotesi in cui la procedura non fosse stata seguita alla lettera, il
governo italiano ritiene che non vi sia stata alcuna violazione dell’art. 17, n. 7, della sesta
direttiva.
25 La Stradasfalti sostiene, innanzi tutto, che l’art. 19 bis 1, lett. c) e d), del DPR n. 633/72,
modificato, è incompatibile con le disposizioni della sesta direttiva in quanto l’indetraibilità
da esso introdotta non rientra in alcuna delle categorie di deroghe lecite previste da tale
direttiva. La misura in questione violerebbe le disposizioni dell’art. 17, n. 7, della medesima
direttiva, per il fatto che il comitato IVA non è stato previamente consultato dal governo
italiano, che gli unici motivi che potrebbero giustificare la deroga al diritto di detrazione
dell’IVA, ossia i motivi congiunturali, non sono mai sussistiti e che la misura di cui trattasi,
lungi dall’essere temporanea, si applica in maniera strutturale da più di venticinque anni.
26 Relativamente alla prima questione, sub a), la Stradasfalti sostiene che la normativa
comunitaria prescrive una concertazione effettiva nell’ambito del comitato IVA, in quanto
unico mezzo che consente di controllare come gli Stati membri si avvalgono della possibilità
di deroga offerta dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva. Tale disposizione osta quindi
all’introduzione di una deroga al diritto di detrazione dell’IVA previa mera notifica di una
disposizione legislativa nazionale di uno Stato membro o previa semplice notifica
dell’intenzione dello Stato membro di adottare tale disposizione, seguita da semplice presa
d’atto da parte del comitato IVA.
Giudizio della Corte
27 L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede una delle procedure di autorizzazione di misure
derogatorie contemplate dalla detta direttiva, accordando agli Stati membri la facoltà di
escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni «fatta salva la consultazione prevista
dall’articolo 29».
28 Tale consultazione permette alla Commissione e agli altri Stati membri di controllare l’uso
da parte di uno Stato membro della possibilità di derogare al regime generale delle detrazioni
dell’IVA, verificando, in particolare, se la misura nazionale di cui trattasi soddisfi la
condizione di essere stata adottata per motivi congiunturali.
29 L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede così un obbligo procedurale che gli Stati
membri devono rispettare per potersi avvalere della norma derogatoria da esso stabilita. La
consultazione del comitato IVA risulta essere un presupposto dell’adozione di qualsiasi
misura basata su detta disposizione (v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punti 61-63).
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30 L’obbligo di consultare il comitato IVA sarebbe privo di senso qualora gli Stati membri si
limitassero a notificare al medesimo la misura nazionale derogatoria che intendono adottare
senza corredare tale notifica della minima spiegazione sulla natura e sulla portata della
misura. Il comitato IVA deve essere in grado di deliberare validamente sulla misura ad esso
sottoposta. L’obbligo procedurale previsto all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva presuppone
quindi che gli Stati membri informino tale comitato del fatto che intendono adottare una
misura derogatoria e che gli forniscano informazioni sufficienti per consentirgli di esaminare
tale misura con cognizione di causa.
31 Per contro, l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva non prevede alcun obbligo quanto al risultato
della consultazione del comitato IVA, e in particolare non impone a tale comitato di
pronunciarsi favorevolmente o sfavorevolmente sulla misura nazionale derogatoria. Nulla
impedisce quindi al comitato IVA di limitarsi a prendere atto della misura nazionale
derogatoria che gli viene comunicata.
32 Occorre dunque risolvere la prima questione, sub a), nel senso che l’art. 17, n. 7, prima
frase, della sesta direttiva impone che gli Stati membri, per rispettare l’obbligo procedurale di
consultazione di cui all’art. 29 della medesima direttiva, informino il comitato IVA del fatto
che intendono adottare una misura nazionale che deroga al regime generale delle detrazioni
dell’IVA e che forniscano a tale comitato informazioni sufficienti per consentirgli di
esaminare la misura con cognizione di causa.
Sulla prima questione, sub b) e c), prima parte
33 Con la prima questione, sub b) e c), prima parte, il giudice del rinvio chiede
sostanzialmente se l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva debba essere interpretato nel
senso che esso autorizza uno Stato membro ad escludere taluni beni indicati all’art. 17, n. 2,
della medesima direttiva, dal regime delle detrazioni dell’IVA:
– senza la previa consultazione del comitato IVA e
– senza limitazioni temporali.
Osservazioni presentate alla Corte
34 La Commissione ricorda che le disposizioni che prevedono deroghe al principio del diritto
alla detrazione devono essere interpretate restrittivamente (v. sentenza Metropol e Stadler,
cit., punto 59). La Corte ha già dichiarato che l’applicazione dei provvedimenti previsti
all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, il quale permette di introdurre, per «motivi
congiunturali», eccezioni alla regola della detraibilità, dev’essere limitata nel tempo e che, per
definizione, tali provvedimenti non possono essere di natura strutturale (v. sentenza Metropol
e Stadler, cit., punto 67).
35 A tale proposito, la misura in questione nella causa principale è stata introdotta nella
legislazione italiana nel 1979 come norma permanente. Solo a partire dal 1980 è stato fissato
un limite temporale alla sua efficacia, limite da allora peraltro sistematicamente prorogato. In
realtà, la misura sembra essere stata adottata al fine di prevenire le frodi e l’evasione fiscale,
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obiettivi questi riconducibili alla procedura e alle condizioni particolari previste dall’art. 27
della sesta direttiva.
36 Del resto, sin dal 1980, il comitato IVA ha costantemente segnalato al governo italiano
come la deroga in questione non potesse giustificarsi sulla base dell’art. 17, n. 7, della sesta
direttiva. L’atteggiamento più conciliante adottato da tale comitato nelle sue riunioni del 1999
e del 2000 si spiega alla luce dell’impegno, assunto e non mantenuto dalle autorità italiane, di
riesaminare la misura a partire dal 1º gennaio 2001, e sulla base delle prospettive allora aperte
dalla proposta della Commissione di modificare la sesta direttiva per quanto concerne il
regime del diritto alla detrazione dell’IVA.
37 Ciò premesso, la Commissione ritiene la deroga in questione nella causa principale
incompatibile con le disposizioni dell’art. 17, n. 7, della sesta direttiva.
38 Il governo italiano sostiene che la prima questione, sub b), non è pertinente ed è quindi
irricevibile.
39 Infatti, la controversia di cui alla causa principale riguarda solo l’IVA versata nel corso
degli anni 2000-2004. Orbene, nel 1999 e nel 2000 le richieste di consultazione del comitato
hanno preceduto l’adozione del provvedimento nazionale di proroga. In tale contesto, la
questione sottoposta alla Corte va al di là della normativa applicabile alla controversia
principale ed è pertanto irricevibile (v., da ultimo, sentenza 30 giugno 2005, causa C-165/03,
Mathias Längst, Racc. pag. I-5637). Ad ogni modo, la Corte avrebbe dichiarato che l’art. 27
della sesta direttiva non esclude che la decisione del Consiglio di autorizzare uno Stato
membro a introdurre misure particolari in deroga alla detta direttiva intervenga a posteriori (v.
sentenza 29 aprile 2004, causa C-17/01, Sudholz, Racc. pag. I-4243, punto 23). Lo stesso
dovrebbe valere per la consultazione del comitato IVA prevista all’art. 17, n. 7, della
medesima direttiva.
40 Per quanto riguarda la prima questione, sub c), prima parte, essa sarebbe puramente
ipotetica e quindi parimenti irricevibile.
41 Secondo la Stradasfalti, occorre risolvere la prima questione, sub b), nel senso che l’art.
17, n. 7, della sesta direttiva osta all’introduzione di una deroga al diritto alla detraibilità
dell’IVA prima della consultazione del comitato IVA, dato che la normativa comunitaria
richiede espressamente che tale comitato sia consultato in via preventiva.
42 Inoltre, l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva impone che la deroga conservi un carattere
temporaneo, posto che, come statuito dalla Corte, essa deve rispondere a motivi congiunturali.
Tale articolo osta quindi al mantenimento della deroga in questione da oltre venticinque anni,
sulla base di proroghe successive.
43 Per quanto riguarda la prima questione, sub c), la Stradasfalti fa valere che, nella citata
sentenza Metropol e Stadler, la Corte ha già dichiarato che l’art. 17, n. 7, autorizza uno Stato
membro a discostarsi dal regime comunitario della detrazione dell’IVA solo per una «durata
limitata». Del resto, l’avvocato generale Geelhoed, nelle conclusioni in tale causa, ha definito
la politica congiunturale come diretta ad influenzare «a breve termine» e su «un periodo di
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uno-due anni» i dati macroeconomici del paese. Una deroga mantenuta per più di venticinque
anni manifestamente viola l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva.
Giudizio della Corte
– Sulla ricevibilità delle questioni
44 Il procedimento ex art. 234 CE costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i
giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi
d’interpretazione del diritto comunitario necessari per risolvere le controversie dinanzi ad essi
pendenti (v., segnatamente, sentenza 5 febbraio 2004, causa C-380/01, Schneider, Racc. pag.
I-1389, punto 20).
45 Nell’ambito di tale cooperazione, spetta esclusivamente al giudice nazionale cui è stata
sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione
giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la
necessità di una decisione pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza
sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni
sollevate dal giudice nazionale vertono sull’interpretazione del diritto comunitario, la Corte,
in via di principio, è tenuta a statuire (sentenza Schneider, cit., punto 21).
46 Tuttavia, la Corte ha parimenti affermato che, in ipotesi eccezionali, le spetta esaminare le
condizioni in cui è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza. Il
rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile
solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non
ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, qualora il problema
sia di natura ipotetica oppure qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto
necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza
Schneider, cit., punto 22).
47 Infatti, lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del procedimento
pregiudiziale implica che il giudice nazionale, dal canto suo, tenga presente la funzione di cui
la Corte è investita, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati
membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche
(sentenza Schneider, cit., punto 23).
48 Nella fattispecie, dalle osservazioni presentate alla Corte emerge che, sebbene la causa
principale riguardi solo l’IVA versata nel corso degli anni 2000-2004, anni per i quali le
richieste di consultazione del comitato IVA, secondo il governo italiano, hanno preceduto
l’adozione del provvedimento nazionale di proroga, quest’ultimo è in realtà entrato in vigore
prima di tale periodo e viene sistematicamente prorogato da molti anni. Non appare quindi
che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non abbia manifestamente alcuna
relazione con l’oggetto della controversia o che sollevi un problema di natura ipotetica.
49 Di conseguenza, va constatato che la prima questione, sub b) e c), prima parte, è ricevibile.
– Nel merito
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50 Per quanto riguarda la prima questione, sub b), con cui si chiede se l’art. 17, n. 7, della
sesta direttiva autorizzi uno Stato membro a escludere taluni beni dal regime di detrazione
dell’IVA senza previa consultazione del comitato IVA, la Corte ha già dichiarato, come è
stato osservato sopra al punto 29, che la consultazione di tale comitato è un presupposto
dell’adozione di qualsiasi misura basata su detta disposizione (v. sentenza Metropol e Stadler,
cit., punti 61-63).
51 Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, la risposta a tale questione non può
essere dedotta dalla soluzione elaborata dalla Corte nella citata sentenza Sudholz. Con tale
sentenza, la Corte ha dichiarato segnatamente che l’art. 27 della sesta direttiva non imponeva
al Consiglio di dare la sua autorizzazione a misure particolari derogatorie prese dagli Stati
membri, prima dell’adozione di tali misure. Tuttavia, la procedura di consultazione prevista
all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, in questione nella fattispecie, non ha il medesimo oggetto
della procedura di autorizzazione prevista all’art. 27 della stessa direttiva. Non è dunque
fondata la tesi del governo italiano secondo cui dalla sentenza Sudholz, citata, risulterebbe che
la soluzione già fornita dalla Corte nella citata sentenza Metropol e Stadler andrebbe esclusa
nella fattispecie.
52 Quanto alla prima questione, sub c), prima parte, con cui si chiede se l’art. 17, n. 7, della
sesta direttiva autorizzi uno Stato membro ad escludere taluni beni dal regime di detrazione
dell’IVA senza limitazioni temporali, va ricordato che tale articolo autorizza gli Stati membri
a escludere taluni beni dal regime delle detrazioni «per motivi congiunturali».
53 Tale disposizione autorizza dunque uno Stato membro ad adottare misure temporanee
destinate ad ovviare alle conseguenze di una situazione congiunturale in cui si trova la sua
economia in un determinato momento. Pertanto, l’applicazione delle misure a cui si riferisce
tale disposizione deve essere limitata nel tempo e, per definizione, le medesime non possono
essere di natura strutturale.
54 Ne consegue che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva non autorizza uno Stato
membro ad adottare provvedimenti che escludano beni dal regime delle detrazioni dell’IVA
ove siano privi di indicazioni quanto alla loro limitazione temporale e/o facciano parte di un
insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e
a consentire il rimborso del debito pubblico (v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punto 68).
55 Pertanto, la prima questione pregiudiziale, sub b) e c), prima parte, va risolta dichiarando
che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva dev’essere interpretato nel senso che esso
non autorizza uno Stato membro ad escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni dell’IVA
senza previa consultazione del comitato IVA. La detta disposizione non autorizza nemmeno
uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano alcuni beni dal regime delle
detrazioni di tale imposta ove siano privi di indicazioni quanto al loro limite temporale e/o
facciano parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il
disavanzo di bilancio e a consentire il rimborso del debito pubblico.
Sulla prima questione, sub c), seconda parte, e sulla seconda questione
56 Con tali questioni, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se le autorità tributarie
nazionali possano opporre ad un soggetto passivo una disposizione derogatoria al principio
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del diritto alla detrazione dell’IVA che non sia stata introdotta conformemente all’art. 17, n. 7,
della sesta direttiva.
Osservazioni presentate alla Corte
57 La Commissione sostiene che, secondo una costante giurisprudenza della Corte (v., in
particolare, sentenza 6 luglio 1995, causa C-62/93, BP Soupergaz, Racc. pag. I-1883, punti
16-18), il diritto a detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea
di principio, attribuisce al contribuente un diritto che può essere soggetto alle sole limitazioni
stabilite dalla direttiva stessa.
58 Nel caso in cui uno Stato membro abbia introdotto una deroga nazionale al principio della
detraibilità dell’IVA in violazione delle disposizioni della sesta direttiva, il contribuente ha
diritto alla detrazione dell’IVA versata sui beni interessati dalla misura nazionale. In tal senso,
al punto 64 della citata sentenza Metropol e Stadler, la Corte ha già dichiarato che, qualora
un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente all’art. 17, n.
7, della sesta direttiva, che impone agli Stati membri un obbligo di consultazione, le autorità
tributarie nazionali non possono opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga
al principio del diritto alla detrazione dell’IVA enunciato dall’art. 17, n. 1, della stessa
direttiva.
59 Il governo italiano sostiene che, per il periodo 2000-2004, il rispetto della procedura
prevista dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, il parere favorevole emesso dalla Commissione
sulle domande di deroga e la situazione congiunturale in cui si trovava l’economia italiana
ostano a che la normativa nazionale sia disapplicata e, quindi, al riconoscimento di un diritto
di detrazione a favore del contribuente.
60 A parere del governo italiano, la seconda questione sarebbe doppiamente irricevibile. Da
un lato, essa fa riferimento a periodi anteriori al 2000, che non sono oggetto della causa
principale.
61 Dall’altro, tale questione, nella parte in cui parla di una limitazione della detrazione «in via
oggettiva e senza limitazioni di tempo», sarebbe inconferente alla situazione in Italia tra il
2000 e il 2004. Infatti, una prima deroga è stata stabilita fino al 31 dicembre 2000 in seguito a
consultazione del comitato IVA e parere favorevole della Commissione. La seconda deroga
per tale periodo è stata chiesta con efficacia a partire dal 1º gennaio 2001 ed era preceduta da
un parere favorevole della Commissione, che ha ritenuto che la misura fosse giustificata fino
all’adozione della nuova direttiva.
62 Ad ogni modo, il governo italiano sostiene che il fatto che il comitato IVA prenda atto di
una misura nazionale derogatoria successivamente all’adozione di tale misura non consente di
considerarla illegittima, come statuito dalla Corte, in riferimento all’art. 27 della sesta
direttiva, al punto 23 della sentenza Sudholz, citata.
63 La Stradasfalti sostiene che, nel caso di una violazione dell’art. 17, n. 7, della sesta
direttiva, l’art. 17, n. 2, della medesima direttiva osta ad una disposizione nazionale che
impedisca ai soggetti passivi di esercitare pienamente e immediatamente il loro diritto alla
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detrazione in relazione all’imposta versata per l’acquisto, l’impiego e la manutenzione di
autoveicoli c.d. da turismo.
Giudizio della Corte
– Sulla ricevibilità della questione
64 Come è stato dichiarato al punto 46 della presente sentenza, il rifiuto di statuire su una
questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile solo qualora appaia in
modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario chiesta da tale giudice non ha
alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, qualora il problema
sia di natura ipotetica o quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto
necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza
Schneider, cit., punto 22).
65 Nella fattispecie, dalle osservazioni presentate alla Corte emerge che, sebbene la causa
principale riguardi solo l’IVA versata nel corso degli anni 2000-2004, anni per i quali le
richieste di consultazione del comitato IVA, secondo il governo italiano, hanno sempre
preceduto l’adozione del provvedimento nazionale di proroga, questo in realtà è entrato in
vigore prima di tale periodo e viene sistematicamente prorogato da molti anni. Non appare
quindi che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non abbia manifestamente
alcuna relazione con l’oggetto della controversia.
– Nel merito
66 In forza dell’obbligo generale sancito dall’art. 189, terzo comma, del Trattato CE
(divenuto art. 249, terzo comma, CE), gli Stati membri sono tenuti a conformarsi a tutte le
disposizioni della sesta direttiva (v. sentenza 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz, Racc.
pag. I-3795, punto 33). Qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata
stabilita conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie nazionali
non possono opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga al principio del
diritto alla detrazione dell’IVA enunciato dall’art. 17, n. 1, della stessa direttiva (v. sentenza
Metropol e Stadler, citata, punto 64).
67 Nella controversia principale, anche se il governo italiano sostiene che le richieste di
consultazione del comitato IVA, nel 1999 e nel 2000, hanno preceduto l’adozione della
misura nazionale di proroga della disposizione derogatoria al principio del diritto a detrazione
dell’IVA, è pacifico che tale disposizione, salvo modifiche di esigua importanza, è stata
sistematicamente prorogata dal governo italiano a partire dal 1980. Essa non può presentare
quindi un carattere temporaneo e non può nemmeno essere considerata motivata da ragioni
congiunturali. Tale misura deve, di conseguenza, essere considerata parte di un insieme di
provvedimenti di adattamento strutturale, non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art.
17, n. 7, della sesta direttiva. Il governo italiano non può dunque invocare tali misure a
discapito di un soggetto passivo (v., in tal senso, sentenza Metropol e Stadler, cit., punto 65).
68 Il soggetto passivo cui sia stata applicata tale misura deve poter ricalcolare il suo debito
IVA conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, nella misura in
cui i beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta.
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69 Occorre dunque risolvere la prima questione, sub c), seconda parte, e la seconda questione
nel senso che, qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita
conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie nazionali non
possono opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga al principio del diritto
alla detrazione dell’IVA enunciato dall’art. 17, n. 1, della medesima direttiva. Il soggetto
passivo cui sia stata applicata tale misura derogatoria deve poter ricalcolare il suo debito IVA
conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, nella misura in cui i
beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta.
Sulla richiesta di limitazione degli effetti nel tempo della sentenza
70 Il governo italiano ha evocato la possibilità che la Corte, nel caso in cui dovesse ritenere
che le deroghe al diritto a detrazione per gli anni 2000-2004 non siano state introdotte
conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, limiti nel tempo gli effetti della presente
sentenza.
71 A sostegno di tale domanda, il governo italiano invoca il grave danno per l’erario che può
essere causato dalla sentenza della Corte e la tutela del legittimo affidamento che esso poteva
nutrire quanto alla conformità al diritto comunitario della misura in questione. Esso osserva, a
tale riguardo, che la Commissione, nel 1999 e nel 2000, ha emesso un parere favorevole alle
misure da adottare in attesa dell’approvazione della direttiva che doveva disciplinare in via
organica la materia e che la Commissione non ha mai formulato alcuna contestazione alla
Repubblica italiana circa il mantenimento della deroga.
72 Si deve rilevare che solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della
certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, può essere indotta a
limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde
rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Per stabilire se si debba
limitare la portata di una sentenza nel tempo, è necessario tener conto del fatto che, benché le
conseguenze pratiche di qualsiasi pronuncia del giudice vadano vagliate accuratamente, non
ci si può tuttavia spingere fino a sminuire l’obiettività del diritto e compromettere la sua
applicazione futura a motivo delle ripercussioni che la pronuncia può avere per il passato
(sentenze 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot, Racc. pag. 379, punti 28 e 30, nonché 16
luglio 1992, causa C-163/90, Legros e a., Racc. pag. I-4625, punto 30).
73 Nella fattispecie, se è vero che la Commissione ha avallato la domanda delle autorità
italiane per gli anni in questione nella controversia principale, dalle osservazioni presentate
alla Corte risulta tuttavia che il comitato IVA, fin dal 1980, ha costantemente segnalato al
governo italiano come la deroga in questione non potesse giustificarsi sulla base dell’art. 17,
n. 7, della sesta direttiva, e che l’atteggiamento più conciliante adottato dal detto comitato
nelle sue riunioni del 1999 e del 2000 si spiega alla luce dell’impegno assunto dalle autorità
italiane di riesaminare la misura a partire dal 1º gennaio 2001, nonché sulla base delle
prospettive allora aperte dalla proposta della Commissione di modificare la sesta direttiva per
quanto concerne il regime del diritto alla detrazione dell’IVA.
74 Ciò premesso, le autorità italiane non potevano ignorare che una proroga sistematica, a
partire dal 1979, di una misura derogatoria che doveva essere temporanea e che, in virtù della
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lettera stessa dell’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, poteva essere giustificata solo da «motivi
congiunturali», non era compatibile con tale articolo.
75 Le autorità italiane non possono, di conseguenza, far valere l’esistenza di rapporti giuridici
costituiti in buona fede per chiedere alla Corte di limitare nel tempo gli effetti della sua
sentenza.
76 Inoltre, il governo italiano non è riuscito a dimostrare l’affidabilità del calcolo in base al
quale ha sostenuto dinanzi alla Corte che la presente sentenza rischierebbe, qualora i suoi
effetti non fossero limitati nel tempo, di comportare conseguenze finanziarie rilevanti.
77 Di conseguenza, non occorre limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.
Sulle spese
78 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1) L’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,
77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle
imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile
uniforme, impone che gli Stati membri, per rispettare l’obbligo procedurale di consultazione
di cui all’art. 29 della medesima direttiva, informino il comitato consultivo dell’imposta sul
valore aggiunto istituito da tale articolo del fatto che essi intendono adottare una misura
nazionale che deroga al regime generale delle detrazioni dell’imposta sul valore aggiunto e
che forniscano a tale comitato informazioni sufficienti per consentirgli di esaminare la misura
con cognizione di causa.
2) L’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva 77/388 dev’essere interpretato nel senso che
esso non autorizza uno Stato membro ad escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni
dell’imposta sul valore aggiunto senza previa consultazione del comitato consultivo
dell’imposta sul valore aggiunto, istituito all’art. 29 della detta direttiva. La detta disposizione
non autorizza nemmeno uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano alcuni
beni dal regime delle detrazioni di tale imposta ove siano privi di indicazioni quanto alla loro
limitazione temporale e/o facciano parte di un insieme di provvedimenti di adattamento
strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a consentire il rimborso del debito
pubblico.
3) Qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente
all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva 77/388, le autorità tributarie nazionali non possono
opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga al principio del diritto alla
detrazione dell’imposta sul valore aggiunto enunciato dall’art. 17, n. 1, di tale direttiva. Il
soggetto passivo cui sia stata applicata tale misura derogatoria deve poter ricalcolare il suo
debito d’imposta sul valore aggiunto conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della
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sesta direttiva 77/388 nella misura in cui i beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di
operazioni soggette ad imposta
08/05 Corte di Giustizia
Pensione a transessuale secondo il nuovo sesso
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza depositata lo scorso 28 aprile, ha
stabilito che il rifiuto di concedere una pensione, alla stessa età di una donna, ad una
transessuale passata dal sesso maschile al sesso femminile viola il diritto comunitario, ed in
particolare la direttiva 79/7/CEE sulla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale.
La vicenda si è svolta nel Regno Unito, nel cui ordinamento gli uomini possono beneficiare di
una pensione di vecchiaia all'età di 65 anni e le donne all'età di 60 anni.
Si è posta questione circa la corretta età pensionabile da riconoscere ad una transessuale
divenuta donna, per effetto di successivo intervento chirurgico.
Secondo la Corte di Gisutizia, il diritto di non essere discriminati in ragione del proprio sesso,
uno dei diritti fondamentali della persona umana, è ì applicabile alle discriminazioni
determinate dal cambiamento di sesso dell'interessato.
Corte di Giustizia, Prima Sezione
Sentenza del 27 aprile 2006
(presidente Jann, estensore Cunha Rodrigues)
Nel procedimento C-423/04,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art.
234 CE, dal Social Security Commissioner (Regno Unito), con decisione 14 settembre 2004,
pervenuta in cancelleria il 4 ottobre 2004, nella causa tra
Sarah Margaret R.
E
Secretary of State for Work and Pensions,
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli artt. 4 e 7 della
direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del
principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU
1979, L 6, pag. 24).
2. Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la sig.ra R., una persona
che si è sottoposta ad un intervento chirurgico di mutamento di sesso, e il Secretary of State
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for Work and Pensions (segretario di Stato per il lavoro e per le pensioni; in prosieguo: il
«Secretary of State») relativa al rifiuto di quest'ultimo di concederle una pensione di vecchiaia
a partire dal compimento del suo sessantesimo anno di età.
Il contesto normativo
La normativa comunitaria
3. Ai sensi dell'art. 4, n. 1, della direttiva 79/7:
«Il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione
direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato
matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:
– il campo di applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione ad essi,
– l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,
– il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per
le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle
prestazioni».
4. L’art. 7, n. 1, della stessa direttiva prevede che quest'ultima non pregiudichi la facoltà degli
Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:
«a) la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine
lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;
La normativa nazionale
5. L'art. 29, nn. 1 e 3, della legge del 1953 sulla registrazione delle nascite e dei decessi (Birth
and Deaths Registration Act 1953) vieta ogni modifica al registro degli atti di nascita, salvo
nel caso di errore di scrittura o di errore materiale
6. L’art. 44 della legge del 1992 relativa ai contributi e alle prestazioni di sicurezza sociale
(Social Security Contributions and Benefits Act 1992) prevede che una persona possa
beneficiare di una pensione di vecchiaia di categoria A (pensione di vecchiaia «normale»)
quando essa raggiunga l'età pensionabile e soddisfi diverse condizioni in materia di contributi.
7. Secondo l'allegato 4, parte I, art. 1, della legge del 1995 relativa alle pensioni di vecchiaia
(Pensions Act 1995), un uomo raggiunge l'età della pensione a 65 anni e una donna nata
prima del 6 aprile 1950 a 60 anni.
8. Il 1° luglio 2004 è stata adottata la legge del 2004 sul riconoscimento del genere (Gender
Recognition Act 2004; in prosieguo: la «legge del 2004»), entrata in vigore il 4 aprile 2005.
9. Detta legge consente alle persone che abbiano già mutato sesso o che prevedano di
sottoporsi ad un apposito intervento chirurgico di chiedere il rilascio di un certificato di
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riconoscimento del genere («gender recognition certificate»), in base al quale può essere
ottenuto un riconoscimento quasi completo del loro mutamento di sesso.
10. Ai sensi dell'art. 2, n. 1, della legge del 2004, il certificato di riconoscimento del genere
deve essere
rilasciato qualora il richiedente soddisfi in particolare le seguenti condizioni:
«a) è o è stato affetto da disforia sessuale,
b) alla data della richiesta ha vissuto nel sesso acquisito per un periodo di due anni,
11. L’art. 9, n. 1, della legge del 2004 dispone:
«Quando ad una persona è rilasciato un certificato completo di riconoscimento del genere, il
sesso di detta persona diviene ad ogni effetto il sesso acquisito (cosicché, in caso di nuova
identità sessuale maschile, la persona è considerata di sesso maschile e, in caso di nuova
identità sessuale femminile, essa è considerata di sesso femminile».
12. In base all'art. 9, n. 2, della legge del 2004, il certificato di riconoscimento del genere non
produce effetti sugli atti compiuti o sui fatti occorsi precedentemente al suo rilascio.
13. Riguardo alle prestazioni di vecchiaia, l'allegato 5, parte II, art. 7, n. 3, della legge del
2004 prevede:
« se (immediatamente prima che il certificato sia rilasciato) la persona
a) è un uomo che ha raggiunto l'età alla quale una donna raggiunge l'età pensionabile, ma
b) non ha raggiunto l'età di 65 anni,
la persona in questione deve essere considerata come se avesse raggiunto l'età pensionabile
quando detto certificato è stato rilasciato».
La causa principale e le questioni pregiudiziali
14. La sig.ra R., ricorrente nella causa principale, è nata il 28 febbraio 1942 e nel suo atto di
nascita è stata registrata come persona di sesso maschile. Essendole stata diagnosticata una
disforia sessuale, essa si è sottoposta il 3 maggio 2001 ad un intervento chirurgico di
mutamento di sesso.
15. Il 14 febbraio 2002 essa ha presentato domanda al Secretary of State per beneficiare di
una pensione di vecchiaia a partire dal 28 febbraio 2002, data in cui essa compiva 60 anni, età
alla quale, ai sensi del diritto nazionale, una donna nata prima del 6 aprile 1950 può ottenere
una pensione di vecchiaia.
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16. Con decisione 12 marzo 2002, la detta domanda è stata respinta in quanto essa «[era] stata
presentata più di quattro mesi prima che il richiedente compisse i 65 anni», vale a dire l'età
pensionabile prevista per gli uomini nel Regno Unito.
17. Poiché il ricorso proposto dalla signora R. dinanzi al Social Security Appeal Tribunal
(Commissione di secondo grado per la legislazione sociale) è stato respinto, quest'ultima ha
adito il Social Security Commissioner, rilevando che, a seguito della sentenza della Corte 7
gennaio 2004, causa C-117/01, K. B. (Racc. pag. I-541), il rifiuto di corrisponderle una
pensione di vecchiaia a partire dall'età di 60 anni costituiva una violazione dell'art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,
nonché una discriminazione contraria all'art. 4 della direttiva 79/7.
18. Dinanzi al giudice del rinvio, il Secretary of State ha sostenuto che la domanda della
ricorrente nella causa principale non rientrasse nell'ambito di applicazione della detta
direttiva. Infatti, secondo lo stesso, il diritto comunitario prevede, riguardo alle prestazioni di
vecchiaia, soltanto misure di armonizzazione, senza pertanto attribuire il diritto di ottenere
siffatte prestazioni. Inoltre, la sig.ra R. non sarebbe stata discriminata nei confronti delle
persone che costituiscono l'adeguato elemento di comparazione, vale a dire gli uomini
che non si sono sottoposti ad un intervento chirurgico di mutamento di sesso.
19. Al fine di risolvere la controversia, il Social Security Commissioner ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) se la direttiva 79/7 osti al rifiuto di una pensione di vecchiaia, prima del raggiungimento
dei 65 anni di età, ad una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile,
quando invece essa avrebbe avuto diritto a detta pensione all’età di 60 anni se fosse stata
considerata una donna in base al diritto nazionale;
2) in caso affermativo, a partire da quale data debba avere effetto la pronuncia della Corte
sulla prima questione.»
Sulla prima questione
20. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 4, n. 1, della
direttiva 79/7 osti ad una normativa che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia ad una
persona passata dal sesso maschile al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto
i 65 anni di età, quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta pensione
all'età di 60 anni se fosse stata considerata una donna in base al diritto nazionale.
21. In via preliminare, si deve rilevare che spetta agli Stati membri determinare le condizioni
del riconoscimento giuridico del mutamento di sesso di una persona (v., in tal senso, sentenza
K. B., cit., punto 35).
22. Per rispondere alla questione, si deve sottolineare anzitutto che la direttiva 79/7 costituisce
l'espressione, nell'ambito della sicurezza sociale, del principio di parità di trattamento tra
uomini e donne, che è uno dei principi fondamentali del diritto comunitario.
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23. Inoltre, in conformità ad una giurisprudenza costante della Corte, il diritto di non essere
discriminata in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona
umana, di cui la Corte deve garantire l'osservanza (v. sentenze 15 giugno 1978, causa 149/77,
Defrenne, Racc. pag. 1365, punti 26 e 27, nonché 30 aprile 1996, causa C-13/94, P./S., Racc.
pag. I-2143, punto 19).
24. Di conseguenza, la sfera d'applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle
discriminazioni dovute all'appartenenza all'uno o all'altro sesso. Tenuto conto del suo scopo e
della natura dei diritti che mira a proteggere, la direttiva può applicarsi anche alle
discriminazioni che hanno origine nel mutamento di sesso dell'interessata (v., a proposito
della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio
della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro,
alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40),
sentenza P./S., cit., punto 20).
25. Il governo del Regno Unito sostiene che i fatti all'origine della controversia di cui alla
causa principale sono conseguenza della scelta operata dal legislatore nazionale di stabilire
una diversa età pensionabile per gli uomini e per le donne. Poiché una siffatta facoltà è
espressamente accordata agli Stati membri ai sensi dell'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7,
questi ultimi sarebbero autorizzati a derogare al principio di parità di trattamento tra uomini e
donne in materia di pensioni di vecchiaia. Il fatto che, come nella causa principale, la
distinzione del regime pensionistico in funzione del sesso pregiudichi i diritti dei transessuali
sarebbe priva di importanza..
