Il metodo - Edizioni Alice

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1. Prosa e poesia: livello grafico e formale
Herman Gombiner aprì un occhio: era così che si svegliava ogni mattina, adagio adagio,
aprendo prima un occhio, poi l’altro. Il suo sguardo cadde sulle crepe del soffitto e su una
fetta dell’edificio di fronte. Era andato a letto alle ore piccole, verso le tre, e ci aveva messo
un bel po’ prima di addormentarsi. Adesso erano quasi le dieci. Da qualche tempo Herman
soffriva di una sorta di amnesia: quando si svegliava di notte non riusciva a ricordare dov’era, chi era, e nemmeno come si chiamava. Ci metteva qualche secondo a capire che non
stava più a Kalomin o a Varsavia ma a New York, in una strada popolare tra Columbus
Avenue e Central Park West.
(Isaac B. Singer, L’uomo che scriveva lettere)
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d’intorno vïolette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli,
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornare e mie’ biondi capelli,
e cinger di grillanda el vago crino.
(Angelo Poliziano, Rime)
Dei due testi che abbiamo riportato il primo è scritto in prosa, il secondo, invece, è un
testo in poesia. Come lo sappiamo? Quali sono le differenze tra prosa e poesia?
Il primo brano è in prosa: descrive un personaggio, che non coincide con chi scrive (tutti
i verbi sono alla terza persona singolare). Nonostante la brevità del testo, ci vengono offerti molti dati e, dopo soltanto poche righe, riusciamo già a sapere molte cose del protagonista, che ci sembra vicinissimo: possiamo quasi vederlo mentre si sveglia.
All’interno del brano si possono isolare tre diversi momenti, che si susseguono l’uno
all’altro:
- innanzitutto c’è la descrizione del risveglio;
- poi un flash-back (un ritorno indietro nel tempo) che ci porta alla notte precedente;
- infine un ritorno al presente con la considerazione dello stato in cui l’uomo si trova da
qualche tempo: svegliandosi nel cuore della notte, egli non sa più dove si trova, se in
Europa o in America, e non riesce nemmeno a ricordare il proprio nome.
In poche righe abbiamo tutti questi dati.
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Rileggendo questo breve brano, ci accorgiamo che lo scrittore di prosa prosegue l’azione
dello scrivere fino in fondo alla riga, senza andare a capo, se non ogni tanto: la prosa è
dunque una scrittura continua.
La parola prosa deriva dall’aggettivo latino prorsus, che significa “ciò che va in linea
retta”.
Il secondo brano è in poesia. A differenza del primo, è scritto in prima persona: qualcuno racconta e descrive una situazione avvenuta nel passato. Viene ricordata una mattina di
primavera in cui, all’interno di un giardino, il personaggio che parla ha raccolto alcuni
fiori per farne una ghirlanda con cui adornare i propri capelli.
Il testo rivela che la poesia non sfrutta tutto lo spazio a sua disposizione, si ferma prima
della fine della riga e va a capo dopo alcune parole, ovvero è scritta in versi.
La parola verso deriva dal verbo latino vertere, “tornare indietro, girare”, ovvero “andare
a capo”.
Il verso: una prima importante caratteristica che contraddistingue un testo poetico da un
testo in prosa consiste nel fatto che i versi in cui è scritta la poesia tradizionale sono costituiti da una regolarità, data dal numero di sillabe che li compongono:
I’ / mi / tro/vai, / fan/ciul/le, un / bel / mat/ti/no
di / mez/zo / mag/gio in / un / ver/de / giardino.
E/ran / d’in/tor/no / vï/o/let/te e / gi/gli
fra / l’er/ba / ver/de, e / va/ghi / fior’ / no/vel/li,
az/zur/ri, / gial/li, / can/di/di e / ver/mi/gli:
on/d’io / por/si / la / ma/no a / côr / di / quel/li
per / a/dor/na/re e / mie’ / bion/di / ca/pel/li,
e / cin/ger / di / gril/lan/da el / va/go / cri/no.
Ognuno di questi versi ha undici sillabe1: quindi è sempre lo stesso verso che ripete la propria misura e lunghezza per tutto il componimento. Questo tipo di verso si chiama endecasillabo.
I versi possono essere di diversa lunghezza, secondo questo schema:
binario
ternario
quaternario
quinario
senario
settenario
ottonario
novenario
decasillabo
endecasillabo
dodecasillabo
02 sillabe
03 sillabe
04 sillabe
05 sillabe
06 sillabe
07 sillabe
08 sillabe
09 sillabe
10 sillabe
11 sillabe
12 sillabe
La / cà
La / ca/sa
La / ca/set/ta
U/na / ca/sa / blu
U/na / ca/sa / gial/la
U/na / ca/sa / az/zur/ra
U/na / ca/sa / a/ran/cio/ne
U/na / bel/la / ca/set/ta / ros/sa
U/na / bel/la / ca/set/ta / mar/ro/ne
U/na / ca/set/ta / con / un / bel / giar/di/no
U/na / ca/sa / con / giar/di/no / e / pi/sci/na
La rima: c’è poi un secondo importante aspetto che caratterizza il testo poetico nei confronti della prosa.
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ne hanno di più, ma bisogna considerare che, in poesia, spesso due vocali che si trovano ad essere vicine vengono considerate una sola, per un fenomeno che si chiama elisione e che verrà approfondito tra poco.
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Riscriviamo ancora una volta il secondo brano:
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d’intorno vïolette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli,
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornare e mie’ biondi capelli,
e cinger di grillanda el vago crino.
Osserviamo l’ultima parola di ogni verso. Prendiamo le prime due e l’ultima: «mattino»,
«giardino» e «crino». Queste tre parole hanno, nelle loro parti finali, identità di scrittura
e di suono. E così anche le altre: «gigli» e «vermigli», e infine «novelli», «quelli» e
«capelli». Tra queste parole avviene il fenomeno della rima, che ha come sede principale la parte finale del verso. Quindi diciamo che «mattino», giardino» e «crino» rimano tra
loro.
La presenza della rima in poesia era talmente importante che questa parola divenne sinonimo di versi, e “rimare” significò “comporre versi”.
Il ritmo: leggiamo ora un brano di un famoso testo in prosa, il Decamerone di Giovanni
Boccaccio, una raccolta medievale composta da cento novelle:
Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e
fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica...
Se rileggiamo attentamente, ci accorgiamo che questo brano contiene una particolare
regolarità che potremmo dire più comune alla poesia che alla prosa. Per vedere meglio
questa regolarità, proviamo a scomporre il testo e a rileggere:
Manifesta cosa è
che, sì come le cose temporali
tutte sono transitorie e mortali,
così in sé e fuor di sé
esser piene di noia,
d’angoscia e di fatica
Questa nostra “versione” del brano mette in luce la presenza di una costante, di un qualcosa che ritorna. Proviamo ora a scomporre in sillabe:
Ma/ni/fe/sta / co/sa / è
che, / sì / co/me / le / co/se / tem/po/ra/li
tut/te / so/no / tran/si/to/rie e / mor/ta/li,
co/sì in / sé / e / fuor / di / sé
es/ser / pie/ne / di / no/ia,
d’an/go/scia e / di / fa/ti/ca
Il primo verso è formato da 7 sillabe; il secondo da 11; il terzo ancora da 11, se consideriamo la «e» dopo «transitorie» talmente flebile da venire assimilata, nella lettura, alla
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parola precedente (per un fenomeno che si chiama elisione); il quarto verso contiene,
come il primo, 7 sillabe (con elisione tra «così» e «in»); il quinto ha 7 sillabe, così come
l’ultimo verso (che, come il terzo, ha la congiunzione «e» talmente flebile che possiamo
non contarla come sillaba a sé stante, ma “attaccarla” alla parola precedente «angoscia»).
Ciò significa che, secondo tale scomposizione, il testo è composto da settenari (7 sillabe)
e da endecasillabi (11 sillabe).
Ci sono poi, a sorpresa, delle vere e proprie “rime”:
Manifesta cosa è
che, sì come le cose temporali
tutte sono transitorie e mortali,
così in sé e fuor di sé
esser piene di noia,
d’angoscia e di fatica
Questa disposizione grafica conferisce un certo ritmo alle parole, che stanno bene anche
in forma poetica, come dimostra la presenza delle rime.
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2. L’uso della lingua
La lingua utilizzata dalla poesia si distingue dalla lingua che viene detta comune per vari
aspetti.
1) La lingua comune
La lingua comune, quella che utilizziamo normalmente ogni giorno, è fondata sulla corrispondenza tra le parole che usiamo e il significato che attribuiamo loro.
Ad esempio, se dico:
Giorgio mangia la mela
conosco il significato di ogni parola:
- so che Giorgio è il nome di una persona;
- so cosa vuol dire il verbo mangiare;
- so cos’è una mela.
Dunque, conosco anche il significato del loro insieme: una persona che si chiama Giorgio
si sta cibando con un frutto rotondo, la mela.
La parola è:
-
un insieme di suoni (nel caso della parola detta)
o un insieme di segni grafici (nel caso della parola scritta)
che simboleggiano qualcosa, di concreto (ad esempio un oggetto)
o di astratto (ad esempio un sentimento).
Potremmo rappresentare le principali caratteristiche della parola attraverso un triangolo:
SIGNIFICANTE
REFERENTE
SIGNIFICATO
Se prendiamo la parola “mela”:
significante è il suono o la grafia della parola: m+e+l+a;
significato è il senso che diamo a quel simbolo grafico o a quel suono (quindi l’idea della
mela) che ci permette di collegarlo all’oggetto a cui corrisponde;
referente è l’oggetto “mela”, il frutto che, convenzionalmente, prende questo nome.
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La parola è composta soltanto dal significato e dal significante; ma essa non potrebbe esistere se non ci fosse un oggetto esterno da nominare e da significare (il referente), perché
sarebbe inutile, dato che la funzione della lingua è quella di comunicare nella realtà.
Lo schema non cambia se il referente è qualcosa di astratto: infatti se parliamo di “amicizia”, pur non potendo toccarla con mano, il contenuto di questa parola è reale e riconosciuto nell’uso della lingua.
2) Denotazione e connotazione
A quanto detto finora a proposito dell’uso della lingua, aggiungiamo ora un elemento.
Con la parola “pietra” indico un preciso oggetto naturale, senza alcun dubbio sulle sue
caratteristiche generali.
In questo caso, il rapporto preciso, senza possibilità di incertezza, tra parola e oggetto a
cui essa si riferisce si chiama denotazione.
Ovvero: la parola “pietra” denota quell’elemento naturale che tutti conosciamo (e non un
altro).
Ma se prendo l’espressione “cuore di pietra”, ecco che il significato della parola “pietra”
si fa più incerto. Non indica più l’oggetto preciso di cui si è parlato sopra, ma una condizione, una disposizione particolare in cui l’uomo può trovarsi. Potremmo dire che il significato della parola “pietra”, in questo caso, diventa più esteso, e i confini che lo determinano nei confronti delle sfere di significato delle altre parole diventano meno precisi.
Il suo significato esatto, denotativo, è scomparso; al suo posto troviamo un significato più
esteso e più incerto: quello connotativo.
Denotazione e connotazione sono due diversi tipi di rapporto tra simbolo e significato, tra
parola e referente, che noi usiamo normalmente. Anzi, spesso non ci accorgiamo quando
passiamo da una forma all’altra. Ad esempio, si sente parlare sempre più spesso degli hacker, parola inglese che in italiano viene tradotta con “pirata informatico”. È ovvio che le
persone così chiamate non si aggirano nel Web con baffi, barba e uncino... In questo caso
la parola “pirata”, che esiste autonomamente e indica un fenomeno di rapina storicamente avvenuto a bordo delle navi, assume un altro significato.
Mentre la lingua della prosa è in prevalenza denotativa, quella della poesia è più frequentemente connotativa.
3) La lingua della poesia
a) Concentrazione della lingua e densità di significato: proponiamo ora un altro confronto tra un brano di prosa e un testo poetico:
Un tale, che era un agente segreto, parcheggiò in una piazza bagnata dalla pioggia la
macchina che aveva preso a nolo, e salì sull’autobus per andare in città.
Quel giorno compiva quarantun anni e, buttandosi su un sedile a caso, chiuse gli occhi
sprofondando in tetre meditazioni sulla natura del suo compleanno. Alla prima fermata,
l’autobus che rallentava lo riportò alla realtà e vide due ragazze che si sedevano sui sedili liberi davanti a lui. La ragazza di sinistra aveva i capelli color bronzo, bronzo scuro
che brillava di riflessi d’oro. I capelli erano lisci e raccolti sulla nuca con un nastro di
velluto nero, annodato a fiocco. Il nastro, come i capelli, si distingueva per un senso di
fresca pulizia, il genere di pulizia caratteristico delle cose che la mano irrequieta non ha
ancora toccato. Chi le ha annodato il nastro con tanta cura, pensò il quarantunenne. Poi
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attese il momento in cui si sarebbe voltata verso la sua amica; appena lei si girò verso
l’amica e lui vide i tratti del suo viso, spalancò la bocca in un urlo soffocato in gola.
Forse gli sfuggì. I viaggiatori, in ogni modo, non reagirono.
(B. Tammuz, Il minotauro)
In questo brano il tempo è lineare: i fatti si susseguono l’uno all’altro senza stravolgere lo scorrere naturale del tempo. Le descrizioni dei particolari e dei dettagli sono
molto approfondite e ricche di aggettivi. Il discorso che l’autore porta avanti è chiaro,
fatto di termini precisi e immediatamente comprensibili.
Ora vediamo una famosa poesia di Giuseppe Ungaretti:
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
(G. Ungaretti, Soldati)
Nel confronto col testo in prosa, colpisce innanzitutto la differenza di quantità delle
parole.
La poesia di Ungaretti è costituita da pochissime parole, attraverso le quali il poeta
restituisce al lettore la precarietà della condizione umana, particolarmente avvertita
durante un’esperienza così totale ed estrema come quella della guerra di trincea (attraverso il titolo sappiamo infatti che sono i soldati ad essere paragonati alle foglie).
La lunghezza minima dei versi trasmette un senso di grande desolazione. Le parole,
immerse nel bianco della pagina, ci offrono l’immagine della solitudine; emergono dal
silenzio, offrendo un linguaggio poetico fatto di essenzialità.
Spesso, come in questo esempio, la poesia è caratterizzata da un’alta concentrazione
verbale, a cui corrisponde, per contrapposizione, un ampio contenuto semantico. Le
parole della poesia sono dense di significato (come si è visto, sono prevalentemente
connotative).
Nel testo di Ungaretti l’aspetto descrittivo è ridotto al minimo, ma allo stesso tempo,
con nove parole soltanto, il poeta rappresenta una condizione umana che percepiamo
immediatamente con una vertigine per quanto è nettamente, lucidamente ed efficacemente descritta. Tutti ci immedesimiamo un po’ nella descrizione della fragilità dell’uomo, qui rappresentato come una foglia che un evento improvviso può far cadere
dal ramo.
b) L’ordine delle parole: un altro elemento importante in poesia è la disposizione delle
parole, che può essere estremamente libera.
L’ordine delle parole all’interno di un componimento è dettato dall’estro del poeta,
dalla musicalità che vuole ottenere ma anche dal significato che cerca di restituire. La
disposizione delle parole in poesia non risponde alle consuete norme sintattiche,
secondo le quali la poesia di Ungaretti dovrebbe essere scritta così:
Si sta come
le foglie
sugli alberi
d’autunno
Ma in questa riscrittura la poesia si indebolisce; l’ordine consueto delle parole la rende
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meno efficace.
Infatti in Soldati la condizione di precarietà dell’uomo in guerra è resa anche dalla condizione di precarietà delle parole disposte all’interno della poesia: esse sono frammentate e divise tra loro, così come sono spezzati i loro legami logici. In questo modo il
poeta ottiene un potenziamento dell’immagine principale del testo, fatta di desolazione e instabilità, rendendola più intensa e coinvolgente.
c) Le immagini: il poeta non svela ma suggerisce il significato, e lo fa attraverso l’uso
delle immagini.
L’immagine poetica nasconde i legami logici, lasciandoli sottintesi; in questo consiste la
grande forza della poesia, che non esplicita il suo senso, ma lo custodisce come un segreto.
Ad esempio, nella poesia di Ungaretti l’immagine delle foglie in balía del vento suggerisce il senso del fragile destino dell’uomo. È un’immagine simbolica, e in quanto
simbolica non immediatamente comprensibile: occorrono, per coglierla, una lettura
approfondita e uno sforzo nella comprensione.
Questo avviene perché il metodo con cui la poesia procede non è l’analisi o la descrizione, tipiche della scrittura in prosa, ma il rapporto sintetico, la rapida scoperta dei rapporti e delle analogie tra le parole della poesia e i significati, i sentimenti e le cose a cui
essa si riferisce. È proprio da questo rapporto di tipo sintetico che nascono le immagini
della poesia.
Un testo in prosa, nella maggior parte dei casi, è trasparente, e i significati che trasmette sono per lo più immediati.
La poesia si comporta diversamente: ci chiede uno sforzo maggiore, dobbiamo rischiare di entrarci dentro e andare a fondo, perché spesso l’involucro (la forma, la lingua)
non permette di cogliere immediatamente il suo contenuto (il significato).
Un grande critico e scrittore inglese scriveva: «Nessuna poesia rivelerà il suo segreto
a un lettore che le si pone di fronte considerando il poeta come un potenziale ingannatore e che è deciso a non cascare nel tranello. Dobbiamo rischiare di cascarci, se
vogliamo ottenere qualcosa. La migliore salvaguardia contro la cattiva letteratura è
un’ampia esperienza di quella buona; come un rapporto reale e di affetto con le persone oneste protegge meglio dai furfanti che una sfiducia abituale nei confronti di tutti»
(C.S. Lewis, Lettori e letture).
d) Polisemia (pluralità di significati):
In fondo alla china,
fra gli alti cipressi
è un piccolo prato.
Si stanno in quell’ombra
tre vecchie
giocando coi dadi.
Non alzan la testa un istante,
non cambian di posto un sol giorno.
Sull’erba in ginocchio
si stanno in quell’ombra giocando.
(A. Palazzeschi, Ara Mara Amara)
Questo componimento di Palazzeschi è un efficace esempio della compresenza di
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diversi significati in poesia.
Ad una prima lettura, sembra che il testo sia la semplice descrizione di un gioco che
tre vecchie fanno all’ombra degli alberi. Il linguaggio è chiaro e lineare, e non ostacola l’interpretazione.
Una lettura più attenta, però, porterebbe a qualche sorpresa. La presenza di alcuni elementi, infatti, rimanda a una poesia sul destino: il gioco dei dadi simboleggia la legge
del caso che governa la vita degli uomini, mentre le tre vecchie richiamano le Parche,
dee pagane che presiedevano alla vita degli uomini. Infine, altri due elementi simbolici conducono la nostra interpretazione di questa poesia al senso della vita e alla sua
precarietà: la china (che rappresenta la vita stessa) e i cipressi (che simboleggiano la
morte, dove la vita inevitabilmente si conclude).
Quindi una lettura più approfondita, condotta in chiave simbolica, mostra come il componimento sia fondato sul tema della casualità della vita, costretta a sottostare alle
leggi di un cieco destino.
Questo esempio è utile per comprendere che anche in campo semantico il poeta gode
di grande libertà.
e) L’insieme dei suoni: nel testo poetico al significato delle parole si aggiunge e si allea
quello dei suoni; infatti il significato e i suoni si richiamano, fondendosi tra loro.
Prendiamo come esempio un famoso verso di Leopardi:
e chiaro nella valle il fiume appare
Le vocali accentate in modo più forte sono due: la /a/, che compare tre volte («chiaro», «valle», «appare») e la /u/, che compare una volta soltanto («fiume»). Il suono
della /a/ suggerisce chiarezza, mentre la /u/ è una vocale scura: quello che il verso ci
fa vedere, con l’insieme sonoro oltre che con il significato delle parole che lo compongono, è un paesaggio immerso nel chiarore che ha al suo interno una macchia scura, il
fiume.
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3. Il ritmo
I testi poetici di tipo tradizionale rispondono a una serie di “regole” di composizione, che
vanno sotto il nome di “metro” o “metrica”, cioè “misura”.
Studiare le regole metriche è importante, anche se non bisogna mai credere che un componimento si riduca a tali regole. Lo studio del metro deve essere lo studio di un aspetto
del linguaggio, non diverso dagli altri (la tessitura fonica, ovvero l’insieme dei suoni dato
dalle parole di una poesia, la scelta delle parole, la gamma dei significati che un testo assume, l’uso della lingua che il poeta fa in una determinata poesia...), che, come gli altri, ci
deve guidare a comprendere l’espressione poetica nella sua totalità.
Possiamo paragonare una poesia ad un quadro: è importante conoscere la tecnica pittorica con cui è stata realizzata una tela, ma questo non deve allontanarci troppo dalle considerazioni sui colori utilizzati, il soggetto dipinto, le forme presenti...
Al di là del metro, quindi, noi dobbiamo cogliere il ritmo.
Il ritmo è connaturato alla poesia, perché alle sue origini essa era strettamente legata alla
musica. Molti tipi di testi poetici, oltre alle parole che li compongono e che oggi conosciamo, erano provvisti di uno spartito musicale, e prevedevano un’esecuzione cantata e, a
volte, anche ballata.
Il ritmo è presente anche quando parliamo e quando scriviamo; capita spesso di accorgersi che una parola non stia bene in un posto e vada collocata altrove perché, come si usa
dire, “suona male”.
Se voglio raccontare dei miei successi nel gioco del calcio ad un amico, posso dire:
il mio allenatore dice che sono il giocatore migliore della squadra
oppure, anche se non è esattamente la stessa cosa, posso dire:
nel calcio io sono il migliore,
lo dice anche l’allenatore.
Le due frasi contengono le stesse identiche informazioni, ma nella seconda compaiono
alcuni elementi che sono immediatamente riconoscibili come “poetici”: tra i due versi c’è
un episodio di rima, e dall’insieme nasce un ritmo tale che le due frasi si “assomigliano”,
“pesano” allo stesso modo (hanno ciascuna 10 sillabe).
Quello che il poeta fa, a differenza di una persona comune che si accinge a scrivere o a
parlare, è potenziare ciò che tutti gli uomini comunque possiedono: la dimensione ritmica del discorso.
Nel discorso quotidiano le parole si esauriscono col fine per cui esse servono: tornando
all’esempio di prima sarà più probabile, parlando con un amico, pronunciare la prima
frase piuttosto che i due versi, poiché sicuramente ciò che interessa di più è fargli sapere
cosa ha detto l’allenatore, e non come trasmettergli questa informazione.
