punt divani - Quotidiani Espresso

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punt divani - Quotidiani Espresso
30
Sabato
GAZZETTA
STORIA
20 gennaio 2007
MISTERI
OSSA A SORPRESA
La Maschera di Ferro
è probabilmente roba nostra
Il teschio nella soffitta
del castello di Cavernago
Le fortune di Ferdinando Carlo erano scese
in picchiata da quando, nel 1681, aveva venduto, mancando al suo giuramento di fedeltà e
vassallaggio all’impero, l’imprendibile fortezza di Casale Monferrato alla Francia. Uno
smacco che l’imperatore non avrebbe certo dimenticato di far pagare duramente al “fellone”. Nel primo tentativo di vendita, fallito nel
1679, emerse la figura di un avido ministro-faccendiere mantovano, che si macchiò non solo
di tradimento ma anche del reato di lesa maestà nei confronti del Re Sole. La punizione fu
crudelissima: costui dovette suo malgrado incarnare il leggendario personaggio di Maschera di ferro, imprigionato e costretto a portare
per 24 anni una maschera sul viso. (g.m.)
Il 17 gennaio di cinque anni fa fu messa la
parola fine alla storia del teschio di Ferdinado
Carlo Gonzaga Nevers. In municipio cerimonia civile durante la quale il sindaco consegnò alla curia i resti del duca. Fu un evento ristretto a pochissimi invitati. L’antefatto: dopo
il ritrovamento della cassetta con i resti mortali di Ferdinando Carlo, avvenuta nel castello di Cavernago, nel bergamasco, il principe
Gianfrancesco Gonzaga, rappresentante del
casato mantovano, decise di contattare il sindaco Burchiellaro. Era il gennaio del 2000
quando, durante la visita del ministro Giovanna Melandri si pensò a una tumulazione del teschio donato alla città dal pronipote, in Santa
Barbara, accanto ai resti di Carlo I di Nevers.
Il cranio di Ferdinando Carlo accanto alle ossa di Carlo I di Nevers
VISTO
DAI PARENTI
S
ono passati 300 anni e
siamo ancora qui, non
più a Mantova ahimè,
ma vivi e vegeti, il che - tutto
sommato - non è male.
A mero uso statistico segnalo che, distribuiti in 4 generazioni e in due linee (risalenti
entrambe al comune avo Nicola Gonzaga signore di Vescovato vissuto nel 1700), sono poco più di venti coloro
che, per nascita o matrimonio, portano legittimamente
il cognome Gonzaga in quanto discendenti della famiglia
che fu sovrana per 380 anni
in Mantova. Nell’arco di cento anni si sono infatti estinti
tutti i rami della famiglia che
nel momento di massima proliferazione furono 9, a loro
volta divisi in numerose linee.
Nel 1821 moriva infatti Luigi Gonzaga di Castiglione (del ramo di San Luigi) lasciando unici eredi i Gonzaga di Vescovato che da allora
sono l’unico ramo superstite. Nei secoli altre
famiglie, più o meno legittimamente, hanno
aggiunto al loro il nostro cognome il che fu anche origine di cause in tribunale e di fronte alla Consulta Araldica, oggi in tempo di Repubblica, sorrido pensando a questo e dico che, come il più noto settimanale di enigmistica, possiamo vantare un certo numero di tentativi di
imitazione.
Non spetta a me in questa sede lanciarmi in
rievocazioni storiche che i miei amici mantovani sanno fare con molta più bravura e profonda cultura; proverò a scrivere qualcosa sul
mio strano rapporto con Ferdinando Carlo.
Non posso onestamente dire di essere un
cultore della sua memoria, in termini di gratificazione personale preferisco leggere delle
Il principe Carlos racconta
il suo privato rapporto
con la memoria del fuggitivo
Fin da bambino ricordo che
scherzando in casa guardando alcuni suoi ritratti si diceva che con la faccia da scemo
che aveva (l’espressione in
realtà era in milanese e più
colorita) non poteva che finire male.