26. Tale argomento non può essere accolto.
27. La sig.ra R. sostiene che le sia stato impedito di godere di una pensione di vecchiaia dal
momento in cui essa avesse raggiunto l'età di 60 anni, vale a dire dal momento in cui le donne
nate prima del 6 aprile 1950 possono godere di detta pensione nel Regno Unito.
28. La disparità di trattamento controversa nella causa principale è dovuta all'impossibilità per
la sig.ra R. di vedersi riconoscere, ai fini dell'applicazione della legge del 1995 relativa alle
pensioni di vecchiaia, il
nuovo sesso da essa acquisito a seguito di un intervento chirurgico.
29. Contrariamente alle donne il cui genere non risulta da un intervento chirurgico di
mutamento di sesso, le quali possono beneficiare di una pensione di vecchiaia all'età di 60
anni, la sig.ra R. non può soddisfare una delle condizioni di accesso alla detta pensione, nella
fattispecie quella relativa all'età pensionabile.
30. Poiché consegue ad una conversione sessuale, la disparità di trattamento che ha colpito la
sig.ra R. dev'essere considerata una discriminazione vietata dall'art. 4, n. 1, della direttiva
97/7.
31. Infatti la Corte ha già dichiarato che una normativa nazionale che impedisce che un
transessuale, a causa del mancato riconoscimento del suo sesso acquisito, possa soddisfare
una condizione necessaria all'esercizio di un diritto tutelato dal diritto comunitario dev'essere
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considerata in linea di principio incompatibile con le prescrizioni del diritto comunitario (v.
sentenza K. B., cit., punti 30-34).
32. Il governo del Regno Unito rileva che nessun diritto attribuito dal diritto comunitario è
stato violato attraverso la decisione 12 marzo 2002 di diniego della pensione, poiché il diritto
a beneficiare di una pensione di vecchiaia deriva soltanto dal diritto nazionale.
33. Al riguardo è sufficiente ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, il diritto
comunitario non menoma la competenza degli Stati membri ad organizzare i loro sistemi
previdenziali, e che, in mancanza di un'armonizzazione a livello comunitario, spetta alla
normativa di ciascuno Stato membro determinare, da un lato, le condizioni del diritto o
dell'obbligo di iscriversi a un regime di previdenza sociale e, dall'altro, le condizioni cui è
subordinato il diritto a prestazioni (sentenze 12 luglio 2001, causa C-157/99, Smits e
Peerbooms, Racc. pag. I-5473, punti 44-46, e 4 dicembre 2003, causa C-92/02, Kristiansen,
Racc. pag. I-14597, punto 31).
34. Peraltro, le discriminazioni contrarie all'art. 4, n. 1, della direttiva 97/7 ricadono
nell'ambito della deroga prevista dall'art. 7, n. 1, lett. a), di questa stessa direttiva soltanto a
condizione di essere necessarie per raggiungere gli obiettivi che la direttiva intende
perseguire, lasciando agli Stati membri la facoltà di mantenere un'età pensionabile diversa per
gli uomini e per le donne (sentenza 7 luglio 1992, causa C-9/91, Equal Opportunities
Commission, Racc. pag. I-4297, punto 13).
35. Benché i ‘considerando’ della direttiva non precisino la ragion d'essere delle deroghe che
essa prevede, dalla natura delle deroghe che figurano all'art. 7, n. 1, della direttiva si può
dedurre che il legislatore comunitario ha inteso autorizzare gli Stati membri a mantenere
temporaneamente, in materia di pensioni di vecchiaia, i benefici riconosciuti alle donne, al
fine di consentire loro di procedere gradualmente ad una modifica dei sistemi pensionistici su
tale punto senza perturbare il complesso equilibrio finanziario di questi sistemi, di cui non
poteva disconoscere l'importanza. Tra questi benefici figura in particolare la possibilità, per i
lavoratori di sesso femminile, di beneficiare del diritto alla pensione prima dei lavoratori di
sesso maschile, come prevede l'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva (sentenza Equal
Opportunities Commission, cit., punto 15).
36. Secondo una giurisprudenza costante, la deroga al divieto delle discriminazioni fondate
sul sesso, prevista nell'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7, dev'essere interpretata in modo
restrittivo (v. sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 36, e
causa 262/84, Beets-Proper, Racc. pag. 773, punto 38, e 30 marzo 1993, causa C-328/91,
Thomas e a., Racc. pag. I-1247, punto 8).
37. Pertanto tale disposizione dev'essere interpretata nel senso che essa si limita a stabilire una
diversa età pensionabile per gli uomini e per le donne. La causa principale non riguarda
tuttavia una siffatta misura.
38. Da quanto precede risulta che l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 osta ad una normativa che
nega il beneficio di una pensione di vecchiaia ad una persona che, in conformità alle
condizioni stabilite dal diritto nazionale, sia passata dal sesso maschile al sesso femminile per
il motivo che essa non ha raggiunto l'età di 65 anni, quando invece questa stessa persona
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avrebbe avuto diritto a detta pensione all'età di 60 anni se fosse stata considerata come donna
in base al diritto nazionale.
Sulla seconda questione
39. Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede, nel caso in cui la Corte dovesse
dichiarare che la direttiva 79/7 osti alla normativa nazionale controversa nella causa
principale, se gli effetti di una tale sentenza debbano essere limitati nel tempo.
40. Solo in via eccezionale, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente
all'ordinamento giuridico comunitario, la Corte può essere indotta a limitare la possibilità per
gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione
rapporti giuridici costituiti in buona fede (sentenze 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot,
Racc. pag. 379, punto 28, e 23 maggio 2000, causa C-104/98, Buchner e a., Racc. pag. I3625, punto 39).
41. Inoltre, secondo costante giurisprudenza, le conseguenze finanziarie che potrebbero
derivare per uno Stato membro da una sentenza pronunciata in via pregiudiziale non
giustificano, di per sé, la limitazione dell'efficacia nel tempo di tale sentenza (sentenze 20
settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk, Racc. pag. I-6193, cit., punto 52, e 15 marzo
2005, causa C-209/03, Bidar, Racc. pag. I-2119, punto 68).
42. La Corte ha fatto ricorso a tale soluzione soltanto in presenza di circostanze ben precise,
quando, da un lato, vi era un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare,
all'elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa
ritenuta validamente vigente, e quando, dall'altro, risultava che i singoli e le autorità nazionali
erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria in ragione
di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni comunitarie,
incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da
altri Stati membri o dalla Commissione (sentenza Bidar, cit., punto 69).
43. Nel caso di specie, l'entrata in vigore, il 4 aprile 2005, della legge del 2004 ha l'effetto di
far venir meno controversie quali quella che ha dato luogo alla causa principale. Inoltre, sia
nelle osservazioni scritte depositate dinanzi alla Corte, sia in udienza, il governo del Regno
Unito non ha mantenuto la domanda presentata nell'ambito della causa principale riguardante
la limitazione nel tempo degli effetti della sentenza.
44. Di conseguenza, si deve rispondere alla seconda questione che non è necessario limitare
nel tempo gli effetti della presente sentenza.
Sulle spese
45. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute per presentare osservazioni alla Corte, diverse da quelle delle dette parti, non
possono dar luogo a rifusione.
P.Q.M.
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1) L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla
graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia
di sicurezza sociale, osta ad una normativa che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia
ad una persona che, in conformità alle condizioni stabilite dal diritto nazionale, sia passata dal
sesso maschile al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto l'età di 65 anni,
quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta pensione all'età di 60 anni se
fosse stata considerata una donna in base al diritto nazionale.
2) Non è necessario limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.
31/03 Lo ha stabilito la Corte di Giustizia europea
CAF fuorilegge secondo il diritto comunitario
Il diritto esclusivo dei centri di assistenza fiscale italiani di compilare la dichiarazione dei
redditi dei lavoratori è incompatibile col diritto comunitario. Lo ha stabilito la Corte di
Giustizia delle Comunità Europee con una sentenza depositata ieri, 30 marzo, nella causa C451/03 (ADC Servizi Srl / Calafiori).
Secondo la Corte europea, un siffatto diritto esclusivo costituisce una restrizione ingiustificata
alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi.
Occorre premettere che la normativa italiana riserva esclusivamente ai centri di assistenza
fiscale (CAF) il diritto di esercitare determinate attività di consulenza e di assistenza in
materia tributaria, tra le quali rientrano le attività relative alla dichiarazione annuale dei
redditi dei lavoratori dipendenti e assimilati.
I CAF possono essere costituiti solo da taluni organismi (associazioni datoriali o
organizzazioni sindacali aventi complessivamente almeno 50.000 aderenti o sostituti
d'imposta, aventi almeno 50.000 dipendenti, o associazioni di lavoratori promotrici di istituti
di patronato aventi almeno 50.000 aderenti).
Essi esercitano la loro attività previa autorizzazione del Ministero delle Finanze e ricevono,
per ciascuna dichiarazione elaborata e trasmessa all'amministrazione fiscale, un compenso a
carico del bilancio dello Stato.
La ADC Servizi, società con sede a Milano, aveva ad oggetto l'assistenza e la consulenza in
materia contabile e amministrativa. Nel 2003, essa ha adottato un nuovo statuto per tener
conto del fatto che la società esercitava anche attività di assistenza fiscale per le imprese, per i
lavoratori e per i pensionati. Il notaio verbalizzante, sig. Calafiori, ha rifiutato di procedere
all'iscrizione di questa decisione nel registro delle imprese di Milano, ritenendo che la
modifica dello statuto, con la quale si autorizzava la società ad esercitare le dette attività di
assistenza fiscale, fosse incompatibile con la normativa italiana sui CAF.
La ADC, ritenendo che questa normativa fosse incompatibile col diritto comunitario, ha
presentato un ricorso dinanzi ai giudici italiani contro il rifiuto dell'iscrizione richiesta.
La Corte d'appello di Milano ha quindi sottoposto alla Corte di giustizia delle Comunità
europee alcune questioni pregiudiziali riguardanti, in particolare, la compatibilità della
normativa italiana con le norme comunitarie in materia di libera prestazione di servizi, libertà
di stabilimento e aiuti di Stato.
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La Corte di Giustizia ha rilevato innanzitutto che, in relazione alla libera prestazione di
servizi, la normativa italiana, riservando le dette attività di consulenza e di assistenza ai CAF,
impedisce totalmente l'accesso al mercato dei detti servizi agli operatori economici stabiliti in
altri Stati membri.
Inoltre, per quanto riguarda la libertà di stabilimento, una tale normativa, limitando la
possibilità di costituire i CAF a taluni organismi che soddisfano condizioni tassative e a taluni
di questi organismi aventi la loro sede in Italia, rischia di rendere più difficile, se non
impedire totalmente, l'esercizio da parte degli operatori economici provenienti da altri Stati
membri del loro diritto di stabilirsi in Italia al fine di fornire i servizi in questione.
In tale contesto, l'attribuzione di una competenza esclusiva ai CAF di offrire i detti servizi
costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi,
vietata dal diritto comunitario.
Questa restrizione non è giustificata dall'interesse pubblico collegato alla tutela dei destinatari
dei servizi di cui trattasi nei confronti del danno che essi potrebbero subire a causa di servizi
prestati da soggetti che non abbiano le necessarie qualifiche professionali o morali. Infatti, gli
organismi autorizzati a costituire i CAF non offrono garanzie e competenze professionali
specifiche.
In definitiva, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi si oppongono ad una
normativa nazionale che riserva esclusivamente ai CAF il diritto di esercitare talune attività di
consulenza e di assistenza in materia fiscale.
In relazione infine al compenso versato ai CAF a carico del bilancio dello Stato, la Corte
conclude che spetta al giudice nazionale valutare, in concreto, se esso costituisca un aiuto di
Stato ai sensi del Trattato CE.
22/03Riconoscimento diplomi in Europa
La Corte di Giustizia interpreta la direttiva 89/48/CEE (il caso di un ingegnere italiano in
Spagna)
Corte di Giustizia delle Comunità Europee
Sentenza del 19 gennaio 2006 (prima sezione)
(procedimento C-330/03)
Libera circolazione dei lavoratori – Riconoscimento dei diplomi – Direttiva 89/48/CEE –
Professione di ingegnere (nella specie italiano, stabilito in Spagna) – Riconoscimento
parziale e limitato delle qualifiche professionali – Artt. 39 CE e 43 CE
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 3, primo
comma, lett. a), e 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/48/CEE, relativa
ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano
formazioni professionali di una durata minima di tre anni (GU 1989, L 19, pag. 16; in
prosieguo: la «direttiva»), oltre che degli artt. 39 CE e 43 CE.
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2 La domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra il Colegio de Ingenieros de
Caminos, Canales y Puertos (Ordine degli ingegneri civili spagnoli; in prosieguo: il
«Colegio») e l’Administración del Estado relativamente alla domanda del sig. Imo, cittadino
italiano, in possesso di un diploma di laurea in ingegneria civile ad indirizzo idraulico,
ottenuto in Italia, finalizzata a poter accedere alla professione di ingegnere civile in Spagna.
Contesto normativo
Diritto comunitario
3 La direttiva ha lo scopo di istituire un metodo di riconoscimento dei diplomi atto a facilitare
ai cittadini europei l’esercizio di tutte le attività professionali subordinate in un determinato
Stato membro ospitante al possesso di una formazione di livello universitario, sempreché essi
siano in possesso di diplomi che li preparino a dette attività, sanzionino un ciclo di studi di
almeno tre anni e siano stati rilasciati in un altro Stato membro.
4 Ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva, per «professione regolamentata» si intende
«l’attività o l’insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa
professione in uno Stato membro».
5 L’art. 3, primo comma, della direttiva così prevede:
«Quando nello Stato membro ospitante l’accesso o l’esercizio di una professione
regolamentata è subordinato al possesso di un diploma, l’autorità competente non può
rifiutare ad un cittadino di un altro Stato membro, per mancanza di qualifiche, l’accesso
a/o l’esercizio di tale professione, alle stesse condizioni che vengono applicate ai propri
cittadini:
a) se il richiedente possiede il diploma che è prescritto in un altro Stato membro per
l’accesso o l’esercizio di questa stessa professione sul suo territorio, e che è stato ottenuto
in un altro Stato membro
6 L’art. 4, n. 1, della direttiva prevede quanto segue:
«L’articolo 3 non osta a che lo Stato membro ospitante esiga inoltre che il richiedente:
a) provi che possiede un’esperienza professionale, quando la durata della formazione
addotta a norma dell’articolo 3, lettere a) e b) è inferiore di almeno un anno a quella
prescritta nello Stato membro ospitante.
b) compia un tirocinio di adattamento, per un periodo massimo di tre anni, o si
sottoponga a una prova attitudinale:
– quando la formazione ricevuta conformemente all’articolo 3, lettere a) e b) verte su materie
sostanzialmente diverse da quelle contemplate nel diploma prescritto nello Stato membro
ospitante, oppure
– quando, nel caso di cui all’articolo 3, lettera a), la professione regolamentata nello Stato
membro ospitante comprende una o più attività professionali regolamentate che non esistono
nella professione regolamentata nello Stato membro di origine o provenienza del richiedente,
e tale differenza è caratterizzata da una formazione specifica prescritta nello Stato membro
ospitante e vertente su materie sostanzialmente diverse da quelle contemplate dal diploma
dichiarato dal richiedente
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7 L’art. 7 della direttiva disciplina il diritto di coloro che si servono del sistema comunitario
di riconoscimento dei diplomi di fregiarsi dei propri titoli professionali e di fare uso dei propri
titoli di studio. L’art. 7, nn. 1 e 2, è del seguente tenore:
«1. L’autorità competente dello Stato membro ospitante riconosce ai cittadini degli altri Stati
membri, che soddisfino alle condizioni di accesso e di esercizio di una professione
regolamentata sul suo territorio, il diritto di fregiarsi del titolo professionale dello Stato
membro ospitante che corrisponde a questa professione.
2. L’autorità competente dello Stato membro ospitante riconosce ai cittadini degli Stati
membri, che soddisfino alle condizioni di accesso e di esercizio di una attività professionale
regolamentata sul suo territorio, il diritto di avvalersi del loro legittimo titolo di studio ed
eventualmente della relativa abbreviazione, dello Stato membro di origine o di provenienza,
nella lingua di tale Stato. Lo Stato membro ospitante può prescrivere che il titolo sia seguito
dal nome e dal luogo dell’istituto o della commissione che lo ha rilasciato».
Diritto nazionale
8 Alla direttiva è stata data esecuzione, nel diritto spagnolo, con il regio decreto 25 ottobre
1991, n. 1665/1991, che disciplina il sistema generale di riconoscimento dei titoli d’istruzione
superiore degli Stati membri dell’Unione europea che richiedono una formazione di durata
almeno triennale (BOE 22 novembre 1991, n. 280, pag. 37916). Gli artt. 4 e 5 di tale decreto
riprendono in sostanza le disposizioni degli artt. 3 e 4 della direttiva.
9 Ai sensi della normativa spagnola, la professione di «ingeniero de caminos, canales y
puertos» (in prosieguo: di «ingegnere civile») abbraccia un ampio ambito di attività, come la
progettazione e la costruzione di impianti idraulici, di infrastrutture per trasporti terrestri,
marittimi e fluviali, la protezione delle spiagge e la pianificazione territoriale, anche
urbanistica. Risulta dall’ordinanza di rinvio che si tratta di una professione regolamentata,
poiché l’accesso ad essa e il suo esercizio sono subordinati al possesso di un titolo di studio
spagnolo, conferito al termine di una formazione specifica di livello universitario di sei anni,
o di una formazione equivalente ottenuta in un altro Stato membro e riconosciuta dal
Ministero per la Promozione dello Sviluppo. Chiunque desideri esercitare tale professione in
Spagna deve previamente iscriversi al Colegio, e tale iscrizione è subordinata al possesso
della formazione appena descritta.
Causa principale e questioni pregiudiziali
10 Il sig. Imo è in possesso di un diploma di laurea in ingegneria civile idraulica, conseguito
in Italia, il quale consente, in tale Stato, di esercitare la professione di ingegnere civile in
ambito idraulico. Il 27 giugno 1996 egli ha chiesto al Ministero spagnolo per la Promozione
dello Sviluppo il riconoscimento del suo diploma al fine di poter accedere, in Spagna, alla
professione di ingegnere civile.
11 Con provvedimento 4 novembre 1996, il citato Ministero ha riconosciuto il diploma del
sig. Imo e lo ha autorizzato ad accedere alla professione di ingegnere civile in Spagna senza
alcuna condizione preliminare.
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12 Il Collegio ha impugnato tale provvedimento dinanzi all’Audiencia Nacional (Tribunale
spagnolo con competenze speciali e giurisdizione su tutto il territorio nazionale). Nel corso
del procedimento, esso ha insistito sulla differenza fondamentale tra la professione di
ingegnere civile in Spagna e quella di ingegnere civile in ambito idraulico in Italia, sia sul
piano dei contenuti della formazione che su quello delle attività abbracciate da ciascuna di tali
professioni.
13 Con decisione 1 aprile 1998, l’Audiencia Nacional ha respinto il ricorso, in particolare
poiché il diploma di ingegneria civile ad indirizzo idraulico consentirebbe, in Italia, di
accedere alla medesima professione svolta da un ingegnere civile in Spagna. D’altra parte,
tale giudice ha osservato che la formazione ricevuta dal titolare del citato diploma in
ingegneria comprendeva le materie fondamentali richieste in Spagna per il settore
dell’ingegneria di cui si discute.
14 Il Colegio ha presentato ricorso per cassazione dinanzi al Tribunal Supremo. Quest’ultimo
ha subito osservato che le due formazioni comportano rilevanti differenze sostanziali e che
quindi la valutazione dei fatti compiuta dall’Audiencia Nacional era errata.
15 In tale contesto, il Tribunal Supremo ha deciso di sospendere il procedimento e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’interpretazione del combinato disposto degli artt. 3, lett. a), e 4, n. 1, della direttiva
21 dicembre 1988, 89/48 (…), consenta allo Stato ospitante di procedere a un riconoscimento
limitato delle qualifiche professionali di un richiedente in possesso del titolo di ingegnere
civile idraulico (rilasciato in Italia) che intenda esercitare la professione in un altro Stato
membro la cui legislazione riconosce come professione regolamentata quella di Ingeniero de
Caminos, Canales y Puertos. Si parte dal presupposto che quest’ultima professione
comprende nello Stato ospitante attività non sempre corrispondenti con il titolo del
richiedente e che la formazione riconosciuta in capo a quest’ultimo non comprende materie
fondamentali richieste, a carattere generale, al fine di ottenere il titolo di Ingeniero de
Caminos, Canales y Puertos nello Stato ospitante.
2) In caso di soluzione affermativa alla prima questione: se sia conforme agli artt. 39 CE e 43
CE il fatto d’imporre restrizioni ai richiedenti che intendano esercitare la loro professione, per
conto proprio o di terzi, in uno Stato membro diverso da quello nel quale hanno conseguito la
qualifica professionale, nel senso che il detto Stato ospitante possa escludere, con le sue
norme interne, il riconoscimento limitato delle qualifiche professionali, qualora una tale
decisione, conforme in linea di principio all’art. 4 della direttiva 89/48 , implichi
l’imposizione di requisiti supplementari sproporzionati ai fini dell’esercizio della professione.
Per riconoscimento limitato s’intende, in questa sede, quello che autorizzerebbe il richiedente
ad esercitare la propria attività di ingegnere soltanto nel settore corrispondente (quello
idraulico) della professione, più ampia, di Ingeniero de Caminos, Canales y Puertos,
regolamentata nello Stato ospitante, senza imporgli i requisiti supplementari di cui all’art. 4,
n. 1, lett. b), della direttiva 89/48
Sulle questioni pregiudiziali
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Sulla prima questione
16 Con la prima questione il giudice della causa principale chiede, in sostanza, se la direttiva
osti al fatto che, quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richiede
l’autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, le
autorità di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, a determinate condizioni,
limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività
alle quali il diploma in questione dà accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito.
17 Per rispondere a tale questione è necessario esaminare, in primo luogo, la formulazione
delle pertinenti disposizioni della direttiva, in secondo luogo, il sistema e la ratio generale di
quest’ultima e, in terzo luogo, gli obiettivi che essa persegue.
18 Innanzitutto, va ricordato che il testo della direttiva non consente né vieta esplicitamente il
riconoscimento parziale delle qualifiche professionali, come definito nell’ordinanza di rinvio.
Infatti, il divieto previsto dall’art. 3, primo comma, lett. a), della direttiva non osta ad un
simile riconoscimento parziale, poiché un provvedimento assunto su domanda
dell’interessato, che autorizzi quest’ultimo ad accedere ad una parte soltanto dell’ambito di
attività compreso nella professione regolamentata nello Stato membro ospitante, non può
essere equiparato ad un rifiuto d’accesso a tale professione.
19 Inoltre, per quanto riguarda il sistema della direttiva, va ricordato che il sistema di mutuo
riconoscimento dei diplomi istituito dalla direttiva non implica che i diplomi rilasciati da altri
Stati membri attestino una formazione analoga o comparabile a quella prescritta dallo Stato
membro ospitante. Infatti, secondo il sistema creato dalla direttiva, un diploma non è
riconosciuto in ragione del valore intrinseco della formazione che sanziona, ma in quanto dà
accesso, nello Stato membro in cui è stato rilasciato o riconosciuto, ad una professione
regolamentata. Differenze nell’organizzazione o nel contenuto della formazione acquisita
nello Stato membro di provenienza rispetto a quella impartita nello Stato membro ospitante
non possono bastare a giustificare il rifiuto di riconoscimento della qualifica professionale di
cui si tratta. Al massimo, se tali differenze sono di natura sostanziale, possono giustificare che
lo Stato membro ospitante esiga che il richiedente soddisfi l’una o l’altra misura di
compensazione prevista dall’art. 4 della direttiva (v., in tal senso, sentenza 29 aprile 2004,
causa C-102/02, Beuttenmüller, Racc. pag. I-5405, punto 52).
20 Ne consegue che, come giustamente rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 40-43
delle sue conclusioni, l’espressione «questa stessa professione», contenuta all’art. 3, primo
comma, lett. a), della direttiva, deve essere intesa come riferita a professioni che sono, nello
Stato di provenienza e in quello ospitante, o identiche o analoghe o, in certi casi,
semplicemente equivalenti per quanto riguarda le attività in cui esse si estrinsecano. Tale
interpretazione è confermata dall’art. 4, n. 1, lett. b), secondo trattino, della direttiva. Nei casi
a cui tale disposizione si riferisce, le autorità nazionali competenti devono considerare tutte le
attività riferite alla professione in questione nei due Stati membri interessati, per determinare
se se si tratti effettivamente della «stessa professione» e se, eventualmente, sia necessario
applicare una delle misure di compensazione previste da tale norma. Ciò significa che, anche
se la direttiva concepisce una professione regolamentata come un insieme unitario, essa
riconosce tuttavia l’esistenza effettiva di attività professionali distinte e di formazioni
corrispondenti. Di conseguenza, considerare separatamente ciascuna delle attività
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professionali riferite ad una professione regolamentata non è contrario né estraneo alla ratio
generale della direttiva.
21 La posizione contraria, sostenuta sul punto dai governi spagnolo e svedese, non può essere
accolta. Infatti, anche se l’art. 3, primo comma, della direttiva fissa il diritto del cittadino di
uno Stato membro, titolare di un diploma previsto dalla direttiva, all’«accesso e/o
[all’]esercizio [della] professione [sancita da tale diploma], alle stesse condizioni che vengono
applicate ai (…) cittadini» del detto Stato, tale disposizione non può essere interpretata nel
senso che essa imponga, sempre e senza alcuna eccezione, di consentire l’accesso integrale a
tutte le attività relative a tale professione nello Stato membro ospitante. Come ha in sostanza
rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 48-53 delle sue conclusioni, tale frase è una mera
riformulazione dei principi fondamentali di non discriminazione e di reciproco affidamento,
che sono insiti nel sistema comunitario di riconoscimento dei diplomi.
22 Quanto all’art. 7, n. 1, della direttiva, esso prevede che le autorità competenti dello Stato
membro ospitante riconoscano ai cittadini degli altri Stati membri che soddisfano le
condizioni di accesso e di esercizio di una professione regolamentata nel suo territorio il
diritto di fregiarsi del titolo professionale dello Stato membro ospitante che corrisponde a
questa professione. Tale disposizione, che riguarda le conseguenze concrete dell’applicazione
delle norme di cui agli artt. 3 e 4 della medesima direttiva, ha l’obiettivo di agevolare
l’assimilazione dei cittadini degli altri Stati membri, che abbiano conseguito il proprio titolo
in tali Stati, ai cittadini dello Stato membro ospitante che abbiano acquisito la loro qualifica
professionale nel medesimo. Tuttavia, il riconoscimento del diritto di fregiarsi del detto titolo
professionale previsto dal citato art. 7, n. 1, è possibile solo quando gli interessati soddisfano
tutte le condizioni di accesso e di esercizio prescritte per la professione di cui trattasi.
23 Infine, il ragionamento appena svolto è confermato in pieno da un’interpretazione
teleologica della direttiva. Infatti, risulta dal terzo e dal tredicesimo ‘considerando’ della
direttiva che il suo obiettivo principale è quello di agevolare l’accesso dei titolari di diplomi
conferiti in uno Stato membro alle attività professionali corrispondenti negli altri Stati
membri, e di rafforzare il diritto dei cittadini europei ad utilizzare le loro conoscenze
professionali in tutti gli Stati membri. Va inoltre osservato che la direttiva è stata adottata
sulla base dell’art. 57, n. 1, del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 47, n. 1, CE).
Ebbene, emerge dal testo di tale ultimo articolo che le direttive come quella della quale si
discute in questa sede mirano a facilitare il riconoscimento reciproco dei diplomi, certificati
ed altri titoli stabilendo norme e criteri comuni che comportino, nei limiti del possibile, il
riconoscimento automatico di detti diplomi, certificati ed altri titoli. Per contro, esse non
hanno come obiettivo e non possono avere come effetto quello di rendere più difficile il
riconoscimento di tali diplomi, certificati ed altri titoli nelle situazioni da esse non
contemplate (sentenza 22 gennaio 2002, causa C-31/00, Dreessen, Racc. pag. I-663, punto
26).
24 A tale proposito, va osservato che l’ambito di applicazione dell’art. 4, n. 1, della direttiva,
il quale esplicitamente consente misure di compensazione, deve essere limitato ai casi in cui
queste ultime si rivelano proporzionate al fine perseguito. In altri termini, sebbene siano
espressamente autorizzate, tali misure possono, in taluni casi, rappresentare un elemento in
grado di dissuadere pesantemente il cittadino di uno Stato membro dall’esercitare i diritti che
gli sono conferiti dalla direttiva. Infatti, un tirocinio di adattamento e una prova attitudinale
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richiedono entrambi un tempo e uno sforzo considerevoli da parte dell’interessato. La
disapplicazione di tali misure può rivelarsi importante, se non addirittura decisiva, per il
cittadino di uno Stato membro che desideri accedere, in un altro Stato membro, ad una
professione regolamentata. In un caso come quello di cui alla causa principale, un accesso
parziale alla professione in questione, concesso su domanda dell’interessato, che non imponga
a quest’ultimo misure di compensazione e gli consenta un accesso immediato alle attività
professionali per le quali egli è già qualificato, sarebbe conforme agli obiettivi perseguiti dalla
direttiva.
25 Ne consegue dunque che né il tenore, né il sistema, né gli obiettivi della direttiva
escludono la possibilità di un accesso parziale ad una professione regolamentata, nei termini
di cui all’ordinanza di rinvio. Si potrebbe certo sostenere, come fanno il governo spagnolo e
quello svedese, che un simile accesso parziale potrebbe comportare un rischio di
moltiplicazione delle attività professionali esercitate in modo autonomo da cittadini di altri
Stati membri, e di conseguenza una certa confusione nella mente dei consumatori. Tuttavia,
tale rischio potenziale non è sufficiente per affermare l’incompatibilità con la direttiva di un
riconoscimento parziale dei titoli professionali. Esistono infatti mezzi sufficientemente
efficaci per porvi rimedio, come la possibilità di obbligare gli interessati ad indicare nome e
luogo dell’istituzione o della commissione che ha conferito loro il titolo di studio. Inoltre, lo
Stato membro ospitante può sempre obbligare gli interessati ad utilizzare, per tutti i rapporti
giuridici e commerciali nel suo territorio, sia il titolo di studio ovvero il titolo professionale
nella lingua e nella forma originale che la sua traduzione nella lingua ufficiale dello Stato
membro ospitante, al fine di assicurarne la comprensione e di evitare ogni rischio di
confusione.
26 Sulla base di quanto precede, alla prima questione va risposto dichiarando che la direttiva
non osta al fatto che, quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richiede
l’autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, le
autorità di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, se il titolare del diploma lo
chiede, limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività alle quali il diploma in
questione dà accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito.
Sulla seconda questione
27 Con la seconda questione il giudice della causa principale chiede in sostanza se, in un caso
come quello posto al suo esame, gli artt. 39 CE e 43 CE ostino a che lo Stato membro
ospitante escluda la possibilità di un accesso parziale ad una professione regolamentata,
limitato allo svolgimento di una o più attività rientranti in tale professione.
28 A tale proposito va ricordato che ai sensi dell’art. 43, secondo comma, CE, l’esercizio
della libertà di stabilimento è subordinato alle condizioni definite dalla legislazione del paese
di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. Ne consegue che, qualora l’accesso a
un’attività specifica o l’esercizio della stessa sia subordinato nello Stato membro ospitante a
una determinata disciplina, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale
attività deve, di regola, soddisfare i requisiti fissati da tale normativa
(sentenze 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 36, e 1
febbraio 2001, causa C-108/96, Mac Quen e a., Racc. pag. I-837, punto 25).
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29 Le condizioni di accesso alla professione di ingegnere civile non sono state oggetto, a
tutt’oggi, di un’armonizzazione a livello comunitario. Pertanto, gli Stati membri restano
competenti a definire i citati requisiti, poiché la direttiva non limita la loro competenza sul
punto. Ciò non toglie che gli Stati membri debbono esercitare i loro poteri in tale settore nel
rispetto delle libertà fondamentali garantite dal Trattato CE (v. sentenze 29 ottobre 1998,
cause riunite C-193/97 e C-194/97, De Castro Freitas e Escallier, Racc. pag. I-6747, punto 23;
3 ottobre 2000, causa C-58/98, Corsten, Racc. pag. I-7919, punto 31, e Mac Quen e a., cit.,
punto 24).
30 Secondo giurisprudenza costante, i provvedimenti nazionali che possono limitare o
scoraggiare l’esercizio di tali libertà sono accettabili solo qualora soddisfino quattro
condizioni:
-non devono essere applicati in modo discriminatorio;
-devono rispondere a motivi imperativi di interesse pubblico;
-devono essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito;
-e non devono eccedere quanto necessario per il raggiungimento di questo.
(v., in particolare, sentenze 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus, Racc. pag. I-1663, punto
32; Gebhard, cit., punto 37; 4 luglio 2000, causa C-424/97, Haim, Racc. pag. I-5123, punto
57, e Mac Quen e a., cit., punto 26).
31 In casi come quello di cui alla causa principale, una normativa dello Stato membro
ospitante che escluda la possibilità, per le autorità di tale Stato, di consentire un accesso
parziale ad una professione può limitare o scoraggiare l’esercizio sia della libera circolazione
delle persone che della libertà di stabilimento, anche qualora tale normativa sia
indistintamente applicabile ai cittadini dello Stato membro ospitante e a quelli degli altri Stati
membri.