Il ritmo in poesia è strettamente connesso con gli accenti delle parole che formano i versi.
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3.1 L’accento e le sillabe
a) Gli accenti della parola: parole piane, sdrucciole, tronche
Ogni parola ha una sillaba su cui, nel pronunciarla, si posa in modo speciale la voce,
su cui ci si sofferma un po’ più a lungo: questa sillaba si chiama tonica, mentre la posa
della voce si chiama accento tonico.
Per capire come funziona il sistema degli accenti della lingua italiana prendiamo una
parola qualsiasi e accentiamola in tutti i modi possibili: avremo, ad esempio
pàtata
patàta
patatà
Quale di queste parole ha il corretto accento? È patàta.
La maggior parte delle parole italiane ha l’accento come patàta, ovvero sulla penultima sillaba: si chiamano parole piane (càsa, scuòla, formàggio, marmellàta).
Le parole che hanno l’accento sulla terzultima sillaba, come pàtata, si chiamano
sdrucciole, perché dopo la sillaba accentata è come se la parola scivolasse via (àlbero, telèfono, rigàgnolo, pèndolo, bàmbola).
Le parole che hanno l’accento sull’ultima sillaba, come patatà, si chiamano tronche,
ed è facile distinguerle perché spesso hanno l’accento grafico (più, così, sarà, carità,
virtù).
Le parole che hanno l’accento ancora più indietro delle sdrucciole (sulla quartultima sillaba, bisdrucciole: fàbbricano, e sulla quintultima, trisdrucciole: lìberacene) sono piuttosto rare, e nella maggior parte dei casi sono parole composte da verbi e particelle.
b) Versi piani, sdruccioli, tronchi
All’interno del verso l’accento più importante è l’ultimo, quindi ciò che definisce il
verso è l’ultima parola che lo compone.
Se un verso finisce con una parola piana, viene detto piano; se finisce con una parola
tronca si chiama tronco; se termina con una parola sdrucciola, è detto sdrucciolo.
c) Le particelle atone
Bisogna poi considerare una serie di parole molto piccole e brevi: gli articoli, le particelle pronominali mi, ti, ci, si, vi, ve, ce, ne, le preposizioni (di, a, da, in...) e le congiunzioni monosillabiche, cioè formate da una sola sillaba (e, ma...). Tutte queste parole hanno di regola un accento così tenue, che se ne considerano quasi prive, e perciò
vengono chiamate atone (senza tono, ovvero senza accento).
d) Gli accenti del verso
Quello che succede all’interno di una parola, in poesia succede all’interno del verso:
infatti come la parola ha una sillaba “privilegiata”, sede dell’accento tonico, così il
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verso ha sedi privilegiate per gli accenti, che non sono mai messi a caso dal poeta:
Nel mèzzo del cammìn di nostra vìta
Mi ritrovài per una sèlva oscùra
La presenza degli accenti all’interno del verso, oltre a conferire il ritmo di cui si è parlato, funziona anche da “argine” per la voce: la lettura, seguendoli, non risulterà né
monotona né disordinata, rispettando così la misura dei versi.
Come si vede dai due versi sopra riportati, gli accenti principali del verso (chiamati
accenti ritmici o ictus) non coincidono con tutti gli accenti tonici delle parole che lo
costituiscono, che risultano più numerosi. Questo significa che la metrica dispone di
regole sue proprie, diverse da quelle della grammatica.
Gli elementi essenziali del ritmo nel verso italiano sono due: il primo è un numero stabilito di sillabe; il secondo è il succedersi di accenti tonici su sedi determinate, ad intervallo di tempo fisso. Questi due elementi formano il metro, che è la misura del ritmo.
Grazie al succedersi di accenti a intervalli regolari, noi percepiamo una musicalità
della poesia. È proprio la ripetizione che conferisce al testo poetico un particolare
ritmo.
La cesura: il ritmo del verso viene sottolineato anche dalla presenza di pause, chiamate cesure, le cui possibili posizioni sono indicate dalle regole della metrica tradizionale. Le cesure però sono presenti solo nei versi lunghi, dove spesso coincidono con le
pause segnalate dalla punteggiatura; esse dividono il verso in due parti, che prendono
il nome di emistichi:
Questo di tanta speme // oggi mi resta
(U. Foscolo, In morte del fratello Giovanni)
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4. Il verso
Il verso, con i suoi accenti, le rime e i suoni, è la manifestazione più appariscente del ritmo
di cui abbiamo parlato, e permette alle parole che compongono una poesia di emergere
dalla pagina bianca. Il loro significato è più profondo, più denso, più vario e sfuggente.
Prendiamo una poesia di Ungaretti:
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare
Se questo testo non fosse scritto in versi, diventerebbe:
E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare
È evidente, non è la stessa cosa. Le parole, nella versione poetica, si stagliano con tutta la
loro intensità, vengono isolate e come protette dagli spazi bianchi che le circondano,
emergono con più forza e sono maggiormente suggestive.
Come riconoscere un verso. I nomi dei versi italiani traducono il numero di sillabe da
cui sono composti: ci si basa sul numero delle sillabe che realmente ha il verso quando è
piano, poiché è il più diffuso dei versi. Questo significa che quando il verso è tronco ha
una sillaba in meno di ciò che indica il suo nome, e quando è sdrucciolo ne ha una in più.
Ad esempio, il verso settenario quando è piano ha sette sillabe:
E / già / per / me / si / pie/ga
Quando è tronco, invece, ne ha sei:
Che / na/tu/ra / mi / diè
Se è sdrucciolo, ha otto sillabe:
Per/ché / tur/bar/mi / l’a/ni/ma
(da Parini, La vita rustica)
Quindi, più semplicemente, per riconoscere i versi italiani bisogna contare le sillabe fino
all’ultima che ha l’accento, e aggiungere uno: settenario, 6 + 1; 10 + 1 = endecasillabo.
Dopo il regolare accento tonico dell’ultima parola, il verso italiano in un certo senso non
tiene più conto delle sillabe che seguono.
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4.1. Le principali figure metriche
Le principali figure metriche riguardano l’incontro di vocali, sia tra due parole che all’interno di una stessa parola.
Sappiamo che una sillaba, per essere tale, deve contenere almeno una vocale. Laddove due
(o più) vocali si incontrano, il nostro conteggio delle sillabe diventa più incerto: se casa
ha due sillabe, quante ne ha la parola aria? Le seguenti regole metriche sfruttano questa
indecisione, accordando al poeta una notevole libertà.
ELISIONE O SINALÈFE
È una delle principali particolarità metriche. Per evitare lo iato, cioè il suono prodotto dall’incontro di più vocali (cuoca), di regola, quando una parola finisce con una vocale
non accentata e la seguente comincia pure per vocale (amore amaro), avviene una specie di fusione o di contrazione tra queste vocali:
Ma pur ne tremi, o Psyche, ancora e mesta
(Pascoli, Psyche)
Se contiamo tutte le sillabe di questo verso, risultano essere 14. Il poeta quindi, volendo
scrivere un endecasillabo, sembra aver “esagerato”, ma non è così: considerando le elisioni che si possono fare nel verso (tra «tremi» e «o», tra «Psyche» e «ancora», tra «ancora»
e «e»), esso risulta in effetti un endecasillabo.
Quel che impone i comandi o addita i fati
(D’Annunzio, La canzone di Umberto Cagni)
In questo verso le sillabe sono addirittura 16; ma evidenziando gli episodi di elisione
(«che impone», «impone i», «comandi o», «o addita», «addita i»), il verso è nuovamente
un endecasillabo.
A volte l’elisione viene sottolineata anche graficamente, attraverso un apostrofo messo al
posto della vocale da elidere. Questo fenomeno prende il nome di afèresi:
Preme ’l cor di desio, di speme il pasce
(Petrarca, Canzoniere CCLXIV)
Ch’addorna e ’nfiora la tua riva manca
(Petrarca, Canzoniere CCVIII)
Il poeta, più che obbedire a norme prestabilite, obbedisce al suo senso armonico. Laddove
potrebbe esserci l’elisione, non è detto che il poeta vi ricorra.
Ad esempio, Dante non usa l’elisione quando potrebbe:
O in eterno faticoso manto!
(Dante, Inferno XXIII)
Come sappiamo che non utilizza questo espediente? Basta contare le sillabe: come tutti i
versi della Divina Commedia anche questo è un endecasillabo e se, contando, non ci risul-
Il metodo
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tano 11 sillabe ma un numero maggiore o minore, abbiamo la certezza che il poeta ha
sfruttato alcune particolarità metriche.
In questo verso c’è un caso che richiederebbe l’elisione, tra la O iniziale e in. Ma contando le sillabe ci accorgiamo che Dante non utilizza questo espediente:
O / in / e/ter/no / fa/ti/co/so / man/to!
La mancata elisione, in questo caso, dà la sensazione della faticosa lentezza del tempo, se
vissuto nell’eternità delle pene infernali.
Tra «O» e «in» si verifica il fenomeno della dialèfe, esattamente contrario alla
sinalefe/elisione: ha luogo quando due vocali vicine di parole diverse vengono calcolate separate.
Se sinalefe/elisone e dialefe riguardano l’incontro tra due vocali appartenenti a parole diverse, l’incontro tra due vocali di una stessa parola determina fenomeni di dièresi o di sinèresi.
DIERESI E SINERESI
Dièresi: consiste nel pronunciare separate, come se fossero due sillabe distinte, due
vocali contigue di una stessa parola. Una volta veniva segnata con due puntini sulla
prima delle due vocali su cui cadeva tale fenomeno, ora spesso questo segno si tralascia.
Tal fra le Perse torme infurïava
L’ira de’ greci petti e la virtude.
(Leopardi, All’Italia)
L’effetto principale della dieresi è di dare al verso un’espressione di armonia lenta, quasi
di riposo, o d’insistenza, poiché tende a prolungare il suono e a rallentare il ritmo.
Sinèresi: è il fenomeno opposto alla dieresi, e consiste nel pronunciare unite in una sillaba sola due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola, di regola atone. Nella
parola grazioso di solito si contano 4 sillabe (gra/zi/o/so), ma con la sineresi diventano tre:
gra/zio/so.
ALTRE FIGURE METRICHE
Afèresi: si ha quando una parola si diminuisce di una sillaba iniziale (la a di aferesi
indica qualcosa che manca, che viene tolto):
Limosina di messe Dio sa quando
Io ne potrò toccare
(Parini, Al canonico Agudio)
Pròtesi: al contrario è l’aumento di una sillaba al principio di parola (protesi nel senso
di aggiunta):
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca
(Dante, Rime XLVII)
dove discacciata sta per scacciata.
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Canone Occidentale - La poesia
Sìncope: è la caduta di una vocale o di una consonante all’interno della parola, per
cui questa diminuisce di una sillaba:
Spirto gentil che quelle membra reggi
(Petrarca, Canzoniere LIII)
Rompea la notte e la rendea più truce
(Monti, Bassviliana I)
Epèntesi: è il fenomeno contrario alla sincope, cioè l’aumento di una vocale o di una
consonante all’interno della parola:
Similemente il mal seme d’Adamo
(Dante, Inferno III)
Apòcope: si ha quando si abbrevia una parola di una sillaba finale, come negli esempi: son per sono, andaro per andarono (anche in questo caso la a di apocope indica una
mancanza, qualcosa che viene meno, che si toglie):
Levossi Achille piè veloce e disse
(Omero, Iliade I)
Paragòge: è il contrario dell’apocope, e consiste nell’aggiunta di una sillaba alla fine di
una parola: fue per fu, die per dì:
Voi vigilate nell’eterno die.
(Dante, Purgatorio XXX)
e priegalami per la sua bontate
che la mi degia tener lealtate.
(Federico II, Oi lasso, non pensai)
Sìstole: indica il ritrarsi, lo spostamento dell’accento dalla sillaba tonica verso il principio di parola:
...minaccia gl’itali penati
Ànnibal diro
(Carducci, Alle fonti del Clitumno)
Quando verrà la nimica podèsta
(Dante, Inferno VI)
Diàstole: è lo spostamento dell’accento verso la fine della parola. Si ha di frequente
con nomi propri derivati dal greco: Umìle per ùmile, Agamennòn per Agamènnone:
Quasi aspettando, pallido ed umìle
(Dante, Purgatorio VIII)
Tmesi: riguarda le parole che possono essere soggette al doppio accento. Avviene di regola tra parole composte e si verifica quando una parola si scinde nei suoi componenti e si
Il metodo
31
spezza tra la fine del verso e il principio del seguente:
E poi li volge a una a una lentamente
(Pascoli, Il libro)
4.2. I versi tradizionali
Una prima distinzione tra i versi italiani è quella tra parisillabi e imparisillabi, in base al
numero pari o dispari di sillabe che li compone.
I poeti italiani spesso hanno preferito i versi imparisillabi, perché permettono una maggior
varietà di armonia e composizione, mentre i versi composti da un numero pari di sillabe
corrono il rischio di risultare monotoni.
Non esistono, se non raramente, versi di una, due o tre sillabe. Di solito versi così brevi
non esistono di per sé: si trovano misti ad altri versi, a cui si appoggiano o s’intercalano,
di regola con rima.
Ad esempio, Pascoli usa un verso binario alla fine di ogni strofa che compone L’assiuolo,
per restituire il verso di questo uccello notturno:
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...
Un esempio, molto raro, di trisallabo è il seguente:
Si tace,
non getta
più nulla.
(Palazzeschi, La fontana malata)
Il quaternario: è un verso composto da 4 sillabe, con accento ritmico fisso sulla 3ª. Da
solo è assai poco usato, come si vede da questo esempio in cui lo troviamo alternato al settenario:
Accusato,
tormentato,
condannato
sia colui, che in pian di Lècore
prim’ osò piantar le viti;
infiniti
capri, e pecore
si divorino quei tralci
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Canone Occidentale - La poesia
e gli stralci
pioggia rea di ghiaccio asprissimo
(Redi, Bacco in Toscana)
Essendo un verso molto breve, difficilmente ha senso compiuto da solo: ad esempio il
verso capre, e pecore preso singolarmente non dice veramente niente quanto a significato e armonia.
Il quinario: ha un solo accento ritmico sulla 4ª sillaba. È un verso antico, adoperato sia
in strofe da solo (strofe monocole) sia con settenari e endecasillabi.
Esempio di quinari piani:
Or che si tace
- sia per brev’ora quanto m’accora,
in me, nel mondo;
ed alla pace
che m’ha beato
è il cuor grato
quanto è profondo
(Saba, Canzonetta nuova)
Esempio di quinari sdruccioli:
Sempremai tornino
di nuovo a bevere
l’altera porpora,
che in Monterappoli
da’ neri grappoli
sì bella spremesi.
(Redi, Bacco in Toscana)
Esempio di quinario misto con settenari:
La vïoletta,
che in sull’erbetta
apre al mattin novella,
dì, non è cosa
tutta odorosa,
tutta leggiadra, e bella?
(Chiabrera, Rime XVIII)
Il senario: è un verso che va considerato diviso in due emistichi (mezzi versi) di tre sillabe ciascuno; gli accenti principali generalmente cadono sulla penultima sillaba di ognuno di questi, ovvero sulla 2ª e sulla 5ª:
Evviva la vigna
Che l’arti raccoglie,
Che il gelo discioglie
Il metodo
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Di barbare età!
(Carducci, Il Brindisi)
Si può trovare misto ad ottonari:
Che buon pro facesse il verbo
imbeccato a suon di nerbo
nelle scuole pubbliche
...
Tutti noi, che grazie al Cielo
non siam più di primo pelo,
lo diremo ai posteri.
(Giusti, Gl’immobili e i semoventi)
Il settenario: è uno dei nostri versi più antichi e più usati. Si trova agli albori della letteratura italiana, e via via per tutti i secoli, compresi i tempi moderni, da solo o misto ad altri
versi (specie con l’endecasillabo). Ha due accenti principali, sulla 6ª e su una delle prime
quattro sillabe, a piacimento.
Ecco un esempio molto antico, che risale al Duecento:
O gemma lezïosa,
adorna villanella,
che se’ più vertudiosa
che non se ne favella:
per la vertude c’hai
per grazia del Signore,
aiutami, ché sai
ch’i’ son tuo servo, Amore.
(Ciacco dell’Anguillaia)
D’Annunzio l’ha usato non legato in strofe, e rimato a volontà:
Nostra spiaggia pisana,
amor di nostro sangue,
vita di sabbie e d’acque
silvana e litorana,
o ferma creatura
nella qual si compiacque
un’arte che non langue
non trema e non s’offusca,
terra lieve e robusta
che lineata pare
dalla mano sicura
del figulo onde nacque
il purissimo vaso
(D’Annunzio, I cammelli)
L’ottonario: anche questo verso è antichissimo. Nella sua forma più antica è composto
dall’unione di due quaternari, quindi gli accenti principali sono sulla 3ª e sulla 7ª sillaba.
Un altro tipo di accentazione è 1ª, 4ª e 7ª.
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Canone Occidentale - La poesia
Carducci lo usò misto ai quaternari, come si vede nella poesia Alla rima:
Ave, o rima! Con bell’arte
Su le carte
Te persegue il trovadore;
Ma tu brilli, tu scintilli,
Tu zampilli
Su del popolo dal core.
Modernamente è stato adoperato anche con altra posizione di accento, per rompere la
monotonia che facilmente potrebbe prodursi da un ritmo così ugualmente cadenzato:
Brevi chiomate sorelle,
api operaie, già sparve
l’ombra del verno, e già fanno
l’api il lor miele per quelle
ch’oggi son torpide larve,
oggi, ma che voleranno
domani.
(Pascoli, Alle «Kursistki»)
Il novenario: nella sua forma tradizionale ha gli accenti sulla 2ª, 5ª e 8ª sillaba. Questo
verso ha un’armonia poco spiccata, tanto che non è difficile trovarlo in prosa (I promessi
sposi di Alessandro Manzoni cominciano proprio con un novenario: «Quel ràmo del làgo
di Còmo»):
Dal Libano trema e rosseggia
Su ’l mare la fresca mattina:
Da Cipri avanzando veleggia
La nave crociata latina.
A poppa di febbre anelante
Sta il prence di Blaia, Rudello,
E cerca co ’l guardo natante
Di Tripoli in alto il castello.
(Carducci, Jaufré Rudel)
In Versilia di D’Annunzio gli accenti sono posti molto liberamente:
Non temére, o uómo dagli ócchi
gláuchi! Erómpo dalla cortéccia
frágile io nínfa boscheréccia
Versília, perché tu mi tócchi.
Il decasillabo: è un verso divisibile armonicamente in 3 parti di 3 sillabe ciascuna, con
l’accento sull’ultima sillaba di ogni parte, a cui si aggiunge una sillaba finale. Poiché la
posizione dell’accento è quasi sempre fissa (3ª, 6ª e 9ª), il decasillabo ha un suono cadenzatamente monotono, che in certi casi può servire per onomatopea (armonia imitativa):
Da le vètte dell’Ètna fumànti
Ben ti lèvi, o facèlla di guèrra:
Il metodo
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Su le tòmbe de’ vècchi gigànti
Come bèlla e terrìbil sei tù!
(Carducci, Sicilia e la Rivoluzione)
Per evitare la monotonia che spesso caratterizza il decasillabo, i poeti moderni ne hanno
variato l’accentatura ritmica:
Dunque, róndini róndini, addío!
Dunque andáte, dunque ci lasciáte
per paési tánto a noi lontáni.
È finíta qui la róssa estáte.
Appassísce l’órto; i miei geráni
più non hánno che i bécchi di grú.
(Pascoli, Addio!)
L’ENDECASILLABO
È il re dei versi italiani, chiamato da Dante “celeberrimo”. È un verso che, per la sua lunghezza, si adatta tanto all’espressione dei sentimenti quanto al racconto e al dialogo. Risale
alle origini della nostra poesia e fu adoperato ininterrottamente da tutti i nostri poeti.
L’endecasillabo deve la sua fortuna alla sua grande duttilità, e anche al fatto che, essendo
un verso di una certa lunghezza, permetteva al poeta di esprimere più contenuti.
Fu usato in molti modi e diede voce a una grandissima varietà di atteggiamenti: ha raccontato l’universo della Divina Commedia, ha rivestito la malinconia del Petrarca, ha narrato le gesta di eroi e cavalieri, venne utilizzato nella satira, nella poesia comica ecc.
Anche quando, nel Cinquecento e più tardi, si volle trovare una veste italiana adatta per i
poemi antichi sottoposti a traduzione, si ricorse all’endecasillabo. Si è utilizzato rimato in
tutte le forme di strofa, da solo o con altri versi.
Ha due tipi di accenti principali:
6ª e 10ª,
4ª, 8ª e 10ª,
ma anche, più raramente:
4ª, 7ª e 10ª.
Esempi di 6ª e 10ª:
Nel mezzo del cammìn di nostra vìta
(Dante, Inferno I)
Canto l’arme pietòse e ’l capitàno
(Tasso, Gerusalemme Liberata, canto I)
Esempi di 4ª, 8ª e 10ª:
Cantami, o dìva, del Pèlide Achìlle
(Monti, Traduzione Iliade, canto I)
Le cortesìe, l’audaci imprèse io cànto
(Ariosto, Orlando Furioso, canto I)
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Canone Occidentale - La poesia
Esempi di 4ª, 7ª e 10ª:
Quivi le strìda, il compiànto, il lamènto
(Dante, Inferno V)
Spinta dal vènto al frangènte del màre
(D’Annunzio, L’Olenadro)
La maggior parte degli endecasillabi segue una di queste disposizioni di accenti; tuttavia
sono possibili anche altri tipi di accentazione.
L’endecasillabo generalmente è divisibile in due membri di cui il primo è il maggiore e il
secondo il minore, o viceversa. Nel primo caso la prima parte risulta un settenario piano,
tronco o sdrucciolo e la seconda rispettivamente un quaternario, un quinario o un ternario.
Settenario piano più quaternario:
Come campo di biada / già matura
(Monti, Bassvilliana II)
Settenario tronco (sei sillabe) più quinario:
Né mai più toccherò / le sacre sponde
(Foscolo, A Zacinto)
Settenario sdrucciolo (otto sillabe) più ternario:
Di varïate polveri /ne sparse
(Monti, Feroniade)
Quando invece risulta più breve la prima parte del verso, questa è formata da un quinario
tronco o piano o sdrucciolo.
