Girotondo, giro intorno al mondo Il cinema apolide e sognante di

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Girotondo, giro intorno al mondo, di Davide Manuli
Immagini
Girotondo, giro intorno al mondo
Il cinema apolide e sognante di Davide Manuli
martedì 13 marzo 2007
di Pierpaolo De Sanctis
Finalista al Premio Solinas nel 1995, girato nel 1998 e uscito, in pochissime sale e per
pochissimi giorni, nel 1999 su iniziativa della Pablo di Gianluca Arcopinto.
Il lungometraggio d’esordio di Davide Manuli è un grido di liberazione e di follia, un
viaggio palpitante nell’universo dei dropout, raccontato con disperazione e lucidità, tra
aperture visionarie e un bianco e nero caldo e sporco che conferisce alle immagini una
qualità scultorea e una luce abbagliante e poetica.
Oggetto totalmente anomalo nel panorama italiano, ieri come oggi, Girotondo, giro
intorno al mondo è un film che non ti aspetti; che cattura e trascina nel suo lirismo
emotivo e nella sua vis irrazionale; e che ti arriva come una scheggia impazzita, ma
emblematica e forte, delle infinite possibilità del fare cinema in modo creativo e
personale.
Manuli usa la macchina da presa come una penna, realizzando a fine millennio la celebre
utopia di Astruc e Zavattini; raccontando impressioni, situazioni, personaggi, emozioni,
colori, suoni, paesaggi, bloccati nei loro istanti di verità più puri.
Visto dal cinema italiano, Manuli sembra un alieno, uno che non ha nulla a che fare con
la miopia dello sguardo o l’ombelicalismo delle storie a cui siamo abituati, né con la
frenesia delle immagini di tanto cinema fintogiovane di oggi.
Il suo linguaggio è febbrile, quasi mistico, vivo e pulsante, come le struggenti, grezze
timbriche dei CCCP miscelate nella colonna sonora con sapiente e rispettoso incastro
(Curami, Allarme). L’andamento stesso scuote, alternando accelerazioni improvvise e
flash ottici a lunghi piani sequenza, fulgidi e densissimi di vita, dove gli attori sono
lasciati liberi di agire e "darsi", toccando picchi altissimi come raramente si è
visto fare dalle nostre parti.
Non è un caso che lo stesso regista, davanti oltre che dietro alla macchina da presa,
venga dall’esperienza dell’Actor’s Studio di New York, e abbia collaborato in passato con
gente del calibro di Al Pacino, Milos Forman e Mike Newell.
Luciano Curreli è Angelo, il protagonista, un personaggio bellissimo, fragile, aperto, che
lascia la droga dopo aver perso il suo migliore amico e aver incontrato la prostituta
Serena (Sarah Boberg), straordinaria nella sua bellezza di angelo ferito, luminosa e
tagliente. Due attori, due volti capaci di bucare lo schermo e conficcarsi dritti nell’occhio
della cinepresa e di riflesso nel cuore e nella testa di chi guarda.
Manuli racconta un mondo sfatto e ai margini, intriso di morte, dolore, vita, gioia, amore,
droga, favola, comprensione, umanità, senza la benché minima ombra di retorica,
affidandosi al linguaggio di una cinepresa che aderisce alla naturale fotogenia degli attori.
Senza compiacimento, ma solo spinto da un’urgenza e una necessità palpabili. Così,
lontano dalle edulcorazioni della fiction, tutto sembra vero, sentito, sofferto, vissuto.
E in queste sue "aperture", in queste sue fughe spericolate a cavallo di un racconto che
procede per sussulti, squarci e passaggi di natura biologica più che logica, c’è tutto il film
preso nel suo "farsi", il film come lavoro di set, di sceneggiatura scritta e rimaneggiata
direttamente sul posto, al momento delle riprese, resa elastica e dirompente dalle
dinamiche degli attori, dalla cinepresa a spalla che li segue in ascolto, dai toni e dalle
facce giuste, dai luoghi reali, dall’improvvisazione, in qualche modo, che fa pensare ai
momenti più liberi di un Cassavetes.