32 Riguardo all’obiettivo della normativa in esame nel procedimento principale, si deve
ammettere, come evidenziano i governi spagnolo e svedese, che un riconoscimento parziale
delle qualifiche professionali potrebbe in linea di principio avere l’effetto di suddividere le
professioni regolamentate all’interno di uno Stato membro in diverse attività. Ciò
comporterebbe in sostanza il rischio di produrre confusione nella mente dei destinatari dei
servizi, che potrebbero essere indotti in errore relativamente all’estensione di tali qualifiche.
La protezione dei destinatari dei servizi, e in generale dei consumatori, è stata già ritenuta
dalla Corte una ragione imperativa di pubblico interesse idonea a giustificare limitazioni alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi (sentenze 4 dicembre 1986, causa
220/83, Commissione/Francia, Racc. pag. 3663, punto 20; 21 settembre 1999, causa
C-124/97, Läärä e a., Racc. pag. I-6067, punto 33, e 11 settembre 2003, causa C-6/01,
Anomar e a., Racc. pag. I-8621, punto 73).
33 È inoltre necessario che le misure finalizzate a tale obiettivo non eccedano ciò che è
necessario per il suo conseguimento. A tale proposito, come ha osservato la Commissione
delle Comunità europee, va fatta una distinzione tra due situazioni differenti che possono
verificarsi quando le autorità di uno Stato membro sono investite di una domanda di
riconoscimento di una qualifica professionale conseguita in un altro Stato membro, e quando
la differenza tra i contenuti della formazione o tra le attività che possono essere esercitate in
forza del titolo relativo nei due Stati impedisce un riconoscimento pieno ed immediato. Vanno
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distinti i casi che possono essere obiettivamente risolti con gli strumenti previsti dalla
direttiva e quelli che non possono esserlo.
34 Nella prima eventualità, si tratta dei casi in cui il livello di somiglianza delle due
professioni, nello Stato membro di provenienza e in quello ospitante, è tale da consentire di
parlare, in sostanza, della «stessa professione» ai sensi dell’art. 3, primo comma, lett. a), della
direttiva. In casi del genere, le lacune esistenti nella formazione del richiedente se confrontata
con quella necessaria nello Stato membro ospitante possono essere efficacemente colmate
applicando le misure di compensazione previste dall’art. 4, n. 1, della direttiva, assicurando in
tal modo una completa integrazione dell’interessato nel sistema professionale dello Stato
membro ospitante.
35 Nella seconda eventualità invece, come giustamente osserva la Commissione, si tratta dei
casi non contemplati dalla direttiva, poiché le differenze negli ambiti di attività sono così
rilevanti che sarebbe in realtà necessario seguire una formazione completa. Ciò rappresenta un
elemento in grado, obiettivamente, di spingere l’interessato a non svolgere, in un altro Stato
membro, una o più attività per le quali egli è qualificato.
36 Spetta alle competenti autorità, soprattutto giurisdizionali, dello Stato membro ospitante
determinare in quale misura, in ogni caso concreto, il contenuto della formazione seguita
dall’interessato sia differente da quello richiesto in tale Stato. Nell’ambito della causa
principale, il Tribunal Supremo ha rilevato che il contenuto della formazione di un ingegnere
civile ad indirizzo idraulico in Italia e di un ingegnere civile in Spagna sono così
profondamente differenti, che applicare una misura di compensazione o di adattamento
significherebbe in pratica obbligare l’interessato ad acquisire una nuova formazione
professionale.
37 Inoltre, in casi specifici analoghi a quello di cui alla causa principale, uno dei criteri
decisivi consiste nel determinare se l’attività professionale che l’interessato intende svolgere
nello Stato membro ospitante sia o meno oggettivamente separabile dall’insieme delle attività
oggetto della corrispondente professione in tale Stato. Spetta in primo luogo alle autorità
nazionali dare una risposta a tale questione. Tuttavia, come ha osservato l’avvocato generale
ai paragrafi 86 e 87 delle sue conclusioni, uno dei criteri decisivi a tale proposito consiste nel
determinare se tale attività possa essere esercitata, in forma indipendente o autonoma, nello
Stato membro in cui la qualificazione professionale in questione è stata ottenuta.
38 Qualora tale attività sia oggettivamente separabile dall’insieme delle attività oggetto della
professione interessata nello Stato membro ospitante, si deve concludere che l’effetto
dissuasivo derivante dall’esclusione di ogni possibilità di riconoscimento parziale del titolo
professionale in questione è troppo rilevante per essere bilanciato dal timore di un eventuale
pregiudizio dei diritti dei destinatari dei servizi. In un simile caso, il legittimo obiettivo della
protezione dei consumatori e degli altri destinatari dei servizi può essere ottenuto attraverso
mezzi meno vincolanti, come l’obbligo di utilizzare il titolo professionale originario o il titolo
di studio sia nella lingua in cui è stato ottenuto e nella forma originale che nella lingua
ufficiale dello Stato membro ospitante.
39 Alla seconda questione va dunque risposto dichiarando che gli artt. 39 CE e 43 CE non
ostano a che uno Stato membro non consenta l’accesso parziale ad una professione, qualora le
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lacune nella formazione in possesso dell’interessato rispetto a quella necessaria nello Stato
membro ospitante possano essere effettivamente colmate con misure di compensazione ai
sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva. Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che uno Stato
membro non accordi tale accesso parziale quando l’interessato lo richiede e quando le
differenze tra gli ambiti di attività sono così rilevanti che sarebbe in realtà necessario seguire
una formazione completa, a meno che il detto diniego di accesso parziale non sia giustificato
da ragioni imperative di pubblico interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione
dell’obiettivo che perseguono e non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo.
Sulle spese
40 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
1) La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di
riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di
una durata minima di tre anni, non osta al fatto che, quando il titolare di un diploma ottenuto
in uno Stato membro richiede l’autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata
in un altro Stato membro, le autorità di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente,
se il titolare del diploma lo chiede, limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività
alle quali il diploma in questione dà accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito.
2) Gli artt. 39 CE e 43 CE non ostano a che uno Stato membro non consenta l’accesso
parziale ad una professione, qualora le lacune nella formazione in possesso dell’interessato
rispetto a quella necessaria nello Stato membro ospitante possano essere effettivamente
colmate con misure di compensazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 89/48.
Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che uno Stato membro non accordi tale accesso
parziale quando l’interessato lo richiede e quando le differenze tra gli ambiti di attività sono
così rilevanti che sarebbe in realtà necessario seguire una formazione completa, a meno che il
detto diniego di accesso parziale non sia giustificato da ragioni imperative di pubblico
interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione dell’obiettivo che perseguono e
non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo
16/03 IRAP illegittima in Europa
Le Conclusioni dell'Avvocato UE sull'IRAP
L'Avvocato Generale dell'Unione Europea sancisce definitivamente la illegittimità, nel
sistema comunitario, dell'IRAP, per contrasto con la sesta direttiva sull'IVA.
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La vicenda trae origine da una richiesta di rimborso di taluni importi versati a titolo di
imposta regionale italiana sulle attività produttive (IRAP), da parte della Banca Popolare di
Cremona.
Il ricorso è stato proposto dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Cremona, la
quale ha chiesto alla Corte di giustizia se l'IRAP sia compatibile con le disposizioni della
sesta direttiva IVA, n. 77/388/CEE (in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri relative alle imposte) che vietano agli Stati membri di introdurre o mantenere
imposte, diritti e tasse simili all'IVA, in modo da non danneggiare il corretto funzionamento
di quest'ultima.
Il 17 marzo 2005, il precedente Avvocato generale Jacobs aveva già presentato le sue
conclusioni nel senso che un tributo con le caratteristiche dell'IRAP era da ritenersi vietato
dalla sesta direttiva IVA.
Nelle nuove conclusioni presentate oggi, l'Avvocato generale Stix-Hackl, al quale ora è
assegnata la causa, concorda con quest'ultimo sul fatto che l'IRAP possiede le caratteristiche
essenziali dell'IVA, a causa della sua applicabilità generale, della sua proporzionalità rispetto
ai prezzi, del fatto che è riscossa ad ogni stadio della produzione e della distribuzione e che
viene riscossa sul valore aggiunto alla cessione ad ogni stadio.
L'Avvocato generale propone poi che la sentenza produca effetti solo per il futuro, a partire
dalla fine del 2006..
Rimarrebbero tuttavia salve le azioni legali dirette al rimborso, proposte dai contribuenti
anteriormente al 17 gennaio 2005 (data delle prime conclusioni dell'Avvocato generale
Jacobs).
CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
CHRISTINE STIX-HACKL
presentate il 14 marzo 2006 (1)
Causa C-475/03
Banca Popolare di Cremona
Contro
Agenzia Entrate Ufficio Cremona
[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla Commissione Tributaria di Cremona]
Introduzione
Il procedimento
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1. Nel presente procedimento, la Commissione Tributaria Provinciale di Cremona domanda se
l’art. 33, n. 1, della sesta direttiva IVA (2) osti all’applicazione di un’imposta come l’imposta
regionale italiana sulle attività produttive, più generalmente nota con il suo acronimo «IRAP».
Nella causa principale, la Banca Popolare di Cremona (in prosieguo: la «Banca Popolare»)
chiede il rimborso di una serie di importi da essa versati a titolo di IRAP nel 1998 e 1999.
2. Dopo la presentazione di osservazioni scritte e orali da parte della Banca Popolare, del
governo italiano e della Commissione, il 17 marzo 2005 l’avvocato generale Jacobs ha
presentato le sue conclusioni (3), concludendo che un’imposta nazionale la quale
– è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un’attività
diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi,
– colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell’attività imponibile,
– è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione
corrispondente ad una cessione o ad una serie di cessioni di beni o servizi effettuate da un
soggetto passivo, e
– impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale
i beni o servizi sono ceduti,
dev’essere qualificata come un’imposta sulla cifra d’affari vietata dall’art. 33, n. 1, della sesta
direttiva.
3. Tuttavia, siccome la necessità di rimborsare ingenti somme corrispondenti all’imposta
riscossa in contrasto con il diritto comunitario potrebbe seriamente compromettere il
finanziamento regionale in Italia, e atteso che la Commissione sembrava aver contribuito, con
il suo comportamento, al convincimento del governo italiano che l’IRAP fosse compatibile
con il diritto comunitario, l’avvocato generale Jacobs aveva altresì raccomandato che la Corte
stabilisse una limitazione temporale agli effetti della sua sentenza.
4. Inoltre, in previsione delle varie tattiche che potrebbero essere adottate nelle more della
pronuncia della sentenza, aveva preso in considerazione la possibilità di un nuovo approccio
con riferimento a tale limitazione. Aveva sottolineato come alcuni giudici nazionali potessero
dichiarare una misura illegittima, fissando nel contempo, per concedere tempo sufficiente
all’emanazione di una nuova normativa, una data futura prima della quale i singoli non
potessero far valere l’illegittimità in alcun ricorso contro lo Stato. Tuttavia, per il caso in cui
una tale impostazione dovesse essere seguita nel caso di specie, riteneva auspicabile che
dinanzi alla Corte si dibattesse ulteriormente la questione. Sette Stati membri hanno
conseguentemente chiesto la riapertura della trattazione orale a tale scopo.
5. Il 21 ottobre 2005, la Grande Sezione ha disposto la riapertura della fase orale del
procedimento, fissato una nuova udienza al 14 dicembre 2005, e chiesto alle parti nel
procedimento principale, agli Stati membri
, al Consiglio e alla Commissione di prendere posizione sulle seguenti questioni (4):
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(a) Quali siano i criteri che consentono di qualificare un’imposta come imposta sulla cifra
d’affari ai sensi dell’art. 33, n. 1, della sesta direttiva, tenuto conto dell’obiettivo di tale
disposizione e del funzionamento del mercato.
(b) In quale misura le operazioni bancarie possano essere assoggettate ad un’imposta di
questo tipo.
(c) Alla luce delle conclusioni dell’avvocato generale Jacobs, in quali circostanze e in che
maniera possano essere limitati nel tempo gli effetti delle sentenze pronunciate dalla Corte in
via pregiudiziale.
6. La Banca Popolare, 13 Stati membri e la Commissione hanno presentato osservazioni
scritte, sebbene solo alcuni degli Stati membri abbiano affrontato la prima o la seconda
questione; la Banca Popolare, 12 Stati membri e la Commissione hanno svolto osservazioni
orali nel corso della seconda udienza, durante la quale, ancora una volta, la maggior parte
degli Stati membri si è concentrata esclusivamente sull’aspetto della limitazione temporale.
Le caratteristiche dell’IRAP
7. Come l’avvocato generale Jacobs ha sottolineato nelle sue conclusioni, solo i giudici
italiani sono competenti a determinare le precise caratteristiche dell’IRAP. Il ruolo di questa
Corte è quello di interpretare il diritto comunitario in modo che il giudice remittente possa
applicarlo utilmente all’imposta in esame (5). Così facendo, questa Corte deve pertanto dare
per assodata la natura di tale imposta come descritta nell’ordinanza di rinvio.
8. L’imposta è così descritta:
«1) Come si ricava dalla definizione dell’art. 2 [(6)], l’Irap si applica, in modo generalizzato,
a tutte le operazioni commerciali di produzione o di scambio aventi ad oggetto beni e servizi
poste in essere nell’esercizio in modo abituale di una attività volta a tale fine, vale a dire
nell’esercizio di imprese o di arti e professioni.
Vi è, per ciò, una precisa corrispondenza tra il “presupposto dell’imposta” IRAP disegnato dal
citato articolo 2 e l’area delle “operazioni imponibili” tracciata dall’art. 1 del decreto istitutivo
dell’IVA e che costituisce il presupposto di quest’ultima imposta.
2) Ai sensi dell’art. 4, primo comma, l’IRAP colpisce il valore netto derivante dall’attività
produttiva, ossia il valore netto “aggiunto” al prodotto dal produttore.
L’IRAP è dunque una imposta sul “valore aggiunto” prodotto e giustamente si parla di “vap”
[(7)] per designare la base di commisurazione della nuova imposta.
Anche l’oggetto imponibile dell’IRAP coincide, per ciò, in tutto e per tutto, con quello
dell’IVA. Nell’IVA la quantificazione e tassazione della frazione o segmento di valore
aggiunto (vap) prodottasi presso il singolo produttore avvengono col meccanismo della
detrazione imposta da imposta (l’imposta a valle, pagata sugli acquisti, si deduce dall’imposta
a monte, incassata sulle vendite). Nell’IRAP la frazione è calcolata e tassata deducendo a un
di presso dal ricavato delle “vendite” il costo di acquisto del “venduto”.
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Nella tassazione “frazionata” IVA e IRAP si assomigliano come due gocce d’acqua. Non
inganni la diversità degli espedienti tecnici usati per la misurazione dell’imponibile e
dell’imposta. Nell’IVA, per stabilire quanto il singolo operatore debba pagare si ricorre
all’espediente di dedurre dall’IVA sul venduto 1’IVA sul costo del venduto; la differenza, se
positiva per il fisco, è 1’IVA dovuta, da cui si può risalire alla determinazione quantitativa del
valore aggiunto tassato presso l’operatore.
Nell’IRAP il procedimento è rovesciato.
Non si parte dall’imposta dovuta per risalire al valore aggiunto tassato, bensì, si parte dal
valore aggiunto e
da questo si risale all’imposta. Questa diversità non incide sulla sostanza delle cose, che è
questa: entrambe le imposte tassano, in ogni fase del processo dì produzione e di
distribuzione, la frazione di valore aggiunto che si è formata presso il singolo produttore che
ha preso parte al processo produttivo e/o distributivo. Nell’un caso (IVA) detraendo imposta
da imposta, nell’altro (IRAP) sottraendo base da base, costi da corrispettivi.
3) L’IRAP è riscossa in ogni fase del processo di produzione o di distribuzione, poiché ogni
operatore che si inserisce in una fase del ciclo, producendo valore aggiunto tassabile, viene
elevato, dalla legge, a soggetto passivo d’imposta. Se, in ipotesi, le fasi del ciclo sono tre,
facenti capo a Tizio, Caio, Sempronio, tutti e tre sono distintamente, autonomamente, soggetti
passivi di Irap, ciascuno con una tassazione su 100. Lo stesso accade nell’IVA.
4) Infine è da osservare che la somma delle IRAP riscosse nelle varie fasi del ciclo, dalla
produzione alla immissione al consumo, è pari all’aliquota IRAP applicata al prezzo di
vendita di beni e servizi praticato in sede di immissione al consumo. Nonostante il
frazionamento, quindi, l’IRAP finisce per agire come una imposta generale e proporzionale
sul prezzo di cessione al consumo di beni e servizi».
9. L’avvocato generale Jacobs ha fondato la sua analisi su tale descrizione, nonché sulla
sentenza della Corte Costituzionale italiana 10 maggio 2001 nella causa 256/2001, con la
quale diverse questioni di illegittimità dell’IRAP per incompatibilità con la Costituzione
italiana sono state respinte.
10. In particolare, come rileva l’avvocato generale, la Corte Costituzionale ha dichiarato che
l’IRAP «non colpisce il reddito personale del contribuente bensì il valore aggiunto prodotto
dalle attività autonomamente organizzate» e che «l’onere economico dell’imposta potrà essere
infatti trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere
totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative» (8).
11. Quanto al fatto che qualche aspetto della descrizione dell’IRAP fornita dal giudice
nazionale può differire dalla descrizione contenuta nelle osservazioni presentate alla Corte – e
in effetti la Banca Popolare, il governo italiano e la Commissione hanno tutti fornito una
propria descrizione – la Corte deve, in linea di principio, attenersi alla narrativa dell’ordinanza
di rinvio. Tuttavia, l’esistenza e la natura di queste eventuali differenze può suggerire che,
sotto taluni aspetti, sarebbe utile che la Corte valutasse come la soluzione che essa darà potrà
trovare applicazione in circostanze per ipotesi leggermente diverse. In ogni caso, ove la
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valutazione svolta dal giudice del rinvio con riferimento alle caratteristiche dell’IRAP sia
contestata nella causa principale, la sua sentenza sarà presumibilmente oggetto di appello per
tale motivo all’interno dell’ordinamento giudiziario nazionale.
Valutazione
12. La valutazione della causa cui procederò in questa sede si articolerà pertanto in due parti:
in una prima parte mi occuperò della compatibilità di un’imposta come l’IRAP mentre, nella
seconda parte, sarà affrontata la possibilità di una limitazione degli effetti della sentenza nel
tempo.
13. All’interno di ciascuna di queste parti, esporrò anzitutto una serie di considerazioni
generali, ivi inclusa una panoramica della giurisprudenza della Corte, dopodiché cercherò di
applicare tali considerazioni alle circostanze del presente rinvio pregiudiziale.
I – La compatibilità di un’imposta come l’IRAP con la sesta direttiva
A – Considerazioni generali
1. Imposte vietate dall’art. 33, n. 1, della sesta direttiva
14. Vi è un corpus giurisprudenziale ben consolidato in merito alle circostanze in cui
un’imposta nazionale si scontra con il divieto, sancito dall’art. 33, n. 1, della sesta direttiva, di
imposte diverse da quelle «che non abbia[no] il carattere di imposta sulla cifra d’affari» (9).
In particolare, si rinviene nella giurisprudenza una serie di criteri specifici che il giudice
nazionale aveva manifestamente in mente allorché ha redatto la sua ordinanza di rinvio, sullo
sfondo dei quali l’avvocato generale Jacobs ha valutato l’IRAP come descritta in tale
ordinanza (10).
15. Il fatto che, nel riaprire la fase orale del procedimento, la Corte abbia chiesto alle parti,
agli Stati membri e alle istituzioni di esporre le loro osservazioni in merito ai criteri per
qualificare un’imposta come imposta sulla cifra d’affari ai sensi dell’art. 33, n. 1, alla luce
dello scopo di tale disposizione e del funzionamento del mercato, potrebbe suggerire che essa
non esclude la possibilità di rivedere, precisare o sviluppare tali criteri. Li esaminerò pertanto
con una certa cura.
2. Sintesi della giurisprudenza allo stato attuale
16. La giurisprudenza sinora invalsa in questa materia ricomprende in particolare (11) le
sentenze Rousseau Wilmot (12), Bergandi (13), Wisselink (14), Giant (15), Dansk Denkavit
(16), Bozzi (17), Beaulande (18), Careda (19), UCAL (20), Solisnor (21), SPAR (22), Pelzl
(23), EKW (24), Tulliasiamies (25) e GIL Insurance (26). Si rilevi come, tra queste, soltanto
le sentenze Bergandi, Wisselink e Dansk Denkavit siano state definite dalla Corte in seduta
plenaria, mentre le altre sono state decise dalle sezioni.
17. In questa giurisprudenza, che si estende su un arco di circa vent’anni, possono ravvisarsi
una serie di costanti ed alcune linee evolutive.
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18. In primo luogo, la Corte ha esaminato le finalità della normativa IVA e la ratio del divieto
di altri tipi di imposta sulla cifra d’affari. In secondo luogo, ha definito una serie di
caratteristiche dell’IVA, in presenza delle quali un’altra imposta nazionale va ricondotta alla
sfera del divieto. Infine, esaminando le diverse imposte nazionali di volta in volta in
questione, ha identificato varie caratteristiche specifiche che sono o non sono ammissibili
sotto tale profilo, nonché un’altra serie di caratteristiche che ha considerato invece come
irrilevanti.
19. Tre sono le finalità principali che la Corte ha ravvisato nell’adozione del sistema comune
di IVA:
– abolire e sostituire i sistemi di imposte sulla cifra d’affari cumulative a cascata, come
precedentemente applicate in molti Stati membri (27);
– instaurare un mercato comune all’interno del quale vi sia una concorrenza non alterata e che
abbia caratteristiche analoghe a quelle di un mercato interno, eliminando le differenze di oneri
fiscali che possano alterare la concorrenza ed ostacolare gli scambi (28); e
– garantire parità nelle condizioni di tassazione dello stesso negozio, indipendentemente dallo
Stato membro nel quale viene effettuato (29).
20. La finalità del divieto di imposte sulla cifra d’affari è, come chiarito in numerose sentenze
(30), quella di evitare che il sistema comune di IVA sia pregiudicato, il che avverrebbe nel
caso in cui fossero applicate imposte, dazi o oneri sulla circolazione dei beni e dei servizi in
modo analogo a quello dell’IVA. Nella sentenza Wisselink (31), viene fatto un riferimento
ancor più generale al rischio che siano compromesse le finalità sottese al sistema comune di
IVA nella fase attuale del processo di armonizzazione.
21. Le caratteristiche dell’IVA vengono descritte inizialmente mediante riferimento all’art. 2
della prima direttiva e all’art. 17, n. 2, della sesta direttiva: il principio consiste nell’applicare
ai beni e ai servizi, fino allo stadio del commercio al minuto compreso, un tributo generale sul
consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, indipendentemente dal
numero di passaggi avvenuti nel processo di produzione e di distribuzione anteriore alla fase
dell’imposizione; tuttavia, ad ogni passaggio, l’IVA è dovuta solo previa detrazione
dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei vari elementi
costitutivi del prezzo, essendo i soggetti passivi autorizzati a detrarre dall’imposta di cui sono
debitori l’imposta già riscossa a monte sui beni (32).
22. A partire, poi, dalla sentenza Dansk Denkavit, è stato elaborato un elenco più formale di
«caratteristiche essenziali» dell’IVA, segnatamente:
– si applica in modo generale alle operazioni aventi ad oggetto beni o servizi;
– è proporzionale al prezzo percepito dal soggetto passivo d’imposta quale contropartita dei
beni e servizi forniti;
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– viene riscossa in ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione, compresa
quella della vendita al minuto, a prescindere dal numero di operazioni effettuate
precedentemente;
– gli importi pagati nelle fasi precedenti del processo sono detratti dall’imposta che il soggetto
passivo deve pagare, cosicché l’imposta si applica, ad ogni passaggio, solo sul valore
aggiunto in quella fase, e l’onere finale dell’imposta va in definitiva a carico del consumatore
(33).
23. Le caratteristiche di un’imposta nazionale rientrante nella sfera del divieto di cui all’art.
33, n. 1, della sesta direttiva sono descritte, anzitutto, in termini generali, come quelle aventi
l’effetto di danneggiare il funzionamento del sistema comune di IVA, gravando sulla
circolazione dei beni e dei servizi e colpendo i negozi commerciali in modo analogo a quello
che caratterizza l’IVA (34). Nelle sentenze in cui sono elencate le quattro caratteristiche
essenziali dell’IVA (35), viene altresì specificato che tasse, dazi e oneri devono in ogni caso
essere considerati imposti sulla circolazione di beni e servizi in modo analogo all’IVA ove
posseggano tali caratteristiche essenziali. Non è tuttavia necessario che siano simili all’IVA
sotto ogni profilo (36).
24. Inoltre, entrando nello specifico, soltanto una volta, e precisamente nella sentenza Dansk
Denkavit, la Corte ha dichiarato un’imposta effettivamente incompatibile, descrivendone le
caratteristiche come segue (37):
– veniva versata sia per attività soggette ad IVA sia per altre attività a carattere industriale o
commerciale consistenti nell’effettuazione di prestazioni a titolo oneroso;
– era riscossa, per quanto concerneva le imprese soggette ad IVA, su una base imponibile
identica a quella utilizzata per l’IVA, cioè sotto forma di una percentuale sull’importo delle
vendite realizzate, previa detrazione dell’importo degli acquisiti effettuati;
– a differenza dell’IVA, non veniva percepita all’importazione, ma era riscossa sul prezzo
pieno di vendita delle merci importate al momento della loro prima rivendita nello Stato
membro considerato;
– a differenza dell’IVA, non occorreva che fosse indicata a parte nella fattura;
– era riscossa parallelamente all’IVA.
25. Nella sentenza Careda (38), la Corte ha ulteriormente specificato che, affinché un tributo
sia assoggettato al divieto, esso deve poter essere trasferito al consumatore.
26. Nelle altre sentenze, invece, la Corte ha ritenuto che varie imposte nazionali fossero
compatibili con la sesta direttiva in quanto le loro caratteristiche erano sufficientemente
diverse da quelle dell’IVA. Nella maggior parte dei casi, la Corte ha fondato il suo
accertamento sull’esistenza di un fascio di caratteristiche idonee a distinguere l’imposta in
oggetto dall’IVA, mentre nella sentenza Solisnor (39) e nella sentenza EKW (40) ha ritenuto
che la mancanza di applicazione generale fosse sufficiente ad escludere, di per sé, l’imposta
dall’ambito di applicazione del divieto; anche una limitazione a determinate categorie di beni
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o di servizi è stata presa in considerazione nella maggior parte delle altre sentenze e sembra
comunque essere stata una caratteristica di tutte le imposte contestate, salvo forse quelle
oggetto delle sentenze Rousseau Wilmot e SPAR.
27. Altre caratteristiche che la Corte ha ritenuto differire da quelle dell’IVA, e che ha
considerato rilevanti nel valutare la compatibilità di un’imposta nazionale, sono le seguenti:
– calcolo dell’imposta sulla base del fatturato annuo, di modo che sia impossibile determinare
l’importo
preciso trasferito sui consumatori (41);
– applicazione dell’imposta sulla base della circostanza che un bene sia semplicemente messo
a disposizione del pubblico, a prescindere dall’importo o anche dall’esistenza di un onere per
l’uso, oppure calcolo sulla base di un prezzo stimato piuttosto che effettivo (42); più in
generale, calcolo su una base imponibile diversa da quella del valore aggiunto (43);
– assenza di disposizioni in merito alla detraibilità dell’imposta versata a monte (44);
– mancanza di una diretta o stretta proporzionalità rispetto al prezzo dell’operazione tassata
(45);
– applicazione dell’imposizione soltanto in una fase nell’ambito di una catena di operazioni
(46); tuttavia, nella sentenza Wisselink (47), la Corte ha chiarito che anche un’imposta
riscossa una sola volta può essere contraria al diritto comunitario qualora ostacoli la piena
efficacia del sistema comune dell’IVA;
– applicazione dell’imposta sulle operazioni effettuate a monte, e non a valle, dal soggetto
passivo (48).
28. Infine, la Corte ha altresì identificato una serie di caratteristiche che non rilevano al fine di
valutare la compatibilità di un’imposta nazionale:
– la denominazione dell’imposta in diritto nazionale, il testo letterale della norma o le ragioni
per la sua adozione (49);
– il fatto che l’imposta sia applicata in maniera concorrente all’IVA (50);
– la mancanza di uno specifico obbligo di trasferire l’imposta al consumatore (51);
– la mancanza di un obbligo di menzionare l’imposta in una fattura o di rilasciare o detenere
fatture (52);
– il fatto che l’imposta non sia pagata all’importazione ma al momento della prima cessione
ad essa successiva (53);
– il fatto che l’imposta sia calcolata su una base imponibile diversa nel caso di soggetto
passivo non soggetto all’IVA (54).
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3. Commenti generali sulla giurisprudenza
29. Vi sono dunque due aspetti principali nell’impostazione seguita dalla Corte: da un lato, a
livello fondamentale, lo scrupolo di tutelare i principi sottesi al sistema dell’IVA e di evitare
interferenze con lo stesso; dall’altro, la volontà di definire, più formalmente e nell’interesse
della certezza del diritto, i criteri alla luce dei quali un’imposta nazionale può chiaramente
essere qualificata come incompatibile con il sistema dell’IVA.
30. Una panoramica della giurisprudenza rivela come, mentre il primo aspetto non è mai stato
trascurato, il riferimento ai criteri specifici abbia assunto crescente importanza nelle sentenze
più recenti. Gli Stati membri che hanno risposto al primo quesito posto dalla Corte (55)
auspicano tutti una conferma di tale importanza; la Finlandia, in particolare, chiede che ci si
attenga fermamente alle quattro «caratteristiche essenziali» nell’interesse della chiarezza,
coerenza e certezza del diritto.
31. Tale posizione è comprensibile. Gli Stati membri debbono sapere quali limiti possono
applicarsi alla loro libertà di azione allorché introducono nuove forme di tassazione ovvero
mantengono o modificano forme esistenti. È importante in tale contesto che vi siano criteri
chiari e obiettivi.
32. Tuttavia, vi è sempre il rischio che un’applicazione puramente formale di regole o criteri
conduca a risultati contrastanti con lo scopo fondamentale perseguito quando tali regole o
criteri sono stati adottati – nella fattispecie, quello di garantire che non sia pregiudicato il
corretto funzionamento del sistema comune di IVA.
33. Mi pare dunque indispensabile, nel valutare le caratteristiche di qualunque tributo
nazionale messo in discussione rispetto alle caratteristiche dell’IVA, continuare a farlo alla
luce di tale scopo, al fine di prevenire qualunque interferenza con gli obiettivi fondamentali
consistenti nel sostituire le imposte sulla cifra d’affari cumulative a cascata, predisporre le
condizioni per una sana concorrenza nel mercato comune, eliminare le differenze nella
tassazione idonee a distorcere la concorrenza o a ostacolare gli scambi, e garantire parità nelle
condizioni di tassazione di una determinata operazione, a prescindere dallo Stato membro in
cui essa viene effettuata.
34. In tale contesto, le caratteristiche di un’imposta nazionale possono variare quanto al loro
grado di somiglianza con le caratteristiche essenziali dell’IVA. Sembra improbabile che, ove
un’imposta pregiudichi il funzionamento del mercato comune in quanto possiede quelle
caratteristiche in forma identica, smetterà di pregiudicare il sistema semplicemente in
conseguenza di differenze minori.
35. Giustamente la Corte ha dichiarato che, per essere ricompresa nel divieto, non è
necessario che un’imposta sia identica all’IVA sotto tutti i profili, dovendo invece essere
considerata ricompresa nel divieto qualora possegga le caratteristiche essenziali dell’IVA.
Allo stesso modo, ritengo che ciò che è necessario, con riferimento a ciascuna di quelle
caratteristiche individuali, non sia un’identità stretta e assoluta bensì un’identità sostanziale.
36. Per contro si può ipotizzare che nella pratica, e forse prima facie paradossalmente,
un’imposta interferisca tanto meno con il sistema di IVA quanto più gli assomiglia.
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Un’ipotetica imposta aggiuntiva rispetto all’IVA ma altrimenti identica ad essa sotto tutti i
profili non sarebbe infatti molto diversa da un aumento dell’aliquota standard dell’IVA, per la
quale non vi è, attualmente, alcun limite massimo (56). Ciò che rischia di interferire in
maggior misura con il sistema comune è un’imposta che, pur possedendo caratteristiche
essenziali dell’IVA, ne possieda anche altre con essa contrastanti (57).
37. In tale contesto, l’avvocato generale Jacobs ha riconosciuto (58) che la presenza di tutte le
quattro caratteristiche essenziali dell’IVA è condizione necessaria perché un’imposta
nazionale sia incompatibile con la sesta direttiva, il che implicherebbe che, in mancanza di
una qualunque di tali caratteristiche, l’imposta sia compatibile.
38. Tuttavia, è anche possibile un’interpretazione della giurisprudenza leggermente diversa.
39. In tutte le sentenze, salvo Solisnor e EKW, la Corte ha sottolineato che all’imposta
nazionale di cui trattavasi mancava più di una delle quattro caratteristiche essenziali mentre,
nelle due sentenze citate, decisiva è stata l’assenza di applicazione generale. Ciò potrebbe
suggerire che, delle quattro caratteristiche, quella dell’applicabilità generale debba essere
considerata di maggior peso rispetto alle altre tre. Tuttavia, non mi sembra che tale
conclusione possa essere tratta con certezza, cosicché non propongo di accogliere
quest’interpretazione.
40. Che cosa può dirsi allora, in termini generali e con sicurezza, circa le caratteristiche
essenziali dell’IVA, alla luce dello scopo del sistema comune e del divieto di imposte
nazionali idonee a pregiudicarne il funzionamento?