Quinario piano più senario:
Voi ch’ascoltate in / rime sparse il suono
(Petrarca, Canzoniere I)
Quinario tronco più settenario:
Chi è? Non so. / Che fai? Più nulla
(Pascoli, Il naufrago)
Quinario sdrucciolo più quinario (raro):
Che, tutta libera a / mutar convento
(Dante, Purgatorio XXI)
Il metodo
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I VERSI DOPPI
Il doppio quinario: è costituito da due quinari, tra i quali non si ammette elisione. Fu
poco usato fino ai nostri tempi, in cui i poeti lo ripresero con non molta frequenza.
Al mio cantuccio, – donde non sento
se non le reste – brusir del grano
il suon dell’ore – viene col vento
dal non veduto – borgo montano:
suono che uguale – che blando cade,
come una voce – che persuade.
(Pascoli, L’ora di Barga)
Esempio con il primo dei due quinari sempre sdrucciolo:
Me non contamini – venduta lode,
Non premio sordido – d’util perfidia:
Vinca io con semplice – petto l’invidia,
Vinca la frode.
(Carducci, A O.T.T.)
Il doppio senario o dodecasillabo: è un verso composto da due senari, che rende un
suono cadenzatamente monotono. Fu poco usato:
Il sole declina – fra i cieli e le tombe
Ovunque l’inane – caligine incombe.
Udremo sull’alba – squillare le trombe?
Ricordati e aspetta.
(D’Annunzio, Canti della ricordanza e dell’aspettazione)
C’è anche un altro tipo di dodecasillabo, che risulta da un quaternario più un ottonario, e
che ha quindi accenti sulla 3ª, 7ª e 11ª:
Sotto i ponti – che s’inarcan trionfali
passa l’Arno – tra due linee di fanali
tra i palagi storici,
e i fanali, – capovolti con le sponde,
rifiammeggiano – e s’allungano nell’onde
come razzi penduli.
(Marradi, Notte fiorentina)
Il doppio settenario o martelliano: dei versi composti è stato ed è uno dei più adoperati, perché il settenario è un verso armonicamente vario:
Rosa fresca aulentissima – c’apar’inver la state,
le donne ti disiano – pulzelle e maritate:
traimi d’este focora – se t’este a bolontade.
(Cielo d’Alcamo, Contrasto)
Due parole soltanto. – Dunque dirò così.
Grande fu la sapienza – del mio illustre antenato
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Canone Occidentale - La poesia
Il marchese Alamanno. – Il quale non c’è stato
Nessuno più illustre – e più dotto di esso!
Per cui, diremo noi – questo nobil consesso
È vero, che ha, diremo, – radice in casa mia.
Ma siam tutti suoi figli – anche la libreria.
(Colombi, Il Parini e la satira)
Il doppio ottonario: venne usato raramente. Riportiamo un esempio di Carducci, La
sacra di Enrico Quinto:
Quando cadono le foglie – quando emigrano gli augelli
E fiorite a’ cimiteri – son le pietre de gli avelli,
Monta in sella Enrico quinto – il delfin da’ capei grigi,
E cavalca a grande onore – per la sacra di Parigi.
Il metodo
39
Laboratorio
IL VERSO
1
Riconoscete i seguenti versi, indicando a fianco il numero delle sillabe che li compongono e il nome corrispondente di ciascuno:
VERSO
2
3
NUMERO SILLABE
NOME
Perché di me pietà non vi ritene? __________________
__________________
Ma che vad’io narrando
__________________
__________________
Di doman non c’è certezza
__________________
__________________
Discende l’alba
__________________
__________________
Perché turbàrmi l’ànima
__________________
__________________
Era la parola come vento
__________________
__________________
Andorra serena
__________________
__________________
Riconoscete i seguenti versi, facendo attenzione ad applicare le regole per il calcolo
metrico delle sillabe:
VERSO
NOME
Io son sì stanco sotto ’l fascio antico
_______________________
Questa selva selvaggia ed aspra e forte
_______________________
Venendo qui è affannata tanto
_______________________
Venivano soffi di lampi
Da un nero di nubi laggiù
_______________________
Arbor vittorïosa trïonfale
_______________________
Uno il core, uno il patto, uno il grido:
Né stranieri né oppressori mai più
_______________________
Leggete ad alta voce i seguenti endecasillabi, e segnate a fianco di ciascuno su quali
sillabe cadono gli accenti principali:
Sì lunga guèrra i begli òcchi mi fànno
4ª, 7ª, 10ª
40
Canone Occidentale - La poesia
Mi ritrovài per una sèlva oscùra
________________
Erano i capei d’òro a l’aura spàrsi
________________
Io son sì stanco sotto ’l fascio antico
________________
Poi che se’ sgòmbro de la maggiòr sàlma
________________
Solo d’un lauro tal selva verdeggia
________________
La bella donna che cotanto amavi
________________
Or con sì chiara luce, et con tai segni
________________
VERSI E STROFE
1
Riconoscete i versi che compongono le seguenti strofe:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
__________________
__________________
(Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)
Fate attenzione al finale di verso:
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
__________________
(Manzoni, Il Cinque Maggio)
Dagli atri muscosi, dai Fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta
__________________
(Manzoni, Adelchi, atto terzo, coro)
Soletto su l’orlo d’un lago,
che al rosso tramonto riluce,
v’è un uomo col refe e con l’ago
che cuce
tra l’erica bassa
(Pascoli, Il mendico)
__________________
__________________
__________________
Il metodo
Accusato,
tormentato,
condannato,
sta colui, che in pian di Lècore
prim’osò piantar le viti
41
__________________
__________________
(Redi, Bacco in Toscana)
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
__________________
__________________
(Pascoli, X Agosto)
VERSI PIANI, TRONCHI E SDRUCIOLI
1
Leggendo ad alta voce questi versi, riconoscete se essi sono piani, tronchi o sdruccioli:
Dall’Alpe alle Piràmidi
__________________
La terra al nunzio sta
__________________
La sua cruenta polvere
__________________
Sentier della speranza
__________________
La gloria che passò
__________________
42
Canone Occidentale - La poesia
5. La rima
Prima di analizzare i diversi tipi di rima, occorre sapere cos’è lo schema metrico:
Signori e cavallier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
La bella istoria che ’l mio canto muove;
E vedereti i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo del re Carlo imperatore.
A
B
A
B
A
B
C
C
}
schema metrico
(Boiardo, Orlando innamorato, canto I)
Con schema metrico si indica una descrizione grafica composta da una serie di lettere, in
cui ciascuna di esse indica la rima di un verso. Per costruire lo schema metrico di una poesia vengono usate le lettere dell’alfabeto a partire dalla a: due lettere uguali tra loro stanno ad indicare un episodio di rima.
Per convenzione, si usano le minuscole per i versi inferiori all’endecasillabo, e le maiuscole per i versi uguali o più lunghi dell’endecasillabo.
Si è già visto che la rima ha come sede principale la parte finale del verso.
A volte però si può trovare anche l’uso un po’ artificioso della rimalmezzo (o rima al
mezzo), quando rimano tra loro una parola finale di un verso e una parola nel corpo di un
altro verso:
Vedete, amanti, com’egli è umìle,
Ed è gentile - e d’altero barnaggio,
Ed ha ’l cor saggio - in fina canoscenza.
(Lapo Gianni, Amore i’ non son degno...)
Odi greggi belar, muggire armenti
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri.
(Leopardi, Il passero solitario)
Ci può essere rima anche tra due parole nel corpo dello stesso verso: questo tipo di rima
è un mezzo efficace per richiamare l’attenzione sulle parole che si vogliono sottolineare e
contrapporre:
I tetti adorni
di canto: io sol di pianto il carcer tetro
fo risonar.
(Tasso, Sonetto alla duchessa Margherita)
Il metodo
43
Rima interna: è un tipo di rima che assomiglia alla rimalmezzo; riguarda parole in versi
diversi e può verificarsi anche all’interno dello stesso verso. Le rime interne sono molto
usate nella poesia novecentesca, a sottolineare una scansione dei versi diversa da quella
graficamente riportata:
Noncuranza e dolore avevano saldato il galletto
Di ferro sul tetto delle case e si tolleravano
uniti.
(Vittorio Sereni da René Char)
Rima a coppia: si ha quando i versi sono rimati a due a due:
Lo tesoro comenza.
Al tempo che Fiorenza
fiorio e fece frutto
sì ch’ell’era del tutto
la donna di Toscana
ancora che lontana
ne fosse l’una parte
rimossa in altra parte.
a
a
b
b
c
c
d
d
(Brunetto Latini, Il Tesoretto)
SCHEMA METRICO: aa bb cc dd.
Rima alternata: quando rimano tra loro il primo e il terzo verso, il secondo e il quarto,
alternandosi tra loro:
O tiranno signore
De’ miseri mortali
O male, o persuasore
Orribile di mali.
a
b
a
b
(Parini, Il bisogno)
SCHEMA METRICO: ababab.
Rima baciata: quando due versi consecutivi, dopo una serie di rime alternate, rimano tra
loro:
Già l’aura messaggiera erasi desta
a nunziar che se ne vien l’aurora;
ella intanto s’adorna, e l’aurea testa
di rose colte in paradiso infiora,
quando il campo, ch’a l’arme omai s’appresta
in voce mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr più lieti e canori i segni suoi.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto III)
SCHEMA METRICO: ABABABCC.
A
B
A
B
A
B
C
C
44
Canone Occidentale - La poesia
Rima chiusa o incrociata: quando due versi a rima baciata sono chiusi tra due versi che
rimano tra loro:
Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l’uom pe’ capei di retro acciuffa
il nemico, e lo trae finché lo calchi.
A
B
B
A
(D’Annunzio, La morte del cervo)
SCHEMA METRICO: ABBA.
Rima rinterzata: quando di tre versi non rimati ciascuno trova la rima in tre versi seguenti, o nello stesso ordine o in ordine differente:
Qui cantò dolcemente e qui s’assise;
Qui si rivolse, e qui rattenne il passo;
Qui co’ begli occhi mi trafisse il core,
Qui disse una parola, e qui sorrise
Qui cangiò ’l viso. In questi pensier, lasso
Notte e dì tiemmi il signor nostro, Amore.
A
B
C
A
B
C
(Petrarca, Canzoniere CXII)
SCHEMA METRICO: ABCABC.
Rima incatenata: è quella della Divina Commedia, e si ha quando di tre versi, in cui il
primo rima con il terzo, il secondo dà la rima al primo e al terzo dei tre versi seguenti:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
A
B
A
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
B
C
B
Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
C
D
C
(Dante, Inferno I)
SCHEMA METRICO: ABA BCB CDC.
Il metodo
45
5.1. Particolarità della rima
Rima equivoca: si ha quando la rima è tra parole di identica scrittura, ma di diverso significato (ovvero pur avendo lo stesso suono, non hanno lo stesso significato):
Voglia de dir giusta ragion m’ha porta,
ché la mia donna m’accoglie e m’apporta:
a tutto ciò che mi piace m’apporta.
Or non m’è morte el suo senno, ma porta
di vita dolce, o’ mi pasco e deporto,
ché tanto acconciamente mi dé porto
en tempestoso mar, che vol ch’eo porti
per lei la vita e faccia l’inde apporti.
Ed eo sì fo, pur li piaccia e li porti.
(Guittone d’Arezzo, Rime XII)
In questo esempio le rime sono tutte giocate tra il verbo portare e sostantivi quali porta e
porto. Così abbiamo, ad esempio, la rima equivoca tra primo verso («porta», dal verbo
porgere) e quarto («porta», sostantivo).
Rima ripetuta o identica: si ha quando le parole in rima, oltre ad avere la stessa scrittura, hanno anche lo stesso significato.
A partire dal Trecento questo tipo di rima è considerata troppo facile e banale. Una famosa eccezione a questo divieto è la parola “Cristo” che Dante mette in rima con se stessa
per quattro volte all’interno della Divina Commedia:
...
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
(Dante, Paradiso XII)
L’importanza della parola Cristo, per Dante, è superiore a quella di qualsiasi altra parola:
per questo essa può rimare solo con se stessa.
Rima composta: è un tipo di rima piuttosto raro, e si ha quando, per ottenere la rima,
occorre unire in fine di verso le ultime due parole, di regola composte da una sola sillaba,
pronunziando atona la seconda:
«Che andate pensando sì voi sòl tre?»
Subita voce disse; ond’io mi scossi
Come fan bestie spaventate e poltre
(Dante, Purgatorio XXIV)
46
Canone Occidentale - La poesia
Rima ipèrmetra: è un tipo di rima piuttosto raro; il suo nome viene da iper, che vuol dire
oltre, di più. Si ha quando il verso termina con una parola di cui, per avere la rima, bisogna computare l’ultima sillaba come facente parte del verso seguente (quindi il primo
verso avrà una sillaba in più e il secondo una in meno):
Crescevi sott’occhio che negano
ancora; ed i petali snelli
cadevano: il fiore già lega.
(Pascoli, I due cugini)
Assonanza: si ha quando due versi non finiscono proprio in rima, ma hanno tra loro una
certa concordanza di suoni (nelle ultime parole che formano i versi); è un fenomeno caratteristico soprattutto della poesia popolare.
Si tratta di una concordanza armonica, che può essere prodotta dall’identità delle vocali a
partire dall’accento tonico incluso, ma non delle consonanti delle due parole:
Laudato si’ mi Signore, per frate vento
et per aere, et nubilo, et sereno et omne tempo.
(San Francesco d’Assisi, Cantico delle creature)
Questo tipo di assonanza si chiama assonanza tonica.
L’assonanza atona, invece, si ha quando la vocale accentata è diversa, come la “o” e la
“e” di questo esempio:
Fior di giaggiolo
Gli angeli belli stanno a mille in cielo
Ma bella come te ce n’è uno solo.
(Stornello dalla “Cavalleria rusticana”)
Consonanza: la consonanza è la ripetizione, a partire dalla vocale accentata, di consonanti identiche:
... traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti e soprassalti.
(Montale, Ti libero la fronte dai ghiaccioli)
Il metodo
47
Laboratorio
LA RIMA
1
Riconoscete lo schema metrico di questi gruppi di versi, trascrivendolo a lato con le
lettere corrispondenti. Fate attenzione nell’utilizzare lettere maiuscole o minuscole:
Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
A
B
A
B
C
B
(Pascoli, Il libro)
Ardo d’amore, e conviemme cantare
_____
per una dama che me strugge el cuore;
_____
ch’ogni otta ch’i’ la sento ricordare,
_____
el cor me brilla e par ch’egli esca fuore.
_____
Ella non truova de bellezze pare,
_____
cogli occhi gitta fiaccole d’amore.
_____
I’ sono stato in città e ’n castella,
_____
e mai ne vidi ignuna tanto bella.
_____
(Lorenzo de’ Medici, La Nencia da Barberino)
La vïoletta
_____
che in sull’erbetta
_____
s’apre al mattin novella
_____
dì, non è cosa
_____
tutta odorosa,
_____
tutta leggiadra e bella?
_____
(Gabriello Chiabrera, Rime XVIII)
Quant’è bella giovinezza,
_____
che si fugge tuttavia!
_____
Chi vuol esser lieto, sia:
_____
di doman non c’è certezza.
_____
Quest’è Bacco e Arianna,
_____
belli, e l’un dell’altro ardenti:
_____
perché ’l tempo fugge e inganna,
_____
sempre insieme stan contenti.
_____
48
Canone Occidentale - La poesia
Queste ninfe ed altre genti
_____
sono allegre tuttavia.
_____
Chi vuol esser lieto sia:
_____
di doman non c’è certezza.
_____
(Lorenzo de’ Medici, Canzona di Bacco)
O dolce selva solitaria, amica
_____
de’ miei pensieri sbigottiti e stanchi,
_____
mentre Borea ne’ dì torbidi e manchi
_____
d’orrido giel l’aere e la terra implica;
_____
e la tua verde chioma ombrosa, antica,
_____
come la mia, par d’ognintorno imbianchi,
_____
or, che ’n vece di fior vermigli e bianchi,
_____
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;
_____
a questa breve nubilosa luce
_____
vo ripensando, che m’avanza, e ghiaccio
_____
gli spirti anch’io sento e le membra farsi:
_____
ma più di te dentro e d’intorno agghiaccio,
_____
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
_____
più lunga notte e dì più freddi e scarsi.
_____
(Giovanni Della Casa, Rime LXIII)
Alma cortese, che dal mondo errante
_____
partendo ne la tua più verde etade,
_____
hai me lasciato eternamente in doglia,
_____
da le sempre beate alme contrade,
_____
ov’or dimori cara a quello amante,
_____
che più temer non puoi che ti toglia,
_____
risguarda in terra e mira, u’ la tua spoglia
_____
chiude un bel sasso, e me, che ’l marmo asciutto
_____
vedrai bagnar, te richiamando, ascolta.
_____
(Bembo, Rime CXLII)
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
_____
umile e alta più che creatura,
_____
termine fisso d’etterno consiglio,
_____
tu se’ colei che l’umana natura
_____
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
_____
non disdegnò di farsi sua fattura.
_____
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
_____
Il metodo
per lo cui caldo ne l’etterna pace
_____
così è germinato questo fiore.
_____
49
(Dante, Paradiso XXXIII)
2
Trascrivete a fianco del testo lo schema metrico. Alcuni versi non rimano con nessun
altro: a questi dovrete assegnare una lettera dell’alfabeto che non verrà ripetuta mai
all’interno dello schema metrico.
1 Nostra spiaggia pisana,
_____
2 amor di nostro sangue,
_____
3 vita di sabbie e d’acque
_____
4 silvana e litorana,
_____
5 o ferma creatura
_____
6 nella qual si compiacque
_____
7 un’arte che non langue
_____
8 non trema e non s’offusca,
_____
9 terra lieve e robusta
_____
10 che lineata pare
_____
11 dalla mano sicura
_____
12 del figulo onde nacque
_____
13 il purissimo vaso
_____
(D’Annunzio, I cammelli)
Indicate infine i versi che rimano tra loro:
1-4
_____
_____
_____
50
Canone Occidentale - La poesia
6. Stanze o strofe
Si chiama stanza o strofa (o strofe) un raggruppamento di più versi rimati in un determinato ordine, che di regola si ripete nello stesso modo per tutto il componimento poetico.
La strofa più corta è costituita da versi rimati a due a due, e si chiama coppia.
Esempio di endecasillabi a coppia:
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
A
A
B
B
}
}
prima coppia
seconda coppia
(Pascoli, La cavalla storna)
SCHEMA METRICO: AABB.
La terzina: la terzina più comune è composta di tre versi endecasillabi, legati tra loro da
rima incatenata, secondo lo schema ABA BCB CDC D ecc. È detta anche terzina dantesca,
per l’uso sapiente che ne fece Dante nella sua Divina Commedia:
Chi assaggia le pesche solo un tratto
E non ne vuole a cena e a desinare
Si può dir che sia pazzo affatto affatto,
A
B
A
E ch’alla scuola gli bisogni andare,
Come bisogna agli altri smemorati,
Che non san delle cose ragionare.
B
C
B
Le pesche eran già cibo da prelati,
Ma perché a ognun piace i buon bocconi
Voglion oggi le pesche infino ai frati,
C
D
C
Che fanno l’astinenza e l’orazioni.
D
(Berni, Capitolo in lode delle Pesche)
Si vede qui ben espresso il concetto di schema infinito della terzina, che proseguirebbe,
appunto, fino all’infinito. Per fermarsi e terminare, è necessario che l’ultima rima ricorra
solo due volte, e non tre come tutte le altre: la terza volta che si presentasse, darebbe origine a una nuova rima.
La quartina: è composta da quattro versi che rimano o alternatamente (ABAB) o a rima
chiusa (ABBA). Raramente questa strofa è composta solo da endecasillabi.
Esempio con strofe di 3 endecasillabi e un settenario:
Il metodo
Te, quando sorge o quando cade il die,
E quando il sole a mezzo corso il parte
Saluta il bronzo che le turbe pie
Invita ad onorarte.
Nelle paure della veglia bruna,
Te noma il fanciulletto; a Te, tremante,
Quando ingrossa ruggendo la fortuna,
Ricorre il navigante.
51
A
B
A
b
C
D
C
d
(Manzoni, Il nome di Maria)
SCHEMA METRICO: ABAb CDCd.
La sestina: è composta da sei versi endecasillabi di cui i primi quattro sono a rima alternata, e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABCC:
Rondinella pellegrina,
Che ti posi in sul verone,
Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone,
Che vuoi dirmi in tua favella,
Pellegrina rondinella?
a
b
a
b
c
c
(Tommaso Grossi, Rondinella pellegrina)
L’ottava: assomiglia, come schema metrico, alla sestina, perché i primi sei versi sono a
rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC.
È la strofa tipica dei racconti e dei poemi cavallereschi, epici e eroicomici:
Fra duo guerrieri in terra ed uno in cielo
la battaglia durò sin a quella ora,
che spiegando per mondo oscuro velo,
tutte le belle cose discolora.
Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo:
io ’l vidi, i’ ’l so: né m’assicuro ancora
di dirlo altrui; che questa maraviglia
al falso più ch’al ver si rassimiglia.
A
B
A
B
A
B
C
C
(Ariosto, Orlando furioso, canto II)
Ma perché l’ottava fu tanto usata per i racconti cavallereschi ed epici? Prima di tutto, dobbiamo ricordare che poemi come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata erano l’equivalente dei romanzi di oggi.
Il romanzo come lo conosciamo noi è nato piuttosto di recente, agli inizi del Settecento.
Nei secoli precedenti, anche la narrazione di storie e di imprese era scritta in versi: l’intenzione era quella di realizzare uno svolgimento narrativo più ritmato ed aggraziato.
Inoltre, la prosa veniva considerata un esercizio meno nobile e sofisticato, più facile e di
minor pregio.
I versi e le strofe che meglio si prestavano alla narrazione di storie erano ovviamente quelli più lunghi, poiché permettevano al discorso di fluire più armoniosamente. Così, il metro
principale dei poemi in versi fu l’ottava di endecasillabi.
52
Canone Occidentale - La poesia
7. Versi sciolti e versi liberi
Se l’altre donne dormono in quel giorno
Ed ella può, si riposi tra loro.
E prenda forza a me’ poter vegghiare.
Suo ber sia poco; merenda mi piace,
Poco mangiando, e così nella cena
Troppi confetti e troppe frutta lasci:
Faccia che sia più leggiera che grave.
(Francesco da Barberino, Reggimento e costume di donna)
Versi sciolti: i versi di questo testo sono tutti endecasillabi, con una particolarità: non
rimano tra loro.
La poesia è scritta in versi sciolti, ovvero in versi che non sono legati tra loro attraverso
la rima (ecco perché si chiamano “sciolti”), pur conservando la misura tradizionale dell’endecasillabo.