È inidentificabile e apolide, l’operazione di Manuli. Indipendente, certamente. Ma anche
fuori dal tempo, allucinata, estranea al caos contemporaneo, capace di stare sul crine di
un cinema che rilegge, con naturalezza e per pura necessità di espressione, le immagini
libere e fiammeggianti degli anni ‘60 e ‘70, quelle delle nouvelles vagues impetuose e
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travolgenti (l’uso dello zoom a mano, furioso e selvaggio; un certo montaggio sincopato;
la macchina a spalla a seguire le camminate degli attori...), ma anche quelle affacciate
sul baratro di senso postmoderno della New Wave del cinema francese anni ‘80, dove le
storie avevano meno importanza dei personaggi (il rapporto uomo-donna tra i due
protagonisti fa pensare al primissimo Luc Besson, mentre la sequenza nel caffè, con i
suoi ospiti bizzarri, è un misto tra Godard e Beineix). E ancora i brevi e fulminanti quadri
in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa, o il mondo del circo
e delle comunità nomadi, che fanno venire in mente il primo Kusturica.
La polifonia linguistica è un altro punto di forza del film, girato per un buon 70% da attori
francesi in francese e con alcune battute di dialogo in inglese. L’italiano diventa allora
una lingua tra le tante, e neanche la più importante; e tutto questo, inevitabilmente,
porta al film un tangibilissimo quid di verità in più.
Peccato. Tanta maturità di sguardo, tanta freschezza di idee, tanto lirismo nella regia,
fanno solo rimpiangere il fatto che un film come Girotondo, giro intorno al mondo, pur
avendo circolato all’epoca in qualche festival di nicchia, portando giustamente a casa i
suoi premi (miglior regia e colonna sonora a Sulmona, miglior film indipendente italiano
ad Arezzo), non sia poi finito a rappresentare il cinema italiano ovunque, come
dimostrazione di un talento di spessore che può tranquillamente competere sul piano
internazionale in qualunque festival d’Arte cinematografica degno di questo nome.
Trent’anni fa Manuli sarebbe diventato immediatamente un Maestro, un Genio. E se oggi
non ha più senso parlare in questi termini, è impossibile non disprezzare un sistema
produttivo e distributivo e prima ancora culturale e politico, che non valorizzi i nostri
unici veri registi su cui adesso varrebbe la pena puntare.
Certo, il no-budget serve sicuramente alla causa, e il non dover rendere conto a nessuno
ha sicuramente giovato alla poetica di Manuli, permettendogli una certa libertà nel
costruire le sequenze a suo modo, in accordo col proprio mood (è quasi paradossale che
l’indipendenza produca per natura i risultati migliori, svincolata com’è da vincoli
economici forti e dall’obbligo del rientro delle spese).
Resta poi da sottolineare come a tutt’oggi il film di Davide Manuli non abbia ancora
trovato una doverosa distribuzione in DVD, ed è ugualmente triste constatare come lo
stesso regista non abbia potuto (voluto?) poi firmare un’opera seconda di fiction, ma
abbia deciso di percorre altre strade sicuramente più autonome, come nel recente
Inauditi-Inuit, girato nei Territori del Nord, in Canada, al confine col Circolo Polare
Artico, e concepito come un viaggio antropologico compiuto in prima persona da lui e dal
suo aiuto-regista francese, Jérôme Duranteu, attore anche in Girotondo, giro intorno al
mondo.
È dunque impossibile proseguire oggi in Italia con un cinema originale, forte, non
compromissorio, capace di arrivare al grande pubblico? Siamo davvero condannati a
ripeterci storie già sentite e ad anestetizzare il nostro linguaggio con pere di
campi/controcampi e découpage televisivi? La verità, ci ricorda Manuli, è nella
sperimentazione di sé, nella libertà espressiva e nel rispetto degli istanti di verità che
prepotentemente, inseguendo la strada, saltano alla luce.
Scheda tecnica
Regia: Davide Manuli
Sceneggiatura: Davide Manuli
Fotografia: Atsushi Takaoka, Florent Hérry, Arnaldo Catinari
Montaggio: Karine Allenbach, Claudio Di Mauro
Suono: Mario Iacquone, David Sebag
Musiche: Giovanni Venosta, Carlo Paternò, Govinda
Interpreti: Luciano Curreli, Sarah Boberg, Jerome Duranteau, Davide Manuli, Simona
Caramelli
Produzione: Shooting Hope, Gianluca Arcopinto
Nazione: Italia
Anno: 1999
Durata: 91 min.
Caratteristiche tecniche: 35mm – B/N