41. Possono anzitutto essere fissati alcuni punti in negativo. Un’imposta non è idonea a
pregiudicare il funzionamento del sistema comune se non si applica in modo generale; le
imposte che si limitino a categorie specifiche di beni o servizi non sono idonee ad interferire
con il sistema nel complesso. Un’imposta che non sia applicata in ciascuna fase della catena
produttiva o distributiva è meno probabile che possa compromettere il sistema; tali imposte
possono incidere su una fase specifica della catena, ma non sull’intero sistema (59).
Un’imposta che non sia proporzionale al valore aggiunto in ciascuna fase, e quindi al prezzo
complessivo in ciascuna fase, è meno probabile che interferisca con il sistema di IVA;
imposte forfettarie possono in generale coesistere con imposte proporzionali (60). E,
naturalmente, un’imposta non trasferibile sul consumatore non può compromettere il
funzionamento dell’IVA come imposta sul consumo.
42. Prima di esaminare l’applicazione della giurisprudenza, e dei criteri da essa elaborati, a
un’imposta come l’IRAP, è tuttavia necessario, ancora a livello generale, considerare
l’eventuale rilevanza di due punti specifici: lo status delle operazioni bancarie in riferimento
alle imposte sulla cifra d’affari e la distinzione tra imposizione fiscale diretta e indiretta alla
luce dell’art. 93 CE.
4. Assoggettamento delle operazioni bancarie all’imposta sulla cifra d’affari
43. La Corte ha chiesto alle parti, agli Stati membri e alla Commissione di chiarire in quale
misura, a loro parere, le operazioni bancarie possano essere assoggettate ad un’imposta avente
il carattere di imposta sulla cifra d’affari ai sensi dell’art. 33, n. 1, della sesta direttiva.
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44. La Banca Popolare, i governi francese e ungherese e la Commissione hanno risposto
brevemente, concordando sul fatto che le operazioni bancarie possano, in via di principio,
essere assoggettate ad un’imposta del genere (sebbene possano sorgere difficoltà pratiche
maggiori rispetto al caso di altre operazioni commerciali) sottolineando comunque anche
l’esistenza di un ampio numero di esenzioni dall’IVA nell’ambito dei servizi finanziari (61).
45. Il governo ungherese ritiene pertanto che agli Stati membri non sia preclusa, in forza
dell’art. 33, n. 1, la possibilità di imporre un tributo diverso dall’IVA sulle operazioni
bancarie. La Banca Popolare è in disaccordo con questa tesi, sottolineando che la questione
sollevata dal giudice del rinvio riguarda la compatibilità dell’ IRAP «tout court», e non quella
della sua applicazione alle operazioni bancarie.
46. Non credo che un’approfondita analisi della questione potrebbe rivelarsi proficua (62). I
servizi bancari rientrano nell’ambito dell’IVA in forza dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva;
sono ampiamente esenti in forza dell’art. 13, parte B, lett. d); tuttavia, gli Stati membri
possono accordare ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione a norma
dell’art. 13, parte C, lett. b). Qualora un’imposta di applicazione generale soddisfi tutti i
criteri per essere ricompresa nel divieto di cui all’art. 33, n. 1, non dovrebbe esserne esclusa
semplicemente perché si applica anche a una categoria di operazioni che è esente e per la
quale, eventualmente, lo Stato membro di cui trattasi non abbia previsto la possibilità di
optare per l’imposizione (63).
47. Non mi sembra dunque rilevante, ai fini della valutazione cui la Corte dovrà procedere, il
fatto che la maggior parte delle operazioni effettuate dalla Banca Popolare, o dalle banche in
generale, possa essere esente da IVA.
5. L’art. 93 CE e la distinzione tra imposte dirette e indirette
48. Infine, vorrei passare ad esaminare una questione generale sollevata da vari Stati membri
nelle loro osservazioni: ci si chiede se l’eventuale qualificazione di un’imposta come imposta
diretta possa essere rilevante ai fini della valutazione della sua compatibilità con la sesta
direttiva.
49. Tutte le direttive IVA si fondano sull’art. 93 CE (ex art. 99 del Trattato CE), in forza del
quale il Consiglio adotta le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni
relative «alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette»
nella misura «necessaria per assicurare l’instaurazione e il funzionamento del mercato
interno» (originariamente «nell’interesse del mercato comune»).
50. Ne è stato desunto che, poiché l’art. 93 CE riguarda soltanto l’imposizione fiscale
indiretta, la sesta direttiva non può vietare tributi che non configurino, di per sé, un’imposta
indiretta.
51. A mio parere, tuttavia, tale conclusione non è giustificata.
52. In primo luogo, si rilevi che, come la Commissione ha sottolineato nel corso della seconda
udienza, la Corte, nel valutare la compatibilità di un’imposta nazionale con la sesta direttiva,
non l’ha mai qualificata come «diretta» o «indiretta» (64). Chiaramente, da tale circostanza
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non può trarsi alcuna conclusione determinante, tuttavia essa indica che la distinzione tra
imposizione diretta e indiretta non è stata considerata, ad oggi, un criterio essenziale, e può
suggerire che dovrebbe essere introdotta come criterio solo ove vi fossero fondate ragioni per
farlo, il che resta da verificare.
53. In tale contesto, va ricordato che il Trattato non contiene alcuna definizione in merito alla
differenza tra imposizione diretta e indiretta, ed è pacifico che non può formularsi alcuna
definizione completa, inequivocabile e universalmente valida.
54. Certamente, l’essenza della distinzione è chiara: un’imposta diretta è riscossa direttamente
presso il soggetto su cui grava l’onere economico; un’imposta indiretta è inclusa in un
importo pagato da tale soggetto a un altro, che non sopporta l’onere economico ma che
risponde del pagamento dell’imposta.
55. Tipiche imposte dirette sono quelle sul patrimonio personale, sulla proprietà o sul reddito;
si potrebbe dire che solo le imposte riscosse sui singoli come tali abbiano natura veramente
diretta. Al contrario, l’IVA, come disciplinata dalla sesta direttiva, è un’imposta indiretta per
eccellenza, in quanto del tutto neutrale rispetto agli operatori economici presso i quali è
riscossa ed in quanto viene in via di principio sempre trasferita sul consumatore finale quale
percentuale identificabile del prezzo (e quale importo specificato allorché viene emessa una
fattura).
56. Tuttavia, la situazione non sempre è nitida. Alcune imposte che sono in primo luogo
dirette possono condividere in parte la natura dell’imposizione fiscale indiretta, e viceversa. E
anche qualora potesse rinvenirsi un criterio soddisfacente per distinguere giuridicamente tra
imposizione fiscale diretta e indiretta, alcuni degli effetti di un’imposta come l’IRAP
sembrano potersi sovrapporre a quelli dell’IVA, cosicché un’interferenza tra le due non può
essere esclusa.
57. Inoltre, è stato correttamente sottolineato come l’art. 93 CE non possa chiaramente fornire
un valido fondamento normativo per un’armonizzazione comunitaria dell’imposizione fiscale
diretta. Tuttavia, altrettanto chiaramente, secondo me, esso può fornire un tale fondamento per
una norma comunitaria che vieti un’imposta nazionale idonea a pregiudicare il funzionamento
di una forma di imposizione indiretta armonizzata – come l’IVA. Non credo sia necessario
esigere un fondamento normativo diverso semplicemente perché il tributo nazionale in
questione può presentare alcune caratteristiche dell’imposizione diretta. Ciò che importa è che
possegga oppure no caratteristiche idonee a compromettere il funzionamento del sistema
dell’IVA, a prescindere dal fatto che ne possegga anche altre che non lo sono – e si ricordi che
solo le caratteristiche lesive del funzionamento del sistema dell’IVA saranno in conflitto con
il divieto fondato sull’art. 93 CE.
58. In termini più succinti, si può dire che l’art. 93 CE non consente alla legislazione
comunitaria di ledere la sovranità fiscale degli Stati membri nel settore della fiscalità diretta;
reciprocamente, non consente agli Stati membri di adottare, nell’esercizio di tale sovranità,
misure idonee a compromettere l’armonizzazione, come pattuita, della fiscalità indiretta. Di
conseguenza, esso può fungere da valido fondamento normativo per una normativa che vieti
siffatte misure.
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59. Si rilevi infine che, sebbene dal 1989 (65) in poi tutte le direttive IVA risultino essere
state adottate soltanto sulla base dell’art. 93 CE (o del suo predecessore, l’art. 99 del Trattato
CE), non così era avvenuto per le direttive precedenti. Fino al 1986 (66) esse erano fondate
nel contempo sull’art. 99 e sull’art. 100 del Trattato CE, vale a dire sugli attuali artt. 93 CE e
94 CE. Ai sensi di quest’ultima norma, il Consiglio stabilisce direttive volte al
ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che abbiano un’incidenza diretta
sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune».
60. Pertanto la sesta direttiva, che rientra nel primo gruppo, è stata adottata sulla base non
soltanto di una disposizione del Trattato che autorizza l’armonizzazione delle imposte
indirette, ma anche sulla base di un’altra disposizione che autorizza, più in generale,
qualunque armonizzazione che sia in rapporto indiretto con l’instaurazione e il funzionamento
del mercato comune.
61. Di conseguenza, non vi è alcuna ragione per cui il divieto di imposte nazionali sulla cifra
d’affari diverse dall’IVA non debba potersi estendere a tutte le imposte idonee a pregiudicare
il funzionamento del sistema dell’IVA. Ciò dipenderà dalle caratteristiche e dagli effetti di
ciascuna imposta, e non da una sua classificazione teorica nella categoria delle imposte dirette
o di quelle indirette. Non paiono esservi ragioni cogenti per introdurre un criterio del genere
in sede di valutazione della compatibilità con l’art. 33, n. 1, della sesta direttiva, e l’art. 93
CE, in quanto fondamento normativo della sesta direttiva, non fornisce pertanto alcun ausilio
diretto sotto tale profilo.
6. Conclusione sulla scorta delle considerazioni generali in merito alla compatibilità con
la sesta direttiva
62. Giungo pertanto alla conclusione che né la peculiarità delle operazioni bancarie né la
qualificazione di un’imposta come diretta o indiretta possono incidere sulla valutazione che
qui ci occupa, la quale deve basarsi su un esame delle quattro caratteristiche essenziali, le
quali tutte debbono ricorrere affinché un’imposta nazionale rientri nella sfera del divieto
sancito dalla sesta direttiva.
63. Tuttavia, ritengo che la Corte, con riferimento a taluni aspetti di questi criteri, si trovi di
fronte ad una scelta tra un’applicazione restrittiva ed una più estensiva, quest’ultima
quantomeno implicitamente insita nell’analisi svolta dall’avvocato generale Jacobs.
64. Orbene, si può desumere dagli orientamenti giurisprudenziali innanzi delineati che tanto
l’approccio estensivo quanto quello restrittivo già sono presenti, in gradi diversi, nella
giurisprudenza della Corte, che può dunque aver mantenuto un qualche grado di incertezza.
Nella fattispecie, la Corte deve dissipare ogni eventuale incertezza indicando se le quattro
caratteristiche essenziali, utilizzate come criteri per accertare se un’imposta nazionale sia
vietata dalla sesta direttiva, debbano essere considerate in maniera puramente formale oppure
alla luce delle finalità del divieto, da un lato, e del sistema dell’IVA armonizzata visto nel suo
insieme, dall’altro.
65. Considerato inoltre il rango della presente causa – l’attenzione che ha attirato, il fatto che,
diversamente dalla maggior parte delle cause precedenti, sarà giudicata dalla Corte in seduta
plenaria e la circostanza che il procedimento sia stato riaperto espressamente per valutare,
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inter alia, i criteri per qualificare un’imposta come imposta sulla cifra d’affari ai sensi dell’art.
33, n. 1, della sesta direttiva – occorre altresì tener presente che la scelta che sarà operata
inciderà in maniera determinante sulla futura giurisprudenza in materia.
B – Applicazione ad un’imposta come l’IRAP
66. Passo ora ad esaminare come i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte
dovrebbero essere applicati all’IRAP, tenendo presente che non spetta alla Corte definire le
caratteristiche di tale imposta. È questo un compito che tocca ai giudici italiani, ed occorre in
linea di principio accettare la descrizione che fa dell’imposta l’ordinanza di rinvio. Tuttavia,
ci si potrà soffermare sugli aspetti di tale descrizione che appaiono contestati.
67. L’avvocato generale Jacobs ha, ovviamente, già esaminato gli stessi criteri nelle sue
conclusioni e sarebbe di poco profitto riprodurre la sua analisi.
1. Generalità di applicazione
68. Risulta dalla giurisprudenza della Corte che la prima fondamentale caratteristica dell’IVA
è il fatto di essere generalmente applicata ad operazioni concernenti beni e servizi.
69. Come è ricordato nell’ordinanza di rinvio, «l’IRAP si applica, in modo generalizzato, a
tutte le operazioni commerciali di produzione e di scambio aventi ad oggetto beni e servizi
poste in essere nell’esercizio in modo abituale di un’attività volta a tale fine» e «nella
tassazione “frazionata”» IVA e IRAP si assomigliano come due gocce d’acqua [nonostante] la
diversità degli espedienti tecnici usati per la misurazione dell’imponibile e dell’imposta».
70. L’avvocato generale Jacobs ha affrontato questi aspetti nei paragrafi 28-40 delle sue
conclusioni, in cui afferma che l’IRAP possiede tali caratteristiche.
71. Tenuto conto di questo, ed alla luce del punto 15 della sentenza Dansk Denkavit, non
sembra che l’applicazione generale dell’IRAP a beni e servizi costituisca un problema: è
pacifico che, diversamente da quasi tutte le imposte nazionali esaminate dalla Corte e
giudicate compatibili con la Sesta direttiva,
l’applicazione dell’IRAP non si limita a particolari categorie di beni e di servizi.
72. Mi pare, inoltre, che una divergenza di opinioni tra la Banca Popolare e il governo
italiano, alla quale l’avvocato generale Jacobs si riferiva nel paragrafo 32 delle sue
conclusioni, sia stata chiarita nella seconda udienza. La Banca Popolare negava che l’IRAP
fosse riscossa su beni fabbricati ma non ancora venduti, gravando così sulle scorte e non solo
sulle cessioni. Se ho ben capito ciò che è stato detto in udienza, l’affermazione del governo
sarebbe a rigore esatta, ma il fatto che le scorte siano valutate al prezzo di costo e che il costo
di fabbricazione sia dedotto dalla base imponibile avrebbe per effetto che in quasi tutti i casi
l’importo dell’imposta riscossa sia praticamente pari a zero. Di conseguenza, è inutile che la
Corte si soffermi ulteriormente su questo problema.
73. Rimane tuttavia un aspetto in relazione al quale può risultare necessario vedere se occorra
adottare un approccio più ampio o più ristretto: nonostante la formulazione dell’ordinanza di
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rinvio, sembra che l’IRAP non sia calcolata sulle singole operazioni in quanto tali, mentre la
giurisprudenza della Corte, rifacendosi all’art. 2 della Sesta direttiva, definisce l’IVA come
un’imposta che si applica in generale ad «operazioni» (e, come sarà chiarito in seguito, questa
distinzione appare rilevante per più di una delle caratteristiche fondamentali dell’IVA).
74. L’avvocato generale Jacobs ha concluso che vi è in pratica poca differenza tra un’imposta
calcolata, come l’IRAP, sulla sola base di un cumulo periodico ed un’altra calcolata, come
l’IVA, sulla base di ogni singola operazione per le fatture individuali e sulla base di un
cumulo periodico per i commercianti.
75. Sembra infatti evidente che la differenza fra le entrate totali e le uscite totali durante un
periodo d’imposta sarà identica alla somma delle differenze tra le singole entrate e le singole
uscite durante lo stesso periodo.
76. La Corte potrebbe nondimeno applicare rigorosamente la propria precedente
giurisprudenza, considerando che solo le imposte calcolate sulla base di singole operazioni in
quanto tali ricadono sotto l’art. 33, n. 1, della Sesta direttiva a prescindere dal cumulo
periodico. In numerose sentenze (67), il fatto che un’imposta sia calcolata sulla base del giro
d’affari annuo è stato considerato come una caratteristica rilevante che distingue tale imposta
dall’IVA, sebbene non sembrino esserci casi in cui non ci fossero anche altre caratteristiche
distintive.
77. Un simile approccio farebbe dipendere l’incompatibilità da una corrispondenza più
precisa tra le modalità di calcolo dell’imposta interna e quelle dell’IVA di quanto non abbia
suggerito l’avvocato generale Jacobs.
78. Esso implicherebbe altresì un cambio d’orientamento rispetto alla giurisprudenza
risultante dalla sentenza Dansk Denkavit, che fu pronunciata dalla Corte in seduta plenaria:
l’imposta che tale sentenza ritenne incompatibile era calcolata secondo un meccanismo
apparentemente assai simile a quello dell’IRAP giacché veniva riscossa «come percentuale
del volume delle vendite previa deduzione degli acquisti».
79. A mio parere, l’interpretazione più ampia, fatta propria dalla sentenza Dansk Denkavit, è
la più appropriata in quanto include nel divieto imposte che, pur non essendo calcolate nello
stesso modo, conducono, per i commercianti e per i consumatori, ad un risultato identico a
quello delle imposte riscosse sulle singole operazioni. Essa serve meglio lo scopo di garantire
che il funzionamento del sistema dell’IVA non sia perturbato.
80. Se si accoglie questo punto di vista, e se si parte dal presupposto che il metodo di calcolo
dell’imposta in questione porta in pratica ad un’imposta di ammontare identico a quello che
risulterebbe da un metodo basato sul valore delle singole operazioni, mi sembra chiaro che la
caratteristica dell’applicazione generale ad operazioni concernenti beni e servizi è presente in
un’imposta come l’IRAP.
81. Il governo italiano nega – è vero – che l’IRAP, calcolata sui risultati globali di
un’impresa, possa essere equiparata all’IVA, che è invece calcolata su ciascuna delle singole
operazioni effettuate dall’impresa stessa.
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82. Tuttavia, i suoi argomenti non si fondano direttamente sulla differenza tra i metodi di
calcolo. Esso sostiene, piuttosto, in primo luogo, che l’IRAP è riscossa sull’impresa in quanto
tale e non sulle operazioni da questa poste in essere, cosicché è un’imposta diretta e non già
un’imposta indiretta (68); è questo un aspetto di cui ho già trattato ai paragrafi 48 e segg.,
concludendo che era irrilevante. In secondo luogo, il governo italiano sostiene che il valore
cumulato su cui viene riscossa l’IRAP non equivale alla somma dei valori individuali su cui si
basa l’IVA; questo argomento concerne però la natura del valore aggiunto usato come base
imponibile piuttosto che il metodo di calcolo dell’importo dovuto e lo prenderò perciò in
considerazione nell’ambito della quarta caratteristica fondamentale (69), dove appare più
rilevante che nel presente contesto.
83. Le precedenti considerazioni non influenzano perciò la mia opinione sull’imponibile di
un’imposta come quella descritta dal giudice remittente in relazione alla prima caratteristica
fondamentale dell’IVA.
84. Prima di passare alla seconda di tali caratteristiche, vorrei menzionare brevemente un
argomento dedotto dal governo ungherese secondo cui un’imposta non è di applicazione
generale se è riscossa a livello locale o regionale, in particolare se la sua riscossione è
facoltativa e/o se l’autorità locale o regionale può determinarne l’aliquota. Non mi pare che
questo sia un criterio rilevante; di certo non è stato considerato rilevante dalla Corte nella
causa Pelzl e nella causa EKW, ciascuna delle quali riguardava imposte regionali (70). Si
tratta piuttosto di accertare se l’imposta sia generale nella propria area di applicazione,
indipendentemente dal fatto che essa si applichi su scala nazionale o puramente locale.
85. Di conseguenza, ritengo che un’imposta nazionale dotata delle caratteristiche descritte dal
giudice remittente abbia in comune con l’IVA la caratteristica fondamentale di essere
generalmente applicata ad operazioni concernenti beni e servizi. Se, nondimeno, la Corte
dovesse ritenere – scostandosi dalla sua giurisprudenza Dansk Denkavit – che la caratteristica
fondamentale in questione implica necessariamente l’applicazione a singole operazioni, tale
imposta non evidenzierebbe tale caratteristica.
2. Rapporto proporzionale tra l’imposta e il prezzo
86. La seconda caratteristica fondamentale dell’IVA consiste nel fatto che essa è
proporzionale al prezzo percepito dal soggetto d’imposta per i beni o i servizi che egli
fornisce.
87. L’ordinanza di rinvio indica che «la somma delle IRAP riscosse nelle varie fasi del ciclo,
dalla produzione alla immissione al consumo è pari all’aliquota IRAP applicata al prezzo alla
vendita di beni e servizi praticato in sede di immissione al consumo. (…) Quindi l’IRAP
finisce per agire come imposta generale e proporzionale sul prezzo di cessione al consumo di
beni e servizi».
88. L’avvocato generale Jacobs ha trattato questo aspetto nei paragrafi 59 e segg. delle sue
conclusioni. Egli ha riconosciuto che il meccanismo dell’IRAP era tale da non poter sempre
rimanere strettamente proporzionale al prezzo di ciascuna operazione, ma ha ritenuto che ciò
non fosse determinante dal momento che, in sostanza, il carico effettivo dell’IVA può,
contrariamente all’importo figurante nella fattura, essere ridistribuito da un commerciante fra
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i vari tipi di cessioni che egli compie, adeguando i propri margini di profitto, nello stesso
modo in cui ciò può essere fatto per l’IRAP. In altri termini, entrambe le imposte sono, per
loro natura, proporzionali ed i commercianti finiranno, in situazioni normali, per distribuire
proporzionalmente il carico di ciascuna di esse tra i propri prodotti e servizi; in entrambi i
casi, essi possono astenersi da tale distribuzione, ma lo faranno soltanto per raggiungere un
preciso obiettivo commerciale.
89. È vero che in numerose cause (71) la Corte ha considerato che la mancanza di uno stretto
rapporto di proporzionalità o un metodo di calcolo che non permettesse di determinare il
preciso importo dell’imposta ripercossa sul consumatore era una caratteristica distintiva
rilevante, almeno se presa in considerazione insieme ad altre, di un’imposta non vietata
dall’art. 33, n. 1, della Sesta direttiva. Se si segue tale giurisprudenza, mi sembra che l’IRAP
possa essere distinta dall’IVA anche per questo motivo.
90. Tuttavia, l’imposta che venne ritenuta incompatibile nella causa Dansk Denkavit era stata
descritta dal giudice del rinvio come un contributo «riscosso in ciascuna fase della catena
commerciale (…) sotto forma di percentuale delle vendite realizzate dall’impresa, previa
detrazione degli acquisti effettuati, sulla base dei quali è stato riscosso il contributo a monte»
e non indicato a parte nella fattura – situazione che sembra
corrispondere a quella dell’IRAP. E, nella sentenza Careda (72), la Corte ha chiaramente
statuito che era sufficiente che un’imposta potesse essere ripercossa sul consumatore, senza
che occorresse alcun obbligo a questo riguardo; in tali circostanze è ovviamente impossibile
applicare anche la condizione che l’importo dell’imposta risulti sempre costantemente
proporzionale al prezzo di ciascuna operazione.
91. La Corte sembra quindi aver oscillato fra una nozione più ampia ed una nozione più
restrittiva del principio di proporzionalità al prezzo e, nel presente caso, dovrà decidere quale
di questi due approcci è maggiormente appropriato.
92. A mio parere, occorre optare per l’approccio più ampio se si intende perseguire l’obiettivo
di non mettere in pericolo il funzionamento del sistema dell’IVA. Non sembra possibile
ritenere che un’imposta interferisca con il sistema dell’IVA se è strettamente proporzionale ai
prezzi delle operazioni; può invece interferire se la proporzionalità è solo approssimativa.
Come l’avvocato generale Jacobs ha precisato, sinteticamente, al paragrafo 69 delle sue
conclusioni, ciò consentirebbe ad uno Stato membro di eludere il divieto, magari ricorrendo a
qualche minuscolo aggiustamento, ma continuando nondimeno a riscuotere un’imposta che,
nella sua funzione, coincide sostanzialmente con l’IVA.
93. Un altro punto di cui si può nondimeno tener conto nel presente contesto e che è stato
messo in evidenza dal governo italiano è il regime di IRAP applicato alle importazioni.
Sebbene ciò non sia menzionato nell’ordinanza di rinvio, è pacifico che l’IRAP grava
unicamente sul valore che è stato aggiunto nella regione italiana (di cui trattasi). Di
conseguenza, se una merce è importata per essere (trattata e) rivenduta, l’importo totale
dell’IRAP riscossa sarà proporzionale solo alla differenza fra il costo di importazione ed il
prezzo di vendita e non già all’intero prezzo di vendita, come accadrebbe per l’IVA.
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94. Questo tratto distingue in effetti l’IRAP dall’IVA, che si applica al valore delle
importazioni in quanto tale, e dall’imposta di cui si discuteva nella causa Dansk Denkavit, che
si applica a tale valore in quanto incorporato in una successiva cessione del prodotto. A stretto
rigore, perciò, è un tratto idoneo ad escludere l’IRAP dal divieto.
95. Non sono tuttavia convinta – ripeto – che si possa giungere a questa conclusione sulla
base di un approccio più ampio che tenga conto dell’obiettivo di evitare che il funzionamento
del sistema dell’IVA sia messo in pericolo.
96. È nella natura delle imposte interne – almeno nel caso delle imposte indirette – che,
qualora vengano riscosse sul valore aggiunto, tali imposte non siano riscosse sul valore
aggiunto realizzato al di fuori del territorio in cui esse si applicano; inoltre, una imposta sulle
importazioni violerebbe gli artt. 25 CE e 26 CE. Si potrebbe dunque ritenere che un criterio di
proporzionalità rispetto al prezzo nel contesto del divieto di imposte nazionali che
interferiscano con il funzionamento del sistema comune dell’IVA debba essere inteso come
un criterio di proporzionalità rispetto al valore aggiunto al prezzo nel territorio fiscale dello
Stato di cui trattasi.
97. Per quanto riguarda tale criterio, dunque, sono del parere che l’IRAP, come ci è stata
descritta, sia sufficientemente proporzionale al prezzo percepito nelle operazioni su cui essa
grava così da non essere esclusa dal divieto di cui all’art. 33, n. 1, della Sesta direttiva,
qualora il suddetto divieto sia inteso nel senso che esso preclude le imposte nazionali che,
sovrapponendosi, interferiscono con il funzionamento dell’IVA. Diverse sarebbero le
conclusioni se il criterio dovesse essere applicato in modo più formale.
3. Riscossione ad ogni stadio della produzione
98. La terza caratteristica fondamentale dell’IVA consiste nel fatto che l’imposta è riscossa ad
ogni stadio della produzione e della distribuzione, fino alla fase della vendita al dettaglio,
indipendentemente dal numero di operazioni che hanno già avuto luogo.
99. L’ordinanza di rinvio precisa che «l’IRAP è riscossa in ogni fase del processo di
produzione o di distribuzione, poiché ogni operatore che si inserisce in una fase del ciclo,
producendo valore aggiunto tassabile, viene elevato, dalla legge, a soggetto passivo di
imposta».
100. L’avvocato generale Jacobs ha trattato questi aspetti nei paragrafi 55-58 delle sue
conclusioni, in cui ha affermato che l’imposta, quale descritta, soddisfa tale criterio.
101. Le principali obiezioni a questo punto di vista sono simili a quelle che ho già esaminato
in precedenza e si basano, in particolare, sul fatto che l’IRAP non è riscossa allo stadio delle
singole operazioni, bensì sulla base di cifre annuali, e sul fatto che essa non grava le
importazioni.
102. Per quanto attiene alla prima obiezione, mi sembra che un approccio restrittivo non sia
comunque giustificato. L’IRAP è riscossa, come ha spiegato l’avvocato generale Jacobs, «in
ogni fase del processo di produzione o di distribuzione in corrispondenza di una cessione o di
cessioni di beni o di servizi fatte da un soggetto passivo d’imposta». Questa terza
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«caratteristica fondamentale» dell’IVA può solo essere intesa nel senso che essa significhi che
non le sfugge alcuno stadio nella trafila delle cessioni (73), ed è forse significativo il fatto che
la maggior parte dei tributi che la Corte ha ritenuto compatibili con l’art. 33, n. 1, della Sesta
direttiva, se non tutti, erano imposte riscosse in un singolo stadio di produzione (74).
L’obiettivo è essenzialmente quello di proteggere il funzionamento dell’IVA da interferenze
dovute ad imposte cumulative riscosse in differenti fasi della produzione, ed è in tale
prospettiva che occorre vedere il criterio della riscossione ad ogni stadio della trafila di
produzione.
103. Per quanto riguarda la seconda obiezione, vorrei ripetere (75) che il fatto di essere
riscossa sulla base del valore aggiunto prodotto nel territorio fiscale dello Stato interessato è
una caratteristica intrinseca di qualsiasi imposta interna sul valore aggiunto. Poiché
un’imposta da riscuotere nel territorio di uno Stato membro è chiaramente idonea a mettere in
pericolo un sistema di imposizione comune, operante su scala comunitaria, è irrilevante che la
suddetta imposta si applichi o meno a fattispecie che si producono al confine dello Stato.
104. Di conseguenza, concordo con l’avvocato generale Jacobs su questo punto e non vedo
spazio per un’interpretazione più restrittiva che escluda l’IRAP dal divieto sulla base di
questo criterio.
4. Imposizione del valore aggiunto, previa deduzione dell’imposta pagata a monte
105. L’ultima delle quattro caratteristiche fondamentali dell’IVA è il fatto che l’imposta viene
riscossa sul valore aggiunto alla cessione ad ogni stadio, con un meccanismo per la detrazione
della tassa pagata sul valore aggiunto negli stadi precedenti.
106. L’avvocato generale Jacobs ha trattato di questi aspetti nei paragrafi 41-54 delle sue
conclusioni, in cui ha affermato che essi sono sostanzialmente identici tanto per l’IVA quanto
per l’IRAP. Anche qui, egli ha fatto proprio l’approccio più ampio, che toccherà alla Corte
decidere se seguire o meno.
107. Tratterò anzitutto del primo aspetto di questa caratteristica che, a mio parere, è il più
lineare, precisamente l’esistenza di un meccanismo di detrazione per l’imposta pagata a
monte.
108. È evidente che l’IRAP non possiede un tale meccanismo proprio perché, a differenza
dell’IVA, non è calcolata previa deduzione dell’imposta pagata a monte dall’imposta fatturata
al cliente, bensì deducendo il valore d’acquisto dal valore di cessione. Ciò che importa è il
fatto che esiste una somiglianza sostanziale fra i due tipi di meccanismo o, per esprimerci con
le parole dell’avvocato generale Jacobs, che la differenza tra di essi è in pratica limitata.
109. Checché ne sia, mi sembra che l’esistenza di un meccanismo di deduzione non sia
comunque un criterio indipendente, ma piuttosto un inevitabile corollario del fatto che
l’imposta è riscossa sul valore aggiunto ad ogni stadio della produzione e non sul valore
cumulato.
110. In effetti, risulta chiaro che non è necessario, per vietare un’imposta, che quest’ultima
possieda un meccanismo per la deduzione dell’imposta pagata a monte, dal momento che uno
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dei principali ed espliciti obiettivi dell’IVA è quello di sostituire dei sistemi comportanti la
tassazione cumulativa di singole operazioni in più stadi di produzione (che per definizione
non contenevano meccanismi di deduzione) con un sistema comune non cumulativo operante
in più stadi di produzione.
111. Potenzialmente più problematica è la questione della natura del valore aggiunto in
quanto tale.
112. Il giudice del rinvio osserva che «l’IRAP colpisce il valore netto derivante dall’attività
produttiva, ossia il valore netto “aggiunto” al prodotto dal produttore. L’IRAP è dunque
un’imposta sul “valore aggiunto” prodotto (…). La quantificazione e tassazione della frazione
o segmento di valore aggiunto (…) avvengono (…) deducendo a un di presso dal ricavato
delle “vendite” il costo di acquisto del “venduto”».
113. Se così fosse, l’IRAP sembrerebbe possedere la quarta caratteristica fondamentale
dell’IVA.
114. Il governo italiano ha tuttavia obiettato che, sebbene l’IRAP sia riscossa sul «valore
aggiunto» in senso economico, si tratta di un valore aggiunto diverso da quello preso in
considerazione ai fini dell’IVA. Esso sostiene che il valore aggiunto sul quale è riscossa
l’IRAP non si calcola sulla sola base dei costi degli acquisti e dei ricavati delle cessioni ma
anche sulla base di criteri quali le variazioni delle scorte (siano o meno tali variazioni il
risultato di cessioni), le variazioni del valore del lavoro corrente realizzato, i contributi
previdenziali, l’ammortizzamento etc. e che l’IRAP consente la deduzione delle importazioni,
ma grava sulle esportazioni, mentre l’IVA è riscossa sulle importazioni, ma rimborsata sulle
esportazioni. Di conseguenza, due ditte che pagano importi simili per l’IVA, potrebbero
pagare importi assai differenti per l’IRAP.
115. Se così fosse, se ne potrebbe dedurre che, in caso di interpretazione restrittiva di tale
criterio, l’IRAP non sarebbe vietata.
116. D’altra parte, ci si potrebbe domandare se il grado di differenza non sia di scarsa
importanza. Mi sembra che un’imposta non possa sfuggire al divieto di cui all’art. 33, n. 1,
della Sesta direttiva semplicemente grazie alla circostanza che il valore aggiunto sulla base
del quale è riscossa viene definito in modo diverso da come fa la direttiva. Tuttavia, perché
essa ricada sotto il divieto, occorre che vi sia una somiglianza sostanziale tra i due tipi di
valore aggiunto, tale da poter causare interferenze e mettere così a rischio il funzionamento
del sistema comune. La somiglianza in questione può essere esaminata a due livelli.