I versi sciolti vennero usati soprattutto per le traduzioni di grandi opere straniere, dove
sarebbe stato impossibile tradurre inserendo le rime senza stravolgere l’originale.
Versi liberi: non bisogna confondere i versi sciolti con i versi liberi, cioè con quei versi
che non solo non hanno vincolo di rima, ma nemmeno di sillabe e di accenti. Questo tipo
di verso verrà usato sempre più, a partire dall’inizio del Novecento, fino a diventare la
forma poetica dominante del nostro tempo.
L’intenzione dei poeti che cominciarono ad utilizzare il verso libero era quella di rifiutare la tradizione metrica, e rivendicare la possibilità di poter costruire il proprio linguaggio, la propria “metrica”.
Per la metrica tradizionale, la base del verso è costituita dalle sillabe e dalla loro quantità
numerica. Nel verso libero questo aspetto viene a cadere. La sua stessa natura impedisce
di fondare un discorso organico e ordinato che sia sempre valido in ogni situazione: il
verso libero non può essere descritto schematicamente, come i versi della metrica tradizionale, e ogni sua apparizione deve considerarsi unica.
Ma se il verso libero non ha più nessuno dei vincoli della metrica tradizionale, il ritmo
poetico si ottiene in altri modi: ad esempio, attraverso gli accenti, o l’insieme fonico, o la
sintassi contenuta nei versi.
I.
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II.
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Il metodo
53
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III.
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
(Sergio Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale)
Come si vede dall’esempio, verso libero non vuol dire distruzione della poesia come è
stata sempre intesa.
Infatti c’è qualcosa, in questo testo, che ci fa riconoscere che si tratta di una poesia: l’andare a capo segnala la presenza di versi, e l’intero componimento presenta una suddivisione in strofe.
Ma a differenza dei versi della metrica tradizionale, quello che qui dà forma al verso non
è più il numero di sillabe, né la disposizione degli accenti secondo schemi fissi, ma è il
pensiero del poeta. La lunghezza del verso e il pensiero che il verso esprime coincidono
tra loro: il verso (e a un livello superiore la strofa) si “adatta” all’ampiezza del pensiero,
ne assume i movimenti.
In particolare, questo tipo di verso darà vita a un modello che sarà utilizzato a lungo nella
versificazione libera del Novecento, e nel quale la caratteristica peculiare è un’accentuata tendenza a far coincidere il limite del verso con il limite del pensiero, in una libertà conquistata di lunghezza e accenti.
54
Canone Occidentale - La poesia
8. Non tutti i versi sono uguali:
8. due esempi di endecasillabi
Gli studiosi di metrica tendono a esaminare il verso e le forme metriche scomponendo gli
elementi che li costituiscono, assegnando poi una grande importanza agli accenti.
Ma un testo poetico non è fatto solo di accenti: preoccuparsi di essi trascurando il significato delle parole e la sintassi del periodo vuole dire, in definitiva, non occuparsi della poesia e del metro nella loro realtà.
Due poeti che adottino lo stesso metro, ad esempio, potrebbero giungere a risultati assai
diversi:
All’ombra dei cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?...
(Foscolo, Sepolcri)
Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
da Porta Nova a briglie abbandonate.
“Popolo di Milano,” ei passa e chiede,
“Fatemi scorta al console Gherardo”
(Carducci, Canzone di Legnano)
In questi due esempi entrambi i poeti hanno utilizzato endecasillabi sciolti; ma il metro di
Carducci non è lo stesso metro usato dal Foscolo, perché ciò che definisce il metro non è
soltanto il numero delle sillabe o le rime, ma anche il giro sintattico del discorso.
Qui i due poeti si comportano diversamente: Carducci tende a scrivere versi di senso compiuto, e accompagna la nostra lettura come in una sequenza di un film, assegnando a ogni
verso un’immagine.
Il discorso del Foscolo invece tende a uscire dalla misura del verso, a eccedere, a prolungarsi da un verso all’altro, e cattura la nostra attenzione spostando il soggetto in fondo alla
frase. Nonostante i due poeti adottino lo stesso tipo di verso, il risultato è la creazione di
due ritmi e due metri molto diversi tra loro.
Attraverso questo esempio si vuole mostrare che descrivere gli schemi metrici è utile nella
misura in cui si ha la coscienza che ogni poesia è unica, diversa da tutte le altre. Per ascoltare le voci dei poeti non basta contare le sillabe e conoscere le particolarità metriche. Se
lo schema teorico dell’endecasillabo è uno, le possibili elaborazioni di quel verso sono
infinite. Questo perché non si può separare il metro dal significato: il verso nella sua totalità, non nell’astrazione metrica, risulta l’insieme di accenti, di suoni, di significato delle
parole, di parole la cui composizione e lunghezza ha un particolare valore.
Queste osservazioni introducono un nuovo problema: quello del rapporto tra metrica e sintassi.
Il metodo
55
9. Metrica e sintassi
9.1. L’enjambement
“Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Iesù Cristo beato.
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide:
credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato”.
(Foscolo, In morte del fratello Giovanni)
(Jacopone da Todi, XCIII)
I due testi qui riportati mostrano come il rapporto tra metrica e sintassi possa essere diverso.
Se si legge ad alta voce la prima poesia, la lettura del singolo verso risulta continua, mentre tra un verso e l’altro viene spontaneo fare una piccola pausa. La punteggiatura, che
serve proprio per sottolineare le pause, è quasi tutta relegata in fondo al verso.
In questo testo la sintassi corrisponde esattamente alla misura del verso: la frase ha lo
stesso respiro, la stessa lunghezza del verso, e ogni verso contiene un segmento di frase
che può stare a sé, che è già portatore di un significato completo.
Jacopone da Todi ottiene, attraverso l’uso dei settenari e il ritorno insistente della rima, un
ritmo martellante, quasi esasperato. All’interno dei versi, fortemente rimati e ritmati, il
periodo sintattico coincide con il periodo ritmico; i versi funzionano come “gabbie” per le
diverse parti delle proposizioni.
Questo è evidentemente un modello di scrittura poetica, che in molti casi ha dato luogo a
un forte senso di armonia; ma non tutti i poeti hanno cercato questa soluzione.
La seconda poesia mostra un atteggiamento poetico molto diverso: la punteggiatura è
piuttosto fitta ma tutta contenuta all’interno dei singoli versi, e la parte finale di ogni verso
sembra fondersi con l’inizio di quello successivo. Leggendo ad alta voce, si nota che non
c’è corrispondenza tra sintassi e metrica. La pausa che prima sorgeva alla fine del verso
qui non risulta, e la nostra lettura, seguendo la struttura sintattica, prosegue più fluida da
un verso all’altro.
Se proviamo a riscrivere il testo facendo coincidere sintassi e metrica, il risultato sarebbe
questo:
Un dì,
s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente,
me vedrai seduto su la tua pietra,
o fratel mio,
gemendo il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
È un’altra cosa: non esiste più una misura precisa dei versi (che nell’originale sono tutti
56
Canone Occidentale - La poesia
endecasillabi) e vengono a mancare le rime. Oltre a ciò, sicuramente questa riscrittura non
rispetta le intenzioni del poeta.
Quando il senso sintattico di un verso si prolunga in quello seguente, e quindi bisogna
continuare la lettura di verso in verso, ci troviamo di fronte al fenomeno dell’enjambement, termine francese che in italiano si può tradurre con “inarcatura” o “scavalcamento”.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto XII)
In questi due versi l’enjambement avviene tra «trafitta» e «vergine», ovvero tra il participio e il sostantivo a cui si riferisce: è una salda unità che viene incrinata dalla metrica, e
in questo caso si parla di “enjambement forte”.
Questo esempio serve anche per notare che, se andare a capo fosse solo un espediente di
scrittura, non avvertiremmo questo fenomeno, del quale ci accorgiamo in quanto abbiamo
nell’orecchio il ritmo costante del verso, che qui la sintassi in un certo senso infrange e
trasgredisce.
Nella poesia che segue, in alcuni versi metrica e sintassi coincidono, e in altri risultano
sfasate dagli enjambements. Li abbiamo evidenziati:
I
Viene il freddo. Giri per dirlo
tu, sgricciolo, intorno le siepi;
e sentire fai nel tuo zirlo
lo strido di gelo che crepi.
Il tuo trillo sembra la brina
che sgrigiola, il vetro che incrina...
trr trr trr terit tirit...
II
Viene il verno. Nella tua voce
c’è il verno tutt’arido e tecco.
Tu somigli un guscio di noce,
che ruzzola con rumor secco.
T’ha insegnato il breve tuo trillo
con l’elitre tremule il grillo...
trr trr trr terit tirit...
III
Nel tuo verso suona scrio scrio,
con piccoli crepiti e stiocchi,
il segreto scricchiolettio
di quella catasta di ciocchi.
Uno scricchiolettio ti parve
d’udirvi cercando le larve...
trr trr trr terit tirit...
(Pascoli, L’uccellino del freddo)
Il metodo
57
9.2. Paratassi e ipotassi
Con i termini paratassi e ipotassi si indicano due diversi tipi di relazioni sintattiche all’interno di un periodo:
Giacomo è intelligente e farà un ottimo lavoro
Giacomo farà un ottimo lavoro perché è intelligente
Questi due periodi, che si assomigliano tanto, hanno un rapporto sintattico interno diverso.
Il primo è un accostamento di due frasi mediante la congiunzione e; tra esse non c’è nessun tipo di dipendenza, e potremmo leggerle separatamente:
Giacomo è intelligente
Farà un ottimo lavoro
Il secondo invece, è formato da una frase principale (Giacomo farà un ottimo lavoro) da
cui dipende la seconda (perché è intelligente). Leggendo soltanto la seconda frase:
Perché è intelligente
è evidente che manca qualcosa: la principale, appunto.
Paratassi: si ha paratassi quando due o più frasi si succedono, all’interno dello stesso
periodo, senza che tra loro si instauri un rapporto di dipendenza.
In testi organizzati paratatticamente, il significato deriva dall’accostamento delle parole:
... O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? –
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava...
(Pascoli, Calypso)
Ipotassi: si ha ipotassi quando una frase, detta subordinata o dipendente, è retta sintatticamente da un’altra, chiamata principale.
In un testo organizzato ipotatticamente il significato è meno immediato, più complesso ma
anche più preciso, poiché attraverso le subordinate i rapporti temporali, o di causa, o di
relazione sono disposti in maniera ordinata e consecutiva:
Molte isole verdi devon pur esistere
nel profondo e vasto mare dell’Infelicità!
perché il navigante, pallido e sfinito,
possa così ancora continuare il viaggio,
giorno e notte, e poi notte e giorno
58
Canone Occidentale - La poesia
[...]
mentre di sopra il cielo senza sole,
gonfio di nubi, greve sta sospeso,
e dietro la furia dell’uragano
avanza con fulmineo piede,
squarciando vele e tavole e gomene,
finché la nave quasi ha bevuto
la morte dal traboccante mare
(Shelley, Versi scritti sui colli Euganei)
Il metodo
Laboratorio
ENJAMBEMENT
1
Sottolineate gli enjambements contenuti nei seguenti testi:
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e piano piano
va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.
(Pascoli, Il libro)
Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo
all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:
senza fronda né fior, senza il lucente
riso che avevi al tempo che non torna,
senza quel canto. Un’altra sei, più bella.
Ami, e non pensi essere amata: ad ogni
fiore che sboccia o frutto che rosseggia
o pargolo che nasce, al Dio dei campi
e delle stirpi rendi grazie in cuore.
(Ada Negri, Mia giovinezza)
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
(Leopardi, Il passero solitario)
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
(Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità)
59
60
Canone Occidentale - La poesia
10. Le forme metriche
10.1. Sonetto
Un po’ di storia: il sonetto è certamente il componimento metrico più diffuso della nostra
poesia; il suo successo è pressoché costante nei secoli, e prosegue dalle sue origini nel
Duecento (risale infatti ai primissimi tempi della nostra letteratura) fino ai giorni nostri,
favorito dalla sua brevità.
Si ritiene che sia nato in Italia, e che il suo “inventore” fosse Jacopo da Lentini.
In origine, “sonetto” era un qualsiasi testo poetico messo in musica; poi si specificò, e da
canto generico divenne un preciso tipo di componimento.
La struttura: il sonetto è un tipo di componimento che, più di tutti gli altri, mantenne
inalterata la sua struttura nel corso dei secoli.
Il sonetto classico è composto da quattordici versi endecasillabi, ed è diviso in due parti
che prendono il nome di fronte e sirma, composte la prima da otto versi e la seconda da
sei.
La fronte è a sua volta divisa in due parti di quattro versi ciascuna (quartine); la sirma in
due parti di tre versi ciascuna (terzine):
Andando la formica alla ventura
si arrivò in un teschio di cavallo
il qual le parve senza niuno fallo
un palagio reale con belle mura;
e come più cercava sua misura
le parea più chiaro del cristallo
dicendo: – Questo è ’l più bello stallo
ch’al mondo mai vedessi criatura.
Ma quand’ella si fu molto aggirata,
di mangiare le venne gran disìo
e, non trovando che, si fu turbata;
ond’ella disse: – Ancora è meglio ch’io
mi torni al buco ov’io mi sono usata
che morir qui di fame –, e gì con Dio.
}
}
}
}
prima
quartina
seconda
quartina
prima
terzina
seconda
terzina
}
}
A
B
B
A
FRONTE
A
B
B
A
schema
metrico
C
D
C
SIRMA
D
C
D
(Anonimo del Trecento)
Gli argomenti: per quanto riguarda le tematiche trattate, il sonetto si è sempre prestato
agli usi più diversi. Ha cantato tutti gli affetti del cuore umano, ma anche gli sfoghi violenti, le nostalgie, e pure descrizioni complete.
Nel corso della storia di questo componimento troviamo sonetti amorosi, sonetti morali,
ma anche sonetti che trattano quella realtà quotidiana rifiutata dai componimenti ritenuti
più “nobili”, che fanno dunque parte della poesia realistica e burlesca, o “comica”.
Il metodo
61
Laboratorio
Due sonetti a confronto: dei due esempi sotto riportati, il primo è del Trecento, il secondo invece è della fine del Novecento. Si noteranno tante differenze: innanzitutto la lingua
usata, ma anche la disposizione delle parole e le ricerche sonore attraverso la scelta dei
termini. Ciò non toglie che si tratti di due sonetti, aventi tutte le caratteristiche per essere
detti tali.
Pace non trovo, et non ò da far guerra
Pace
nonPetrarca
trovo, et non ò da far guerra
di Francesco
FRANCESCO PETRARCA
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.
A
B
A
B
Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.
A
B
A
B
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.
C
D
E
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.
(da Canzoniere CXXXIV)
C
D
E
Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto,
Per
l’ultimo
di Franco
Fortini dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto
Come nel buio si ritrae lento,
Andrea, questo anno già da sé diviso.
Ora nel vischio del suo fiele intriso
starà così per sempre dunque spento.
A
B
B
A
Ma quel che in noi di anno in anno è deriso
o incompiuto o deforme non lamento:
se uno è vinto e un altro è stato ucciso,
uno ha durato contro lo sgomento.
B
A
B
A
Qui stiamo a udire la sentenza. E non
ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.
A uno a uno siamo in noi già volti.
C
D
E
Quanto sei bella, giglio di Saron,
Gerusalemme che ci avrai raccolti.
Quanto lucente la tua inesistenza.
(da Paesaggio con serpente)
C
E
D
FRANCO FORTINI
62
Canone Occidentale - La poesia
Struttura metrica: lo schema ritmico delle quartine di un sonetto può essere a rima alternata (ABAB ABAB, come nel primo esempio) o a rima chiusa (ABBA ABBA, come nel
secondo esempio). Il primo schema caratterizza la più antica produzione di sonetti; poi
prese il sopravvento il secondo modello.
Fin dall’inizio hanno invece maggiore libertà di rima le terzine che, a differenza delle
quartine, sempre fondate su due rime, possono fondarsi su due (per lo più con schema
CDC CDC oppure CDC DCD) oppure su tre rime (per lo più con schema CDE CDE,
come nel primo esempio). Ma sono possibili anche altri schemi: le terzine del secondo
esempio hanno lo schema CDE CED.
Argomento degli esempi: il primo sonetto affronta una tematica amorosa. Il poeta si
trova in una condizione di instabilità, sospeso tra i differenti stati d’animo che l’amore può
causare. Egli è preda di sentimenti opposti («e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio»;
«Pascomi di dolor, piangendo rido») e desideri contrastanti («et bramo di perir, et cheggio
aita; / et ò in odio me stesso, et amo altrui»). Ogni affermazione porta con sé il suo contrario: alla paura è accostata la speranza, e mentre il poeta brucia, allo stesso tempo è un
ghiaccio; egli si trova in una prigione che l’amata non apre e non chiude, così come Amore
non lo uccide e non lo vuole vivo.
Tutti questi elementi contrastanti tra loro, sono legati per polisindeto della congiunzione
e, cosicché ogni sentimento e il suo contrario vivono nel poeta contemporaneamente.
È una poesia fatta di tensioni e di contrasti, che Petrarca si trova a vivere a causa della
donna amata. La figura retorica che sta alla base di tutto il sonetto è l’ossimoro, cioè l’accostamento di parole dai significati contrapposti (es. “una dolce amarezza”).
Mentre il primo sonetto ha un argomento amoroso ed è rivolto alla donna amata, il secondo tratta dell’amicizia, ed è indirizzato ad un amico poeta. Come si può capire dal titolo,
questo sonetto vuole essere una sorta di bilancio dell’anno appena passato, e una riflessione sul tempo trascorso. Un anno, il 1975, avvelenato («nel vischio del suo fiele intriso»)
dalla perdita di un altro poeta, amico dell’autore del sonetto ma anche del destinatario,
morto nel novembre 1975 in circostanze misteriose: Pier Paolo Pasolini («un altro è stato
ucciso»).
Nell’ultima terzina è contenuta una speranza sul futuro, su quel luogo di pace in cui tutti
ci troveremo (indicato con «giglio di Saron, Gerusalemme»), anche se tale speranza è
ridotta al minimo («quanto lucente la tua inesistenza»).
Alcuni esempi di terzine:
Ma del misero stato ove noi semo
condotte da la vita altra serena
un sol conforto, et de la morte, avemo:
C
D
C
che vendetta è di lui ch’a ciò ne mena,
lo qual in forza altrui presso a l’extremo
riman legato con maggior catena.
D
C
D
(Petrarca, Canzoniere VIII)
So come i dì, come i momenti et l’ore
ne portan gli anni, et non ricevo inganno,
ma forza assai maggior che d’arti maghe.
C
D
E
Il metodo
La voglia et la ragion combattuto ànno
sette et sette anni; et vincerà il migliore,
s’anime son qua giù del ben presaghe.
63
D
C
E
(Petrarca, Canzoniere CI)
1
Riconoscete lo schema metrico di queste terzine, trascrivendolo a lato con le lettere
corrispondenti (C, D, e se occorre E):
Di risa irrefrenabili ai compagni,
e a me di strano fervore argomento,
quando alla scuola i versi recitavo;
_____
_____
_____
tra fischi, cori, animaleschi lagni,
ancor mi vedo in quella bolgia, e sento
solo un’intima voce dirmi bravo.
_____
_____
_____
(Saba, Autobiografia 4)
Privo in tutto son io d’ogni mio bene,
e nudo e grave e solo e peregrino
vo misurando i campi e le mie pene.
_____
_____
_____
Gli occhi bagnati porto e ’l viso chino,
e ’l cor in doglia e l’alma fuor di spene,
né d’aver cerco men fero destino.
_____
_____
_____
(Bembo, Rime XLIII)
Pietosa e bella è in essa ogni mestizia:
e, se rigano i pianti il vago viso,
dice piangendo Amor: – Questo è il mio regno.
_____
_____
_____
Ma, quando il mondo cieco è fatto degno
che muova quella bocca un suave riso,
conosce allor qual è vera letizia.
_____
_____
_____
(Lorenzo de’ Medici, Comento de’ miei sonetti XXIX)
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
64
Canone Occidentale - La poesia
Analisi di un sonetto
di Francescoin
Petrarca
Voi ch’ascoltate
rime sparse il suono
1 Voi ch’ascoltate: il vocativo
plurale con cui si
apre il componimento si estende
all’intera quartina, ma non trova
un compimento:
nella seconda
quartina, infatti,
laddove ci aspetteremmo verbi
alla seconda persona plurale, sono
presenti una terza
(chi) e poi una
prima persona
singolare (spero).
1 rime sparse:
rima è sinonimo
di poesia. Si tratta
di «poesie staccate tra loro», un
modo per tradurre
il titolo latino dell’opera che le
contiene: Rerum
vulgarium fragmenta.
2 ond’io... ’l
core: con i quali
io nutrivo il cuore
FRANCESCO PETRARCA
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono:
del vario stile, in ch’io piango e ragiono,
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
A
B
B
A
5
10
A
B
B
A
C
D
E
C
D
E
(da Canzoniere, I)
(personificato
nella sede della
passione amorosa).
3 in sul... errore:
al tempo del mio
traviamento, iniziato durante la
giovinezza (errore anche nel
senso di errare,
vagare). Si riferi-
sce all’amore per
Laura.
4 in parte: il
poeta è cambiato,
ma non completamente: nonostante
il trascorrere del
tempo e il pentimento espresso in
questo sonetto la
passione per
Laura non è anco-
ra estinta.
5 del vario stile:
corrisponde alle
«rime sparse» del
v. 1, e riguarda le
diverse soluzioni
stilistiche che
Petrarca adotta e
modula ai suoi
sentimenti.
7 ove sia...
amore: se c’è
qualcuno che
conosca il significato dell’amore,
per averlo direttamente provato
(per prova).
8 non che: non
solo.
9 ben... sì: vedo,
mi accorgo chiaramente (ben)
adesso.
Schema metrico: le quartine sono a rima chiusa, mentre le terzine si basano su tre rime
alternate: ABBA ABBA, CDE CDE.
Argomento: in questo sonetto Petrarca si volge indietro a considerare la propria vita, soffermandosi in particolare sull’esperienza amorosa che ne ha occupata gran parte e che è il
fondamento di tutta la sua produzione poetica. Il poeta però non ripercorre i fatti e gli
avvenimenti: si sofferma invece sui sentimenti, sulla propria condizione interiore («sospiri ond’io nudriva il core», «ragiono», «le vane speranze e ’l van dolore», «mi vergogno»),
secondo un’analisi tutta introspettiva, ovvero rivolta all’interno di sé.
Riconsiderando tutto ciò, egli compie una sorta di bilancio della propria esistenza, che
viene descritto nell’ultima terzina: l’amore che Petrarca provò nella sua giovinezza lo
ridusse a «vaneggiar», e ora restano solo «vergogna» e «’l pentersi».