In realtà le onde lunghe della Storia, come le chiamava il
grande storico Braudel, stavano decretando la fine dei piccoli Stati europei e se anche
Ferdinando Carlo fosse stato
di ben diversa statura morale
e politica sarebbe stato solo
in grado di ritardare la fine
della signoria.
Il caso ha poi voluto che
mio prozio Carlos abbia incontrato sulla sua strada proprio la tomba dell’ultimo duca ed abbia preservato lui da
Carlos e Gianfrancesco Gonzaga di Vescovato
quella damnazio memoriae
che, privandoli di sepolcro noto, ha colpito
di Carlos Gonzaga di Vescovato*
membri ben più meritevoli della famiglia. Ma
grandi figure della famiglia: Luigi, il fondatoto mi avrebbe fatto piacere avere un maschio
la Storia ed il Destino vanno accettati per
re della dinastia, Gianfrancesco il primo marma, come dicevano i Rokes negli anni Sessanquello che sono e quindi mi sono ritrovato cuchese (il mio amatissimo padre porta il suo nota, “bisogna saper perdere”) non voglio dimenstode della memoria di Ferdinando Carlo e reme), Francesco II il condottiero marito della
ticare importanti figure femminili: Eleonora sto in attesa che, a conclusione dei lavori di re“marchesana” Isabella d’Este (che non mi sta
moglie dell’imperatore Ferdinando III d’Astauro della basilica palatina di Santa Barbaparticolarmente simpatica perché l’ho semsburgo e fondatrice dell’Ordine della Croce
ra ove ora riposa il teschio, venga finalmente
pre ritenuta fin troppo consapevole di sé) poStella ancora oggi ordine dinastico femminile
posta la lapide promessa dalla curia.
trei citarne molti altri anche appartenenti ai
della Famiglia Imperiale - e Maria Ludovica
Intanto nell’ingresso di casa mia, a Milano,
rami cadetti quali, a mero titolo di esempio,
che sposò due re di Polonia e che spedì il sesono equamente ripartite le fotografie degli
Vespasiano il creatore di Sabbioneta e Ferrancondo a Nevers rimanendo lei a governare.
antenati disposte su un cassettone: a sinistra
te di Guastalla che fu Governatore di Milano
Nel loro ricordo ho battezzato le mie prime
la parte Stagno d’Alcontres (la famiglia di mia
(citato nei Promessi Sposi) e Viceré di Sicilia.
due figlie, le altre 2, gemelle (e lì ho capito che
moglie Lauretana) a destra i Gonzaga; tra di
I miei preferiti restano, forse perché comunera giunto il momento di fermarsi), portano riessi appare la foto del teschio ritrovato di Ferque connessi all’apogeo della famiglia, Guspettivamente i nomi di Alix e Pietrina che
dinando Carlo, la cosa può apparire macabra
glielmo e Vincenzo I il che in fondo mi pare
non sono nomi Gonzaga ma appartengono a
ma io rispondo: «io l’ho conosciuto così».
normale poiché ognuno di noi preferisce ricornonni con cui il legame affettivo è intensissi* rappresentante del ramo
dare i successi anziché gli insuccessi. Essendo
mo. Ferdinando Carlo non è proprio uno “zio”
milanese dei discendenti
felice padre di 4 adorate femmine (sì lo ammetdi cui vantarsi.
del casato gonzaghesco
Lo zio Fernandino?
Non poteva
che finire male...
ALLA RICERCA DI GENIUS LOCI
Tre secoli fa finiva la signoria gonzaghesca su Mantova.
Ciò non avvenne per estinzione della famiglia ma per “fellonia”, accusa emessa dalla
corte imperiale sull’ultimo della casa, che vilmente fuggì a
Venezia. Mantova, feudo imperiale, fu assorbita nei domini
degli Asburgo.
Quella data segna la fine ingloriosa dei Gonzaga ma anche un principio, quello della
loro eredità storica e culturale, che da allora ha accompagnato, con fasi alterne, la storia culturale della città e del
territorio.