117. Il primo livello è il principio generale che caratterizza la base imponibile, la quale,
perché ci possa essere somiglianza sostanziale, deve poter essere chiaramente definita come il
valore aggiunto in ciascuno stadio della produzione. Nel caso dell’IRAP, ciò è pacifico e può
essere riconosciuto dalla Corte alla luce della normativa che le è stata sottoposta.
118. Il secondo livello è il contenuto dettagliato della base imponibile, cioè gli elementi
inclusi nel valore aggiunto tassato o esclusi da questo. A questo riguardo, è pacifico che non
tutti gli elementi rilevanti per l’IVA lo sono del pari per l’IRAP, e viceversa. Tuttavia, non mi
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sembra che la mera elencazione di tali elementi possa esserci d’aiuto; ciò che è in discussione
è la somiglianza sostanziale, che può essere accertata solo guardando agli effetti sostanziali.
119. La Corte non dispone di sufficienti informazioni a proposito di tali effetti né rappresenta
la sede opportuna per accertarli; un accertamento definitivo può essere effettuato solo dai
giudici italiani. La Corte può nondimeno fornire indicazioni circa i criteri grazie ai quali può
essere accertata la somiglianza sostanziale. Io propongo un criterio basato sul parallelismo tra
gli importi riscossi a titolo d’IVA e quelli riscossi a titolo d’IRAP sul valore aggiunto da
ciascuna impresa.
120. Se due imposte sono calcolate in funzione di aliquote diverse sulla stessa base
imponibile, il rapporto tra le due rimarrà costante per ciascuna impresa interessata. Si
potrebbe elaborare un grafico rappresentante l’importo di ciascuna imposta che un certo
numero di imprese, operanti in diversi settori, disposte in ordine progressivo da quelle di
minori dimensioni alle più grandi, hanno dovuto pagare alle autorità fiscali, e le due linee del
grafico risulterebbero parallele.
121. Se un elemento della base imponibile venisse modificato per una delle suddette imposte,
ciò potrebbe effettivamente influire sul parallelismo del rapporto, sulla sua costanza. Quanto
più grande fosse il numero di elementi sottratti alla base imponibile di un tributo e/o aggiunti
a quella dell’altro, tanto più risulterebbe probabile una distorsione del parallelismo.
122. Non si tratta però di un risultato obbligato. Se la base imponibile di entrambi i tributi
fosse il valore aggiunto, ma taluni elementi di questo valore fossero presenti nel caso di un
tributo e assenti nel caso dell’altro, il valore aggiunto nel secondo caso potrebbe sempre
rimanere in un rapporto costante, sebbene più ridotto, con il valore aggiunto nel primo,
cosicché continuerebbe ad esserci parallelismo tra i due tracciati del grafico.
123. In tali circostanze, si dovrebbe concludere, a mio parere, che vi è somiglianza sostanziale
tra le due nozioni di valore aggiunto, poiché lo stesso effetto si potrebbe raggiungere
adeguando le aliquote d’imposta piuttosto che la definizione della base imponibile. Più
ancora, sarebbe evidente che la natura dell’attività era irrilevante e che le scelte strategiche
effettuate da ciascuna impresa – se investire di più nel personale o nei macchinari, se prendere
fondi a prestito o reinvestire i profitti,e così via – non influenzavano il risultato.
124. Se, nondimeno, le differenze fra gli elementi che compongono la base imponibile dei due
tributi portassero ad una flagrante mancanza di parallelismo tra i due tracciati del grafico, con
variazioni imprevedibili, sarei del parere che si dovrebbe concludere per l’assenza di
somiglianza sostanziale tra le due imposte.
Lo stesso sarebbe vero se le variazioni non risultassero accidentali, ma potessero essere
sistematicamente riportate a scelte strategiche del tipo sopra ricordato, con differenti effetti
sull’IVA, da una parte, e sull’imposta in questione, dall’altra.
Ma, in caso di differenze tra settori di attività, giungerei a questa conclusione soltanto se vi
fossero anche variazioni all’interno dei singoli settori; tracciati paralleli all’interno di ciascun
settore costituirebbero un forte indizio di una somiglianza sostanziale delle imposte.
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125. Un tale criterio mi sembra essere adeguatamente obiettivo anche se, di necessità, alcuni
suoi dettagli devono essere lasciati alla valutazione dei giudici nazionali, i quali potranno
ricorrere, se del caso, al parere di esperti statistici. In particolare, sarà necessario stabilire che
cosa costituisca un campione rappresentativo di imprese ed in che misura si possano
trascurare variazioni di portata ridotta nel rapporto fra gli importi dei due tributi. Nessuno di
questi punti dovrebbe comunque, a mio parere, risultare problematico, se il principio della
comparazione è chiaro.
126. Con riserva, pertanto, di una valutazione definitiva della somiglianza sostanziale tra il
valore aggiunto su cui si basa l’IRAP e quello su cui si basa l’IVA da parte dei giudici
italiani, ritengo che un’imposta interna che presenti le caratteristiche descritte dal giudice
remittente abbia in comune con l’IVA la caratteristica fondamentale dell’essere riscossa sul
valore aggiunto alle cessioni in ogni stadio della produzione, con un meccanismo di
detrazione dell’imposta pagata a monte.
5. Conclusioni sulla valutazione di un’imposta come l’IRAP alla luce dell’art. 33, n. 1,
della Sesta direttiva
127. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, condivido largamente le conclusioni
dell’avvocato generale Jacobs per quanto riguarda l’incompatibilità con l’art. 33, n. 1, della
Sesta direttiva di un’imposta corrispondente alla descrizione che l’ordinanza di rinvio fa
dell’IRAP. Dei due approcci che ho cercato di descrivere, egli opta per il più ampio, e cosi
faccio anch’io. A questo riguardo, mi sembra di particolare rilievo il fatto che l’approccio più
ampio si concilia con la sentenza Dansk Denkavit, pronunciata dalla Corte in seduta plenaria,
mentre altre sentenze, che sembrerebbero favorire un approccio più restrittivo, sono state
pronunciate da singole sezioni della Corte.
128. Di conseguenza, ritengo che un’imposta corrispondente alla descrizione fatta dell’IRAP
nell’ordinanza di rinvio possieda le quattro caratteristiche essenziali dell’IVA e ricada
pertanto nel campo d’applicazione del divieto di altre imposte nazionali aventi il carattere di
imposte sul giro d’affari, divieto previsto dall’art. 33, n. 1, della Sesta direttiva, purché, per un
campione rappresentativo di imprese assoggettate ad entrambe le imposte, il rapporto tra gli
importi pagati a titolo d’IVA e gli importi pagati a titolo dell’imposta in questione risulti
sostanzialmente costante.
129. La sussistenza di tale condizione va accertata dal giudice nazionale, tenendo conto delle
dettagliate caratteristiche dell’imposta in questione.
II – Limitazione nel tempo degli effetti di una sentenza resa in un procedimento
pregiudiziale
A – Considerazioni generali
130. L’ultimo dei tre quesiti posti dalla Corte prima della seconda udienza è stato suggerito
dalle conclusioni dell’avvocato generale Jacobs ed è quello che ha ottenuto il maggior numero
di risposte da parte degli Stati membri. Esso riguarda le circostanze e le modalità di un
eventuale assoggettamento a limiti degli effetti nel tempo di una sentenza emessa dalla Corte
in sede di procedimento pregiudiziale.
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131. Nel limitare nel tempo gli effetti di una sentenza si deve sempre cercare di raggiungere
un contemperamento tra, da un lato, il principio di una corretta e coerente interpretazione del
diritto e, dall’altro, il principio di certezza dei rapporti giuridici instaurati in buona fede, anche
se in base ad interpretazioni errate.
1. Validità di atti comunitari ed efficacia nel tempo
132. La prassi della Corte trova fondamento nell’art. 231, secondo comma, CE, articolo che,
con riferimento ad azioni di annullamento di atti comunitari, così dispone:
«Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato.
Tuttavia, per quanto concerne i regolamenti, la Corte di giustizia, ove lo reputi necessario,
precisa gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi».
133. Fondandosi direttamente su tale disposizione, la Corte ha adottato sostanzialmente due
tipi di condotta, o dichiarando definitivi gli effetti dell’atto impugnato (76) oppure
confermando i detti effetti fino all’adozione di un nuovo e valido provvedimento –
specificando talvolta che ciò dovesse avvenire in tempi ragionevoli (77).
134. Ma la Corte può inoltre riesaminare la validità di un atto comunitario in risposta ad una
domanda di pronuncia pregiudiziale. Sostanzialmente, per garantire una certa coerenza tra le
due situazioni, essa ha pertanto applicato, in via analogica, l’art. 231, secondo comma, CE,
nelle opportune ipotesi di tale natura. In quest’ambito, essa ha adottato diversi metodi. In
alcune cause, la Corte ha puntualizzato che la dichiarazione di invalidità non aveva nessun
effetto retroattivo (78). In altre, essa ha dichiarato che gli effetti, in generale, non erano
retroattivi, eccezion fatta per coloro i quali avessero promosso azioni basate sull’invalidità
prima della data della sentenza (79). In un caso, la Corte ha confermato l’efficacia di norme
invalide sino all’adozione di nuove norme (80), e in un tipo di situazione molto specifico,
quando una disposizione era stata dichiarata invalida non per il suo contenuto, ma per
un’omissione in essa rilevata, la Corte ha semplicemente dichiarato che spettava
all’istituzione interessata adottare i provvedimenti necessari per porre rimedio
all’incompatibilità (81). Indubbiamente, la scelta del metodo è stata determinata ogni volta
dalle specifiche circostanze del caso.
2. Interpretazione del diritto comunitario ed efficacia nel tempo
135. Inoltre, la Corte ha imposto, in taluni casi (82), una limitazione nel tempo degli effetti di
una pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di una disposizione del diritto
comunitario.
136. La maggior parte di queste cause rientra in due ampie categorie: mancata concessione,
avente natura discriminatoria, di un beneficio finanziario, e imposizione di un tributo
nazionale in contrasto con il diritto comunitario. Entrambe le categorie possono concernere
importi molto elevati ingiustamente trattenuti o riscossi, il pagamento o il rimborso dei quali
può provocare serie difficoltà alle finanze dello Stato membro interessato (83).
a) Efficacia ex tunc
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137. In cause del genere, dopo aver formulato un’interpretazione secondo la quale la linea di
condotta nazionale in esame doveva essere considerata illegittima, la Corte ha
sistematicamente ricordato che la sua sentenza interpretativa definisce il significato e la
portata della norma comunitaria nel senso secondo il quale essa doveva essere intesa ed
applicata sin dalla sua entrata in vigore.
b) Efficacia ex nunc
138. Eccezionalmente, quando lo Stato membro aveva buoni motivi per ritenere che la sua
condotta fosse compatibile con il diritto comunitario e sussisteva un rischio di serie
ripercussioni economiche, la Corte ha proseguito decidendo che la sua interpretazione non
poteva essere invocata per rimettere in discussione situazioni consolidatesi in buona fede nel
passato: l’interpretazione avrebbe prodotto effetti dalla data della sentenza stessa (84).
c) Eccezioni alla limitazione dell’efficacia nel tempo
139. A tutt’oggi, la Corte ha escluso una qualsiasi forma di limitazione degli effetti nel tempo
per azioni basate sull’interpretazione formulata ma proposte prima della data della sua
pronuncia (85).
d) La soluzione ipotizzata nella causa Meilicke
140. Nella causa Meilicke (86), una causa attualmente pendente dinanzi alla Corte, l’avvocato
generale Tizzano, nelle sue conclusioni presentate il 10 novembre 2005, ha proposto una
soluzione diversa da quella fino ad oggi adottata dalla Corte.
141. Egli ha concluso, in primo luogo, che una disposizione tedesca sulla tassazione di
dividendi era contraria al diritto comunitario – come risultava chiaro in base alla precedente
sentenza della Corte nella causa Verkooijen (87), riguardante una norma paragonabile
dell’ordinamento olandese – ma che le condizioni per limitare nel tempo gli effetti della
futura sentenza erano soddisfatte.
142. Egli è poi passato a considerare (88) quale forma di limitazione si dovesse adottare,
esaminando una gamma di possibilità più ampia di quella di cui la Corte ha finora fatto uso.
Egli ha concluso nel senso che la sentenza dovrebbe produrre effetti dalla data della pronuncia
Verkooijen, quando è divenuta chiara la corretta interpretazione del diritto comunitario (89).
Nondimeno, si dovrebbe fare un’eccezione a siffatta limitazione per le azioni proposte prima
di tale data. Inoltre, sarebbe ingiusto respingere tutte le azioni proposte dopo la sentenza
Verkooijen, sebbene la notorietà che ha accompagnato il procedimento Meilicke abbia portato
a un così gran numero di azioni che un’eccezione per tutte loro potrebbe rendere inevitabile il
rischio di serie ripercussioni economiche.
143. Di conseguenza, egli ha suggerito che l’eccezione debba applicarsi a tutte le azioni
proposte prima della data in cui la comunicazione dell’ordinanza di rinvio relativa al
procedimento Meilicke è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea,
momento in cui si può supporre che la possibilità di un rimborso abbia attirato l’attenzione
persino dei ricorrenti meno diligenti.
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e) Effetti a partire da una data futura
144. Per completare la gamma di possibilità ipotizzabili, può essere utile esaminare un’altra
opzione ammessa negli ordinamenti costituzionali di alcuni Stati membri (90) in situazioni
analoghe a quelle di cui alla presente causa (91), vale a dire quella di stabilire una data futura
a partire dalla quale la sentenza possa essere invocata.
145. In tali ordinamenti, lo scopo sembra soprattutto quello di evitare situazioni in cui una
lacuna del diritto potrebbe essere peggiore di una cattiva norma (comprese, per esempio,
quelle in cui lo Stato non potrebbe essere più in grado di tassare determinati redditi o disporre
determinati pagamenti) e di concedere al legislatore un tempo sufficiente all’adozione di un
provvedimento che soddisfi le condizioni poste dalla norma di rango superiore. In molte
cause, la competenza del giudice a stabilire una data futura è limitata per legge entro precisi
limiti di tempo. All’interno di tale periodo, la scelta può essere determinata dalla valutazione
del giudice relativa al tempo ragionevole ai fini dell’adozione di una nuova normativa, oppure
dal carattere periodico della legislazione esaminata (nel caso, ad esempio, della normativa
tributaria) (92).
3. Natura peculiare delle sentenze pregiudiziali di interpretazione del diritto
comunitario che possono condurre all’invalidità di provvedimenti nazionali
146. Prima di procedere oltre, può essere utile attirare l’attenzione sulle caratteristiche
specifiche di una sentenza pregiudiziale di questa Corte che interpreti il diritto comunitario in
modo tale da comportare l’invalidità di un provvedimento nazionale, le quali possono
condizionare le opzioni a disposizione della Corte al momento di decidere di limitare nel
tempo l’efficacia della sua pronuncia.
147. La Corte non è competente a decidere sulla compatibilità di un provvedimento nazionale
con il diritto comunitario, ma può solo interpretare quest’ultimo in modo tale da consentire al
giudice nazionale di decidere in merito a tale compatibilità (93).
148. Ovviamente, nella presente causa la Corte può interpretare la sesta direttiva in modo da
far sì che il giudice remittente dichiari l’IRAP incompatibile con il diritto comunitario. Ciò è
comunque molto diverso dal dichiarare che il tributo nazionale in esame è esso stesso
invalido, una dichiarazione che può essere formulata solo dal competente giudice nazionale
qualora lo si ritenga opportuno, con effetti dalla data determinata da detto giudice o in
applicazione del diritto nazionale, e diverge dall’ipotesi di un rinvio pregiudiziale vertente
sulla validità di un atto comunitario, che in effetti la Corte può annullare direttamente.
149. La data a partire dalla quale la pronuncia della Corte produce effetti acquisterà rilevanza
al momento di decidere se una parte in causa possa o meno invocare dinanzi ad un giudice
l’incompatibilità del provvedimento nazionale con il diritto comunitario risultante
chiaramente dalla pronuncia, con riferimento al periodo in cui il detto provvedimento è stato
applicato. Questo non sarà comunque l’unico fattore rilevante, dal momento che le norme di
procedura nazionali possono limitare in altro modo la portata dell’azione.
B – Limitazione degli effetti nel tempo in relazione al presente procedimento
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150. Anche se le considerazioni generali che ho sviluppato in precedenza possono essere di
aiuto alla Corte, qualsiasi decisione di limitare gli effetti nel tempo di una sua pronuncia
dev’essere adottata in base ad un’analisi di ogni singolo caso concreto, alla luce volta per
volta del complesso delle circostanze.
151. Sono tre le questioni cui va pertanto data risposta nel presente procedimento: se
sussistano ragioni per limitare gli effetti nel tempo della sentenza; in caso di soluzione
affermativa, a partire da quale data sia possibile invocare la sentenza; se vada stabilita una
qualche eccezione a favore di azioni promosse prima di una certa data.
152. Nel prosieguo, per evitare continue ripetizioni dei necessari presupposti, mi baserò
sull’ipotesi che la Corte fornisca un’interpretazione da cui risulti dimostrata l’incompatibilità
dell’IRAP con il diritto comunitario.
1. Motivi per una limitazione degli effetti nel tempo
153. Occorre soddisfare due criteri essenziali, ossia che gli interessati devono aver agito in
buona fede e che deve sussistere il rischio di serie difficoltà in caso di mancata fissazione di
un limite (94). L’avvocato generale Jacobs ha ritenuto che entrambi i criteri fossero
soddisfatti nel caso di specie.
154. Tutti gli Stati membri che si sono espressi su questo aspetto concordano sul fatto che i
criteri siano soddisfatti nel caso di specie. Molti di loro hanno anche affermato che la Corte
dovrebbe definire tali criteri in modo più elastico di quanto ha fatto alcune volte in passato,
facendo riferimento, tra l’altro, al paragrafo 42 delle conclusioni presentate dall’avvocato
generale Tizzano nella causa Meilicke. Anche la Commissione concorda sul fatto che i criteri
siano soddisfatti, e la Banca Popolare non solleva obiezioni di principio alla determinazione
di un limite agli effetti nel tempo.
155. Concordo pienamente con l’analisi dell’avvocato generale Jacobs sul punto. In base agli
elementi di prova prodotti dinanzi alla Corte e non contestati, solo una considerazione della
limitazione degli effetti nel tempo più rigorosa rispetto a quella adottata in passato
giustificherebbe la decisione di non fissare limiti nel
tempo nella presente fattispecie. Nessun argomento è stato dedotto a favore di una modifica di
tal natura, né sembra che sussistano ragioni nelle circostanze del caso di specie per
intraprendere un riesame della prassi passata. Alla luce di ciò, non c’è alcuna necessità di
riflettere sulla possibilità di fare appello, in una qualsiasi causa futura, ad una più elastica
considerazione della questione della limitazione degli effetti nel tempo.
156. Desidero comunque sottolineare che le circostanze del presente giudizio sono davvero
particolari. Nel 1997 il governo italiano ha ricevuto dalla Commissione ciò che si può
interpretare solo come un’espressa garanzia che l’IRAP fosse compatibile con il diritto
comunitario (95). L’importo del tributo di cui può essere chiesto il rimborso è stato valutato
dal governo italiano come pari a circa 120 miliardi di euro, e tale dato non è stato contestato
(96). Il procedimento si è protratto a lungo, tanto a livello nazionale che dinanzi alla Corte
(97). In quest’ultimo ambito, la Grande Sezione ha assunto la rara iniziativa di riaprire la fase
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orale del procedimento e di tenere una seconda udienza, una mossa che ha suscitato ancora
più attenzione.
2. Scelta di una data per la limitazione degli effetti nel tempo
157. In passato, quando la Corte ha determinato una limitazione degli effetti nel tempo
eccezion fatta per le azioni avviate prima di una certa data, essa ha sempre utilizzato la stessa
data come base sia per la limitazione, sia per l’eccezione: la limitazione non si applica alle
azioni già proposte prima della data in cui si poteva invocare la sentenza (in pratica, sino ad
oggi, sempre a partire dalla sua pronuncia). Comunque, come ha proposto l’avvocato generale
Tizzano nelle conclusioni da lui presentate nella causa Meilicke, due date differenti
potrebbero essere più adeguate in alcune circostanze. Nella presente sezione, mi occuperò
solo della data principale, che è proprio quella della limitazione degli effetti nel tempo.
158. Chiaramente, se gli effetti di una sentenza nel tempo vanno limitati, ciò deve avvenire o
dalla data di pronuncia della sentenza stessa o da un’altra data specifica, anteriore o
successiva a tale pronuncia.
159. Non mi sembra possibile individuare nella presente causa nessuna data precisa nel
passato a partire della quale la sentenza dovrebbe produrre effetti. Nelle circostanze della
causa Meilicke, l’avvocato generale Tizzano ha posto in rilievo il fatto che la portata delle
disposizioni rilevanti del diritto comunitario era divenuta chiara a partire dalla pronuncia della
sentenza Verkooijen. Nel nostro caso, non sembra che sussista nessuna data equivalente.
Ovviamente, è possibile un parallelo con la sentenza Dansk Denkavit, ma aspetti della
giurisprudenza successiva a tale sentenza, unitamente alle divergenti opinioni manifestate
nella presente causa, che hanno dato origine ad una seconda udienza, rendono ben difficile
considerare la sentenza Dansk Denkavit come un precedente giurisprudenziale di valore
equivalente alla sentenza Verkooijen. La questione dell’incompatibilità con la sesta direttiva
di un tributo nazionale del tipo dell’IRAP, quale descritto dal giudice remittente, non avrà una
soluzione autorevole fino a quando la Corte non abbia pronunciato la sua sentenza sul caso –
la quale forse potrà rappresentare la «Verkooijen» per i casi futuri.
160. La data di tale pronuncia potrebbe pertanto sembrare una data appropriata e, qualora
fosse scelta, seguirebbe le tracce di questo consolidato indirizzo della Corte.
161. Nondimeno, alla luce delle specifiche circostanze di questo giudizio, sarebbe possibile
pure adottare un diverso metodo e stabilire una data futura, ispirandosi sia alla prassi di quei
giudici nazionali i quali, in circostanze analoghe, concedono al legislatore un periodo
ragionevole per emanare un nuovo atto compatibile, sia alla prassi della stessa Corte, con
riferimento alla validità di atti comunitari, esemplificata dalle sentenze citate nelle note 77 e
80.
162. Secondo me, un metodo del genere sarebbe più opportuno in questa sede. Non ci si può
realisticamente attendere che le autorità italiane modifichino da un giorno all’altro il loro
intero sistema di finanziamento delle spese regionali, né ci si può attendere che esse lo
abbiano mutato anticipando la sentenza della Corte. Se tutti i contribuenti potessero invocare
immediatamente la sentenza per chiedere il rimborso di importi versati a titolo di IRAP a
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partire dalla data della sua pronuncia, tanto varrebbe abolire con effetto immediato il tributo, e
i mezzi di finanziamento delle regioni italiane.
163. D’altro canto, non si può stabilire una data troppo lontana nel futuro. Se è irragionevole
aspettarsi l’immediata sostituzione di un tributo con un altro, non è irragionevole ipotizzare
che le autorità italiane abbiano già ora approntato piani contingenti ai fini di una tale
sostituzione. Esse hanno appreso, nel marzo 2004, l’opinione della Commissione che l’IRAP
fosse incompatibile, quando tale istituzione ha depositato le sue osservazioni dinanzi alla
Corte, benché le dette osservazioni fossero di carattere riservato, e, nel marzo 2005, hanno
appreso quella dell’avvocato generale Jacobs, che essa fosse incompatibile, quando egli ha
presentato ufficialmente le sue conclusioni in pubblica udienza. In effetti, sembra che la
graduale eliminazione dell’IRAP sia stata programmata a livello normativo sin dall’aprile
2003, ed è lecito presumere che la situazione da allora abbia fatto passi avanti (98).
164. Per garantire che l’IRAP venga sostituita da uno strumento finanziario compatibile con il
diritto comunitario nel modo meno traumatico possibile e quanto prima, la data appropriata
mi sembrerebbe quella corrispondente alla scadenza dell’esercizio tributario in corso nel
giorno della pronuncia della sentenza della Corte (99). Dato che la sentenza sarà
presumibilmente pronunciata quest’anno e poiché sembra che l’esercizio tributario dell’IRAP
corrisponda all’anno civile, ciò significherebbe che la sentenza non potrebbe essere invocata
per promuovere giudizi vertenti sull’IRAP riscossa in relazione a qualsiasi esercizio tributario
scaduto il, oppure anteriormente al, 31 dicembre 2006 ma che, nel caso di ritardi nella riforma
del sistema, potrebbe essere chiesto il rimborso di ogni importo riscosso in relazione a
qualsiasi esercizio tributario successivo.
3. Eccezioni alla data stabilita per la limitazione degli effetti nel tempo
165. La limitazione che suggerisco cerca di tener conto dell’interesse degli Stati membri
nell’ambito di uno specifico insieme di circostanze. Essa tuttavia si pone in contrasto con il
principio che chiunque ha il diritto di ottenere il rimborso di tributi nazionali riscossi in
violazione delle disposizioni comunitarie (100). Pertanto, occorre prestare attenzione al fine di
garantire che la restrizione di tale principio non sia eccessiva, anche tenendo conto delle
specifiche circostanze del caso di specie.
166. Di solito, nella prassi sia di questa Corte sia dei giudici di un certo numero di Stati
membri, si dispone un’eccezione ad una limitazione degli effetti nel tempo di una sentenza a
favore di azioni avviate prima di una certa data. Detta eccezione può coprire tutte le azioni
promosse prima della data della sentenza che ha accertato l’incompatibilità (questa è stata la
prassi abituale di questa Corte), oppure solo alcune di esse; inoltre, può essere lecito scegliere
un differente termine ultimo (come suggerito dall’avvocato generale Tizzano in occasione
della causa Meilicke).
167. La difficoltà notevole che si pone nel caso di specie è il numero apparentemente enorme
di azioni avviate ai fini del rimborso dell’IRAP in base alla sua presunta incompatibilità con il
diritto comunitario. Dato che il presente procedimento ha suscitato una grande attenzione per
un periodo di tempo relativamente lungo, appare possibile che molte di queste azioni, in
particolare le più recenti tra di esse, abbiano natura speculativa, essendo state promosse senza
grande sforzo o spese allo scopo di approfittare della prossima sentenza. Un’eccezione a
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favore di azioni del genere non solo sembra meno giustificata a causa della loro natura ma, a
causa del loro numero, potrebbe probabilmente inficiare seriamente il risultato ricercato
mediante la limitazione.
168. Se un’eccezione dev’essere stabilita a favore di azioni avviate prima di una certa data e
se tale data va scelta alla luce delle considerazioni sviluppate nel precedente paragrafo, essa
deve soddisfare le seguenti condizioni: dev’essere la più oggettiva possibile; deve dare la
possibilità di distinguere il più possibile tra le azioni avviate tempestivamente, nella
convinzione che fossero realmente fondate, e nondimeno con un certo rischio vista
l’incertezza del loro risultato, e quelle avviate in epoca successiva, nella prospettiva di un
successo considerato abbastanza probabile; e dovrebbe essere tale da risolvere efficacemente
il problema posto dal numero estremamente elevato di ricorsi.
169. Seguendo il suggerimento dell’avvocato generale Tizzano dato nella causa Meilicke, la
Banca Popolare, il governo italiano e la Commissione, insieme a molti altri Stati membri,
hanno proposto tutti la data del 21 gennaio 2004, quando la comunicazione del ricevimento,
da parte della Corte, dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale nella presente causa è apparsa sulla
Gazzetta ufficiale (101).
170. Tuttavia, mi sembra che, applicando al caso di specie un ragionamento analogo a quello
alla base del suggerimento dell’avvocato generale Tizzano, si dovrebbe giungere ad una data
diversa. La ragione che lo ha indotto a proporre la data della pubblicazione sulla Gazzetta
ufficiale nella causa Meilicke era che si poteva ragionevolmente supporre che, a partire da tale
data, sia stata suscitata l’attenzione persino del meno diligente dei ricorrenti sulla possibilità
di un rimborso (102). L’interpretazione del diritto comunitario era divenuta chiara a partire
dalla sentenza Verkooijen, ma la probabilità di una sua applicazione alla normativa tributaria
tedesca non è divenuta concreta sino al rinvio operato dinanzi alla Corte. Una volta che i
potenziali ricorrenti furono informati di tale rinvio, apparve plausibile poter avviare azioni
con ragionevoli probabilità di successo.
171. Non penso che la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale abbia fornito un’informazione
equivalente nel presente caso, dato che qui manca l’«elemento Verkooijen» (103). La
domanda di pronuncia pregiudiziale ha sollevato la questione della compatibilità dell’IRAP
con il diritto comunitario, ma il risultato del rinvio non era assolutamente scontato come nella
causa Meilicke, dove le disposizioni pertinenti del diritto comunitario erano già state
interpretate dalla Corte in circostanze analoghe. Nel caso di specie, come ho dimostrato, la
giurisprudenza non è stata del tutto inequivocabile nel suo giudizio sulla compatibilità con la
sesta direttiva.
172. Comunque, sembra pacifico che adesso ci sia una diffusa impressione – o quantomeno
una speranza – in Italia sul fatto che la Corte probabilmente pronuncerà una sentenza in esito
alla quale l’IRAP verrà dichiarata incompatibile con il diritto comunitario. L’individuazione
di una data a partire dalla quale tale impressione sia divenuta concreta è destinata a risultare in
qualche misura arbitraria, ma secondo me la presentazione delle conclusioni dell’avvocato
generale Jacobs il 17 marzo 2005 è, sotto tale profilo, la meno arbitraria e la più oggettiva
delle date (104). È da tale momento che è divenuta concreta la probabilità che la Corte
pronunciasse una sentenza di tal genere; al contrario, se le sue conclusioni fossero giunte ad
esiti diversi, le probabilità sarebbero state considerevolmente minori.
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173. Sono pertanto del parere che un’eccezione alla limitazione nel tempo degli effetti della
sentenza, a favore di coloro i quali abbiano avviato azioni anteriormente al 17 marzo 2005,
consenta probabilmente di operare una distinzione tra le azioni avviate tempestivamente e
quelle promosse solo quando le possibilità di successo sono apparse rafforzate. E sebbene il
governo italiano abbia suggerito una data anteriore, è tuttavia lecito ritenere che il rischio di
inficiare gli effetti della limitazione non debba essere indebitamente esacerbato.
174. Rimane comunque una perplessità, sollevata in particolare dal governo olandese.
175. Come l’avvocato generale Jacobs aveva notato nel paragrafo 85 delle sue conclusioni,
una qualsiasi diminuzione delle entrate provocata dal rimborso dell’IRAP dovrà essere
compensata da altri tributi. Il governo olandese nutre perplessità in merito all’ingiustizia che
potrebbe realizzarsi qualora tutti i contribuenti (inclusi i più recenti operatori del mercato, che
non sono stati assoggettati all’IRAP) dovessero far fronte a tale diminuzione, mentre solo
alcuni di loro beneficerebbero del rimborso. Per di più, secondo il suo ragionamento, se
l’onere del tributo è stato trasferito sui consumatori (come dev’essere avvenuto in generale, se
l’IRAP è colpita dal divieto posto dalla sesta direttiva), il beneficio del rimborso risulterà
moltiplicato.
176. Questo ragionamento parrebbe suggerire che in realtà non si dovrebbe fare alcuna
eccezione alla limitazione degli effetti della sentenza. Concordo che possono esservi
circostanze nelle quali ciò sia opportuno (e che in tali circostanze sarebbe ingiustificato fare
un’eccezione persino per le parti in causa nel giudizio che abbia dato origine al rinvio, dal
momento che il carattere specifico di un procedimento, che dia origine a un rinvio
pregiudiziale, non dipende assolutamente dallo zelo con cui il ricorrente ha promosso il
giudizio), ma non penso che ciò possa valere in questa sede.
177. Il problema della disparità di trattamento, come ad esempio tra contribuenti, non risulterà
significativo se il numero dei ricorrenti avvantaggiati dall’eccezione rimarrà sufficientemente
circoscritto – e ciò appare probabile qualora venga adottata una data persino posteriore a
quella suggerita dal governo italiano. E il problema dell’ingiustificato arricchimento
realizzato mediante il rimborso di un tributo il cui onere sia stato trasferito è stato
adeguatamente affrontato dalla giurisprudenza della Corte, più di recente nella sentenza
Weber’s Wine World (105), adottata sulla scia della sentenza EKW.
C – Conseguenze per altri Stati membri
178. Passo infine a riflettere brevemente sulle conseguenze di più ampio respiro della
sentenza (la quale, ribadisco, ai fini della presente trattazione ipotizzo che implichi
l’incompatibilità di un tributo che corrisponda alla descrizione dell’IRAP data dal giudice
remittente) e di una qualsiasi limitazione nel tempo dei suoi effetti.
179. Qualora venga imposta una limitazione nel tempo degli effetti di una siffatta pronuncia,
ciò avverrà a vantaggio dello Stato membro interessato, al fine di evitare disfunzionamenti
eccezionali. Qualora si conceda un’eccezione alla limitazione ciò avverrà, viceversa,
nell’interesse di coloro i quali, all’interno dello Stato membro, hanno cercato di far valere
determinate pretese facendo affidamento sull’ordinamento comunitario.
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180. Una sentenza interpretativa ha però efficacia generale. Qualora la Corte dovesse
dichiarare che un tributo con le caratteristiche dell’IRAP quali descritte dal giudice remittente
sia incompatibile con la sesta direttiva, ciò varrà per l’IRAP e parimenti per qualsiasi altro
tributo che abbia tali caratteristiche in qualsiasi altro Stato membro.