L’ultima considerazione, su cui si chiude il sonetto, è: «quanto piace al mondo è breve
Il metodo
65
sogno». L’amore è stato un vaneggiare, il frutto che ne è derivato è la vergogna; conseguenza di questa è il pentimento, e conseguenza del pentimento, infine, la coscienza amara
della vanità di tutte le cose.
Evidentemente, questo bilancio è del tutto negativo.
Metrica e sintassi: la sintassi di questo sonetto procede di pari passo con il metro, a parte
qualche raro, e comunque debole, enjambement (vv. 1-2: «il suono / di quei sospiri»; vv.
10-11: «sovente / di me medesmo...»). Ogni verso contiene una parte di frase di senso
compiuto, e la voce, durante la lettura, è sollecitata a compiere una piccola pausa tra un
verso e l’altro, adeguandosi alla struttura del sonetto.
Le due quartine sono costruite in modo opposto: la prima comincia con il vocativo «Voi»,
che costituisce il nucleo del periodo dei primi quattro versi. Da questo vocativo dipendono tutte le subordinate che seguono: le relative «ch’ascoltate» e «ond’io nudriva», e la
temporale «quand’era».
Nella seconda quartina questo modo di costruire la sintassi è rovesciato: infatti il nucleo
principale «spero», che equivale al «Voi» della prima quartina e da cui dipendono una
serie di complementi e di proposizioni subordinate, è posto non all’inizio, ma alla fine
della quartina, nel verso conclusivo. Se volessimo schematizzare questo procedimento,
assegnando A ai due nuclei e B alla serie di subordinate, avremmo: AB BA, come se nel
mezzo ci fosse uno specchio a rovesciare lo schema.
Troviamo lo stesso procedimento anche a un livello sintattico più semplice: ad esempio,
nelle coppie di verbi o sostantivi: «piango e ragiono / fra le vane speranze e ’l van dolore», dove l’oggetto del ragionare sono le «vane speranze», mentre quello del piangere è il
«dolore», in una costruzione speculare del tipo AB BA identica a quella vista sopra.
Questo tipo di struttura si chiama chiasmo, una figura che può riguardare interi periodi, ma
anche, a livello più semplice, coppie di termini (ad esempio: «Le donne, i cavalier, l’arme,
gli amori» è un chiasmo, anch’esso rappresentabile attraverso lo schema AB BA: a «donne»
si accostano, per relazione semantica, «gli amori», mentre ai «cavalier» «l’arme»).
Le terzine segnalano la distanza e lo stacco dalle quartine anche con il forte avversativo
«Ma» del v. 9. Se nella prima parte del sonetto il poeta si rivolge a un «Voi», in questa
seconda parte si volge su se stesso: i verbi passano alla prima persona singolare («ben veggio», «favola fui»).
La presenza dell’io del poeta è sottolineata dal pronome possessivo di prima persona del
v. 12 («mio vaneggiar») e dalla ripetizione del pronome personale del v. 11: «di me medesmo meco mi vergogno».
Mentre le due quartine comprendono lunghi periodi costituiti da numerose subordinate, le
due terzine sono sintatticamente più semplici: ci sono meno subordinate e un notevole utilizzo del polisindeto, ovvero del legame per congiunzioni («e del mio vaneggiar..., e ’l
pentersi, e ’l conoscer»). Queste frasi coordinate rendono il senso dell’incalzare dell’analisi introspettiva che ha luogo nella seconda parte del testo, ed evidenziano la successione dei passaggi, uno conseguente all’altro, che il poeta ha vissuto e vive: dal «vaneggiar»
alla «vergogna», al «pentimento», infine al «conoscer chiaramente». Con queste frasi più
brevi, e con uno stile più rigoroso, Petrarca sottolinea il tono più duro e desolato della
seconda parte del sonetto. La conclusione di questa poesia, come si è visto, è piuttosto
amara: tutte le cose sono vane, sono solo un «breve sogno».
Lessico: questo sonetto di Petrarca è una poesia di aggettivi e sostantivi: sono essi, infatti, a
trasmettere il significato profondo del testo e a indicare ciò che l’autore vuole comunicarci.
66
Canone Occidentale - La poesia
Gli aggettivi, non particolarmente numerosi, sono: «sparse», «vario», «vane», «van»,
«breve». Come si vede, rimandano tutti allo stesso campo semantico (di significato) di
vanità e di varietà, e allo stesso tempo indicano qualcosa di frantumato e sparso. L’unico
aggettivo che sembrerebbe non conformarsi a questa tendenza è «giovenile»: ma se lo
accostiamo al suo sostantivo di riferimento («errore») anche questo risulta essere connotato negativamente. Nel bilancio che il poeta trae della propria vita, la gioventù è vista
come il tempo del correre dietro alle cose vane (il poeta insiste sul concetto della vanità
anche attraverso il verbo «vaneggiar»).
Tra i sostantivi troviamo «rime», «suono» e «stile», direttamente riconducibili all’esperienza del fare poesia; «sospiri» e «dolore», a indicare uno stato d’animo tormentato e sofferente; «errore», «favola», «vergogna» e «sogno», parole fondamentali per l’interpretazione del sonetto.
Struttura fonica: all’interno del sonetto c’è un fonema che ritorna assai frequentemente,
la /v/, che compare in quasi tutti i versi, spesso in parole molto importanti per il senso di
questa poesia: il vocativo iniziale «Voi», il verbo «nudriva», gli aggettivi «giovenile»,
«vario», «vane» di cui si è parlato prima, il verbo alla prima persona «veggio», il sostantivo «favola» riferito alla propria condizione passata, e soprattutto all’interno delle due
parole su cui Petrarca insiste maggiormente, ovvero «vergogna» e «vaneggiar». Questa
frequenza dello stesso fonema si avverte ad una lettura ad alta voce, e conferisce una sonorità morbida all’intero sonetto.
Tra le vocali, spicca per maggior presenza la /o/. Nelle quartine la costante assonanza in
o accresce un senso di monotonia, che ritorna nei versi finali, soprattutto nella parola
«sogno», che si contrappone e corrisponde alla prima parola in rima del sonetto: «suono».
Elementi di retorica: oltre alla presenza delle strutture a chiasmo già segnalate, si nota
un forte uso dell’allitterazione, ovvero della ripetizione dello stesso suono: ad esempio,
in «me medesmo meco mi» essa sottolinea la forte presenza dell’io attraverso la messa in
rilievo del pronome di prima persona.
L’allitterazione più significativa riguarda due parole ripetute più volte all’interno del testo
in diverse forme, fino ad essere accostate nel v. 12: «vaneggiar vergogna», dove l’allitterazione che le lega mette in evidenza il rapporto di causa ed effetto tra due momenti della
vicenda interiore, ovvero l’errore e la vergogna che ne consegue.
Il metodo
67
10.2. Ballata
Un po’ di storia: la ballata è forse il genere poetico più antico della poesia italiana, derivato nel Duecento dalla poesia Provenzale (sorta nel Sud della Francia). Si tratta di un
componimento di origine popolare, che viene distinto in particolare dalla canzone, come
vedremo, per una maggior semplicità.
La ballata veniva composta per essere cantata e danzata, come suggerisce il nome stesso,
in una specie di giro-giro-tondo.
La struttura: il coro, disposto in cerchio, compiendo movimenti in un senso intonava la
prima parte della poesia, detta ripresa (cioè ritornello, che si cantava in coro all’inizio di
ogni strofa).
Poi il solista, che di solito stava in mezzo al cerchio composto dal coro, cantava una parte
della strofa, detta prima mutazione, a cui si associava un mezzo giro in senso inverso di
quello della ripresa; fatto ciò, il solista cantava la seconda mutazione, identica alla prima
per forma metrica e musica, e tutti compivano un altro mezzo giro in senso inverso al precedente.
Poi tutti insieme si cantava la volta, compiendo un giro intero in direzione opposta a quella della ripresa: in questo modo ciascuno tornava al posto in cui si trovava all’inizio del
ballo. Perché ciò avvenisse, la volta doveva essere metricamente identica alla ripresa.
L’ultimo verso della volta rima sempre con l’ultimo della ripresa.
Il numero delle strofe che compongono la ballata è variabile; non di rado se ne trovano di
una strofa sola.
Di tempo in tempo mi si fa men dura
l’angelica figura, e ’l dolce riso,
et l’aria del bel viso
e degli occhi leggiadri meno oscura.
Che fanno meco omai questi sospiri,
che nascean di dolore
et mostravan di fore
la mia angosciosa et desperata vita?
S’aven che ’l volto in quella parte giri
per acquetare il core,
parmi vedere Amore
mantener mie ragion, et darmi aita:
né però trovo anchor guerra finita,
né tranquillo ogni stato del cor mio,
ché più m’arde ’l desio,
quanto più la speranza m’assicura.
}
}
}
}
RIPRESA
metricamente uguale alla volta
PRIMA MUTAZIONE
metricamente uguale alla seconda mutazione
SECONDA MUTAZIONE
metricamente uguale alla prima mutazione
VOLTA
metricamente uguale alla ripresa
(Petrarca, Canzoniere CXLIX)
Lo schema più tipico della ballata è il seguente (che non esclude modifiche):
- xyyx (ripresa);
- ab (prima mutazione);
- ba (seconda mutazione);
- bccx (volta) + ripresa, ecc.
68
Canone Occidentale - La poesia
Quando si trascrive lo schema metrico di una ballata, è sufficiente farlo per la prima strofa, tralasciando la ripresa (che apre il testo): infatti lo schema della ripresa è identico a
quello della volta, e quindi è compreso in quello della strofa.
Gli argomenti: la ripresa svolge una funzione molto importante, perché presenta il tema
e il motivo dominante di tutto il componimento.
Gli argomenti delle ballate sono soprattutto motivi gentili, eleganti o scherzosi; in particolare è l’amore, in tutte le sue sfumature, a trovare un ruolo da protagonista.
Ma la ballata si adattò anche ad altri temi, non esclusivamente a quelli leggeri e scherzosi
o all’amore. Essendo un tipo di componimento semplice e popolare, era particolarmente
adatto per essere divulgato. Fu così che nacque la lauda, ovvero la ballata di argomento
sacro e religioso. Il più grande compositore di laude fu indubbiamente Jacopone da Todi.
Classificazione delle ballate ed esempi: la ballata viene definita in base al numero di
versi che compongono la ripresa (e dunque anche la volta).
1) Ripresa di un solo verso settenario: ballata minima (assai rara)
Giovinetta, tu sai
ch’i’ son tuo servidore,
merzé del mio dolore
che mi consuma e non ho posa mai!
Ripresa
Prima mutazione
Seconda mutazione
Volta
}
Strofa
(Frescobaldi, Giovinetta, tu sai)
2) Ripresa di un solo verso endecasillabo: ballata piccola (anche di questa ci sono pochi
esempi)
Testina d’oro, cantano già i galli.
Dicono i galli: – Padrona amorosa,
alzatevi di letto, ch’è già l’ora! –
Ma tu segui a sognar d’esser sposa,
ne la pulita casa la signora.
Cantano i galli, ma tu dormi ancora
e il sole è già su’ monti e ne le valli.
}
}
}
}
Ripresa
Prima mutazione
Seconda mutazione
Volta
}
Strofa
(Severino Ferrari)
Questo è un esempio molto particolare, perché le mutazioni hanno un numero di versi
maggiore della ripresa (cosa che di regola non avviene), e la volta non è identica per
numero di versi alla ripresa. Queste eccezioni erano abbastanza frequenti nelle ballate
minime e piccole.
3) Ripresa di due versi: ballata minore
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d’intorno vïolette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli,
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornare e mie’ biondi capelli,
e cinger di grillanda el vago crino.
...
}
}
}
}
Ripresa
Prima mutazione
Seconda mutazione
Volta
(Angelo Poliziano, I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino)
}
Strofa
Il metodo
69
Questa ballata minore è composta esclusivamente da endecasillabi.
4) Ripresa di tre versi: ballata mezzana
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.
}
I’ vidi a voi, donna, portare
ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile;
e ’n suo cantar sottile
dicea: «Chi mi vedrà
lauderà ’l mio signore».
}
}
Ripresa
Prima mutazione
Seconda mutazione
}
Volta
}
Strofa
}
Strofa
(Dante, Rime LVI)
5) Ripresa di quattro versi: ballata grande
Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore
e con lui vade a madonna davante,
sì che la scusa mia, la qual tu cante,
ragioni poi con lei lo mio segnore.
Tu vai, ballata, sì cortesemente,
che sanza compagnia
dovresti avere in tutte parti ardire:
ma, se tu vuoli andar sicuramente,
retrova l’Amor pria,
ché forse non è bon sanza lui gire;
però che quella che ti dee audire,
sì com’io credo, è ver’ di me adirata;
se tu di lui non fossi accompagnata,
leggermente ti farìa disnore.
}
Ripresa
}
}
Prima mutazione
}
Volta
Seconda mutazione
(Dante, Vita Nuova XII)
Con questo esempio dantesco, notiamo una particolarità della ballata: spesso essa veniva
inviata, diremo quasi “spedita” dal poeta alla sua donna (in questo caso, Dante lo fa per
chiedere scusa di qualche suo errore, e siccome la donna è arrabbiata con lui, manda a lei
la ballata in compagnia di Amore, così da convincere la donna a perdonarlo). Notiamo che
le due mutazioni sono costituite da due endecasillabi alternati a un settenario, mentre tutti
gli altri versi della ballata sono endecasillabi.
6) Ripresa di cinque o sei versi: ballata stravagante
Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
}
Ripresa
70
Canone Occidentale - La poesia
Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.
Prima mutazione
}
}
Seconda mutazione
}
Volta
}
Strofa
(Guido Cavalcanti, Rime XXXV)
Come riconoscere una ballata. Per riconoscere il tipo di ballata c’è un modo piuttosto
semplice: i versi sono raggruppati in strofe, e la prima di esse è sempre la ripresa (spesso
separata dalle altre strofe per mezzo di una riga bianca). Contando il numero di versi che
compone il primo gruppo, sappiamo subito riconoscere se la ballata è minima, piccola,
minore, o grande ecc.
Laboratorio
1
Trascrivete a fianco della ballata lo schema metrico delle rime, utilizzando le lettere
dell’alfabeto e scegliendo, in base al tipo di versi, se usare le maiuscole o le minuscole.
Testina d’oro, cantano già i galli.
Dicono i galli: – Padrona amorosa,
alzatevi di letto, ch’è già l’ora! –
Ma tu segui a sognar d’esser sposa,
ne la pulita casa la signora.
Cantano i galli, ma tu dormi ancora
e il sole è già su’ monti e ne le valli.
Ripresa
}
}
}
Prima mutazione
Seconda mutazione
Volta
}
_____
_____
_____
Strofa _____
_____
_____
(Severino Ferrari)
2
Nella seguente strofa di ballata dantesca, oltre allo schema delle rime, completate la
struttura delle varie parti che la compongono:
Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore
e con lui vade a madonna davante,
sì che la scusa mia, la qual tu cante,
ragioni poi con lei lo mio segnore.
RIPRESA
Tu vai, ballata, sì cortesemente,
che sanza compagnia
dovresti avere in tutte parti ardire:
_________
_____
_____
_____
ma, se tu vuoli andar sicuramente,
retrova l’Amor pria,
ché forse non è bon sanza lui gire;
_________
_____
_____
_____
Il metodo
però che quella che ti dee audire,
sì com’io credo, è ver’ di me adirata;
se tu di lui non fossi accompagnata,
leggermente ti farìa disnore.
71
_____
_____
_____
_____
_________
(Dante, Vita Nuova XII)
Analisi di una ballata
Fresca rosa novella
GUIDO CAVALCANTI
Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando,
vostro fin presio mando – a la verdura.
Lo vostro presio fino
in gio’ si rinovelli
da grandi e da zitelli
per ciascuno camino;
e càntine gli auselli
ciascuno in suo latino
da sera e da matino
su li verdi arbuscelli.
Tutto lo mondo canti,
po’ che lo tempo vène,
sì come si convene,
vostr’altezza presiata:
ché siete angelicata – crïatura.
5
a
b
b
a
b
a
a
b
c
d
d
e
(e) X
Angelica sembranza
in voi, donna, riposa:
Dio, quanto aventurosa
fue la mia disïanza!
Vostra cera gioiosa
poi che passa e avanza
natura e costumanza,
ben è mirabil cosa.
Fra lor le donne dea
vi chiaman, come sète;
1 novella: appena
sbocciata.
3 prata... rivera:
per prati e per la
campagna.
5 vostro... verdu-
ra: il vostro fine
pregio comunico
alla natura verdeggiante.
7 in gio’ si rinovelli: venga rin-
10
15
20
25
novato con canti
di gioia.
8 zitelli: piccoli.
9 per ciascuno
camino: in tutte
le strade.
11 in suo latino:
nel suo verso, linguaggio.
12 po’... vène:
poiché viene la
stagione primave-
rile (lo tempo).
17 vostr’altezza
presiata: la
vostra preziosa
nobiltà.
20 riposa: si
trova.
21 aventurosa:
fortunata.
22 disïanza: desiderio.
23 cera: viso,
volto.
24 avanza: trascende, va oltre.
25 costumanza:
la bellezza abituale, solita.
72
Canone Occidentale - La poesia
tanto adorna parete,
ch’eo non saccio contare;
e chi poria pensare – oltra natura?
29 adorna: ornata
di ogni qualità.
30 ch’eo... contare: che io non lo
so dire.
31 chi... natura?:
chi può andare
col pensiero al di
là della natura,
delle capacità
umane?
33 piasenza: bellezza.
34-35 per...
sovrana: affinché
nell’anima (per
essenza) voi foste
superiore (sovrana) alla natura
umana.
36 parvenza:
aspetto, sembianza.
37 luntana: sde-
30
Oltra natura umana
vostra fina piasenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana:
per che vostra parvenza
ver’ me non sia luntana;
or non mi sia villana
la dolce provedenza!
E se vi pare oltraggio
ch’ ad amarvi sia dato,
non sia da voi blasmato:
ché solo Amor mi sforza,
contra cui non val forza – né misura.
gnosa.
38 villana: nemica. Questa parola
indica il contrario
dell’atteggiamen-
to cortese.
40 oltraggio:
eccessivo.
41 sia dato: io mi
dedichi.
42 blasmato: biasimato, disapprovato.
44 non val...
misura: non ser-
35
40
vono né la forza
d’animo (la
costanza) né la
saggezza
(misura).
Schema metrico: ballata stravagante, cioè con una ripresa composta da 5 versi (4 settenari e un endecasillabo formato da un settenario più un quinario, con rima al mezzo).
Schema delle rime: le due mutazioni hanno uno schema metrico a rima chiusa (due versi
a rima baciata chiusi tra due versi che rimano tra loro, secondo lo schema ABBA) e invertito: prima mutazione abba, seconda mutazione baab.
La volta, che ha lo stesso numero di versi della ripresa (5), ha un primo verso che non
rima con nessun altro, e ha nell’endecasillabo finale una rima interna con il settenario precedente (all’interno del v. 18 «angelicata» rima con il v. 17 «presiata»).
Schema della volta: cdde(e)X. La e tra parentesi indica la rima al mezzo, con la maiuscola si indica l’endecasillabo, e con la minuscola ogni verso di lunghezza inferiore all’endecasillabo.
L’ultimo verso di ogni strofa, com’è consuetudine nelle ballate, rima con il verso finale
della ripresa.
Lo schema generale, dunque, è: abba baab cdde(e)X.
Argomento: l’argomento è amoroso, e il soggetto è la figura di una donna vista come
creatura angelica, inserita in un paesaggio di natura rigogliosa. L’ambientazione primaverile è descritta nei suoi caratteri più tipici: troviamo la «rosa», i «prata», le «rivera», la
«verdura» (intesa come natura verdeggiante), e una serie di aggettivi che ne sottolineano
la delicatezza: «fresca», «novella», «piacente».
Su questo sfondo fatto di primavera e del rinascere della vita emerge il “pregio” dell’amata, che il poeta vuole comunicare attraverso una poesia piena di gioia («gaiamente cantando», dato che la ballata era accompagnata dalla musica e destinata al canto).
Il metodo
73
Ma il poeta non è l’unico a cantare le lodi della donna: tutto il creato ne è coinvolto. Gli
uomini, giovani e vecchi, gli uccelli dai canti melodiosi, «tutto lo mondo» collabora alla
lode di questa donna così nobile da somigliare agli angeli.
Alcuni accorgimenti tecnici e formali ci permettono di avere una impressione di delicata ed equilibrata armonia:
Metrica: dal punto di vista metrico, bisogna innanzitutto sottolineare la disposizione delle
rime: all’interno di ogni strofa c’è una rima doppia nel verso conclusivo, che rimanda al
verso precedente; oltre a ciò, le rime che chiudono ogni strofa sono tra loro identiche
(«verdura», «criatura», «natura», «misura»).
Attraverso questi rimandi, l’effetto della rima risulta raddoppiato, poiché si forma una circolarità sia all’interno delle parti (strofe) che fra le parti e il tutto (la canzone).
Le strofe di cui è composta questa ballata sono capfinidas: questo significa che un concetto o una parola dell’ultimo verso di una strofa è ripreso nel primo verso della strofa successiva (vv. 5 e 6: «vostro fin presio» e «Lo vostro presio fino»; vv. 18 e 19: «siete angelicata» e «Angelica»; vv. 31 e 32: «oltra natura» e «Oltra natura»).
Questo espediente attribuisce al testo una maggiore unità e funge da forte legame fra una
strofa e l’altra.
Lessico: un altro accorgimento tecnico che stabilisce ulteriormente la continuità all’interno del testo è l’uso del lessico. Molti vocaboli sono ripresi più volte all’interno della ballata, in varie forme:
«novella» / «rinovelli», «cantando» / «cantine» / «canti», «presio» / «presio» / «presiata»,
«verdura» / «verdi», «fin» / «fino» / «fina», «gaiamente» / «gio’» / «gioiosa», «angelicata» / «angeli».
Se poi si considera la natura di queste parole, si noterà che esse sono parole-chiave per il
testo: esprimono infatti i concetti principali della poesia, cioè il canto, la gioia e il “pregio” inteso come nobiltà, come qualcosa di prezioso (la donna amata).
74
Canone Occidentale - La poesia
10.3. Canzone
Un po’ di storia: le origini della canzone sono piuttosto antiche. Molto probabilmente
deriva dalla ballata, a cui somiglia molto nella struttura. Ma mentre la ballata nasce come
componimento accompagnato da musica, e quindi di carattere più popolare, la canzone
mira ad essere un puro testo poetico, tralasciando l’esecuzione di musica e ballo. Inoltre
la canzone nasce come un componimento individuale: per questo motivo la ripresa, cioè
quella parte che veniva cantata coralmente nella ballata, è assente.