I Gonzaga, insomma, sono
stati e sono il genius loci della
città e la bibliografia sui Gonzaga curata da Raffaele Ta-
Quando la gloria finisce e l’eredità incomincia
malio (Olschki) testimonia
quanto questo genius loci abbia giocato e continui a giocare nella vita cittadina. Una
eredità cospicua, dunque. Come bene materiale da riutilizzare? Un valore culturale sentito ancora da spendere? Un
peso storico che opprime il presente? Le valutazioni non sono però concordi.
A fronte di saggi, convegni e
mostre sui Gonzaga sta il termine “gonzaghismo”, che spesso aleggia in chi vorrebbe vedere più in avanti che all’indietro. Ora, che dire dopo tre
secoli? Apta domino, amicisque grata (Atta al proprietario, grata agli amici) è il motto scolpito su marmo all’ingresso di una villa sulle colline veronesi del lago di Garda.
Se, invece della solita (e logo-
di Giuseppe Papagno*
ra) “Mantova città d’arte” alle porte della città, ci fosse il
motto rivisitato “Mantua,
apta domino, civibusque grata” (Mantova, atta al potere,
grata ai cittadini)? Valeva ciò
per la Mantova dei tempi d’oro dei Gonzaga (Quattro-Cinquecento)? Forse sì, pur con
molte cautele.
Sarebbe un motto da esibire
con orgoglio anche oggi? A
passeggio per la città provo
spesso una sottile invidia per i
Gonzaga. Davanti alla basilica di Sant’Andrea mi dico: chi
mai farebbe oggi una simile
costruzione? E scuoto la testa
ben sapendo che la riposta è:
nessuno! Lo stesso interrogativo punge la mente davanti a
Palazzo Ducale, in Piazza
Sordello o delle Erbe o... Mentre, se entro nella città nuova
so ben rispondere di fronte ai
condomini, alle strade strette,
alla mancanza di piazze, alla
densità umana priva di spazi
sociali, alle parti di città che
tali non sono. E allora provo
ancora più invidia per i Gonzaga. Bene consigliati, decidevano e alla decisione seguivano subito i fatti che ancora oggi si ammirano. Nessuna ingenuità, decidevano e facevano
per lo specifico interesse dinastico, sia ben chiaro: apparire
munifici e attenti al bene pubblico per ottenere, di fatto, il
consenso al loro potere. Oggi,
in democrazia, non c’è più il
Signore. Le decisioni sono
emesse dai rappresentanti elet-
ti dal popolo ma in modo sempre assai faticoso per porre in
accordo interessi molteplici,
spesso di gruppi e non sempre
civici. Quale il risultato?
Bene, è sotto i nostri occhi e
nessuno invita i turisti, i viatores di oggi, ad andarli a vedere. Lo stesso non accade a Firenze o Siena, ad Arezzo o altrove nelle molte “Città d’arte” italiane?
Allora un’altra domanda:
dove sono tutti i genius loci
che hanno fatto di questo paese una meraviglia mondiale?
Non vorrei che la risposta
fosse: sono tutti nelle librerie,
nelle biblioteche e nei musei.
Blaise Cendrars (1887-1961), il
poeta amico di Apollinaire,
era nel giorno di Pasqua a
New York. Lì non sentì né vide nulla sulla sacralità dell’e-
vento e scrisse accorato in “Pasqua a New York”: Signore,
dove sono i tuoi canti, i cori
gregoriani dei tuoi frati nel
buio delle chiese? Arrivato a
Parigi per ferragosto, non trovò nessuno e si consolò di quest’altra solitudine andando a
bere un bicchiere di vino al Lapin Agile. Dovremmo forse dire anche noi: Mantova, dove
sono i tuoi geni? E, senza eco,
andare anche noi a bere un
bicchiere di vino alla Osteria
dei Ranari? Forse. Ma la lezione della storia è che non bisogna mai cedere al pessimismo:
i geni ci sono, sono nascosti,
basta saperli trovare.
* docente di storia
contemporanea
all’Università di Parma
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