181. Tuttavia, qualsiasi limitazione nel tempo degli effetti e qualsiasi eccezione a quest’ultima
stabilite dalla Corte si baseranno su una valutazione della situazione – esistenza di una buona
fede da parte dello Stato, rischio di gravi disfunzionamenti per lo Stato e necessità di
un’efficace tutela giurisdizionale per i ricorrenti diligenti – in Italia, e tale valutazione
potrebbe risultare ben diversa riguardo ad un altro Stato membro il quale applichi anch’esso
un tributo con le stesse caratteristiche.
182. Tale riflessione implica che qualsiasi limitazione debba non solo operare nel tempo ma
anche, in realtà, nello spazio – problema di una certa rilevanza nel caso di specie, dato che, in
base a diversi tra i numerosi articoli già apparsi nelle riviste giuridiche e tributarie in merito al
presente procedimento, sembra che uno o più tra gli Stati membri diversi dall’Italia applichi
forse imposte le quali, quantomeno secondo il parere di alcuni autori, condividono alcune
caratteristiche dell’IRAP.
183. Ovviamente, non è possibile per la Corte decidere nella presente causa se una limitazione
degli effetti nel tempo sia appropriata in relazione a tali altri tributi oppure, se appropriata,
quale data debba essere stabilita e quali eccezioni debbano essere, se del caso, concesse. La
Corte ha però costantemente dichiarato che una limitazione nel tempo degli effetti può essere
concessa solo nell’ambito dello specifico giudizio vertente sull’interpretazione richiesta (106),
e la decisione è peculiare al contesto materiale proprio del rinvio pregiudiziale.
184. Di conseguenza, in osservanza dei principi fondamentali che regolano gli effetti di tutte
le sentenze pregiudiziali della Corte di natura interpretativa, la pronuncia si applicherà ex tunc
con riferimento a qualsiasi altro tributo che presenti le caratteristiche rilevanti in un altro Stato
membro.
185. Le difficoltà che ciò potrebbe comportare sono analoghe a quelle delineate dall’avvocato
generale Tizzano nelle conclusioni da lui presentate nella causa Meilicke, in particolare nei
paragrafi 47 e seguenti. Si potrebbe immaginare il seguente scenario.
186. Qualora alcuni contribuenti impugnino un tributo nazionale basandosi sulla sentenza resa
nella presente causa, il giudice nazionale avrà facoltà di formulare una domanda di pronuncia
pregiudiziale; indubbiamente, non c’è nessuna certezza che un altro tributo nazionale
possegga le caratteristiche definite in questa causa in modo tanto simile da escludere qualsiasi
dubbio sulla sua compatibilità. Nell’ambito del procedimento cui darà luogo tale rinvio, sarà
facoltà dello Stato membro interessato chiedere una limitazione nel tempo degli effetti della
futura pronuncia. Qualora le circostanze appaiano idonee, la Corte potrebbe decidere di
concedere una limitazione in base alla data della sentenza nella presente causa – in modo
analogo a quanto proposto dall’avvocato generale Tizzano in occasione della causa Meilicke,
e cioè che gli effetti dovrebbero restare limitati alla data della sentenza Verkooijen – e fissare
qualsiasi eccezione che possa risultare opportuna agli effetti della limitazione.
Conclusione
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187. Alla luce delle considerazioni sin qui illustrate, sono del parere che la Corte debba
risolvere nella seguente maniera le questioni sollevate dalla Commissione Tributaria
Provinciale di Cremona:
1) Un’imposta con le caratteristiche dell’IRAP quali descritte nell’ordinanza di rinvio
pregiudiziale, vale a dire la quale
– è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un’attività
diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi,
– colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell’attività tassabile,
– è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione
corrispondente ad una cessione o ad una serie di cessioni di beni o servizi effettuata da un
soggetto passivo, e
– impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale
i beni o i servizi sono ceduti,
ricade nell’ambito del divieto di cui all’art. 33, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio
77/388/CEE, riguardante altri tributi nazionali che abbiano le caratteristiche di un’imposta
sulla cifra d’affari purché, per un campione rappresentativo di imprese assoggettate ad
entrambe le imposte, il rapporto tra gli importi pagati a titolo d’IVA e gli importi pagati a
titolo dell’imposta in questione risulti sostanzialmente costante.
La sussistenza di tale condizione va accertata dal giudice nazionale, tenendo conto delle
dettagliate caratteristiche dell’imposta in questione.
2) Il divieto disposto dal detto articolo non può essere invocato al fine di far valere il diritto al
rimborso dell’IRAP riscossa con riferimento a qualsiasi esercizio tributario anteriore alla
sentenza della Corte, oppure con riferimento all’esercizio nel corso del quale detta sentenza
venga pronunciata, fatta eccezione per chiunque abbia agito in giudizio o abbia promosso un
equivalente ricorso amministrativo anteriormente al 17 marzo 2005, data in cui sono state
presentate le conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella presente causa. Siffatte parti in
causa possono invocare tale divieto purché alle loro azioni non vadano applicate preclusioni
di altro tipo in forza delle norme di procedura nazionali, le quali rispettino i principi di
equivalenza ed effettività.
NOTE:
1 – Lingua originale: l'inglese.
2 – Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema
comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (GU L 145, pag. 1; in
prosieguo: la «sesta direttiva»).
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3 – Faccio rinvio a tali conclusioni per quanto riguarda il contesto normativo, fattuale e
procedurale della causa, che richiamerò o integrerò solo ove necessario.
4 – Ho semplificato il testo delle questioni come compaiono nell'ordinanza di riapertura della
fase orale.
5 – Paragrafo 27 delle conclusioni. V., anche, ad esempio, sentenza 3 marzo 1988, causa
252/86, Bergandi (Racc. pag. 1343, punto 13); nonché sentenza 26 giugno 1997, cause riunite
da C-370/95 a C-372/95, Careda e a. (Racc. pag. I-3721, punti 25 e 26).
6 – Del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che istituisce l'IRAP, pubblicato in
GURI n. 298 del 27 dicembre 1997.
7 – Per «valore aggiunto prodotto».
8 – Conclusioni dell'avvocato generale Jacobs, paragrafi 36 e 67.
9 – Poiché tale disposizione è redatta in termini permissivi («(…) le disposizioni della
presente direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre (…) qualsiasi
imposta, diritto e tassa che non abbia il carattere di imposta sulla cifra d'affari (…)») si
potrebbe ritenere preferibile considerare il divieto come derivante piuttosto dalla direttiva nel
suo complesso, con le sue norme di armonizzazione piuttosto dettagliate, in combinato
disposto con l'art. 10 CE – che vieta qualsiasi misura che rischi di compromettere la
realizzazione degli scopi del Trattato –laddove l'art. 33, n. 1, della direttiva chiarisce il divieto
specificando che riguarda solo le imposte che abbiano il carattere di imposta sulla cifra
d'affari. Tuttavia, la differenza di impostazione non ha conseguenze pratiche, cosicché darò
per presupposto, adeguandomi alla giurisprudenza costante, che il divieto risieda nell'art. 33,
n. 1.
10 – V., supra, paragrafi 2 e 8, nonché infra, paragrafo 22.
11 – Una serie di altre cause ha importanza minore: la sentenza 8 luglio 1986, causa 73/85,
Kerrutt (Racc. pag. 2219), riguardava un tipo di imposta di registro esplicitamente consentita
dall'art. 33 della sesta direttiva; nella sentenza 15 marzo 1989, cause riunite 317/86, 48/87,
49/87, 285/87 e 363/87-367/87, Lambert e a. (Racc. pag. 787), la Corte ha ribadito lo stesso
principio enunciato nella sentenza Bergandi (cit. alla nota 5), con riferimento alla stessa
imposta; l'imposta oggetto della sentenza 31 marzo 1992, causa C-200/90, Dansk Denkavit
(Racc. pag. 12217) è stata successivamente anche oggetto di un ricorso per inadempimento
sfociato nella sentenza 1° dicembre 1993, causa C-234/91, Commissione/Danimarca (Racc.
pag. I-6273), nella quale la Corte ha seguito lo stesso ragionamento; nella sentenza 17
settembre 1997, causa C-28/96, Fricarnes (Racc. pag. I-4939, punti 34 e segg.), la Corte ha
seguito il medesimo iter logico della sentenza, pronunciata in pari data nella causa C-347/95,
UCAL, avente ad oggetto una tassa analoga.
12 – Sentenza 27 novembre 1985, causa 295/84 (Racc. pag. 3759, in particolare punti 14-17).
13 – Cit. supra alla nota 5, punti 6-20.
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14 – Sentenza 13 luglio 1989, cause riunite 93/88 e 94/88 (Racc. pag. 2671, punti 6-21).
15 – Sentenza 19 marzo 1991, causa C-109/90 (Racc. pag. I-1385, in particolare punto 14).
16 – Cit. alla nota 11.
17 – Sentenza 7 maggio 1992, causa C-347/90 (Racc. pag. I-2947).
18 – Sentenza 16 dicembre 1992, causa C-208/91 (Racc. pag. I-6709).
19 – Cit. supra alla nota 5.
20 – Cit. supra alla nota 11, punti 30 e segg.
21 – Sentenza 17 settembre 1997, causa C-130/96 (Racc. pag. I-5053).
22 – Sentenza 19 febbraio 1998, causa C-318/96 (Racc. pag. I-785).
23 – Sentenza 8 giugno 1999, cause riunite C-338/97, C-344/97 e C-390/97 (Racc. pag. I3319).
24 – Sentenza 9 marzo 2000, causa C-437/97 (Racc. pag. I-1157, in particolare punti 19-25).
25 – Sentenza 19 settembre 2002, causa C-101/00 (Racc. pag. I-7487, in particolare punti 91107).
26 – Sentenza 29 aprile 2004, causa C-308/01 (Racc. pag. I-4777, in particolare punti 23-37).
27 – Sentenze Rousseau Wilmot, punto 13; Wisselink, punto 8; v. anche l'ottavo
‘considerando’ della prima direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/227/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli
Stati membri relative alle imposte sulla cifra d'affari (GU 71, pag. 1301; in prosieguo: la
«prima direttiva).
28 – Sentenze Bergandi, punto 7; SPAR, punto 17; Pelzl, punto 14; v. anche primo e secondo
‘considerando’ della prima direttiva.
29 – Sentenze Bergandi, punto 9; SPAR, punto 19; Pelzl, punto 18.
30 – Sentenze Rousseau Wilmot, punto 16; Bergandi, punto 14; Wisselink, punto 17; Dansk
Denkavit, punto 11; Bozzi, punto 9; Beaulande, punto 12; Careda, punti 13 e 24; UCAL,
punto 33; Solisnor, punto 13; EKW, punto 20.
31 – Punto 19.
32 – Sentenze Rousseau Wilmot, punto 15; Bergandi, punti 8 e15; Wisselink, punto 18; Giant,
punto 12; SPAR, punto 23; Pelzl, punto 16.
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33 – Questa sintesi è tratta dalla sentenza Pelzl, punti 20 e 21. Le caratteristiche così delineate
sono rimaste sostanzialmente invariate, sebbene vi siano lievi differenze nell'esatta
formulazione: v. sentenze Dansk Denkavit, punto 11; Bozzi, punto 12; Beaulande, punto 14;
Careda, punto 14; UCAL, punto 34; Solisnor, punto 14; EKW, punto 22; Tulliasiamies, punto
99; nonché GIL Insurance, punto 33.
34 – V. sentenze Bergandi, punto 14; Giant, punto 11; SPAR, punto 22; Pelzl, punto 20.
35 – V. supra, paragrafo 22, e la giurisprudenza ivi citata.
36 – Sentenze Dansk Denkavit, punto 14; Careda, punto 14; Solisnor, punto 14; SPAR, punto
21; EKW, punto 22; GIL Insurance, punto 32.
37 – Punto 15 e dispositivo. Si noti tuttavia che non tutte quelle caratteristiche sono state
considerate rilevante nell'analisi svolta dalla Corte; v. infra, paragrafo 28 nonché note 50, 52 e
54.
38 – Al punto 15.
39 – Ai punti 18 e 19.
40 – Ai punti 24 e 25.
41 – Sentenze Rousseau Wilmot, punto 16; Giant, punto 14; Pelzl, punti 24 e 25.
42 – Sentenze Bergandi, punti 16 e segg.; Wisselink, punto 20.
43 – Sentenze Beaulande, punto 18; UCAL, punto 36; GIL Insurance, punto 36.
44 – Sentenze Wisselink, punto 20; Bozzi, punto 16; Beaulande, punto 17; UCAL, punto 36;
Pelzl, punto 23.
45 – Sentenze Bozzi, punto 15; UCAL, punto 36; Tulliasiamies, punto 102.
46 – Sentenze Bozzi, punto 16; Beaulande, punto 17; UCAL, punto 36; SPAR, punto 27;
Tulliasiamies, punto 103; GIL Insurance, punto 36.
47 – Ai punti 11 e 12.
48 – Sentenza SPAR, punti 25 e 26.
49 – Sentenze Wisselink, punto 10; Careda, punto 17; Tulliasiamies, punto 98.
50 – Sentenze Giant, punto 9; Dansk Denkavit, punto 15; SPAR, punto 21.
51 – Sentenza Careda, punto 18.
52 – Sentenze Dansk Denkavit, punto 15; Careda, punti 23 e 25.
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53 – Sentenza Dansk Denkavit, punto 15.
54 – Ibidem.
55 – Finlandia, Francia, Ungheria, Italia e Spagna.
56 – V. art. 12, n. 3, lett. a), della sesta direttiva. In varie occasioni la Commissione ha
proposto un'aliquota massima, ma tale proposta non è stata accettata, sebbene, de facto, si
applichi un'aliquota massima del 25%, probabilmente per ragioni pratiche connesse
all'aumento del rischio di frodi allorché l'aliquota cresce.
57 – V. anche le conclusioni dell'avvocato generale Tesauro presentate nella causa Dansk
Denkavit (paragrafo 8, sesto capoverso, a pag. I-2235).
58 – Ai paragrafi 24 e 25 delle sue conclusioni.
59 – Sebbene risulti dai punti11 e 12 della sentenza Wisselink che tale conclusione non ha
valenza assoluta, e che anche un'imposta che si applica in una singola fase può in alcuni casi
impedire il corretto funzionamento del sistema comune di IVA.
60 – La sentenza Bergandi suggerisce tuttavia, al punto 17, che un'imposta forfettaria basata
su una valutazione obiettiva dei prevedibili ricavi potrebbe essere ricompresa nel divieto, se
trasferita sul consumatore.
61 – In particolare all'art. 13, parte B, lett. d).
62 – La Commissione ha fatto approntare diverse relazioni sull'applicazione dell'IVA ai
servizi finanziari, ivi incluse le operazioni bancarie. In particolare, sul sito web della
Commissione è rinvenibile uno studio effettuato nel 1996 dalla Ernst & Young.
63 – V. paragrafi 39, 40 e 53 delle conclusioni dell'avvocato generale Jacobs presentate in
questa causa.
64 – V. la giurisprudenza citata supra , al paragrafo 16. La Corte ha ovviamente tenuto conto
della possibilità di trasferire l'onere dell'imposta, che è una caratteristica dell'imposizione
indiretta, ma solo a fini di raffronto con l'IVA, e non per qualificare l'imposta come diretta o
indiretta.
65 – Diciottesima direttiva del Consiglio 18 luglio 1989, 89/465/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari
– Soppressione di talune deroghe previste dall'articolo 28, paragrafo 3, della sesta direttiva
77/388/CEE (GU L 226, pag. 21).
66 – Tredicesima direttiva del Consiglio 17 novembre 1986, 86/560/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari
– Modalità di rimborso dell'imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti nel
territorio della Comunità (GU L 326, pag. 40); sebbene le direttive IVA siano numerate in
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ordine progressivo, non tutte quelle nell'ordine sono state di fatto adottate (o adottate
nell'ordine progressivo).
67 – V. paragrafo 27 e nota 41. Va rilevato che, a differenza di quanto avvenuto nella causa
Dansk Denkavit, tutte queste sentenze sono state pronunciate da una sezione della Corte.
68 – I governi francese ed ungherese hanno formulato osservazioni analoghe.
69 – V. i successivi paragrafi 105 e segg.
70 – V., in particolare, la sentenza Pelzl, punto 27; v. inoltre, con riferimento alla
compatibilità di un tributo di livello locale con il divieto di imposte aventi effetto equivalente
a quello a quello di un dazio sulle esportazioni, sentenza 9 settembre 2004, causa C-72/03,
Carbonati (Racc. pag. I-8027, punti 27 e segg.).
71 – V. il precedente paragrafo 27, note 41 e 45.
72 – Punto 18 della motivazione.
73 – Con la forse inopportuna eccezione, di minor rilievo, di operazioni esenti, qualora esse si
pongano a monte di successive e collegate operazioni a valle.
74 – Fatta forse eccezione per quelle di cui alle sentenze Rousseau Wilmot e SPAR, in
nessuna delle quali la Corte ha fatto espresso riferimento alle quattro «caratteristiche
essenziali».
75 – V. il precedente paragrafo 96.
76 – In numerose sentenze, dalla sentenza 3 luglio 1986, causa 34/86, Consiglio/Parlamento
(Racc. pag. 2155, punto 48) alla sentenza 11 settembre 2003, causa C-445/00,
Austria/Consiglio (Racc. pag. 8549, punti 103-106).
77 – In numerose sentenze, dalla sentenza 5 giugno 1973, causa 81/72,
Commissione/Consiglio (Racc. pag. 575) alla più recente sentenza 10 gennaio 2006, causa C178/03, Commissione/Parlamento e Consiglio (non ancora pubblicata nella Raccolta).
78 – V., in particolare, le prime tre cause dove la Corte ha fatto uso di questa possibilità:
sentenze 15 ottobre 1980, causa 4/79, Providence Agricole de la Champagne (Racc. pag.
2823, punti 42-46), causa 109/79, Maïseries de Beauce (Racc. pag. 2883, punti 42-46), e
causa 145/79, Roquette Frères (Racc. pag. 2917, punti 50-52).
79 – V., per esempio, sentenze 15 gennaio 1986, causa 41/84, Pinna (Racc. pag. 1, punti 2630); 26 aprile 1994, causa C-228/92, Roquette Frères (Racc. pag. I-1445, punti 17-30).
80 – Sentenza 29 giugno 1988, causa 300/86, Van Landschoot (Racc. pag. 3443, punti 22-24).
81 – Sentenze 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 e 16/77, Ruckdeschel (Racc. pag. 1753),
e cause riunite 124/76 e 20/77, Moulins Pont-à-Mousson (Racc. pag. 1795).
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82 – Dalla prima, e più famosa, sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne II (Racc. pag.
455, punti 69-75), alla più recente, almeno per ora, sentenza EKW (punti 57-60).
83 – V., per esempio, sentenza 17 maggio 1990, causa C-262/88, Barber (Racc. pag. I-1889),
la quale inoltre mostra come serie difficoltà non siano sufficienti a giustificare una limitazione
degli effetti nel tempo: dopo aver rilevato (punti 40 e 41) che un numero molto consistente di
lavoratori avrebbe potuto invocare il diritto alla parità di trattamento in base
all'interpretazione del Trattato formulata, la Corte è poi passata ad accertare (punti 42 e 43)
che gli Stati membri avevano potuto legittimamente ritenere che fosse possibile un'altra
interpretazione.
84 – A livello nazionale, la normale efficacia nel tempo di una sentenza di incompatibilità è
parimenti o ex tunc (la norma generale, ad esempio, per i giudici di Belgio, Francia,
Germania, Irlanda, Italia, Spagna, Polonia e Portogallo) oppure ex nunc (la norma generale,
ad esempio, per alcuni, se non tutti, i giudici di Austria, Repubblica ceca, Grecia, Ungheria e
Slovenia; nel caso, quantomeno, di Grecia e Slovenia, le sentenze di alcuni altri giudici
producono normalmente effetti ex tunc), con un'apparente prevalenza di ex tunc.
85 – A livello nazionale, una simile prassi può essere seguita, a prescindere dal fatto che
l'efficacia operi normalmente ex tunc o ex nunc. In generale, nell'interesse della certezza del
diritto, su un'efficacia ex tunc ci si può basare solo in procedimenti che siano stati o possano
ancora essere avviati entro i pertinenti termini processuali di decadenza, sebbene in alcuni
ordinamenti giurisdizionali l'efficacia possa essere espressamente limitata al caso di specie,
poiché il giudice non ha competenza ad annullare un provvedimento legislativo, ma solo a
disapplicarlo (la norma generale, ad esempio, per i giudici di Danimarca, Finlandia,
Lussemburgo, Svezia e Regno Unito). Quando gli effetti operano ex nunc, si fa normalmente
eccezione per procedimenti che alla data della sentenza siano stati o possano ancora essere
avviati entro i pertinenti termini procedurali di decadenza; per quelli i quali a tale data erano
già stati avviati; oppure per quelli che hanno concretamente portato alla pronuncia.
86 – Causa C-292/04.
87 – Sentenza 6 giugno 2000, causa C-35/98 (Racc. pag. I-4071).
88 – Paragrafi 43 e segg.
89 – Sembrano rare le cause in cui i giudici nazionali dispongano l'annullamento di un atto
legislativo con effetti a partire da una precisa data del passato.
90 – Tra cui Austria, Belgio, Repubblica ceca, Germania, Ungheria, Polonia, Slovenia e
Spagna. In altri ordinamenti, sussistono obiezioni di principio a questa soluzione, detta anche
della «decorrenza futura». Come Lord Nicholls of Birkenhead ha spiegato recentemente nella
causa National Westminster Bank/Spectrum Plus (2005; UKHL 41): «Il nocciolo
dell'argomento principale contro le sentenze con decorrenza futura è che in questo paese
l'adozione di una sentenza di tal genere eccede i limiti costituzionali imposti alla funzione
giurisdizionale. Ciò equivarrebbe ad un'usurpazione, da parte del giudice, della funzione
legislativa».
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91 – Ossia, in cui una norma di legge esistente, avente portata generale, è dichiarata
incompatibile con una norma di rango più elevato; ammesso che ciò sia possibile, sarà
difficile trovare una situazione assolutamente identica, in cui il giudice che accerta
l'incompatibilità rinvii la causa ad un altro giudice, affinché quest'ultimo si pronunci sulla
validità.
92 – Il periodo tra la data della sentenza e la data a partire dalla quale si può invocare la
medesima è talvolta denominato «transitorio». Va sottolineato comunque che ciò è fuorviante;
il provvedimento nazionale impugnato è invalido e deve essere sostituito con effetti da una
data precisa.
93 – V., ad esempio, sentenza 16 gennaio 2003, causa C-265/01, Pansard (Racc. pag. I-683,
punto 18); v., inoltre, la nota informativa della Corte riguardante le domande di pronuncia
pregiudiziale da parte delle giurisdizioni nazionali (GU 2005, C 143, pag. 1), punto 6.
94 – V. anche, più di recente, sentenza 10 gennaio 2006, causa C-402/03, Skov (non ancora
pubblicata nella Raccolta, punto 51).
95 – La circostanza che in questa sede le ragioni dell'affidamento del governo italiano si
basino sulla garanzia della Commissione ovviamente non è decisiva; la buona fede si può
anche fondare su progetti normativi fuorvianti o persino su una giurisprudenza poco chiara.
96 – Si paragoni ciò con il dato, oscillante tra i 5 e i 13 miliardi di euro, in Germania, per la
causa Meilicke; v. paragrafo 35 delle conclusioni.
97 – La Banca Popolare ha proposto originariamente la sua azione nel 2001 e il rinvio è stato
operato nell'ultima parte del 2003.
98 – V. legge delega per la riforma del sistema fiscale statale (legge 7 aprile 2003, n. 80) in
GURI 18 aprile
2003, n. 91, in particolare artt. 8 e 10, quarto, quinto e settimo comma, della medesima.
99 – Ci sono precedenti (quantomeno) in pronunce del Bundesverfassungsgericht tedesco e
della Cour d'Arbitrage belga (ossia, della Corte costituzionale, rispettivamente, di Germania e
Belgio) a favore della scelta di una data futura corrispondente alla scadenza del pertinente
periodo in corso, come un anno civile, un esercizio fiscale o un anno accademico.
100 – V., ad esempio, sentenza 2 ottobre 2003, causa C-147/01, Weber's Wine World (Racc.
pag. I-11365, punto 93 e giurisprudenza ivi citata).
101 – GU 2004, C 21, pag. 16.
102 – V. paragrafo 62 delle conclusioni.
103 – V. le mie osservazioni nel paragrafo 159.
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104 – La precedente esposizione delle tesi della Commissione, tanto in sede di osservazioni
scritte, che non sono rese pubbliche, quanto in udienza, potrebbe anche essere tenuta in
considerazione, ma secondo me non può essere paragonata alla prima dichiarazione pubblica,
per iscritto, motivata e in forma accessibile a tutti, dell'opinione di un membro della Corte.
105 – Cit. alla nota 100 (punti 93-102).
106 – V. sentenza EKW (punto 57, e giurisprudenza ivi citata).
02/03 Parlamento europeo
Approvata in prima lettura la Direttiva servizi
(16.2.2006)
Dal sito del Parlamento europeo:
"Il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza, in prima lettura, la direttiva
relativa ai servizi nel mercato interno.
Si tratta, allo stato, di una prima lettura (che dovrà ora essere vagliata da Commissione e
Consiglio) di uno dei testi di maggiore importanza per l'UE, avente l'obiettivo di eliminare gli
ostacoli alla libera circolazione dei servizi (salvi i diritti sociali dei lavoratori previsti dalle
legislazioni nazionali).
Lo scopo della direttiva è di realizzare un vero mercato interno dei servizi stabilendo un
quadro giuridico volto a eliminare, da un lato, gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei
prestatori di servizi e, dall'altro, le barriere alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri.
Secondo il Parlamento europeo è sì importante realizzare un mercato unico dei servizi ma,
contemporaneamente, è anche necessario mantenere «un equilibrio tra apertura dei mercati,
servizi pubblici, nonché diritti sociali e del consumatore».
Oggetto della direttiva
La direttiva «si applica ai servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro».
Essa intende stabilire le disposizioni generali che permettono di agevolare l'esercizio della
libertà di stabilimento dei prestatori di servizi nonché la libera circolazione dei servizi,
assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi.
Esclusioni
L'elenco delle attività escluse è particolarmente ampio.
La direttiva «non riguarda la liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale, né
la privatizzazione di enti pubblici che prestano tali servizi».
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Essa non intende pregiudicare le misure adottate a livello comunitario o nazionale volte a
tutelare o a promuovere la diversità culturale o linguistica o il pluralismo dei media, così
come non incide sul diritto del lavoro e, in particolare, sulle disposizioni relative «ai rapporti
tra le parti sociali, compresi il diritto di svolgere un'azione sindacale e il diritto a contratti
collettivi». Infine, la presente vigenti negli Stati membri.
La direttiva poi, non riguarda l'abolizione dei monopoli che forniscono servizi (come ad
esempio le lotterie o taluni servizi di distribuzione), né gli aiuti concessi dagli Stati membri in
base alle norme europee sulla concorrenza. La direttiva, infine, non incide sulla libertà degli
Stati membri di definire, conformemente al diritto comunitario, quelli che essi considerano
servizi d'interesse economico generale, né di determinare le modalità di organizzazione e di
finanziamento di tali servizi e gli obblighi specifici cui essi devono sottostare.
Il provvedimento non vuole incidere nemmeno sulle norme penali degli Stati membri (che
non devono essere oggetto di abuso per aggirare le disposizioni della direttiva), né sui servizi
che perseguono un obiettivo nel settore dell'assistenza sociale, come quelli destinati alle
famiglie e ai bambini nonché i servizi di istruzione e culturali che tipicamente perseguono
obiettivi sociali oppure il sostegno per gli alloggi sociali. Parimenti, non sono messe in
discussione le legislazioni in materia di sicurezza sociale degli Stati membri.
E' anche precisato che la direttiva non si applica e non pregiudica il diritto del lavoro e, in
particolare, le disposizioni relative ai rapporti tra le parti sociali, compresi il diritto di svolgere
un'azione sindacale e il diritto a contratti collettivi, né le disposizioni nazionali in materia di
previdenza sociale vigenti negli Stati membri. In particolare, deve essere pienamente
rispettato il diritto di negoziare, concludere, estendere e applicare i contratti collettivi, e il
diritto di sciopero. La direttiva, inoltre, non riguarda i servizi pubblici sanitari e l'accesso al
finanziamento pubblico da parte dei prestatori di cure sanitarie.
La direttiva, è infine specificato, non deve essere interpretata in modo tale da recare
pregiudizio all'esercizio dei diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati membri e della Carta
europea.
Essa non sarà applicata ai servizi d’interesse generale «quali definiti dagli Stati membri», a
meno che, è spiegato in un considerando, non si tratti di attività economiche «aperte alla
concorrenza», ossia alla cui fornitura partecipano anche imprese private.
Sono anche esclusi i servizi sociali come l'edilizia sociale, l'assistenza ai figli e i servizi alla
famiglia. Considerando le attività sportive senza scopo di lucro di notevole importanza
sociale, i deputati ritengono che esse non debbano essere considerate un'attività economica e,
pertanto, non rientrano nel campo d'applicazione della direttiva.
In merito all'esclusione dei “servizi finanziari”, il Parlamento specifica che la direttiva non si
applica ai «servizi di natura bancaria, creditizia, assicurativa» né ai «servizi pensionistici
professionali o individuali, di investimento o di pagamento». E’ poi confermata l’esclusione
dei servizi e delle reti di comunicazione elettronica. I deputati mantengono l’esclusione dei
servizi di trasporto, compresi i trasporti urbani, portuali, i taxi e le ambulanze e, in un
considerando precisano che sono invece inclusi nel campo d'applicazione della direttiva il
trasporto di fondi e di salme, «visto che in tale ambito sono stati identificati problemi di
mercato interno». L’elenco dei servizi esclusi è poi allungato con i servizi giuridici già
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disciplinati da altri strumenti comunitari e con i servizi medico-sanitari, prestati o meno nel
quadro di una struttura sanitaria. Riguardo a questi ultimi, è inoltre precisato che
comprendono anche quelli farmaceutici e che tali servizi devono essere forniti ai pazienti da
professionisti qualora queste attività sono professioni regolamentate negli Stati membri in cui
è prestato il servizio.
Nel ritenere che svolgono «un ruolo fondamentale in sede di formazione delle identità
culturali e delle opinioni pubbliche europee», il Parlamento esclude esplicitamente i servizi
audiovisivi, a prescindere dal modo di produzione, distribuzione e trasmissione, inclusi i
servizi radiofonici e cinematografici. Per i deputati, infatti, la salvaguardia e la promozione
della diversità e del pluralismo culturali «postulano misure particolari in grado di tener conto
delle specifiche situazioni regionali e nazionali».
Non sono comprese nel campo d’applicazione nemmeno le attività di giochi d'azzardo, inclusi
i giochi con poste in denaro, le lotterie, i casinò e le transazioni relative a scommesse. Tale
esclusione è anche giustificata dai deputati dalla totale impossibilità di attuare una
concorrenza transfrontaliera leale tra gli operatori europei senza trattare - in parallelo o
preventivamente - le questioni di coerenza della fiscalità fra gli Stati membri.
Inoltre, sono escluse le professioni e le attività «associate permanentemente o
temporaneamente all'esercizio dei poteri pubblici in uno Stato membro», in particolare
la professione di notaio. I deputati, poi, escludono del tutto i servizi fiscali dal campo
d'applicazione della direttiva, mentre la Commissione prevedeva una serie di eccezioni.
Il Parlamento prevede anche l'esclusione delle agenzie di lavoro interinale, dei servizi di
sicurezza e segnala quindi, la necessità di armonizzare pienamente le norme sullo stabilimento
per definire un quadro legale in merito all'attuazione del mercato interno in questi settori.
L'esclusione degli obblighi contrattuali ed extracontrattuali dal campo d'applicazione della
direttiva comporterà che i consumatori beneficeranno in ogni caso della tutela riconosciuta
loro dalla normativa in materia, nel proprio Stato membro.
Libertà di presentazione di servizi e principio del paese d'origine
Cancellato del principio del paese d'origine.
Gli Stati membri devono «rispettare il diritto dei prestatori di servizi» di operare in uno Stato
membro diverso da quello «in cui hanno sede», e devono assicurare il libero accesso a
un'attività di servizio e il libero esercizio dell'attività di servizio sul proprio territorio. Inoltre,
gli Stati membri non devono ostacolare la prestazione di servizi sul loro territorio
imponendo requisiti discriminatori, ingiustificati e sproporzionati.
La discriminazione, in particolare, non deve essere fondata sulla cittadinanza o sulla sede
sociale.
I requisiti, poi, sono ritenuti giustificati solamente per motivi di pubblica sicurezza,
protezione dell'ambiente e della salute.
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Il compromesso, inoltre, elenca una lunga serie di requisiti non giustificati.
In particolare, sono considerati incompatibili con la libertà di prestazione dei servizi:
- gli obblighi di stabilirsi sul territorio dove si presta il servizio;
- gli obblighi di ottenere un'autorizzazione, inclusa la registrazione in un albo professionale
(salve le eccezioni contenute in norme comunitarie);
- gli obblighi al prestatore di aprire un ufficio o una sede sul proprio territorio oppure di
possedere un documento d'identità emesso dalle autorità locali;
- i divieti al prestatore di ricorrere a materiali o attrezzature «che costituiscono parte
integrante della prestazione del servizio».
Queste disposizioni non ostano a che gli Stati membri in cui è prestato un servizio impongano
requisiti specifici giustificati con motivi di politica pubblica, di politica di sicurezza, di
protezione dell'ambiente e di salute pubblica. Lo stesso vale per quanto riguarda le condizioni
di assunzione, inclusi gli accordi collettivi.