La struttura: mancando la ripresa, l’elemento principale della canzone è la strofa o stanza.
Non esiste un numero prestabilito di stanze che formano la canzone, né di versi che compongono la singola stanza: la canzone è un componimento che lascia molta libertà al
poeta, anche per quanto riguarda lo schema delle rime.
Ma una volta costruita la prima strofa, tutte quelle che seguono devono essere identiche
ad essa, eccetto che nelle rime.
La prima stanza infatti dà la forma a tutte le altre (anche se può capitare che la canzone
sia composta da una sola stanza).
La struttura della canzone è piuttosto complessa: la stanza si suddivide in due parti, la
fronte e la sirma (coda, strascico).
La fronte può a sua volta suddividersi in due parti che si chiamano piedi, composti solitamente da un minimo di due a un massimo di sei versi (ma le forme più comuni erano di
due, tre o quattro versi, endecasillabi o endecasillabi misti a settenari, disposti con lo stesso ordine nei due piedi).
Esempio di fronte composta da piedi di tre endecasillabi:
Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita
}
}
primo piede
secondo piede
}
FRONTE
La sirma, quando è formata da un numero dispari di versi, è indivisibile; se è composta
da un numero pari di versi, può suddividersi in due o più parti, dette volte.
La struttura della sirma è indipendente da quella della fronte, sia per numero di versi che
per posizioni di rime. Ma, come per i piedi che compongono la fronte, anche le volte in
cui si può suddividere la sirma devono essere identiche tra loro.
Quando l’ultimo verso della fronte rima con il primo della sirma, questo prende il nome
di chiave.
La stanza di canzone di cui si sono riportati i primi versi prosegue così:
et come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vita experto
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.
(Petrarca, Canzoniere CXXIX)
chiave
}
SIRMA
75
Il metodo
In questo esempio la sirma è indivisibile, e ha la chiave.
Nell’esempio seguente, invece, la sirma è divisibile in volte e manca la chiave:
Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso
inver lo grande orgoglio
che voi bella mostrate, e no m’aita.
Oi lasso, lo meo core,
che ’n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita.
Dunque mor’e viv’eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che non faria di morte – naturale
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra ’mistate – vidi male.
}
}
}
}
primo piede
secondo piede
prima volta
seconda volta
}
FRONTE
}
SIRMA
(Jacopo da Lentini, Madonna, dir vo voglio)
Il congedo: spesso la canzone termina con una strofa più breve, che ha lo schema di tutta
la sirma o di una parte di essa, chiamata congedo o commiato: in essa il poeta si congeda
dalla sua canzone e la invia alla persona per cui l’ha composta.
Laddove in una canzone c’è il congedo, è l’unica strofa che può essere diversa dalla prima.
Esempio di congedo:
Canzonetta gioiosa,
va’ a la fior di Sorìa,
a quella c’ha in pregione lo mio core;
di’ a la più amorosa,
che per sua cortesia
si rimembri del suo servidore:
quelli che per suo amore va penando
mentre non faccio tutto il suo comando;
e priegalami per la sua bontate
che la mi degia tener lealtate.
(Federico II, Oi lasso, non pensai)
Riassumendo le caratteristiche indispensabili della canzone, essa è composta da un
numero variabile di strofe che però hanno tra loro uguaglianza di:
- numero di versi;
- disposizione di versi;
- misura di versi corrispondenti all’interno delle strofe;
- schema ritmico (ma non necessariamente uguaglianza di rime, che anzi di norma cambiano da una stanza all’altra).
76
Canone Occidentale - La poesia
Il verso prevalente: a partire da Dante, il verso prevalente della canzone è l’endecasillabo, che può venire alternato al settenario (raramente al quinario). Strofe di endecasillabi
e settenari risultano particolarmente armoniche perché il settenario è una parte di cui si
compone l’endecasillabo.
Gli argomenti: Dante descrisse minuziosamente la canzone nel De vulgari eloquentia,
rivendicandone la nobiltà di pensiero, di stile e di struttura metrica. Egli definisce la canzone come la forma più alta della lirica, adatta allo stile elevato, alla quale vanno assegnati argomenti altrettanto elevati: amore, armi e virtù.
Gli schemi più tipici della canzone sono due:
1) Fronte divisibile in primo piede e secondo piede + Sirma indivisibile
2) Fronte divisibile in primo piede e secondo piede + Sirma divisibile in prima volta e
seconda volta
Di questi schemi, il più comune è il primo.
Laboratorio
Esempio del primo schema
Fronte divisibile in primo piede e secondo piede + Sirma indivisibile
Vergine bella, che di Sol vestita
Vergine
bella, che di Sol vestita
di Francesco Petrarca
FRANCESCO PETRARCA
Vergine bella, che di Sol vestita,
Coronata di stelle, al sommo Sole
Piacesti sì, che in te Sua luce ascose,
A
B
C
Amor mi spinge a dir di te parole;
Ma non so incominciar senza tu’ aita,
E di Colui che amando in te si pose:
B
A
C
Invoco lei che ben sempre rispose,
Chi la chiamò con fede.
Vergine, s’ a mercede
Miseria estrema de l’umane cose
Già mai ti volse, al mio prego t’inchina;
Soccorri alla mia guerra,
Bench’ i’ sia terra – e tu del ciel regina.
C
d
d
C
E
f
(f) E
}
}
primo piede
secondo piede
(chiave)
}
fronte
}
sirma
(da Canzoniere, CCCLXVI)
Schema metrico dell’esempio: in questa stanza di canzone, la fronte è suddivisa in due
piedi di tre endecasillabi ciascuno, con rime ABC BAC.
La sirma, essendo composta da un numero dispari di versi (7) è indivisibile.
I tipi di versi che la compongono sono endecasillabi e settenari.
Rime della sirma: CddCEf(f)E (tra parentesi si indica la rima interna «guerra»/«terra»).
Schema dell’intera stanza: ABC BAC CddCEf(f)E.
Argomento dell’esempio: questa canzone, di cui è riportata solo la prima stanza, è il
componimento che chiude il Canzoniere di Petrarca, una raccolta di 365 poesie dedicate
77
Il metodo
all’amore della sua vita, Laura. Ma l’ultimo testo della raccolta è dedicato alla figura femminile per eccellenza: la Madonna, alla quale il poeta si rivolge come a una figura materna alla quale chiedere aiuto, conforto e sostegno nelle battaglie della vita.
Esempio del secondo schema
Fronte divisibile in primo piede e secondo piede + Sirma divisibile in prima volta e seconda volta
Io sento sì d’Amor la gran possanza
Io sento sì d’Amor la gran possanza,
ch’io non posso durare
lungamente a soffrire, ond’io mi doglio;
A
b
C
però che ’l suo valor si pur avanza,
e ’l mio sento mancare
sì ch’io son meno ognora ch’io non soglio.
A
b
C
Non dico ch’Amor faccia più ch’io voglio
ché, se facesse quanto il voler chiede,
quella vertù che natura mi diede
nol sosterria, però ch’essa è finita:
ma questo è quello ond’io prendo cordoglio,
C
D
D
E
C
che a la voglia il poder non terrà fede;
e se di buon voler nasce merzede,
io l’addimando per aver più vita
da li occhi che nel lor bello splendore
portan conforto ovunque io sento amore.
D
D
E
F
F
DANTE ALIGHIERI
}
}
}
}
primo piede
secondo piede
}
fronte
}
sirma
(chiave)
prima volta
seconda volta
distico
finale
(da Rime XXXVIII)
Schema metrico dell’esempio: in questa stanza di canzone dantesca, la fronte è suddivisa in due piedi formati da due endecasillabi, a cui si frappone un settenario, con rime AbC
AbC.
La sirma è composta da un numero pari di versi, quindi è divisibile in due volte. Il primo
verso della sirma è la chiave.
Rime della sirma: C DDEC DDEFF. I versi che compongono la sirma sono tutti endecasillabi, e gli ultimi due formano un distico a rima baciata.
Schema dell’intera stanza: AbC AbC CDDEC DDEFF.
Argomento dell’esempio: questa canzone tratta un argomento amoroso: l’Amore è personificato in un signore potente («gran possanza») al quale obbedire. Ma quanto più
Amore esercita il suo potere, tanto più il poeta sente di perdere le proprie forze. C’è una
contraddizione insanabile, poiché se Amore facesse quanto il poeta desidera, la capacità
umana (il «poder») non potrebbe sostenerlo: e così Dante si duole doppiamente, perché la
sua capacità non è in grado di sostenere l’ampiezza del suo desiderio.
78
Canone Occidentale - La poesia
Analisi di una canzone
I dì già involan parte
GIOVANNI GUIDICCIONI
I dì già involan parte
di Giovanni Guidiccioni
1 involan: sottraggono (ovvero:
i giorni si allungano).
2-3 le stelle...
perde: con la
scomparsa delle
costellazioni
invernali il freddo
diminuisce.
5 Driope: il fiore
del loto.
5-6 le sorelle...
morio: figure
mitologiche,
sorelle di Fetonte:
dopo la morte del
fratello, precipitato nel Po per non
aver saputo condurre il carro del
Sole, furono trasformate in pioppi.
9 persi: colore
scuro, bruno.
11 Giacinto ed
Adone: si tratta
ancora di fiori, i
giacinti e gli anemoni.
13 lascive aurette: brezze capricciose.
29 schiera: gregge.
37 ne l’acerba
stagion: in gioventù.
39 mi rendo: mi
dedico.
40 diviso: è da
unire a «have»
del v. 42.
41-42 sì tosto...
dispietato: quando mi innamorai.
44 rai: raggi,
metafora assai
ricorrente per
I dì già involan parte
de la notte, e le stelle
noiose dipartendo, il freddo perde;
vedesi a parte a parte
e Driope e le sorelle
di quel che ’n Po morio, vestir di verde;
ogni bosco rinverde,
e i prati son dipinti
di fior persi e vermigli;
or gli odorati gigli
e Giacinto ed Adone, ancora tinti
di sangue, apron appieno
a le lascive aurette il vago seno.
5
10
...
[seconda stanza, in cui prosegue la descrizione della primavera]
E ’l pastorel, cantando
a le fresch’ombre, mira
con occhio lieto la sua dolce schiera.
Ma che vad’io narrando,
se il cor langue e sospira,
quante scopre ricchezze primavera?
Perché la storia vera
de’ mie’ infiniti mali
(bastando dir ch’Amore
m’assalse e punse ’l core
ne l’acerba stagion co’ fieri strali)
non raccont’io piangendo
e a disfogar il mio dolor mi rendo?
Dico ch’Amor diviso,
sì tosto com’io entrai
sotto il suo giogo dispietato, m’have
da l’angelico viso,
da’ chiari e caldi rai
degli occhi e da la tanta onestà grave,
dal ragionar soave
ch’addolcia le mie pene:
ma più, lasso! m’attrista
che la beata vista
indicare: sguardi.
45 onestà grave:
indica l’atteggiamento nobile e
decoroso della
donna amata.
30
35
40
45
49 che: il fatto
che.
Il metodo
mi chiuda allor ch’in fronte a scherzar viene
tra gl’irti capei d’oro
e inanellati, ond’io mi discoloro.
Pur crederei tenermi,
fra tante pene, in vita,
fra quante Amor mi ruota indegnamente;
ch’agli occhi tristi e ’nfermi
talor la mente ardita
il bel volto disegna e quell’ardente
luce, ove dolcemente
piove Amor gioia pura;
ma s’agghiacciano i sensi
quando avvien poi ch’i’ pensi
che il mio ricco tesoro altri mi fura,
e ’n guisa manco e tremo,
ch’a gran giornate vo verso l’estremo.
50
55
60
65
Dir puoi canzon, se a’ piè santi t’inchini,
che più de l’altrui gioia
che del mio gran dolor sento di noia.
50 mi chiuda: mi
impedisca (il soggetto è Amore).
52 ond’io mi
discoloro: per cui
io soffro, fino ad
impallidire (indica una sofferenza
anche fisica).
79
55 mi ruota: mi
agita.
58 disegna: raffi-
gura, rappresenta.
58-59 quell’ardente luce: ancora una metafora,
per indicare gli
occhi dell’amata.
60 piove: riversa.
63 altri mi fura:
qualcun altro mi
sottrae, rapinandomi.
64 manco: perdo
i sensi.
65 ch’a... estremo: che mi avvicino alla morte,
rapidamente.
67-68 che più...
noia: che soffro
(sento di noia)
più per la felicità
altrui, che per il
mio grande dolore.
Schema metrico: canzone formata da 5 strofe più un congedo.
La fronte è composta da due piedi di tre versi ciascuno, due settenari e un endecasillabo,
secondo lo schema abC abC.
La sirma inizia con la chiave, che ha la particolarità di essere un verso settenario (mentre
l’ultimo verso della fronte, con cui la chiave rima, è un endecasillabo).
È composta da sette versi, quindi è indivisibile (ovvero mancano le volte), e alterna quattro settenari, un endecasillabo, un altro settenario e infine un endecasillabo, secondo lo
schema cdeeDfF.
Il congedo è identico (anche per lo schema delle rime) agli ultimi tre versi della sirma: un
endecasillabo, un settenario, un endecasillabo, secondo lo schema DfF.
Lo schema completo di questa canzone, dunque, è: abC abC cdeeDfF.
Argomento: questa canzone può dividersi in due parti: nella prima si ha la descrizione
dell’inizio della primavera. Come nella ballata vista precedentemente, la primavera è
descritta qui nei suoi caratteri più tipici: «ogni bosco rinverde», i prati si riempiono di fiori
colorati («i prati son dipinti / di fior»), e quelli che sbocciano si offrono ai venticelli primaverili («lascive aurette»).
A questa bellezza della natura rigogliosa si contrappone la seconda parte della canzone,
introdotta dai versi di transizione 30-32 dove il poeta, dopo aver descritto la natura verdeggiante, rivolge a se stesso una domanda: «Ma che vad’io narrando, / se il cor langue e
sospira, / quante scopre ricchezze primavera?».
In questo modo egli introduce il tema principale della seconda parte della poesia (dal v.
33 fino alla fine del testo), che porta in primo piano la persona del poeta e le sue sofferen-
80
Canone Occidentale - La poesia
ze amorose. Infatti Amore l’ha diviso dalla donna che egli ama, la quale ora è accanto a
un altro uomo. Il poeta prova un grande tormento per questa situazione, e il congedo
mostra tutta la sua gelosia, poiché egli soffre più per la gioia dell’altro uomo che per il
proprio dolore.
La ricerca di piacevolezza: all’epoca in cui questa canzone fu scritta (nel Cinquecento),
l’utilizzo di alcuni espedienti poetici garantiva “piacevolezza” a una poesia: secondo questa idea (teorizzata e argomentata nelle opere di un illustre personaggio del Cinquecento,
il Bembo) un componimento risulta “piacevole” se le rime sono ravvicinate, se i versi
sono di frequente settenari (poiché versi più brevi avvicinano maggiormente le rime), se
le strofe sono brevi, se non sono frequenti i gruppi consonantici (che danno, al contrario,
un’idea di asprezza e durezza).
La struttura metrica di questa canzone, secondo le indicazioni del Bembo, è composta
da una maggioranza di versi settenari. Come si è detto, i versi brevi rendono le rime più
vicine e rendono il componimento più “piacevole”; all’interno della poesia, in tre casi le
rime sono addirittura baciate (quindi il più vicino possibile tra loro).
Prima parte: ma nella prima parte di questa canzone, la piacevolezza risulta dalla sovrapposizione di diversi livelli.
Lessico. La piacevolezza della canzone è data anche, nelle prime strofe, dalla descrizione
dell’arrivo della primavera: per il lessico, bisogna notare la presenza di diminutivi («aurette», «pastorel») e la scelta degli aggettivi, tutti da ricondursi a un’idea di gradevolezza
(«odorati», «lascive», «dolce»).
Struttura fonica. A livello fonico, la piacevolezza delle prime strofe è ottenuta anche con
l’insistita ricorrenza della vocale /a/, che porta chiarezza e dolcezza: ad esempio nel v. 12,
«di sangue, apron appieno», e nel v. 13, «a le lascive aurette il vago seno».
Insieme delle immagini. Anche le immagini suscitate, molto tradizionali, restituiscono
una raffigurazione della primavera gradevole e idillica: i prati, i fiori, le brezze; e poi il
pastorello col suo gregge. Il tutto senza alcuna connotazione negativa, per meglio sottolineare il contrasto con la seconda parte della poesia.
Seconda parte: se nella prima parte il poeta ha riprodotto la rinascita della natura all’inizio della primavera, con tutto ciò che di bello e piacevole comporta, nella seconda parte
ragiona delle proprie pene d’amore.
L’intera poesia ha un brusco cambio di direzione. Innanzitutto, troviamo termini riconducibili a un’esperienza dolorosa: il poeta parla dei suoi «infiniti mali», il suo cuore «langue
e sospira» ed è assalito e punto da «fieri strali» d’Amore.
E ancora:
«piangendo», «giogo dispietato», «mi discoloro», «tante pene», «occhi tristi e ’nfermi»,
«s’agghiacciano i sensi», «manco e tremo», ecc.
Come per la descrizione della primavera, che assume i caratteri tipici e comuni a tanti
componimenti dell’epoca, anche nella seconda parte della canzone troviamo un luogo
comune, un motivo tradizionale di tanta poesia della nostra storia letteraria: quello delle
sofferenze causate da un Amore personificato in un terribile signore.
La gelosia: ma in questo testo, il tema tipico delle pene d’amore è arricchito e reso singolare dalla presenza di un elemento più “originale”: la gelosia. Un altro uomo, infatti, ha
sottratto al poeta («altri mi fura») la donna amata, vista come un «ricco tesoro»; e nel congedo il poeta si lamenta più per la felicità altrui (principale fonte della gelosia) che per il
Il metodo
81
proprio dolore, legato all’assenza e al rifiuto dell’amata.
Elementi di unione tra le due parti: le due parti in cui abbiamo diviso la poesia, oltre
alle differenze descritte, hanno anche alcuni elementi in comune.
Nella seconda parte, infatti, la ricerca della piacevolezza non viene del tutto meno, anche
se l’argomento trattato è il dolore. Il “piacevole” riemerge innanzitutto quando appare nel
testo il tema della memoria, che riporta il poeta ai tempi di una sofferenza meno crudele,
quando la presenza della donna amata addolciva le pene per un amore comunque impossibile.
Anche la descrizione dell’amata riconduce a elementi piacevoli: essa è caratterizzata attraverso una tipica immagine della femminilità, secondo cui la donna è dotata di «angelico
viso», di «chiari e caldi rai / degli occhi», di «onestà grave», di «capei d’oro» e di «bel
volto».
In questo modo, tra la prima e la seconda parte della canzone, oltre al contrasto che abbiamo visto, si aggiunge un aspetto di similarità: alla soavità della primavera corrisponde la
soavità dell’amata («ragionar soave») contemplata nella memoria del poeta.
82
Canone Occidentale - La poesia
■ Canzone libera o leopardiana
Col trascorrere dei secoli, la canzone apparve ai poeti troppo vincolante nella sua struttura rigida e complessa.
I poeti dell’Ottocento cominciarono a perdere interesse per tale componimento: la suddivisione delle strofe in parti minori, con schemi di rime preordinate, perse di valore ai loro
occhi.
In questo periodo Giacomo Leopardi, al contrario di molti poeti, adottò la forma della canzone apprezzandone l’estensione, la quale permetteva un ampio discorso poetico, ma ne
diede un’interpretazione del tutto nuova e ne modificò notevolmente l’organizzazione
interna.
Egli, come poeta, aveva ben presto abbandonato l’uso della rima, che gli pareva un forte
limite all’espressione libera dell’ispirazione poetica. Per questo stesso motivo egli interpretò in chiave nuova la canzone, dando origine a quella che ancor oggi prende il nome di
canzone leopardiana.
Inizialmente, la canzone di Leopardi mantenne le strofe di uguale lunghezza, ma modificò tutti gli altri elementi del componimento. Come affermò un poeta di poco successivo,
Giosuè Carducci: «Leopardi mantenne lo stesso numero di versi, endecasillabi e settenari per ciascuna stanza; ma il genere dei versi e talvolta l’ordine delle rime mutò alternativamente da stanza a stanza di settenari in endecasillabi e da una in altre rispondenze;
scemò anche il numero delle rime, limitandole ad alcune sedi fisse, finché le confinò nella
chiusa; gettò la chiave; rese brusco il passaggio tra le volte e le combinazioni e dalla fronte alla sirma, accavallando i versi; con ciò sveltì e rese più nervoso l’andamento della vecchia canzone».
In seguito, in testi come Il sabato del villaggio, la forma e l’organizzazione strofica diventano ancora più libere, fino ad arrivare alla struttura della canzone libera o leopardiana
che, rispetto alla forma originaria, mantiene solo il genere di versi (endecasillabi e settenari). Ogni strofa ha indipendentemente dalle altre il numero di versi, la loro posizione e
le eventuali rime: in questo modo si eliminano drasticamente gli schemi fissi che per secoli avevano contraddistinto la struttura della canzone.
Laboratorio
Analisi di una canzone libera
Il sabato
Il sabato del
villaggio
del villaggio
GIACOMO LEOPARDI
di Giacomo Leopardi
1 donzelletta: la
giovane donna. Il
termine, che per
noi assume un
valore letterario e
arcaicizzante, è
usato qui con una
connotazione
affettuosa.
2 in sul calar del
sole: all’ora del
tramonto.
La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
5-7 onde... crine:
fiori con i quali si
prepara ad adornare il petto e i
capelli nel giorno
festivo, secondo
5
l’usanza contadina.
Il metodo
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
10 incontro...
giorno: rivolta
verso il sole che
sta tramontando.
11 novellando:
raccontando.
11 buon tempo:
la sua giovinezza.
14-15 intra di
quei... bella:
insieme ai compagni della sua giovinezza.
16 imbruna:
diventa scura.
17 sereno: cielo
(figura retorica
della metonimia).
19 recente: appena sorta.
20-21 la squilla...
viene: la campana
suona per annunciare il giorno
festivo, la domenica.
23 il cor si riconforta: all’annuncio del giorno
festivo, che pro-
83
10
15
20
25
30
35
40
45
mette gioia e felicità, il cuore
dimentica gli
affanni.
25 in frotta: in
gruppo.
27 lieto romore:
chiasso festoso e
piacevole.
28 riede...
mensa: ritorna a
casa, dove lo
aspetta la sua
povera cena.
30 e seco... riposo: e tra sé pensa
al giorno del suo
riposo, dopo la
settimana di faticoso lavoro nei
campi.
31 face: luce.
32 tutto... tace:
tutto il resto del
paese tace.
34 legnaiuol:
falegname.
34-35 che
veglia... lucerna:
che prosegue il
suo lavoro nella
bottega, alla luce
della lampada a
olio.
37 fornir l’opra... alba: terminare il lavoro
prima che sorga il
sole.
38 Questo... giorno: il sabato è il
giorno più gradito
della settimana.
39 pien di speme
e di gioia: l’attesa
della festa porta
una speranza, e fa
pregustare la
gioia futura.
40 tristezza e
noia: sono le
parole-chiave di
Leopardi. Da
unire a recheran
l’ore.
41 travaglio
usato: lavoro
consueto.
43 Garzoncello
scherzoso: fanciullo spensierato.
44 età fiorita: la
giovinezza, fiorente di speranze
e illusioni.
84
47 precorre...
vita: precede
l’avvenire, atteso
come una festa.
49 stagion lieta:
età felice, perché
ricca di speranze.
50 Altro dirti
non vo’: tacerò
sul resto, per non
Canone Occidentale - La poesia
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
50
(da Canti)
amareggiarti.
50-51 ma la tua
festa... grave:
non ti crucciare
(non ti sia grave)
se ti sembra che
l’età adulta tanto
desiderata (quella
che tu immagini
come la tua
festa) tardi ancora
a venire. Il finale
della lirica si spegne su quest’amara considerazione:
la festa della vita
è solo nella gioia
dell’attesa, e tutto
il resto è soltanto
tristezza e noia.
Struttura metrica: canzone libera composta da quattro strofe di endecasillabi e settenari
disposti liberamente.
Compaiono alcune rime, che non hanno però un’alternanza regolare (vv. 2, 4 e 5: «sole»
/ «viole» / «suole»; «appresta» del v. 6 forma una rima al mezzo con «festa» del v. 7; vv.
7 e 8: «crine» / «vicine»; vv. 13 e 15: «snella» / «bella»; vv. 16 e 19: «imbruna» / «luna»;
vv. 24 e 26: «gridando» / «saltando»; vv. 27 e 29: «romore» / «zappatore», ecc.).
Per la presenza delle rime si segnala in particolare la strofa conclusiva del componimento, dove, se si esclude il primo verso («Garzoncello scherzoso»), gli altri otto rimano a
gruppi di quattro secondo lo schema della rima incatenata: aBbA DeED.
Argomento: il tema principale del componimento è la rievocazione della giovinezza («età
fiorita»), accostata metaforicamente all’immagine del sabato, ovvero del giorno che precede il «dì di festa», a sua volta metafora dell’età adulta.
Questa doppia metafora tra i giorni della settimana e le età della vita dell’uomo percorre
l’intera poesia. Attraverso essa, il poeta descrive quella che considera l’universale condizione dell’uomo, al quale è sempre negata la felicità nel presente. Per questo non c’è gioia
più grande dei giorni che precedono la festa (e dunque della giovinezza che precede l’età
matura): perché l’attesa del giorno di festa (e, secondo la metafora, dell’arrivo dell’età
matura) verrà inevitabilmente delusa una volta raggiunto ciò che crediamo essere il bene
futuro.
Il dì della festa, e l’età dopo la giovinezza, si riveleranno immediatamente ingannevoli e
deludenti, portando solamente «tristezza e noia».
Questa poesia, costituita da quattro strofe di diversa lunghezza, può dividersi tematicamente in due parti principali:
la prima parte è formata dalle prime due
strofe, le quali contengono la descrizione
dell’atmosfera che regna nel villaggio la
sera che precede il giorno festivo (sono
strofe principalmente descrittive) che
regna nel villaggio la sera che precede il
}
Le singole strofe contengono diversi nuclei
tematici.
1) Nella prima, regna l’allegria per i giorni di
festa, dove si contrappongono la freschezza
della donzelletta ed i ricordi, ormai lontani,
della vecchierella.
2) Nella seconda, il silenzio in cui è immerso
il villaggio è rotto dai rumori degli strumenti
del falegname.
Il metodo
la seconda parte racchiude l’intervento del
poeta, che contrappone l’oggi spensierato,
metafora della giovinezza, al domani,
simbolo della noia e della vecchiaia (sono
strofe principalmente meditative)
}
85
3) Nella terza strofa emerge la considerazione
del poeta: al giorno di festa seguirà un giorno
di noia e tedio.
4) Nell’ultima strofa, infine, il poeta si rivolge
al «garzoncello»: chiarisce la metafora del
giorno che precede la festa (giovinezza) in cui
bisogna esser felici, perché ciò che seguirà,
ovvero la vita dopo la giovinezza, non permetterà più di esserlo.
Analizziamo la lirica mettendo a fuoco, singolarmente, ogni strofa.
Prima strofa: è la più lunga della canzone. Vi emerge fortemente la presenza umana: il
primo verso porta in primo piano «la donzelletta», figura alla quale si aggiunge, qualche
verso più sotto, quella della «vecchierella».
Lessico e retorica. Questi due personaggi femminili hanno molte caratteristiche in comune, secondo la figura retorica del parallelismo:
- entrambe sono indicate con un diminutivo;
- vengono presentate con il duplice riferimento al lavoro (la prima torna dai campi «col
suo fascio d’erba»; la seconda è «su la scala a filar») e ai preparativi per il giorno di festa
(la giovane ha raccolto fiori per «ornare», il giorno dopo, «il petto e il crine» mentre la
vecchia, in compagnia delle vicine, ricorda «quando ai dì della festa ella si ornava»).
Per quanto riguarda il lessico, il parallelismo tra le due figure è sottolineato ulteriormente dall’utilizzo di alcun verbi che, pur alternandosi nei tempi, sono identici per entrambe:
- al v. 5 troviamo «suole» riferito alla «donzelletta», che va accostato a «solea» (v. 14)
riferito alla «vecchierella»;
- allo stesso modo, come la giovane si prepara a «ornare» (v. 6), così la vecchia torna con
la mente a quando «si ornava» (v. 12).
Il tempo presente, riferito alla giovane donna, indica l’attesa del giorno di festa, mentre il
tempo imperfetto, usato per la vecchierella, è il tipico tempo della memoria, di ciò che può
essere vissuto solo nel ricordo di una giovinezza ormai trascorsa.
Nella seconda parte della strofa (vv. 16-30) si susseguono immagini e suggestioni sonore.
Nei vv. 16-19 l’attenzione si sposta dalle figure umane al paesaggio: all’imbrunire, dopo
i colori del tramonto, il cielo torna azzurro, e la luce della luna proietta le ombre dei colli
e delle case.
Nei vv. 20-30 la descrizione trapassa dal piano visivo a quello sonoro: il silenzio in cui è
immerso il borgo è rotto dai piacevoli rumori del suono della campana che preannuncia il
giorno di festa, del vociare dei fanciulli che corrono sulla piazza, e del fischiettare del contadino che fa ritorno alla sua casa.
Seconda strofa: in questi versi ritorna in primo piano la presenza umana, attraverso la
descrizione del falegname che prosegue il suo lavoro chiuso nella bottega, tentando di
finire la sua opera prima che spunti il sole del giorno festivo, mentre tutto intorno è silenzio e pace.
Con il «chiarir dell’alba» si chiude il cerchio temporale che il poeta ha descritto, fatto di
tramonto («calar del sole»), notte («imbrunire», «luna») e luce del nuovo giorno.
86
Canone Occidentale - La poesia
Terza strofa: nella terza strofa entra in scena il poeta che, con pochi versi, afferma un’amara verità: l’attesa del sabato sarà delusa, e il giorno di festa tanto desiderato («diman»)
porterà soltanto «tristezza e noia», a cui si aggiungerà il mesto pensiero della fatica quotidiana a cui ciascuno presto dovrà fare ritorno.
Quarta strofa: il poeta, dopo aver preso la parola nei versi precedenti, ora instaura un dialogo con una nuova figura, quella del «garzoncello scherzoso».
Rivolgendosi a lui, Leopardi chiarisce la metafora dei giorni della settimana come la successione delle età della vita, paragonando l’«età fiorita» (la giovinezza) con il «giorno di
allegrezza pieno / giorno chiaro, sereno, / che precorre alla festa», ovvero che precede
l’età adulta.
L’attesa della domenica, messa a tema nella terza strofa, qui diventa simbolo di una fase
dell’esistenza: anche la vita dell’uomo ha il suo sabato, rappresentato dalla fanciullezza,
che per il poeta è l’unica età della gioia.
Così come il sabato risulta il giorno più bello della settimana, allo stesso modo la giovinezza, tempo dell’attesa e delle speranze, è più felice dell’età adulta.
Ma qui il poeta si ferma: non vuole rivelare al giovane spensierato l’amaro destino che lo
attende, e si limita a consigliarlo affettuosamente di non rattristarsi troppo, se l’età matura che tanto desidera tarderà ancora a venire.
Il lessico usato in questa strofa è, per la maggior parte, riferito a qualcosa di allegro:
«scherzoso», «età fiorita», «giorno di allegrezza pieno», «chiaro, sereno», «festa»,
«godi», «stato soave», «stagion lieta».
In questa serie di termini emerge ai vv. 45-46 l’insistenza degli aggettivi riferiti al vocabolo «giorno»: (d’allegrezza) «pieno», «chiaro, sereno». Tale insistenza testimonia il particolare rilievo che il poeta vuole dare a questa parola e, metaforicamente, all’età della
giovinezza.
Ma né questi termini, né la ripetizione della parola «festa» (vv. 47 e 50) riescono a rendere meno amara la conclusione della poesia.
Il metodo
87
10.4. Sestina
Un po’ di storia: la sestina, oltre che come tipo di strofa interna ad altri componimenti,
esiste anche come forma lirica autonoma.
Fu inventata intorno al 1100 dai lirici trobadorici (della Francia del Sud); il primo a comporne una nella nostra lingua fu Dante.
La struttura: la sestina è un tipo di componimento molto simile alla canzone, anzi può
considerarsi una canzone composta di stanze indivisibili (senza fronte e sirma), ma il suo
nome indica una caratteristica molto particolare: essa è composta da sei strofe, ciascuna
di sei versi (tradizionalmente endecasillabi). A ciò, bisogna aggiungere un congedo.
Il primo elemento caratteristico della strofa di sestina è che al suo interno non compaiono
rime:
Laboratorio
Recitativo di Palinuro
GIUSEPPE UNGARETTI
Recitativo di Palinuro
di Giuseppe Ungaretti
Per l’uragano all’apice di furia
Vicino non intesi farsi il sonno;
Olio fu dilagante a smanie d’onde,
Aperto campo a libertà di pace,
Di effusione infinita il finto emblema
Dalla nuca prostrandomi mortale.
A
B
C
D
E
F
Come si vede in questa prima strofa di sestina novecentesca, le rime non trovano corrispondenza all’interno della stessa stanza, quindi lo schema metrico risulta essere ABCDEF.
Vediamo la seconda strofa:
Avversità del corpo ebbi mortale
Ai sogni sceso dell’incerta furia
Che annebbiava sprofondi nel suo emblema
Ed, astuta amnesia, afono sonno,
Da echi remoti inviperiva pace
Solo accordando a sfinitezze onde.
F
A
E
B
D
C
La seconda strofa rivela la particolarità di questo componimento: l’ultima parola di ogni
verso che compone la prima strofa viene ripresa in ogni verso della strofa successiva.
Non si tratta semplicemente di rime, ma di parole-rima, ognuna delle quali («furia»,
«sonno», «onde», «pace», «emblema» e «mortale») verrà ripetuta all’interno delle strofe
successive.
La ripresa delle parole-rima non avviene in modo casuale, ma secondo uno schema detto
retrogradazione incrociata: data una prima strofa con schema ABCDEF, nella seconda
strofa il primo verso avrà la stessa parola-rima dell’ultimo della prima strofa, il secondo
avrà quella del primo, il terzo del penultimo, il quarto del secondo, il quinto del terzultimo, il sesto del terzo, secondo lo schema seguente: 6+1, 5+2, 4+3.
La terza strofa seguirà lo stesso ordine, ma rispetto alla seconda: riprenderà come prima
88
Canone Occidentale - La poesia
parola-rima l’ultima della seconda strofa, come seconda la prima ecc. Vediamo nel dettaglio, rispetto alla seconda strofa:
6+1, ovvero «onde»+«mortale»:
Non posero a risposta tregua le onde,
Non mai accanite a gara più mortale,
C
F
5+2, ovvero «pace»+«furia»:
Quanto credendo pausa ai sensi, pace;
Raddrizzandosi a danno l’altra furia,
D
A
4+3, ovvero «sonno»+«emblema»:
Non seppi più chi, l’uragano o il sonno,
Mi logorava a suo deserto emblema.
B
E
Lo schema della retrogradazione incrociata procede anche nelle ultime tre strofe:
D’àugure sciolse l’occhio allora emblema
Dando fuoco di me a sideree onde;
Fu, per arti virginee, angelo in sonno;
Di scienza accrebbe l’ansietà mortale;
Fu, al bacio, in cuore ancora tarlo in furia,
Senza più dubbi caddi né più pace.
E
C
B
F
A
D
Tale per sempre mi fuggì la pace;
Per strenua fedeltà decaddi a emblema
Di disperanza e, preda d’ogni furia,
Riscosso via via a insulti freddi d’onde,
Ingigantivo d’impeto mortale,
Più folle d’esse, folle sfida al sonno.
D
E
A
C
F
B
Erto su più mi legava il sonno,
Dietro allo scafo a pezzi della pace
Struggeva gli occhi crudeltà mortale;
Piloto vinto d’un disperso emblema,
Vanità per riaverlo emulai d’onde;
Ma nelle vene già impietriva furia
B
D
F
E
C
A
Lo schema generale della sestina è dunque ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD,
DEACFB, BDFECA.
All’interno delle sei stanze si esaurisce la rotazione delle parole-rima: in una ipotetica settima stanza il sistema della retrogradazione porterebbe alla ripetizione dello schema della
prima strofa.
Il congedo: il congedo di sestina consta sempre di tre versi, nei quali devono comparire
tutte le sei parole-rima, sia in fine di verso (in cui ne avremo tre) sia all’interno del verso,
in successione libera e affidata alla scelta del poeta.
Tuttavia, nel congedo di questa sestina, le parole-rima non sono equamente distribuite tra
i versi:
Il metodo
Crescente d’ultimo e più arcano sonno,
E più su d’onde e emblema della pace
Così divenni furia non mortale.
89
B
C+E+D
A+F
(da La Terra Promessa)
Nel primo verso del congedo troviamo solo la parola-rima «sonno», nel secondo ne troviamo addirittura tre («onde», «emblema» e «pace»), e nell’ultimo verso due: «furia» e
«mortale».
Dato che la sestina è solo e soltanto di questo tipo, ogni sestina avrà lo schema metrico che
abbiamo visto sopra: a differenza degli altri componimenti esso non muta mai, se non nel
congedo, e non prevede cambiamenti strutturali e di forma. In questa caratteristica sta l’unicità della sestina.
Argomento dell’esempio: in questa sestina Ungaretti riprende la leggenda di Palinuro,
raccontata da Virgilio nell’Eneide.
Secondo tale leggenda, dopo che la flotta troiana lasciò la Sicilia Venere chiese a Nettuno
di concedere ad Enea di giungere alla foce del Tevere, dove l’eroe troiano avrebbe fondato la città di Roma. Nettuno acconsentì, ma in cambio chiese la vita di un membro dell’equipaggio. E così, durante la notte, il dio del mare fece prima addormentare il nocchiero
Palinuro, poi lo fece cadere in mare. Naufrago, il giovane nocchiero cercò di aggrapparsi
agli scogli, ma venne ucciso dalla popolazione degli Enotri.
Ecco il racconto di Virgilio:
Ormai l’umida Notte aveva quasi toccato la meta nel mezzo
del cielo, i marinai rilassavan le membra nella placida quiete
sdraiati sotto i remi lungo i duri sedili,
quando il Sonno scivolando leggero dagli eterei astri
smosse l’aria tenebrosa e cacciò le ombre,
cercando te, Palinuro, portando a te innocente i tristi
sogni; il dio si sedette sull’alta poppa
simile a Forbante e versò con la bocca queste chiacchiere:
«Palinuro di Iasio, le stesse acque portan la flotta,
le arie spirano costanti, è dato tempo al riposo.
Poggia la testa e ruba gli stanchi occhi alla fatica.
Io stesso un poco affronterò i tuoi doveri per te».
A stento alzandogli gli occhi Palinuro dice:
«Vuoi forse che io ignori il volto del placido mare
ed i quieti flutti? Forse che io mi fidi di questo mostro?
Affiderei forse Enea? Tante volte ingannato da arie
fallaci e dall’imbroglio del cielo sereno?».
Dava tali risposte, fisso ed attaccandosi mai lasciava
il timone e teneva gli occhi sotto le stelle.
Ecco il dio scosse sopra entrambe le tempie un ramo
inzuppato di rugiada letea e drogato di forza
Stigia, sciolse, a lui esitante, gli occhi natanti.
Appena la quiete improvvisa aveva rilassato le prime membra,
quando saltandogli sopra, divelta una parte della poppa,
lo gettò nelle limpide onde col timone
a capo fitto e spesso invocante invano i compagni;
egli alato, volando, si alzò leggero nell’aria.
[...]
90
Canone Occidentale - La poesia
...quando il padre [Enea] capì che la nave ondeggiando errava, perduto
il pilota, lui stesso la resse nelle onde notturne
molto gemendo e colpito in cuore dalla morte dell’amico:
«O Palinuro, fidatoti troppo del cielo e del mare
sereno, nudo giacerai su sabbia ignota».
(Virgilio, Eneide, libro V)
Nella poesia di Ungaretti Palinuro racconta in prima persona la sua tragica storia, narrando del sonno traditore a cui lo costrinse Nettuno e della caduta nelle acque agitate del
mare.
In questo suo morire innocente e senza colpa, mentre adempie al suo lavoro di nocchiero
della nave, il ragazzo diventa «... emblema / Di disperanza e preda d’ogni furia», ovvero
simbolo della disperazione di un uomo in balìa di un destino crudele che si accanisce contro di lui, vittima inconsapevole e designata.
Difficoltà della sestina: l’esempio di Ungaretti mostra tutta la rigidità di questa forma
metrica, e quindi la grande difficoltà che il poeta incontra nel comporla.
Fin dalle sue origini, la sestina fu considerata un tipo di componimento che richiede al
poeta grande abilità tecnica, talento compositivo e virtuosismo; un difficile esercizio poetico dal carattere altamente elaborato e raffinato. Per tutti questi motivi, le sestine composte nella storia della letteratura sono veramente poche.
La difficoltà della sestina consiste in primo luogo nelle sei ripetizioni delle parole-rima,
che pongono un grande limite alla creatività poetica, poiché si riducono notevolmente gli
argomenti possibili, le strutture sintattiche e ovviamente le scelte lessicali.
Ma forse ancor più difficile è il fatto che le parole-rima devono essere obbligatoriamente
disposte, all’interno delle strofe, in posizioni prestabilite, senza possibilità di modificarle.
Analisi di una sestina
Giovene donna sotto un verde lauro
2-3 neve... anni:
perifrasi per indicare il ghiaccio,
come il risultato
di uno strato di
neve su cui non
batte il sole per
molto tempo.
6 ov’io: dovunque
io.
6 in poggio o ’n
riva: su un pendio o in piano.
7 Allor... a riva:
allora i miei pen-
FRANCESCO PETRARCA
Giovene donna sotto un verde lauro
vidi più biancha et più fredda che neve
non percossa dal sol molti et molt’anni;
e ’l suo parlare, e ’l bel viso, et le chiome
mi piacquen sì ch’i’ l’ò dinanzi agli occhi,
ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ’n riva.
A
B
C
D
E
F
Allor saranno i miei pensieri a riva
che97 foglia verde non si trovi in lauro;
quando avrò queto il core, asciutti gli occhi,
vedrem ghiacciare il foco, arder la neve:
F
A
E
B
sieri saranno
giunte a riva,
ovvero avranno
fine.
8 che: quando.
8 foglia... lauro:
ossia mai, dato
che l’alloro
(lauro) è una
pianta sempre-
verde.
9-10 quando...
neve: prosegue
l’elenco delle
cose impossibili:
5
10
il desiderio amoroso del poeta
cesserà quando il
fuoco ghiaccerà e
la neve arderà.
Il metodo
non ò tanti capelli in queste chiome
quanti vorrei quel giorno attender anni.
D
C
Ma perché vola il tempo, et fuggon gli anni,
sì ch’a la morte in un punto s’arriva,
o colle brune o colle bianche chiome,
seguirò l’ombra di quel dolce lauro
per lo più ardente sole et per la neve,
fin che l’ultimo dì chiuda quest’occhi.
C
F
D
A
B
E
Non fur già mai veduti sì begli occhi
o ne la nostra etade o ne’ prim’anni,
che mi struggon così come ’l sol neve;
onde procede lagrimosa riva
ch’Amor conduce a pie’ del duro lauro
ch’à i rami di diamante, et d’òr le chiome.
E
C
B
F
A
D
I’ temo di cangiar pria volto et chiome
che con vera pietà mi mostri gli occhi
l’idolo mio, scolpito in vivo lauro:
che s’al contar non erro, oggi à sett’anni
che sospirando vo di riva in riva
la notte e ’l giorno, al caldo ed a la neve.
D
E
A
C
F
B
Dentro pur foco, et for candida neve,
sol con questi pensier’, con altre chiome,
sempre piangendo andrò per ogni riva,
per far forse pietà venir negli occhi
di tal che nascerà dopo mill’anni,
se tanto viver pò ben cólto lauro.
B
D
F
E
C
A
L’auro e i topacii al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso agli occhi
che menan gli anni miei sì tosto a riva.
A+B
D+E
C+F
15
20
25
30
35
(da Canzoniere XXX)
12 quanti... anni:
costruzione:
«quanti anni vorrei attendere quel
giorno».
15 o colle... chiome: o giovani, o
anziani.
20 o ne la
nostra... anni:
nel presente o
nell’antichità.
22 lagrimosa
riva: fiume di
lacrime.
91
24 rami... chiome: i rami di
diamante sono le
braccia candide di
Laura, le chiome
d’òr i suoi biondi
capelli.