Entro cinque anni dall'entrata in vigore della direttiva, e previa consultazione degli Stati
membri e delle parti sociali, la Commissione dovrà presentare una relazione sull'applicazione
di queste disposizioni in cui dovrà essere esaminata la necessità di proporre misure di
armonizzazione per le attività di servizio rientranti nel campo d'applicazione della direttiva.
Le deroghe
Il Parlamento precisa che le disposizioni previste dall'articolo relativo alla libertà di
prestazione dei servizi non si applicano ai servizi di interesse economico generale forniti in un
altro Stato membro, come ad esempio, ai servizi postali (coperti dalla direttiva 97/67/CE), ai
servizi di trasmissione, distribuzione e fornitura di energia elettrica (direttiva 2003/54/CE ), ai
servizi di trasmissione, distribuzione e di fornitura e stoccaggio di gas (direttiva 2003/55/CE),
ai servizi di distribuzione e di fornitura idrica e ai servizi di gestione delle acque reflue e al
trattamento dei rifiuti.
Una deroga generale vale anche per le materie disciplinate dalle direttive sul distacco dei
lavoratori e per le disposizioni che determinano la legislazione applicabile in materia di
lavoratori subordinati, per il controllo legale dei conti, per le spedizioni di rifiuti nonché per le
attività di recupero giudiziario dei crediti.
La deroga, inoltre, rimane applicata alle disposizioni della direttiva sul riconoscimento
delle qualifiche professionali, compresi i requisiti fissati dagli Stati membri (dove il
servizio è prestato) che riservano un’attività ad una particolare professione
Gli Stati membri dunque potranno continuare ad applicare le norme che riservano
alcune attività a particolari professioni, tra cui le consulenze giuridiche agli avvocati.
La deroga è valida anche per tutte le disposizioni di diritto internazionale privato, in
particolare quelle relative al trattamento dei rapporti obbligatori contrattuali e
extracontrattuali, compresa la forma dei contratti.
Controlli consentiti
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Lo Stato membro di destinazione ha la facoltà di adottare delle misure di controllo al fine di
garantire che il prestatore si conformi al proprio diritto nazionale per quanto riguarda
l'esercizio della sua attività. Lo Stato membro può quindi procedere alle verifiche, ispezioni e
indagini necessarie per controllare il servizio prestato, comprese quelle richieste dallo Stato
membro di primo stabilimento Qualora lo Stato membro di destinazione constati che il
prestatore di servizi non ha rispettato i propri obblighi, esso può obbligare il prestatore di
servizi a depositare una cauzione oppure applicargli misure intermedie. La cauzione può
essere utilizzata per l'esecuzione di decisioni e di sentenze di carattere amministrativo, civile e
penale.
Restrizioni vietate
Gli Stati membri non possono imporre requisiti che limitano a un destinatario l'utilizzazione
di un servizio fornito da un prestatore stabilito in un altro Stato membro. Non possono quindi
imporre l'obbligo di ottenere un'autorizzazione dalle autorità competenti o di effettuare una
dichiarazione presso di esse. Non è nemmeno possibile limitargli le possibilità di detrazione
fiscale o la concessione di aiuti finanziari a causa del fatto che il prestatore è stabilito in un
altro Stato membro o in funzione del luogo di esecuzione della prestazione. Infine, è vietato
l’assoggettamento del destinatario ad imposte discriminatorie o sproporzionate
sull'attrezzatura necessaria per ricevere un servizio a distanza proveniente da un altro Stato
membro.
La risoluzione di conflitti con altre norme comunitarie
In caso di conflitto, tra le disposizioni della direttiva e altre normative comunitarie che
disciplinano aspetti specifici dell'accesso all'attività di un servizio e del suo esercizio in settori
specifici o per professioni specifiche, «prevalgono e si applicano a tali settori o professioni
specifiche» le normative comunitarie speciali.
Norme sociali per il distacco dei lavoratori
La direttiva non concerne le condizioni di lavoro e di occupazione che si applicano ai
lavoratori distaccati per prestare un servizio nel territorio di un altro Stato membro. In tali
casi, è precisato, la direttiva 96/71/CE prevede che i prestatori dei servizi debbano
conformarsi alle condizioni di occupazione applicabili, in alcuni settori elencati, nello Stato
membro in cui viene prestato il servizio. Tra tali condizioni figurano: periodi massimi di
lavoro e minimi di riposo, durata minima delle ferie annuali retribuite, tariffe minime salariali,
condizioni di cessione temporanea dei lavoratori, salute, sicurezza e igiene sul lavoro,
provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti,
puerpere, bambini e giovani, parità di trattamento tra uomo e donna nonché altre disposizioni
in materia di non discriminazione. Si aggiunge che ciò non riguarda solo le condizioni di
occupazione stabilite per legge, ma anche quelle stabilite in contratti collettivi o sentenze
arbitrali.
La direttiva, infine, non dovrebbe impedire agli Stati membri di applicare condizioni di lavoro
e condizioni di occupazione a questioni diverse da quelle elencate nella direttiva 96/71/CE per
motivi di ordine pubblico.
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Alcune definizioni fondamentali contenute nella proposta di direttiva
- Servizio
E' qualsiasi attività economica non salariata «fornita normalmente dietro retribuzione, la quale
costituisce il corrispettivo economico della prestazione in questione ed è di norma convenuta
tra prestatore e destinatario del servizio».
La retribuzione è assente nelle attività svolte dallo Stato o da un’autorità regionale o locale, in
campo sociale, culturale e giudiziario e, pertanto, non rientrano in tale definizione i corsi
impartiti nell’ambito della pubblica istruzione da istituti pubblici e privati o la gestione dei
regimi di previdenza sociale non impegnati in attività economiche.
- Servizi d'interesse economico generale
Sono quelli qualificati in quanto tali dallo Stato membro e che sono soggetti a specifici
obblighi di servizio pubblico imposti al prestatore di servizi dallo Stato membro interessato al
fine di rispondere a determinati obiettivi di interesse pubblico.
- Prestatore
E' qualsiasi persona fisica, avente la cittadinanza di uno Stato membro, o qualsiasi persona
giuridica, stabilita in conformità con la legge di detto Stato membro, che offre o fornisce un
servizio.
Per evitare il ricorso a società di facciata, sono poi specificati i criteri per poter considerare
un’impresa come “stabilita”: occorre esercitare effettivamente un'attività economica a tempo
indeterminato mediante un’installazione stabile e con un'adeguata infrastruttura a partire dalla
quale viene effettivamente offerto un servizio.
Una semplice casella postale, quindi, «non costituisce uno stabilimento
- Stato membro di destinazione
E' il paese in cui un servizio è fornito ed eseguito «su base transfrontaliera in modo saltuario»
da un prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro.
Semplificazione amministrativa
La direttiva prevede una serie di misure volte ad agevolare la prestazione di servizi
transfrontalieri, eliminando regimi, procedure e formalità di autorizzazione eccessivamente
onerosi «che ostacolano la libertà di stabilimento e la creazione di nuove società di servizi».
Più in particolare, è chiesto agli Stati membri, d'intesa con la Commissione, di introdurre, se
necessario e possibile, moduli europei armonizzati, equivalenti ai certificati, agli attestati e ad
altri documenti in materia di stabilimento che sanciscono il rispetto di un requisito nello Stato
membro di destinazione.
D’altra parte, gli Stati membri che chiedono ad un prestatore o ad un destinatario di fornire un
qualsiasi documento attestante il rispetto di un particolare requisito, dovranno accettare i
documenti rilasciati da un altro Stato membro che abbiano valore equivalente o dai quali
risulti che il requisito in questione è rispettato.
Di norma, inoltre, non potranno imporre la presentazione di documenti rilasciati da un altro
Stato membro sotto forma di originale, di copia conforme o di traduzione autenticata.
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Tre anni dopo l'entrata in vigore della direttiva, gli Stati membri dovranno istituire un punto di
contatto denominato “sportello unico” che dovranno essere coordinati dalla Commissione
attraverso uno sportello europeo.
In queste strutture, ogni prestatore di servizi potrà espletare una serie di procedure e formalità
necessarie per poter svolgere le attività di servizio di sua competenza - come dichiarazioni,
notifiche o domande di autorizzazione presso le autorità competenti, comprese le domande di
iscrizione in registri, ruoli, banche dati, o ordini professionali - oppure inoltrare le domande di
autorizzazione necessarie all'esercizio delle attività di servizio di sua competenza.
Attraverso gli sportelli unici, inoltre, gli Stati membri dovranno garantire ai prestatori e ai
destinatari di prendere agevolmente conoscenza di una serie di informazioni relative alle
procedure e alle formalità, alle coordinate delle autorità competenti, alle condizioni di accesso
ai registri e alle banche dati pubblici, nonché alle informazioni concernenti le possibilità di
ricorso disponibili e gli estremi delle associazioni presso le quali possono ricevere assistenza.
Dopo tre anni dall’entrata in vigore della direttiva - e non entro il 31 dicembre 2008, come
proposto dalla Commissione - tutte le procedure e le formalità dovranno poter essere
espletate anche a distanza e per via elettronica.
Libertà di stabilimento
La direttiva prevede anche una semplificazione delle procedure di autorizzazione per l'accesso
alle attività di servizi e il loro esercizio.
Gli Stati membri possono prevedere un regime di autorizzazione, se:
- ciò non comporti una discriminazione nei confronti del prestatore;
- l’obiettivo perseguito non possa essere conseguito tramite una misura meno restrittiva;
- la sua necessità sia giustificata da «motivi imperativi di interesse generale».
Con quest’ultima nozione i deputati intendono, tra gli altri, la protezione della politica
pubblica, l'ordine pubblico, la sicurezza pubblica e la sanità pubblica. Ma anche il
mantenimento dell'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, «compreso il
mantenimento di servizi medici equilibrati e accessibili a tutti», la tutela dei consumatori, dei
destinatari di servizi e dei lavoratori, l'equità delle transazioni commerciali e la lotta alla
frode. E ancora la tutela dell'ambiente, incluso l'ambiente urbano, la salute degli animali, la
proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico ed artistico od
obiettivi di politica sociale e di politica culturale.
I regimi di autorizzazione, d’altra parte, devono basarsi su criteri che inquadrino l'esercizio
del potere di valutazione da parte delle autorità competenti «affinché non sia utilizzato in
modo arbitrario o discrezionale». Più in particolare, i criteri devono essere non discriminatori,
giustificati da un motivo imperativo di interesse generale e ad esso commisurati, precisi e
inequivocabili, oggettivi, resi pubblici in precedenza e, hanno aggiunto i deputati, trasparenti
e accessibili.
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L'autorizzazione che, in principio, ha durata illimitata, deve permettere al prestatore di
accedere all’attività di servizio o di esercitarla su tutto il territorio nazionale, anche mediante
l’apertura di agenzie, di succursali, di filiali o di uffici. Ciò non vale nei casi in cui un motivo
imperativo di interesse generale giustifichi la necessità di un’autorizzazione specifica per ogni
installazione o di un'autorizzazione limitata ad una specifica parte del territorio nazionale.
Gli Stati membri, inoltre, non potranno subordinare l'accesso ad un'attività di servizi e il suo
esercizio sul loro territorio al rispetto di una serie di requisiti fondati, ad esempio, sulla
nazionalità del prestatore o del suo personale o sulla sede della società. Non si potrà neanche
ricorrere al divieto di essere stabilito in diversi Stati membri o di essere iscritto nei registri o
nell'albo professionale di diversi Stati membri. Oppure, non si potrà imporre l'obbligo di
presentare una garanzia finanziaria o di sottoscrivere un'assicurazione presso un prestatore o
presso un organismo stabilito sul territorio degli Stati membri in questione, né quello di essere
già stato iscritto per un determinato periodo nei registri degli Stati membri in questione o di
aver esercitato in precedenza l'attività sul loro territorio per un determinato periodo".
(Parlamento europeo, 16 febbraio 2006
14/02 Pubblicata l'8 febbraio 2006
Legge Comunitaria 2005
LEGGE COMUNITARIA 2005
E' stata pubblicata sul Supplemento Ordinario n. 34 della Gazzetta Ufficiale n. 32 dell'8
febbraio 2006 la Legge comunitaria 2005 (legge 25 gennaio 2006, n. 29).
La legge delega il Governo ad adottare, entro il termine di diciotto mesi dal prossimo 23
febbraio, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive
comprese negli elenchi degli allegati A e B dello stesso provvedimento tra le quali rivestono
particolare importanza quelle relative alle pratiche commerciali sleali tra imprese e
consumatori, alla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche ed all'interoperabilità
del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità.
Gazzetta Ufficiale N. 32 del 8 Febbraio 2006
LEGGE 25 gennaio 2006, n.29
Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle
Comunita'
europee. Legge comunitaria 2005.
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI SUI PROCEDIMENTI PER L'ADEMPIMENTO DEGLI
OBBLIGHI COMUNITARI
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Art. 1.
(Delega al Governo per l'attuazione di direttive comunitarie)
1. Il Governo e' delegato ad adottare, entro il termine di diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione
alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B.
2. I decreti legislativi sono adottati, nel rispetto dell'articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n.
400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le politiche
comunitarie e
del Ministro con competenza istituzionale prevalente per la materia, di concerto con i Ministri
degli affari esteri, della giustizia, dell'economia e delle finanze e con gli altri Ministri
interessati in relazione all'oggetto della direttiva.
3. Gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive comprese nell'elenco di
cui all'allegato B, nonche', qualora sia previsto il ricorso a sanzioni penali, quelli relativi
all'attuazione delle direttive elencate nell'allegato A, sono trasmessi, dopo l'acquisizione degli
altri pareri previsti dalla legge, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perche'
su di essi sia espresso il parere dei competenti organi parlamentari.
Decorsi quaranta giorni dalla data di trasmissione, i decreti sono emanati anche in mancanza
del parere. Qualora il termine per l'espressione del parere parlamentare di cui al presente
comma, ovvero i diversi termini previsti dai commi 4 e 9, scadano nei trenta giorni che
precedono la scadenza dei termini previsti ai commi 1 o 5 o successivamente, questi ultimi
sono prorogati di novanta giorni.
4. Gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive 2003/123/CE, 2004/9/CE,
2004/36/CE, 2004/49/CE, 2004/50/CE, 2004/54/CE, 2004/80/CE, 2004/81/CE, 2004/83/CE,
2004/113/CE, 2005/19/CE, 2005/28/CE, 2005/36/CE e 2005/60/CE sono corredati dalla
relazione tecnica di cui all'articolo 11-ter, comma 2, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e
successive modificazioni. Su di essi e' richiesto anche il parere delle Commissioni
parlamentari competenti per i profili finanziari. Il Governo, ove non intenda conformarsi alle
condizioni formulate con riferimento all'esigenza di garantire il rispetto dell'articolo 81,
quarto comma, della Costituzione, ritrasmette alle Camere i testi, corredati dei necessari
elementi integrativi di informazione, per i pareri definitivi delle Commissioni competenti per i
profili finanziari, che devono essere espressi entro venti giorni.
5. Entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al
comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dalla presente legge, il Governo
puo' emanare, con la procedura indicata nei commi 2, 3 e 4, disposizioni integrative e
correttive dei decreti legislativi emanati ai sensi del comma 1, fatto salvo quanto previsto dal
comma 6.
6. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1
adottato per l'attuazione della direttiva 2004/109/CE, di cui all'allegato B, il Governo, nel
rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 3 e con la procedura prevista dal
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presente articolo, puo' emanare disposizioni integrative e correttive al fine di tenere conto
delle eventuali disposizioni di attuazione adottate dalla Commissione europea secondo la
procedura di cui all'articolo 27, paragrafo 2, della medesima direttiva.
7. In relazione a quanto disposto dall'articolo 117, quinto comma, della Costituzione e
dall'articolo 16, comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, si applicano le disposizioni di
cui all'articolo 11, comma 8, della medesima legge n. 11 del 2005.
8. Il Ministro per le politiche comunitarie, nel caso in cui una o piu' deleghe di cui al comma 1
non risulti ancora esercitata trascorsi quattro mesi dal termine previsto dalla direttiva per la
sua attuazione, trasmette alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica una relazione
che dia conto dei motivi addotti dai Ministri con competenza istituzionale prevalente per la
materia a giustificazione del ritardo. Il Ministro per le politiche comunitarie ogni quattro mesi
informa altresi' la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sullo stato di attuazione
delle direttive da parte delle regioni e delle province autonome nelle materie di loro
competenza.
9. Il Governo, quando non intende conformarsi ai pareri parlamentari di cui al comma 3,
relativi a sanzioni penali contenute negli schemi di decreti legislativi recanti attuazione delle
direttive comprese negli allegati A e B, ritrasmette con le sue osservazioni e con eventuali
modificazioni i testi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. Decorsi trenta
giorni dalla data di ritrasmissione, i decreti sono emanati anche in mancanza di nuovo parere.
Art. 2.
(Modifica all'articolo 10 della legge 4 febbraio 2005, n. 11)
1. Il comma 4 dell'articolo 10 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, e' sostituito dal seguente:
"4. I decreti legislativi di attuazione di normative comunitarie o di modifica di disposizioni
attuative delle medesime, la cui delega e' contenuta in leggi diverse dalla legge comunitaria
annuale, fatti salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalle disposizioni della legge
di conferimento della delega, ove non in contrasto con il diritto comunitario, e in aggiunta a
quelli contenuti nelle normative comunitarie da attuare, sono adottati nel rispetto degli altri
principi e criteri direttivi generali previsti dalla stessa legge comunitaria per l'anno di
riferimento, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le
politiche comunitarie e del Ministro con competenza istituzionale prevalente per la materia, di
concerto con i Ministri degli affari esteri, della giustizia, dell'economia e delle finanze e con
gli altri Ministri interessati in relazione all'oggetto della normativa".
Art. 3.
(Principi e criteri direttivi generali della delega legislativa)
1. Salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalle disposizioni di cui al capo II e in
aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare, i decreti legislativi di cui all'articolo 1
sono informati ai seguenti principi e criteri direttivi generali:
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a) le amministrazioni direttamente interessate provvedono all'attuazione dei decreti legislativi
con le ordinarie strutture amministrative;
b) ai fini di un migliore coordinamento con le discipline vigenti per i singoli settori interessati
dalla normativa da attuare, sono introdotte le occorrenti modificazioni alle discipline stesse,
fatte salve le materie oggetto di delegificazione ovvero i procedimenti oggetto di
semplificazione amministrativa;
c) al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare
l'osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sono previste sanzioni
amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali,
nei limiti, rispettivamente, dell'ammenda fino a 150.000 euro e dell'arresto fino a tre anni,
sono previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o
espongano a pericolo interessi costituzionalmente protetti. In tali casi sono previste: la pena
dell'ammenda alternativa all'arresto per le infrazioni che espongano a pericolo o danneggino
l'interesse protetto; la pena dell'arresto congiunta a quella dell'ammenda per le infrazioni che
rechino un danno di particolare gravita'. Nelle predette ipotesi, in luogo dell'arresto e
dell'ammenda, possono essere previste anche le sanzioni alternative di cui agli articoli 53 e
seguenti del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, e la relativa competenza del giudice di
pace. La sanzione amministrativa del pagamento di una somma non inferiore a 150 euro e non
superiore a 150.000 euro e' prevista per le infrazioni che ledano o espongano a pericolo
interessi diversi da quelli sopra indicati. Nell'ambito dei limiti minimi e massimi previsti, le
sanzioni sopra indicate sono determinate nella loro entita', tenendo conto della diversa
potenzialita' lesiva dell'interesse protetto che ciascuna infrazione presenta in astratto, di
specifiche qualita' personali del colpevole, comprese quelle che impongono particolari doveri
di prevenzione, controllo o vigilanza, nonche' del vantaggio patrimoniale che l'infrazione puo'
recare al colpevole o alla persona o all'ente nel cui interesse egli agisce. Entro i limiti di pena
sopra indicati sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente gia' comminate dalle
leggi vigenti per le violazioni omogenee e di pari offensivita' rispetto alle infrazioni alle
disposizioni dei decreti legislativi;
d) eventuali spese non contemplate da leggi vigenti e che non riguardano l'attivita' ordinaria
delle amministrazioni statali o regionali possono essere previste nei decreti legislativi recanti
le norme necessarie per dare attuazione alle direttive nei soli limiti occorrenti per
l'adempimento degli obblighi di attuazione delle direttive stesse; alla relativa copertura,
nonche' alla copertura delle minori entrate eventualmente derivanti dall'attuazione delle
direttive, in quanto non sia possibile fare fronte con i fondi gia' assegnati alle competenti
amministrazioni, si provvede a carico del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16
aprile 1987, n. 183, per un ammontare complessivo non superiore a 50 milioni di euro;
e) all'attuazione di direttive che modificano precedenti direttive gia' attuate con legge o con
decreto legislativo si procede, se la modificazione non comporta ampliamento della materia
regolata, apportando le corrispondenti modificazioni alla legge o al decreto legislativo di
attuazione della direttiva modificata;
f) i decreti legislativi assicurano in ogni caso che, nelle materie oggetto delle direttive da
attuare, la disciplina sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime,
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tenuto anche conto delle eventuali modificazioni comunque intervenute fino al momento
dell'esercizio della delega;
g) quando si verifichino sovrapposizioni di competenze fra amministrazioni diverse o
comunque siano coinvolte le competenze di piu' amministrazioni statali, i decreti legislativi
individuano, attraverso le piu' opportune forme di coordinamento, rispettando i principi di
sussidiarieta', differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione e le competenze delle
regioni e degli altri enti territoriali, le procedure per salvaguardare l'unitarieta' dei processi
decisionali, la trasparenza, la celerita', l'efficacia e l'economicita' nell'azione amministrativa e
la chiara individuazione dei soggetti responsabili.
Art. 4.
(Delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni a disposizioni in materia
di Politica agricola comune e di Politica dello sviluppo rurale)
1. Al fine di garantire la parita' di trattamento tra agricoltori ed evitare distorsioni del mercato
e della concorrenza, il Governo, fatte salve le norme penali vigenti, e' delegato ad adottare,
entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, uno o piu' decreti
legislativi recanti sanzioni penali o amministrative, ivi comprese misure reintegratorie e
interdittive, per le violazioni accertate a disposizioni dei regolamenti e delle decisioni emanati
dalla Comunita' europea in materia di Politica agricola comune e di Politica dello sviluppo
rurale.
2. La delega di cui al comma 1 e' esercitata con decreti legislativi adottati ai sensi dell'articolo
14 della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o
del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro della giustizia, di concerto con il
Ministro delle politiche agricole e forestali. I decreti legislativi si informano ai seguenti
principi e criteri direttivi:
a) le sanzioni amministrative sono dissuasive, nonche' proporzionate alle somme
indebitamente percepite, tenendo conto del vantaggio patrimoniale che l'infrazione puo' recare
al beneficiario delle provvidenze;
b) le sanzioni reintegratorie o interdittive, determinate anche in funzione della gravita',
portata, durata e frequenza dell'infrazione commessa, possono arrivare fino all'esclusione
totale da uno o piu' regimi di aiuto
ed essere irrogate per uno o piu' anni civili.
3. Per le sanzioni penali i decreti legislativi si uniformano ai principi e criteri direttivi indicati
nell'articolo 3, comma 1, lettera c).
4. Gli schemi di decreto legislativo di cui al presente articolo sono trasmessi alla Camera dei
deputati e al Senato della Repubblica per l'espressione del parere da parte delle competenti
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Commissioni parlamentari con le modalita' e nei termini previsti dai commi 3 e 9 dell'articolo
1.
Art. 5.
(Delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di disposizioni
comunitarie)
1. Al fine di assicurare la piena integrazione delle norme comunitarie nell'ordinamento
nazionale, il Governo, fatte salve le norme penali vigenti, e' delegato ad adottare, entro due
anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, disposizioni recanti sanzioni penali o
amministrative per le violazioni di direttive comunitarie attuate in via regolamentare o
amministrativa, ai sensi delle leggi comunitarie vigenti, e di regolamenti comunitari vigenti
alla data di entrata in vigore della presente legge, per i quali non siano gia' previste sanzioni
penali o amministrative.
2. La delega di cui al comma 1 e' esercitata con decreti legislativi adottati ai sensi dell'articolo
14 della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o
del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro della giustizia, di concerto con i
Ministri competenti per materia. decreti legislativi si informano ai principi e criteri direttivi di
cui all'articolo 3, comma 1, lettera c).
3. Gli schemi di decreto legislativo di cui al presente articolo sono trasmessi alla Camera dei
deputati e al Senato della Repubblica per l'espressione del parere da parte dei competenti
organi parlamentari con le modalita' e nei termini previsti dai commi 3 e 9 dell'articolo 1.
Art. 6.
(Oneri relativi a prestazioni e controlli)
1. In relazione agli oneri per prestazioni e controlli si applicano le disposizioni di cui
all'articolo 9, comma 2, della legge 4 febbraio 2005, n. 11.
2. Le entrate derivanti dalle tariffe determinate ai sensi del comma 1, qualora riferite
all'attuazione delle direttive di cui agli allegati A e B, nonche' di quelle da recepire con lo
strumento regolamentare, sono attribuite alle amministrazioni che effettuano le prestazioni e i
controlli, mediante riassegnazione ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 10 novembre 1999, n. 469.
Art. 7.
(Attuazione di direttive comunitarie con regolamento autorizzato)
1. Il Governo e' autorizzato a dare attuazione alle direttive comprese nell'elenco di cui
all'allegato C con uno o piu' regolamenti da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della
legge 23 agosto 1988, n. 400, secondo quanto disposto dagli articoli 9 e 11 della legge 4
febbraio 2005, n. 11, e con le procedure ivi previste, previo parere dei competenti organi
parlamentari ai quali gli schemi di regolamento sono trasmessi con apposite relazioni cui e'
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allegato il parere del Consiglio di Stato e che si esprimono entro quaranta giorni
dall'assegnazione. Decorso il predetto termine, i regolamenti sono emanati anche in mancanza
di detti pareri.
2. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica.
Art. 8.
(Delega al Governo per il riordino normativo nelle materie interessate dalle direttive
comunitarie)
1. Il Governo e' delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, con le modalita' di cui ai commi 2 e 3 dell'articolo 1, entro il termine di diciotto
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, testi unici delle disposizioni dettate in
attuazione delle deleghe conferite per il recepimento di direttive comunitarie, al fine di
coordinare le medesime con le norme legislative vigenti nelle stesse materie, apportando le
sole modificazioni necessarie a garantire la semplificazione e la coerenza logica, sistematica e
lessicale della normativa.
2. I testi unici di cui al comma 1 riguardano materie o settori omogenei. Fermo restando
quanto disposto al comma 3, le disposizioni contenute nei testi unici non possono essere
abrogate, derogate, sospese o comunque modificate, se non in modo esplicito mediante
l'indicazione puntuale delle disposizioni da abrogare, derogare, sospendere o modificare.
3. Per le disposizioni adottate ai sensi del presente articolo si applica quanto previsto al
comma 7 dell'articolo 1.
Capo II
DISPOSIZIONI PARTICOLARI DI ADEMPIMENTO, CRITERI SPECIFICI DI
DELEGA LEGISLATIVA
Art. 9.
(Modifiche all'articolo 55 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773, a parziale recepimento della direttiva 2004/57/CE della
Commissione, del 23 aprile 2004)
1. All'articolo 55 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18
giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al terzo comma:
1) le parole: "di qualsiasi genere" sono sostituite dalle seguenti: "di Iª, IIª, IIIª, IVª e Vª
categoria, gruppo A e gruppo B,";
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2) dopo le parole: "dal Questore" sono inserite le seguenti: ", nonche' materie esplodenti di Vª
categoria, gruppo C, a privati che non siano maggiorenni e che non esibiscano un documento
di identita' in corso di validita'";
b) dopo il quinto comma e' inserito il seguente:
"Gli obblighi di registrazione delle operazioni giornaliere e di comunicazione mensile
all'ufficio di polizia competente per territorio non si applicano alle materie esplodenti di Vª
categoria, gruppo D e gruppo E".
Art. 10.
(Modifica all'articolo 5 della legge 18 aprile 1975, n. 110)
1. All'articolo 5, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, le parole: "e dei giocattoli
pirici" sono soppresse.
Art. 11.
(Adempimenti in materia di rifiuti pericolosi)
1. I produttori di rifiuti pericolosi che non sono inquadrati in un'organizzazione di ente o di
impresa adempiono all'obbligo della tenuta del registro di carico e scarico di cui all'articolo 12
del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, attraverso la
conservazione, in ordine cronologico, delle copie del formulario proprie del detentore, di cui
all'articolo 15 del citato decreto legislativo n. 22 del 1997.
2. I soggetti di cui al comma 1 non sono tenuti alla comunicazione annuale al Catasto, di cui
all'articolo 11, comma 3, del citato decreto legislativo n. 22 del 1997, e successive
modificazioni. 3. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai rifiuti urbani.
Art. 12.
(Valutazione di titoli e certificazioni comunitarie)
1. Fatta salva la normativa vigente in materia, in caso di procedimento nel quale e' richiesto
quale requisito il possesso di un titolo di studio, corso di perfezionamento, certificazione di
esperienze professionali e ogni altro attestato che certifichi competenze acquisite
dall'interessato, l'ente responsabile valuta la corrispondenza agli indicati requisiti dei titoli e
delle certificazioni acquisiti in altri Stati membri dell'Unione europea o in Stati aderenti
all'Accordo sullo Spazio economico europeo o nella Confederazione elvetica.
2. La valutazione dei titoli di studio e' subordinata alla preventiva acquisizione sugli stessi del
parere favorevole espresso dal Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca tenuto
conto dell'oggetto del procedimento. Il parere deve essere comunque reso entro centottanta
giorni dal ricevimento della documentazione completa.
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Art. 13.
(Modifiche al testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297)
1. Al testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle
scuole di ogni ordine e grado, di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, e successive
modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 379, concernente la disciplina del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti
all'estero dai lavoratori italiani e loro congiunti emigrati:
1) le parole: "lavoratori italiani e loro congiunti emigrati", "lavoratori italiani e i loro
congiunti emigrati" e "lavoratori italiani o loro congiunti emigrati", ovunque ricorrono, sono
sostituite dalle seguenti: "cittadini di Stati membri dell'Unione europea, degli Stati aderenti
all'Accordo sullo Spazio economico europeo e della Confederazione elvetica";
2) le parole: "all'estero", ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: "in uno Stato
diverso dall'Italia";
3) il comma 9 e' abrogato;
b) l'articolo 380 e' abrogato.
2. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica.
Art. 14.
(Modifiche al decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, recante attuazione della direttiva
1999/5/CE riguardante le apparecchiature radio, le apparecchiature terminali di
telecomunicazione ed il
reciproco riconoscimento della loro conformita)
1. All'articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, le parole:
"l'emissione e" sono sostituite dalle seguenti: "l'emissione ovvero".
2. All'articolo 10 del decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 269, sono apportate le seguenti
modificazioni:
a) il comma 1 e' sostituito dal seguente:
"1. Chiunque immette sul mercato ovvero installa apparecchi non conformi ai requisiti
essenziali di cui all'articolo 3 e' assoggettato alla sanzione amministrativa del pagamento di
una somma da euro 4.131 a euro 24.789 e del pagamento di una somma da euro 20 a euro 123
per ciascun apparecchio. Alla stessa sanzione e' assoggettato chiunque apporta modifiche agli
apparecchi dotati della prescritta marcatura che comportano mancata conformita' ai requisiti
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essenziali. In ogni caso la sanzione amministrativa non puo' superare la somma complessiva
di euro 103.291";
b) al comma 2, primo periodo, le parole: "da lire 4 milioni a lire 24 milioni" sono sostituite
dalle seguenti: "da euro 1.032 a euro 12.394" e le parole: "da lire 20 mila a lire 120 mila"
sono sostituite dalle seguenti: "da euro 10 a euro 61"; al secondo periodo, le parole: "lire 200
milioni" sono sostituite dalle seguenti: "euro 103.291";
c) dopo il comma 2 e' inserito il seguente:
"2-bis. Il fabbricante o chiunque immette sul mercato apparecchi conformi ai requisiti
essenziali di cui all'articolo 3, ma privi delle informazioni sull'uso cui l'apparecchio e'
destinato, nonche' delle indicazioni relative agli Stati membri dell'Unione europea o alla zona
geografica all'interno di uno Stato membro dove l'apparecchiatura e' destinata ad essere
utilizzata, nonche' delle informazioni relative ad eventuali restrizioni o richieste di
autorizzazioni necessarie per l'uso delle apparecchiature radio in taluni Stati membri, e'
assoggettato alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.032 a euro
12.394 e del pagamento di una somma da euro 10 a euro 61 per ciascun apparecchio. In ogni
caso la sanzione amministrativa non puo' superare la somma complessiva di euro 103.291";
d) al comma 3, le parole: "da lire 2 milioni a lire 12 milioni" sono sostituite dalle seguenti:
"da euro 1.032 a euro 6.197";
e) al comma 4, le parole: "da lire 5 milioni a lire 30 milioni" sono sostituite dalle seguenti: "da
euro 2.582 a euro 15.493";
f) al comma 5, le parole: "da lire 500 mila a lire 3 milioni" sono sostituite dalle seguenti: "da
euro 258 a euro 1.549";
g) al comma 6, le parole: "da lire 10 milioni a lire 60 milioni" sono sostituite dalle seguenti:
"da euro 5.164 a euro 30.987".
Art. 15.
(Attuazione della decisione C (2004) 4746 della Commissione, del 14 dicembre 2004)
1. In attuazione della decisione C (2004) 4746 della Commissione, del 14 dicembre 2004, il
regime di aiuti a favore delle imprese che hanno sostenuto, nel periodo d'imposta successivo a
quello in corso alla data del 2 ottobre 2003, spese per la partecipazione espositiva di prodotti
in fiere all'estero, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre
2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e'
interrotto a decorrere dal periodo d'imposta per il quale, alla data di entrata in vigore della
presente legge, non e' ancora scaduto il termine per la presentazione della relativa
dichiarazione dei redditi.
2. Entro novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento del direttore dell'Agenzia
delle entrate che determina le modalita' applicative della presente disposizione, i soggetti che
hanno beneficiato degli aiuti di cui al comma 1 presentano in via telematica all'Agenzia delle
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entrate una attestazione, ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con gli elementi necessari per l'individuazione
dell'aiuto illegittimamente fruito sulla base delle disposizioni contenute nel citato
provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate da cui risulti comunque:
a) l'ammontare delle spese sostenute sulla base delle quali e' stata calcolata l'agevolazione di
cui al comma 1;
b) l'importo corrispondente all'eventuale imposta sul reddito non dovuta per effetto
dell'agevolazione illegittimamente fruita.
3. Entro i sessanta giorni successivi al termine di cui al comma 2, i beneficiari del regime
agevolativo di cui al comma 1 effettuano, a seguito di autoliquidazione, il versamento degli
importi corrispondenti alle imposte non corrisposte per effetto del regime agevolativo
medesimo relativamente ai periodi di imposta nei quali tale regime e' stato fruito, nonche'
degli interessi calcolati sulla base delle disposizioni di cui al capo V del regolamento (CE) n.
794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, maturati a decorrere dalla data in cui le
imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro
recupero effettivo.
4. L'Agenzia delle entrate provvede alle attivita' di liquidazione e controllo del corretto
adempimento degli obblighi derivanti dal presente articolo e, in caso di mancato o
insufficiente versamento, ai sensi del comma 3, si rendono applicabili le norme in materia di
liquidazione, accertamento, riscossione e contenzioso nonche' le sanzioni previste ai fini delle
imposte sui redditi.
5. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle spese sostenute dalle piccole e
medie imprese per la partecipazione espositiva di prodotti in fiere all'estero nel rispetto delle
condizioni di cui all'articolo 5, lettera b), del regolamento (CE) n. 70/2001 della
Commissione, del 12 gennaio 2001.
Art. 16.
(Modifiche all'articolo 1 della legge 18 aprile 2005, n. 62)
1. All'articolo 1 della legge 18 aprile 2005, n. 62, dopo il comma 5 e' inserito il seguente:
"5-bis. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1,
adottati per l'attuazione delle direttive 2004/39/CE, relativa ai mercati degli strumenti
finanziari, e 2004/25/CE, concernente le offerte pubbliche di acquisto, il Governo, nel rispetto
dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 2 e con la procedura prevista dal presente
articolo, puo' emanare disposizioni integrative e correttive al fine di tenere conto delle
eventuali disposizioni di attuazione adottate dalla Commissione europea secondo la procedura
di cui, rispettivamente, all'articolo 64, paragrafo 2, della direttiva 2004/39/CE, e all'articolo
18, paragrafo 2, della direttiva 2004/25/CE".
2. All'articolo 1, comma 5, della legge 18 aprile 2005, n. 62, sono aggiunte, in fine, le
seguenti parole: ", fatto salvo quanto previsto dal comma 5-bis".
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Art. 17.
(Modifiche all'articolo 38 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 23 aprile 2001, n. 290)
1. I commi 1 e 2 dell'articolo 38 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 23 aprile
2001, n. 290, sono abrogati.
Art. 18.
(Introduzione dell'articolo 29-bis della legge 18 aprile 2005, n. 62)
1. Alla legge 18 aprile 2005, n. 62, dopo l'articolo 29 e' inserito il seguente:
"Art. 29-bis. (Attuazione della direttiva 2003/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 3 giugno 2003, relativa alle attivita' e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o
professionali). - 1. Il Governo, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze di
concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, acquisito il parere della
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento
e di Bolzano, e' delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della
presente disposizione, un decreto legislativo recante le norme per il recepimento della
direttiva 2003/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 giugno 2003, relativa alle
attivita' e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali.
2. Entro due anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1, il
Governo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi previsti dal comma 3, e con la procedura
stabilita per il decreto legislativo di cui al comma 1, puo' emanare disposizioni integrative e
correttive del medesimo decreto legislativo.
3. L'attuazione della direttiva 2003/41/CE e' informata ai principi in essa contenuti in merito
all'ambito di applicazione della disciplina, alle condizioni per l'esercizio dell'attivita' e ai
compiti di vigilanza, nonche' ai seguenti principi e criteri direttivi specifici:
a) disciplinare, anche mediante l'attribuzione dei relativi poteri e competenze regolamentari e
organizzative alla Commissione di vigilanza sui fondi pensione, di cui all'articolo 16, comma
2, del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, i seguenti aspetti:
1) l'integrazione delle attribuzioni di vigilanza, in particolare quelle che prevedono l'adozione
delle misure dirette a conseguire la corretta gestione delle forme pensionistiche
complementari e ad evitare o sanare eventuali irregolarita' che possano ledere gli interessi
degli aderenti e dei beneficiari, incluso il potere di inibire o limitare l'attivita';
2) l'irrogazione di sanzioni amministrative di carattere pecuniario, da parte della Commissione
di vigilanza sui fondi pensione, nel rispetto dei principi della legge 24 novembre 1981, n. 689,
e successive modificazioni, nonche' dei seguenti criteri direttivi: nell'ambito del limite
minimo di 500 euro e massimo di 25.000 euro, le suindicate sanzioni sono determinate nella
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loro entita', tenendo conto della diversa potenzialita' lesiva dell'interesse protetto che ciascuna
infrazione presenta in astratto, di specifiche qualita' personali del colpevole, comprese quelle
che impongono particolari doveri di prevenzione, controllo o vigilanza, nonche' del vantaggio
patrimoniale che l'infrazione puo' recare al colpevole o alla persona o ente nel cui interesse
egli agisce; deve essere sancita la responsabilita' degli enti ai quali appartengono i
responsabili delle violazioni, per il pagamento delle sanzioni, e regolato il diritto di regresso
verso i predetti responsabili;
3) la costituzione e la connessa certificazione di riserve tecniche e di attivita' supplementari
rispetto alle riserve tecniche da parte dei fondi pensione che direttamente coprono rischi
biometrici o garantiscono un rendimento degli investimenti o un determinato livello di
prestazioni;
4) la separazione giuridica tra il soggetto promotore e le forme pensionistiche complementari
con riguardo alle forme interne a enti diversi dalle imprese bancarie e assicurative;
5) l'esclusione dell'applicazione della direttiva 2003/41/CE alle forme pensionistiche
complementari che contano congiuntamente meno di cento aderenti in totale, fatta salva
l'applicazione dell'articolo 19 della direttiva e delle misure di vigilanza che la Commissione di
vigilanza sui fondi pensione ritenga necessarie e opportune nell'esercizio dei suoi poteri. In
ogni caso deve prevedersi il diritto di applicare le disposizioni della direttiva su base
volontaria, ferme le esclusioni poste dall'articolo 2, paragrafo 2, della stessa direttiva;
b) disciplinare, anche mediante l'attribuzione dei relativi poteri e competenze regolamentari
alla Commissione di vigilanza sui fondi pensione, l'esercizio dell'attivita' transfrontaliera, da
parte delle forme pensionistiche complementari aventi sede nel territorio italiano ovvero da
parte delle forme pensionistiche complementari ivi operanti, in particolare individuando i
poteri di autorizzazione, comunicazione, vigilanza, anche con riguardo alla vigente normativa
in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale, nonche' in materia di informazione
agli aderenti;
c) disciplinare le forme di collaborazione e lo scambio di informazioni tra la Commissione di
vigilanza sui fondi pensione, le altre autorita' di vigilanza, il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali e il Ministero dell'economia e delle finanze, sia nella fase di costituzione che
nella fase di esercizio delle forme pensionistiche complementari, regolando, in particolare, il
divieto di opposizione reciproca del segreto d'ufficio fra le suddette istituzioni;
d) disciplinare le forme di collaborazione e lo scambio di informazioni fra le istituzioni
nazionali, le istituzioni comunitarie e quelle degli altri Paesi membri, al fine di agevolare
l'esercizio delle rispettive funzioni.
4. Il Governo, al fine di garantire un corretto ed integrale recepimento della direttiva
2003/41/CE, provvede al coordinamento delle disposizioni di attuazione della delega di cui al
comma 1 con le norme previste dall'ordinamento interno, in particolare con le disposizioni del
decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, recante i principi fondamentali in materia di forme
pensionistiche complementari, eventualmente adattando le norme vigenti in vista del
perseguimento delle finalita' della direttiva medesima.
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5. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica.
6. Si applica la procedura di cui all'articolo 1, comma 3".
Art. 19.
(Modifica al decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 18)
1. L'articolo 20 del decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 18, recante attuazione della
direttiva 96/67/CE relativa al libero accesso al mercato dei servizi di assistenza a terra negli
aeroporti della Comunita', e' abrogato.
Art. 20.
(Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
circolazione e soggiorno dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 18 gennaio 2002, n. 54)
1. Al fine di interrompere le procedure di infrazione 2003/2134 e 2003/2166 avviate dalla
Commissione europea nei confronti del Governo italiano, e in attesa del completo riordino
della materia, da attuare mediante il recepimento della direttiva 2004/38/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, al testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 18 gennaio 2002, n. 54, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 3 (L):
1) al comma 3, le parole: "ai figli di eta' minore" sono sostituite dalle seguenti: "ai figli di eta'
inferiore ai ventuno anni";
2) al comma 4, le parole: "Il diritto di soggiorno e' inoltre riconosciuto ai familiari a carico del
titolare del diritto di soggiorno, come individuati dall'articolo 29, comma 1, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, a condizione che:" sono sostituite dalle seguenti: "Il diritto
di soggiorno e' inoltre riconosciuto al coniuge non legalmente separato, ai figli di eta' inferiore
agli anni ventuno e ai figli di eta' superiore agli anni ventuno, se a carico, nonche' ai genitori
del titolare del diritto di soggiorno e del coniuge, a condizione che:";
b) all'articolo 5 (R):
1) al comma 3, la lettera b) e' sostituita dalla seguente:
"b) per i lavoratori subordinati e per i lavoratori stagionali, un attestato di lavoro o una
dichiarazione di assunzione del datore di lavoro; per i lavoratori stagionali l'attestato di lavoro
o la dichiarazione di assunzione deve specificare la durata del rapporto di lavoro";
2) al comma 3, lettera d), secondo periodo, dopo le parole: "Detta prova e' fornita" sono
inserite le seguenti: ", nel caso dei cittadini di cui all'articolo 3, comma 1, lettera e),"; dopo le
parole: "con l'indicazione del relativo importo, ovvero" sono inserite le seguenti: ", nel caso
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dei cittadini di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d)," e le parole: "comprovante la
disponibilita' del reddito medesimo" sono sostituite dalle seguenti: "attestante la disponibilita'
di risorse economiche tali da non costituire un onere per l'assistenza sociale";
3) il comma 4 e' sostituito dal seguente:
"4. Con la domanda, l'interessato puo' richiedere il rilascio della relativa carta di soggiorno
anche per i familiari di cui all'articolo 3, commi 3 e 4, quale che sia la loro cittadinanza.
Qualora questi ultimi abbiano la cittadinanza di un Paese non appartenente all'Unione
europea, ad essi e' rilasciato il titolo di soggiorno ai sensi dell'articolo 9 del testo unico di cui
al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni";
4) al comma 5, le parole: ", nonche', se si tratta di cittadini di uno Stato non appartenente
all'Unione europea, della documentazione richiesta dall'articolo 16, commi 5 e 6, del decreto
del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394" sono soppresse;
c) all'articolo 6 (R):
1) al comma 1, dopo le parole: "L'interessato puo' dimorare provvisoriamente sul territorio,"
sono inserite le seguenti: "nonche' svolgere le attivita' di cui all'articolo 3, comma 1,";
2) al comma 5, le parole: "ai cittadini di cui all'articolo 3, comma 1, lettera a)" sono sostituite
dalle seguenti: "ai cittadini di cui all'articolo 3, comma 1, lettere a) e b)".
Art. 21.
(Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2004, n. 56)
1. All'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2004, n. 56, recante attuazione
della direttiva 2001/97/CE in materia di prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo
di riciclaggio dei proventi da attivita' illecite, dopo la lettera s) e' inserita la seguente:
"s-bis) a ogni altro soggetto che rende i servizi forniti da revisori contabili, periti, consulenti
ed altri soggetti che svolgono attivita' in materia di amministrazione, contabilita' e tributi;".
2. All'articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 20 febbraio 2004, n. 56, le parole: "lettere s)
e t)" sono sostituite dalle seguenti: "lettere p), s), s-bis) e t)".
Art. 22.
(Attuazione della direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26
ottobre 2005, relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di
riciclaggio dei proventi di attivita' criminose e di finanziamento del terrorismo, e
previsione di modalita' operative per eseguire le misure di congelamento di fondi e
risorse economiche stabilite dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite, dai regolamenti (CE) n. 2580/2001 e n. 881/2002 nonche' dai regolamenti
comunitari emanati ai sensi degli articoli 60 e 301 del Trattato istitutivo della Comunita'
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europea per il contrasto del finanziamento del terrorismo e dell'attivita' di Paesi che
minacciano la pace e la sicurezza internazionale)
1. Il Governo e' delegato ad adottare, entro il termine e con le modalita' di cui all'articolo 1,
uno o piu' decreti legislativi al fine di dare organica attuazione alla direttiva 2005/60/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, al fine di prevedere modalita'
operative per eseguire le misure di congelamento di fondi e risorse economiche stabilite dalle
risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dai regolamenti (CE) n. 2580/2001
del Consiglio, del 27 dicembre 2001, e n. 881/2002 del Consiglio, del 27 maggio 2002,
nonche' dai regolamenti comunitari emanati ai sensi degli articoli 60 e 301 del Trattato
istitutivo della Comunita' europea per il contrasto del finanziamento del terrorismo e
dell'attivita' di Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale e al fine di
coordinare le disposizioni vigenti in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio di
denaro e del finanziamento del terrorismo, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) recepire la direttiva tenendo conto della giurisprudenza comunitaria in materia nonche' dei
criteri tecnici che possono essere stabiliti dalla Commissione europea ai sensi dell'articolo 40
della direttiva;
b) assicurare la possibilita' di adeguare le misure nazionali di attuazione della direttiva ai
criteri tecnici che possono essere stabiliti e successivamente aggiornati dalla Commissione
europea ai sensi dell'articolo 40 della direttiva;
c) estendere le misure di prevenzione contro il riciclaggio di denaro al contrasto del
finanziamento del terrorismo e prevedere idonee misure per attuare il congelamento dei fondi
e delle risorse economiche, inclusa la possibilita' di affidare l'amministrazione e la gestione
delle risorse economiche congelate ad un'autorita' pubblica;
d) prevedere procedure e criteri per individuare quali persone giuridiche e fisiche che
esercitano un'attivita' finanziaria in modo occasionale o su scala limitata, e quando i rischi di
riciclaggio o di finanziamento del terrorismo sono scarsi, non sono incluse nelle categorie di
"ente creditizio" o di "ente finanziario" come definite nell'articolo 3, punti 1) e 2), della
direttiva;
e) estendere, in tutto o in parte, le disposizioni della direttiva ai soggetti ricompresi nella
vigente normativa italiana antiriciclaggio nonche' alle attivita' professionali e categorie di
imprese diverse dagli enti e dalle persone di cui all'articolo 2, paragrafo 1, della direttiva
stessa, le quali svolgono attivita' particolarmente suscettibili di essere utilizzate a fini di
riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, tra le quali internet casino' e societa' fiduciarie;
f) mantenere le disposizioni italiane piu' rigorose vigenti per impedire il riciclaggio e il
finanziamento del terrorismo, tra cui la limitazione dell'uso del contante e dei titoli al
portatore prevista dall'articolo 1 del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con
modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, e successive modificazioni; riordinare ed
integrare la disciplina relativa ai titoli al portatore ed ai nuovi mezzi di pagamento, al fine di
adottare le misure eventualmente necessarie per impedirne l'utilizzo per scopi di riciclaggio o
di finanziamento del terrorismo;
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g) graduare gli obblighi di adeguata verifica della clientela in funzione del rischio associato al
tipo di cliente, rapporto di affari, prodotto o transazione;
h) adeguare l'applicazione dettagliata delle disposizioni alle peculiarita' delle varie professioni
e alle differenze in scala e dimensione degli enti e delle persone soggetti alla direttiva;
i) prevedere procedure e criteri per stabilire quali Paesi terzi impongono obblighi equivalenti a
quelli previsti
dalla direttiva e prevedono il controllo del rispetto di tali obblighi, al fine di poter applicare
all'ente creditizio o finanziario situato in un Paese terzo gli obblighi semplificati di adeguata
verifica della clientela;
l) prevedere procedure e criteri per individuare:
1) i casi nei quali gli enti e le persone soggetti alla direttiva devono identificare il titolare
effettivo ed adottare misure adeguate e commisurate al rischio per verificarne l'identita';
2) i casi nei quali gli enti e le persone soggetti alla direttiva possono calibrare gli obblighi di
adeguata verifica della clientela in funzione del rischio associato al tipo di cliente, rapporto di
affari, prodotto o transazione di cui trattasi;
3) i casi nei quali gli enti e le persone soggetti alla direttiva sono autorizzati, in deroga agli
articoli 7, lettere a), b) e d), 8 e 9, paragrafo 1, della direttiva, a non applicare gli obblighi di
adeguata verifica della clientela in relazione a clienti, rapporti di affari, prodotti o transazioni
che presentino per loro natura uno scarso rischio di riciclaggio di denaro o di finanziamento
del terrorismo, tenuto conto dei criteri tecnici per la valutazione del rischio che la
Commissione europea puo' adottare ai sensi dell'articolo 40, paragrafo 1, lettera b), della
direttiva;
4) le situazioni, oltre a quelle stabilite dall'articolo 13, paragrafi 2, 3, 4, 5 e 6, della direttiva,
nelle quali gli enti e le persone soggetti alla direttiva sono tenuti ad applicare, oltre agli
obblighi di cui agli articoli 7, 8 e 9, paragrafo 6, della direttiva medesima, obblighi rafforzati
di adeguata verifica della clientela, sulla base della valutazione del rischio esistente, in
relazione a clienti, rapporti di affari, prodotti o transazioni che presentino per loro natura un
elevato rischio di riciclaggio di denaro o di finanziamento del terrorismo, tenuto conto dei
criteri tecnici per la valutazione del rischio che la Commissione europea puo' adottare ai sensi
dell'articolo 40, paragrafo 1, lettera c), della direttiva;
m) evitare, per quanto possibile, il ripetersi delle procedure di identificazione del cliente,
prevedendo in quali casi gli enti e le persone soggetti alla direttiva possono ricorrere a terzi
per l'assolvimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela;
n) assicurare che, ogni qualvolta cio' sia praticabile, sia fornito agli enti e alle persone che
effettuano segnalazioni di operazioni sospette un riscontro sull'utilita' delle segnalazioni fatte
e sul seguito loro dato, anche tramite la tenuta e l'aggiornamento di statistiche;
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o) garantire la riservatezza e la protezione degli enti e delle persone che effettuano le
segnalazioni di operazioni sospette;
p) ferme restando le competenze esistenti delle diverse autorita', riordinare la disciplina della
vigilanza e dei controlli nei confronti dei soggetti obbligati in materia di prevenzione contro il
riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, assicurando che gli stessi siano svolti
in base al principio dell'adeguata valutazione del rischio di riciclaggio o di finanziamento del
terrorismo ed affidandoli, ove possibile, alle autorita' di vigilanza di settore prevedendo
opportune forme di coordinamento nelle materie coperte dalla direttiva;
q) estendere i doveri del collegio sindacale, previsti dalla normativa vigente in materia, alle
figure dei revisori contabili, delle societa' di revisione, del consiglio di sorveglianza, del
comitato di controllo di gestione ed a tutti i soggetti incaricati del controllo contabile o di
gestione, comunque denominati;
r) uniformare la disciplina dell'articolo 10 del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143,
convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, e successive modificazioni, e
dell'articolo 7 del decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374, modificando i doveri del
collegio sindacale e dei soggetti indicati alla lettera
q), rendendoli piu' coerenti con il sistema di prevenzione, ed evidenziando sia gli obblighi di
segnalazione delle operazioni sospette sia gli obblighi di comunicazione o di informazione
delle altre violazioni normative;
riformulare la sanzione penale di cui all'articolo 10 del citato decreto-legge 3 maggio 1991, n.
143, al fine di estendere la sanzione penale ai soggetti indicati alla lettera q);
t) depenalizzare il reato di cui all'articolo 5, comma 4, del citato decreto-legge 3 maggio 1991,
n. 143, prevedendo sanzioni amministrative pecuniarie ed accessorie effettive, dissuasive e
proporzionate;
u) garantire l'economicita', l'efficienza e l'efficacia del procedimento sanzionatorio e
riordinare il regime sanzionatorio secondo i principi della semplificazione e della coerenza
logica e sistematica, prevedendo sanzioni amministrative pecuniarie ed accessorie effettive,
dissuasive e proporzionate;
v) prevedere sanzioni amministrative a carico dei soggetti giuridici per violazione delle norme
della direttiva e delle norme nazionali vigenti in materia, qualora la persona fisica, autrice
della violazione, non sia stata identificata o non sia imputabile;
z) prevedere sanzioni amministrative a carico dei soggetti giuridici per l'omessa od
insufficiente istituzione di misure di controllo interno, per la mancata previsione di adeguata
formazione di dipendenti o collaboratori, nonche' per tutte le carenze organizzative rilevanti ai
fini della corretta applicazione della normativa in materia di prevenzione dell'uso del sistema
finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita' criminose e di finanziamento del
terrorismo, attribuendo i relativi poteri di vigilanza, controllo, ispezione, verifica, richiesta di
informazioni, dati e documenti e i poteri sanzionatori alle autorita' di vigilanza di settore ed
alle amministrazioni interessate, laddove esigenze logiche e sistematiche lo suggeriscano;
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aa) introdurre nel decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, i reati di cui agli articoli 648,
648-bis e 648-ter del codice penale tra i reati per i quali e' prevista la responsabilita'
amministrativa degli enti;
bb) prevedere una disciplina organica di sanzioni amministrative per le violazioni delle
misure di congelamento di fondi e risorse economiche disposte dalle risoluzioni del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite, dai citati regolamenti (CE) n. 2580/2001 e n. 881/2002
nonche' dai regolamenti comunitari emanati ai sensi degli articoli 60 e 301 del Trattato
istitutivo della Comunita' europea per il contrasto del finanziamento del terrorismo e
dell'attivita' di Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale.
2. Ai fini dell'attuazione del comma 1, lettera c), e' autorizzata la spesa di 250.000 euro per
ciascuno degli anni 2006 e 2007 e di 1 milione di euro a decorrere dall'anno 2008. Al relativo
onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del
bilancio triennale 2006-2008, nell'ambito, dell'unita' previsionale di base di parte corrente
"Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per
l'anno 2006, allo scopo utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri.
3. Dall'attuazione delle restanti lettere del comma 1 non devono derivare nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica.
Art. 23.
(Modifica al decreto legislativo 29 luglio 2003, n. 267, recante attuazione della direttiva
1999/74/CE e della direttiva 2002/4/CE, per la protezione delle galline ovaiole e la
registrazione dei relativi stabilimenti di allevamento)
1. Il comma 5 dell'articolo 8 del decreto legislativo 29 luglio 2003, n. 267, e' abrogato.
Art. 24.
(Attuazione della decisione n. 2005/315/CE della Commissione, del 20 ottobre 2004,
notificata con il numero C (2004) 3893)
1. In attuazione della decisione n. 2005/315/CE della Commissione, del 20 ottobre 2004, il
regime di aiuti a favore delle imprese che hanno realizzato investimenti nei comuni colpiti da
eventi calamitosi nel 2002, di cui all'articolo 5-sexies del decreto-legge 24 dicembre 2002, n.
282, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27, e' interrotto a
decorrere dal periodo d'imposta per il quale, alla data di entrata in vigore della presente legge,
non e' ancora scaduto il termine per la presentazione della relativa dichiarazione dei redditi,
nella misura in cui gli aiuti fruiti eccedano quelli spettanti calcolati con esclusivo riferimento
al volume degli investimenti eseguiti per effettivi danni subiti di cui al comma 2, lettera b),
del presente articolo.
2. Entro novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento del direttore dell'Agenzia
delle entrate che determina le modalita' applicative della disposizione di cui al presente
comma, i soggetti che hanno beneficiato degli aiuti di cui al comma 1 presentano in via
telematica all'Agenzia delle entrate una attestazione, ai sensi dell'articolo 47 del testo unico di
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cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con gli elementi
necessari per l'individuazione dell'aiuto illegittimamente fruito sulla base delle disposizioni
contenute nel citato provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate da cui risulti,
comunque:
a) il totale degli investimenti sulla base dei quali e' stata calcolata l'agevolazione di cui al
comma 1;
b) l'ammontare degli investimenti agevolabili effettuati a fronte degli effettivi danni subiti in
conseguenza degli eventi di cui al comma 1, calcolati al netto di eventuali importi ricevuti a
titolo di risarcimento assicurativo o in forza di altri provvedimenti;
c) l'importo corrispondente all'eventuale imposta sul reddito non dovuta per effetto
dell'agevolazione illegittimamente fruita.
3. Entro i sessanta giorni successivi al termine di cui al comma 2, i beneficiari del regime
agevolativo di cui al comma 1 effettuano, a seguito di autoliquidazione, il versamento degli
importi corrispondenti alle imposte non corrisposte per effetto del regime agevolativo
medesimo relativamente ai periodi di imposta nei quali tale regime e' stato fruito, nonche'
degli interessi calcolati sulla base delle disposizioni di cui al capo V del regolamento (CE) n.
794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, maturati a partire dalla data in cui le
imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro
recupero effettivo. L'attestazione prevista al comma 2 e' presentata anche nel caso di
autoliquidazione negativa.
4. L'Agenzia delle entrate provvede alle attivita' di liquidazione e controllo del corretto
adempimento degli obblighi derivanti dal presente articolo; in caso di mancato o insufficiente
versamento, ai sensi del comma 3, si rendono applicabili le norme in materia di liquidazione,
accertamento, riscossione e contenzioso, le sanzioni previste ai fini delle imposte sui redditi,
nonche' l'articolo 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.
600, e successive modificazioni.
5. Nel caso in cui l'attestazione di cui al comma 2 non risulti presentata, l'Agenzia delle
entrate provvede al recupero dell'importo dell'agevolazione dichiarata e dei relativi interessi.
6. Sono fatti salvi gli effetti derivanti dalle agevolazioni fruite in relazione agli investimenti il
cui importo non superi il valore netto dei danni effettivamente subiti da ciascuno dei
beneficiari a causa degli eventi calamitosi di cui all'articolo 5-sexies del decreto-legge 24
dicembre 2002, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27,
tenuto conto degli importi ricevuti a titolo di assicurazione o in forza di altri provvedimenti.
Art. 25.
(Modifica al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il nuovo codice della
strada)
1. Al fine di definire la procedura di infrazione 2001/5165 e superare i rilievi mossi dalla
Commissione europea nei confronti del Governo italiano, al comma 1-bis dell'articolo 134 del
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decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, dopo le parole: "cittadini comunitari" sono inserite
le seguenti: "o persone giuridiche costituite in uno dei Paesi dell'Unione europea".
Art. 26.
(Modifica alla legge 20 ottobre 1999, n. 380)
1. All'articolo 1 della legge 20 ottobre 1999, n. 380, il comma 6 e' sostituito dal seguente:
"6. Ferme restando le consistenze organiche complessive, il Ministro della difesa puo'
prevedere limitazioni all'arruolamento del personale militare femminile soltanto in presenza di
motivate esigenze connesse alla funzionalita' di specifici ruoli, corpi, categorie, specialita' e
specializzazioni di ciascuna Forza armata, qualora in ragione della natura o delle condizioni
per l'esercizio di specifiche attivita' il sesso rappresenti un requisito essenziale. Il relativo
decreto e' adottato su proposta del Capo di stato maggiore della difesa, acquisito il parere
della Commissione per le pari opportunita' tra uomo e donna, d'intesa con i Ministri delle
infrastrutture e dei trasporti e per le pari opportunita'". La presente legge, munita del sigillo
dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.
E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Allegato A
(Articolo 1, commi 1 e 3)
2004/10/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, concernente il
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative
all'applicazione dei principi di buona pratica di laboratorio e al controllo della loro
applicazione per le prove sulle sostanze chimiche.
2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, sulla definizione di
norme di qualita' e di sicurezza per la donazione, l'approvvigionamento, il controllo, la
lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani.
2004/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, che abroga alcune
direttive recanti norme sull'igiene dei prodotti alimentari e le disposizioni sanitarie per la
produzione e la commercializzazione di determinati prodotti di origine animale destinati al
consumo umano e che modifica le direttive 89/662/CEE e 92/118/CEE del Consiglio e la
decisione 95/408/CE del Consiglio.
2004/68/CE del Consiglio, del 26 aprile 2004, che stabilisce norme di polizia sanitaria per le
importazioni e il transito nella Comunita' di determinati ungulati vivi, che modifica le
direttive 90/426/CEE e 92/65/CEE e che abroga la direttiva 72/462/CEE.
2004/107/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2004, concernente
l'arsenico, il cadmio, il mercurio, il nickel e gli idrocarburi policiclici aromatici nell'aria
ambiente.
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2004/114/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, relativa alle condizioni di ammissione dei
cittadini di paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o
volontariato.
2004/117/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2004, che modifica le direttive 66/401/CEE,
66/402/CEE, 2002/54/CE, 2002/55/CE e 2002/57/CE per quanto riguarda gli esami eseguiti
sotto sorveglianza ufficiale e l'equivalenza delle sementi prodotte in paesi terzi.
2005/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2005, che modifica le
direttive 73/239/CEE, 85/611/CEE, 91/675/CEE, 92/49/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e le
direttive 94/19/CE, 98/78/CE,
2000/12/CE, 2001/34/CE, 2002/83/CE e 2002/87/CE al fine di istituire una nuova struttura
organizzativa per i comitati del settore dei servizi finanziari.
2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle
pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la
direttiva 84/450/CEE del
Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e
2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali").
2005/50/CE della Commissione, dell'11 agosto 2005, relativa alla riclassificazione delle
protesi articolari dell'anca, del ginocchio e della spalla nel quadro della direttiva 93/42/CEE
concernente i dispositivi medici.
Allegato B
(Articolo 1, commi 1 e 3)
98/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 luglio 1998, sulla protezione
giuridica delle invenzioni biotecnologiche.
2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un
quadro per l'azione comunitaria in materia di acque.
2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, che modifica la direttiva 90/435/CEE
concernente il regime fiscale comune applicabile alle societa' madri e figlie di Stati membri
diversi.
2004/9/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, concernente
l'ispezione e la verifica della buona pratica di laboratorio (BPL).
2004/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla sicurezza degli
aeromobili di paesi terzi che utilizzano aeroporti comunitari.
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2004/40/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sulle prescrizioni
minime di sicurezza e di salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli
agenti fisici (campi elettromagnetici) (diciottesima direttiva particolare ai sensi dell'articolo
16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2004/49/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa alla
sicurezza delle ferrovie comunitarie e recante modifica della direttiva 95/18/CE del Consiglio
relativa alle licenze delle imprese ferroviarie e della direttiva 2001/14/CE relativa alla
ripartizione della capacita' di infrastruttura ferroviaria, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo
dell'infrastruttura ferroviaria e alla certificazione di sicurezza (direttiva sulla sicurezza delle
ferrovie).
2004/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, che modifica la
direttiva 96/48/CE del Consiglio relativa all'interoperabilita' del sistema ferroviario
transeuropeo ad alta velocita' e la direttiva 2001/16/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio relativa all'interoperabilita' del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale.
2004/51/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, che modifica la
direttiva 91/440/CEE relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie.
2004/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa ai requisiti
minimi di sicurezza per le gallerie della rete stradale transeuropea.
2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato.
2004/81/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai
cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un'azione di
favoreggiamento dell'immigrazione illegale che cooperino con le autorita' competenti.
2004/82/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, concernente l'obbligo dei vettori di comunicare
i dati relativi alle persone trasportate.
2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a
cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa
di protezione internazionale, nonche' norme minime sul contenuto della protezione
riconosciuta.
2004/108/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2004, concernente il
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla compatibilita'
elettromagnetica e che abroga la direttiva 89/336/CEE.
2004/109/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2004,
sull'armonizzazione degli obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti i
cui valori mobiliari sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato e che
modifica la direttiva 2001/34/CE.
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2004/113/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parita' di
trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro
fornitura.
2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, che modifica le
direttive del Consiglio 72/166/CEE, 84/5/CEE, 88/357/CEE e 90/232/CEE e la direttiva
2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull'assicurazione della responsabilita'
civile risultante dalla circolazione di autoveicoli.
2005/19/CE del Consiglio, del 17 febbraio 2005, che modifica la direttiva 90/434/CEE
relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti
d'attivo ed agli scambi d'azioni concernenti societa' di Stati membri diversi.
2005/28/CE della Commissione, dell'8 aprile 2005, che stabilisce i principi e le linee guida
dettagliate per la buona pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso
umano nonche' i requisiti per l'autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali
medicinali.
2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al
riconoscimento delle qualifiche professionali.
2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, relativa alla
prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita'
criminose e di finanziamento del terrorismo.
ALLEGATO C
(Articolo 7, comma 1)
2003/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 novembre 2003, che modifica la
direttiva 2001/25/CE concernente i requisiti minimi di formazione per la gente di mare.
2005/23/CE della Commissione, dell'8 marzo 2005, che modifica la direttiva 2001/25/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio concernente i requisiti minimi di formazione per la gente
di mare.
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