27 idolo... lauro:
Laura per il poeta
è un idolo, oggetto di adorazione,
ed è scolpita in un
lauro vivente: in
questa poesia,
come in tante
altre raccolte nel
Canzoniere, vi è
la consueta identificazione allegorica tra Laura e il
lauro.
28 à sett’anni:
sono trascorsi
sette anni dal
giorno dell’innamoramento.
31 pur: tutto.
31 for... neve:
all’aspetto esterno
sbiancato.
35 tal: chi, ovvero il futuro lettore.
36 ben còlto: ben
coltivato. Il poeta
vorrebbe sapere
se può vivere
tanto (dopo mill’anni) la poesia.
37-38 L’auro...
bionde chiome:
le bionde chiome
(soggetto) di
Laura superano
l’oro e i topazi.
39 menan: incalzano.
39 sì tosto a riva:
così presto alla
fine.
Schema metrico: lo schema di questa sestina è uguale a quello di tutte le altre sestine:
ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD, DEACFB, BDFECA.
All’interno del congedo, le rime sono riprese nei tre versi secondo lo schema A+B, D+E,
C+F.
Argomento: pur costretto nella “gabbia” formale della sestina, il poeta è riuscito a raccontare un’intera vicenda umana, fatta di una donna e dello struggente amore che egli prova per lei.
92
Canone Occidentale - La poesia
Come tutte le poesie raccolte nel Canzoniere di Petrarca, anche questa sestina è dedicata
a Laura, l’amore indiscusso del poeta. Questa lirica, in particolare, si fonda sull’insistente identificazione della donna con l’alloro, attraverso allusioni al mito di Dafne, la donna
che si trasformò in questa pianta.
Petrarca torna con la memoria al momento del suo innamoramento per Laura: «Giovene
donna... / vidi». L’amore che egli prova per questa donna è talmente grande e definitivo, che
potrà cessare solo quando avverranno cose impossibili: quando il fuoco diventerà ghiaccio,
e la neve potrà bruciare. Il proposito del poeta è quello di non allontanarsi mai dall’oggetto del suo amore, fino a quando giungerà per lui il giorno della morte. E se questa sestina
potrà vivere a lungo, ed essere letta tra mille anni dagli occhi di un nuovo lettore, forse questi proverà pietà per lo stato in cui Petrarca si trova a causa del suo amore per Laura.
Le parole-rima: la perizia con cui Petrarca ha composto questa sestina di grande naturalezza e scioltezza, quasi non ci fa accorgere della difficoltà che, sicuramente, sta dietro al
componimento.
Trattandosi di una sestina, il poeta ha composto le sei strofe basandosi su sei parole-rima,
che si ripresentano in posizioni obbligate e preordinate all’interno di ogni strofa.
Ma la presenza delle parole-rima non costituisce soltanto un limite e un rigido schema a
cui sottomettere il genio poetico: esse conferiscono una grande unità all’intero componimento, rendendolo un edificio ben solido soprattutto per quanto riguarda il tema della poesia. In questo riconosciamo la straordinaria abilità di Petrarca.
Le parole-rima di questa sestina appartengono a tre campi semantici ben riconoscibili:
- la natura («lauro», «neve», «riva»);
- gli elementi della bellezza di Laura («chiome» e «occhi»);
- il senso del tempo che scorre («anni»).
Petrarca ha utilizzato tutti i possibili significati di tali parole: non solo quelli letterali e
consueti, ma anche quelli metaforici e allegorici. Ad esempio, la parola «riva» è intesa, in
senso letterale, come elemento naturale (v. 6, col significato di piano, pianura) ma è utilizzata dal poeta anche in senso metaforico (v. 22: «lagrimosa riva» nel senso di fiume di
lacrime e v. 39: «riva» nel senso di estremo approdo, di fine della propria vita).
A questa varietà di significati delle parole-rima, bisogna aggiungere anche la varietà dei
riferimenti: ad esempio la parola «occhi» è riferita prima al poeta (vv. 5, 9 e 18), poi a
Laura (vv. 19, 26 e 38) e infine al futuro lettore della sestina (v. 34).
In questo modo, ampliando al massimo il ventaglio dei possibili significati delle parolerima, il poeta attenua il rischio di monotonia e di uniformità in cui la sestina incorre inevitabilmente, proprio a causa della rigidità della sua struttura.
Elementi di retorica: questa sestina è caratterizzata da una serie di immagini iperboliche, ovvero esagerate, ingigantite, come quella contenuta nel v. 2: «più bianca e più fredda che neve / non percossa dal sol molti e molt’anni».
Simili a questo procedimento poetico sono le affermazioni di valore assoluto: al v. 6
«avrò sempre, ov’io sia».
Nella seconda strofa questa procedura viene ulteriormente rafforzata: per indicare che il
desiderio amoroso del poeta non avrà mai fine, troviamo un elenco di cose impossibili
(«vedrem ghiacciare il foco, arder la neve»), attraverso l’uso della figura retorica dell’adynaton.
L’insieme di questi espedienti ha lo scopo di esaltare l’esperienza amorosa del poeta, di
renderla unica e incomparabile.
Il metodo
93
10.5. Madrigale
Un po’ di storia: componimento poetico di origine italiana, il madrigale è un testo piuttosto breve, nato nel corso del Trecento.
Era originariamente composto per essere accompagnato dalla musica e cantato a più voci,
come testimoniano i manoscritti che conservano, oltre ai testi, anche le partiture musicali
corrispondenti. Ma, a differenza della ballata, il madrigale non era un componimento
popolare, e probabilmente veniva eseguito in ambienti signorili.
Come forma poetica ebbe molta fortuna, e attraverso i secoli modificò la propria struttura, pur senza stravolgerla mai del tutto.
La struttura: composto da versi endecasillabi, si struttura in piccole strofe (in genere due
o tre) di tre versi ciascuna, seguite da una o due coppie di versi a rima baciata.
Schema delle rime: all’interno del madrigale, solo un elemento non cambia mai, ed è il
distico finale a rima baciata. Ciò che muta è lo schema delle strofe, che possono rimare
tra loro in modi molti vari, come vedremo negli esempi seguenti.
Anche la quantità di rime può variare notevolmente.
Esempi:
Verso la vaga tramontana è gita,
quanto più luce il sol co’ raggi ardenti,
Amor, costei ch’è con pietà fuggita.
A
B
A
Cercando va li disïosi venti
il verde e’ fiori e degli augelli il canto,
ed ha lasciato i miei spirti dolenti:
B
C
B
dona, ove giugne, d’allegrezza tanto,
quanto dond’è partita lascia pianto.
C
C
(Sacchetti, Il libro delle Rime XL)
Questo madrigale si fonda su tre rime, che all’interno delle strofe sono alternate tra loro
secondo lo schema ABA BCB, a cui va aggiunto il distico finale CC.
Amor, s’ i’ son dalle tue man fuggito,
Non ti doler di me, ma di costei,
Che ’n pena mi tenea servendo lei.
A
B
B
E non pensar ch’io sia mai più ghermito
Da te in lei, ben che le stia nel volto;
Ché reddire in prigion chi n’esce è stolto.
A
C
C
Quei libertà conosce quanto è cara
Che la smarrisce e ritrovare impara.
D
D
(Soldanieri, Amor, s’ i’ son dalle tue man fuggito)
Nova angeletta sovra l’ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
A
B
94
Canone Occidentale - La poesia
là ’nd’io passava sol per mio destino.
C
Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
teso fra l’erba, ond’è verde il camino.
A
B
C
Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sì dolce lume uscia degli occhi suoi.
D
D
(Petrarca, Canzoniere CVI)
Questi due madrigali hanno quattro rime. Nel primo, lo schema isola il primo verso (A)
facendolo seguire da un distico a rima baciata, secondo lo schema: ABB ACC.
Nel secondo, invece, le prime tre rime si alternano tra loro: ABC ABC. In entrambi lo schema del distico finale è DD.
Un falcon pellegrin dal ciel discese
con largo petto e con sì bianca piuma,
che chi ’l guarda innamora, e me consuma.
A
B
B
Mirando io gli occhi neri e sfavillanti,
la vaga penna e ’l suo alto volare,
mi disposi lui sempre seguitare.
C
D
D
Sì dolcemente, straccando, mi mena,
che altro non cheggio, se non forza e lena.
E
E
(Rinuccini, Rime XVII)
In questo madrigale le rime sono cinque: è molto simile, come schema, a quello composto da Soldanieri, ma rimangono senza rima correlata i due versi iniziali di ogni strofa.
Nel verde bosco, sotto la cui ombra
vago d’amor pensando mi trovai,
su la fresch’erba e su’ be’ fior posai.
A
B
B
Così dormendo subito m’apparve
donna gentil che m’inducea sospiri
nel cor che sempre in lei fermò desiri.
C
D
D
Dolcezza mi donava con martiri
mostrando sé a me, e po’ fuggiva
infra le fronde quando la seguia.
D
E
E
Sveglia’ mi; e ’n doglia tal mio cor salio
qual Febo dietro Dafne alfin sentio.
F
F
(Sacchetti, Il libro delle Rime XXIX)
Questo è un esempio di madrigale composto da quattro strofe, con schema identico al
madrigale precedente, che continua nella terzina aggiunta.
Se il madrigale è composto da tre strofe, la coppia finale di versi può anche mancare, come
Il metodo
95
nel seguente esempio del Petrarca, con schema ABB ACC CDD:
Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta’ nemici è sì secura.
A
B
B
Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba,
ver’ me spietata, e ’ncontra te superba.
A
C
C
I’ son pregion; ma se pietà anchor serba
l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa’ di te et di me, signor, vendetta.
C
D
D
(Petrarca, Canzoniere CXXI)
Gli argomenti: leggendo gli esempi riportati, forse si avrà l’impressione di una ripetitività tematica: il madrigale infatti affronta solitamente argomenti amorosi, ambientati nella
scena dell’aperta campagna. Amore e natura: queste sono le componenti tematiche principali del madrigale, almeno nei primi secoli della sua storia. Il madrigale del Trecento
presenta contenuti elevati, e fa parte della poesia colta e raffinata. È infatti un genere alto,
che non trova posto nella poesia di carattere popolare.
In seguito cambiò lo scenario, ma il contenuto amoroso rimase a lungo come una delle
caratteristiche principali del madrigale.
Infine, col passare del tempo, il madrigale divenne un componimento molto versatile, che
trattò anche di argomenti morali e politici.
■ Variazioni della struttura nel corso dei secoli
Il Cinquecento: nel Cinquecento si continuò a comporre madrigali, ma con maggior
libertà di struttura, secondo le caratteristiche seguenti:
• diventò una forma monostrofica e non più divisa in brevi strofe;
• l’endecasillabo era alternato al settenario, con un alto grado di libertà nella disposizione e nell’alternanza degli endecasillabi e dei settenari e nelle loro rispettive proporzioni;
• libera era anche la disposizione delle rime: ampiamente attestata la presenza del verso
irrelato, ovvero senza rima.
Proprio per l’estremo grado di libertà a cui il madrigale giunse, esso è stato considerato
come una delle prime forme di “poesia libera” della nostra letteratura.
96
Canone Occidentale - La poesia
Laboratorio
Analisi di una madrigale
Un’ape
esser
Un’ape esser
vorreivorrei
TORQUATO TASSO
di Torquato Tasso
Un’ape esser vorrei,
donna bella e crudele,
che sussurrando in voi suggesse il mele;
e, non potendo il cor, potesse almeno
pungervi il bianco seno,
e ’n sì dolce ferita
vendicata lasciar la propria vita.
a
b
B
C
c
d
D
(da Rime, 499)
Struttura dell’esempio: questo madrigale è composto da un’unica strofa di sette versi
endecasillabi e settenari.
Il primo verso non trova corrispondenza di rima in nessun altro, mentre quelli che seguono rimano a coppia, alternando endecasillabo e settenario, secondo lo schema abBCedD.
Anche la rima baciata finale avviene tra un settenario e un endecasillabo.
Argomento dell’esempio: l’argomento tipicamente amoroso del madrigale è presente
anche in questo testo, dove il poeta si rivolge a una donna «crudele».
Il desiderio di vendetta nei confronti di questa donna si traduce nell’immagine dell’ape, in
cui il poeta vorrebbe trasformarsi. Non potendo arrivare a pungere il cuore insensibile
della donna, egli si accontenterebbe di pungerne il seno; e come l’ape muore dopo aver
colpito con il suo pungiglione, così il poeta morirebbe «in sì dolce ferita», portando a termine la propria vendetta a rischio della vita.
Nonostante l’argomento (una vendetta passionale), il tono della poesia è piuttosto leggero. Il desiderio di vendetta è attenuato dall’immagine dell’ape e dal confronto tra i due
soggetti, che mostra una grande sproporzione: la guerra vendicativa avviene tra un’ape e
una figura umana (la donna crudele), e l’azione in cui la vendetta si materializza è una
puntura d’insetto, una dolce ferita inferta a costo della propria vita.
Questa esagerazione e sproporzione tra le due figure del testo affievolisce e attenua il tema
principale del madrigale.
L’Ottocento: dopo le trasformazioni del Cinquecento il madrigale cadde in disuso, fino a
una sua rinascita nell’Ottocento.
La sua nuova diffusione fu favorita dalle peculiarità del componimento, caratterizzato da
una struttura agile e breve. Venendo a mancare ogni riferimento alla destinazione originale (l’ambientazione signorile) e l’accompagnamento musicale, il madrigale si ridusse a
uno schema metrico che i poeti affrontarono trattando qualsiasi argomento.
In generale, nell’Ottocento fino ai primi del Novecento, il madrigale preferì tornare alla
forma originaria trecentesca, come si vede dall’esempio che segue.
Il metodo
97
Analisi di un madrigale
Lavandare
Lavandare
GIOVANNI PASCOLI
di Giovanni Pascoli
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
5
10
(da Myricae)
1 campo mezzo
grigio e mezzo
nero: il lavoro
dell’aratura
lasciato interrotto
determina la differenza di sfumature: la terra nera
è quella arata di
recente.
3 vapor leggero:
è la foschia che
sale dai campi in
certe condizioni
atmosferiche tipiche dell’autunno,
in particolar
modo di mattina o
verso sera.
4 gora: canale
murato in cui le
donne usavano
lavare i panni.
5 sciabordare:
verbo onomatopeico che riproduce il frusciare dell’acqua mossa
nella gora dalle
donne al lavoro.
7 nevica la frasca: nevicare è
usato qui transitivamente. Dai
rami (frasca)
cadono foglie
come se nevicasse. Le due notazioni atmosferiche (vento e
caduta delle
foglie) rimandano
all’autunno: vento
e alberi che si
spogliano contribuiscono ad
accentuare il
clima di desola-
zione e abbandono.
9 come son rimasta!: il punto di
vista è quello
femminile: la
donna attende il
ritorno del proprio uomo partito
da tempo; il
tempo passa, ma
l’attesa e la solitudine continuano.
10 maggese: è il
campo lasciato
per qualche
tempo inattivo,
secondo il principio della rotazione agraria.
Schema metrico: il madrigale è costituito da versi endecasillabi raccolti in due terzine
con rima alternata, secondo lo schema ABA CBC, seguite da due coppie anch’esse a rima
alternata: DEDE.
La presenza di due coppie finali (e non di una soltanto) allontana un poco questo testo
dalla forma del madrigale tradizionale; tuttavia si riconosce facilmente l’origine della poesia, e la struttura non ne risulta stravolta.
Argomento: l’ambientazione è quella tipica del madrigale: l’aperta campagna, la natura
(«campo», «buoi», «vapor leggero», «gora», «il vento», «frasca», «maggese»), in cui si
inserisce il tema amoroso.
All’interno del madrigale, c’è una netta divisione a livello contenutistico tra terzine e
quartina.
Le terzine sono principalmente descrittive: nella prima prevalgono le suggestioni visive,
sollecitate in particolare dal richiamo ai colori del campo «mezzo grigio e mezzo nero».
Il poeta ci mostra la natura comune e familiare dei campi al tempo dell’aratura (vv. 1-2),
in un’ora non ben definita del giorno, ma che si suppone essere l’alba o il crepuscolo, per
la presenza del vapore acqueo che si leva dalla terra (v. 3: «tra il vapor leggero»).
98
Canone Occidentale - La poesia
In questa immagine descrittiva e realistica si insinua una nota di desolazione rappresentata dall’«aratro… dimenticato» (vv. 2-3).
Nella seconda terzina, invece, predominano le suggestioni sonore, a stimolare il senso
dell’udito: il particolare sciacquio dell’acqua della gora e il canto delle «lavandare» introducono indirettamente la presenza umana, percepita però solo in lontananza.
Le donne sono al lavoro sulla sponda della «gora»: con ritmo ripetitivo e monotono
(«cadenzato») lavano i panni nel canale («sciabordare delle lavandare», «con tonfi spessi») e distraggono la fatica col canto malinconico («lunghe cantilene») riprodotto nei versi
che seguono.
Infatti la quartina è tutta occupata dalla citazione (parafrasata) delle parole tratte da due
canti popolari marchigiani, di cui in uno si legge: «Tira lu viente, e nevega li frunna», e
nell’altro: «Quando ch’io mi partii dal mio paese, / povera bella mia, come rimase! / Come
l’aratro in mezzo alla maggese».
Il riferimento a questi due canti popolari è evidente. Anche il tono e il linguaggio utilizzati si allontanano dal resto della poesia, avvicinandosi a quelli dei canti popolari attraverso due caratteristiche:
1) la struttura sintattica, che nella quartina si fa più semplice e lineare: la misura sintattica coincide con la misura ritmica dei versi (non ci sono enjambements);
2) l’adozione della rima imperfetta tra i vv. 7 e 9, legati non dalla rima tradizionale ma
dall’assonanza: «frasca» / «rimasta».
Infine, l’uso della prima e della seconda persona singolare: «e tu non torni ancora… quando partisti, come son rimasta!», rende ancora più forte le differenze tra terzine e quartina.
Il forte stacco tra la prima e la seconda parte del testo è dato dal fatto che le due terzine
sono principalmente descrittive, mentre la quartina è come una sequenza in presa diretta,
una registrazione del canto delle lavandaie senza nessun segnale introduttore.
La quartina riprende elementi da entrambe le terzine: della prima riproduce l’immagine
dell’aratro e quindi dell’abbandono, della solitudine; della seconda riporta il canto nostalgico e pieno di dolore della donna che aspetta, forse invano, il ritorno del compagno.
Chi parla, in questa seconda parte, è una donna, figura umana che entra prepotentemente
nella lirica. Quel senso estremo di solitudine e abbandono già intravisto nell’immagine
dell’aratro immobile senza buoi (vv. 1-2) ritorna qui, in chiusura, inserito in un paragone
riferito alla donna (rimasta sola «come l’aratro in mezzo alla maggese», v. 10). La poesia
ha quindi una struttura circolare, e quanto anticipato all’inizio trova verifica e conferma
nella parte finale del madrigale, a ribadire il tema di fondo del componimento: la condizione esistenziale dell’uomo di isolamento e abbandono.
Struttura fonica e elementi di retorica: la struttura fonica del componimento crea un
nucleo di ritmo lento e identico in corrispondenza dei versi centrali (vv. 4-6), ben ritmati
tra loro.
Si osservi la disposizione degli accenti:
E cadenzàto dalla gòra viène
lo sciabordàre dèlle lavandàre
con tonfi spèssi e lùnghe cantilène
Gli accenti così disposti rendono percepibile e concreto il senso delle cantilene cantate
Il metodo
99
dalle donne, ma anche la monotonia dell’occupazione di lavare i panni nel canale.
La congiunzione «E» con la quale si apre la seconda terzina funge da attacco vocalico per
l’avvio del ritmo e al tempo stesso, dal punto di vista contenutistico, si aggancia al non
detto, all’inespresso: introduce un’immagine apparentemente sganciata da quella precedente (prima terzina), che trova però piena giustificazione nei versi finali che insistono
sulla condizione esistenziale dell’abbandono.
Più delle rime, pure presenti e che in modo regolare percorrono tutto il componimento,
risalta il gioco musicale delle riprese foniche, sia interne alla terzina centrale («sciabordare… lavandare») sia esterne: al v. 4 «cadenzato» rima con «dimenticato» del v. 3, collocato nella stessa posizione all’interno del verso.
Numerose le parole onomatopeiche, riconducibili all’elemento naturale dell’acqua: «sciabordare» che, grazie alla sibilante /s/ presente anche in «tonfi spessi» e nel successivo «(il
vento) soffia», ricorda il rumore frusciante dell’acqua. L’acqua è evocata anche dalla
liquida /r/ che ritroviamo, oltre che in «sciabordare», anche in «gora» e «lavandare».
100
Canone Occidentale - La poesia
Analisi di una poesia in versi liberi
A partire dall’inizio del Novecento comincia ad affermarsi la poesia composta in versi
liberi, che diventerà la forma poetica dominante del nostro tempo.
Il testo che riportiamo è stato pubblicato nel 2003.
Voler
bene persona
a una persona
Voler bene
a una
DAVIDE RONDONI
di Davide Rondoni
Voler bene a una persona
è un lungo viaggio
rupi, cadute d’acqua e bui
improvvisi, dilatati
il chiuso di foreste,
lampi a volte
sul silenzio così vasto del mare
5
e strade sopraelevate, grida
viali immersi all’improvviso
in una luce sconosciuta.
10
Voler bene a uno, a mille, a tutti
è come tener la mappa nel vento.
Non ci si riesce ma il cuore
me l’hanno messo al centro del petto
per questo alto, meraviglioso fallimento.
15
Sugli altipiani di ogni notte
eccomi con le ripetizioni e le mani rovesciate della poesia:
non farli stare male, sono tuoi, non farli andare via
(da Avrebbe amato chiunque)
Struttura metrica: pur essendo composta in versi liberi, questa poesia mantiene una suddivisione in strofe, di varia lunghezza. Allo stesso modo anche i versi che la compongono variano notevolmente per lunghezza.
Ciò che dà forma al verso non è più il numero di sillabe, né la disposizione degli accenti
secondo schemi fissi, ma è il pensiero del poeta.
Le pause non sono più pause metriche, definite dalla misura del verso, ma sono pause di
pensiero.
La lunghezza del verso e il pensiero che il verso esprime coincidono tra loro: il verso (e a
un livello superiore le strofe) si “adatta” all’ampiezza del pensiero, ne assume i movimenti.
Rime: in un testo composto da versi in rima, è evidente che la presenza della rima è un
fatto regolare, che scandisce il ritmo.
Al contrario in una poesia senza rime, laddove ne compaiono poche, esse acquistano un
rilievo ancora maggiore. È il caso di questo testo, dove troviamo due versi legati tra loro
Il metodo
101
dalla rima baciata. Sono gli ultimi due della poesia:
«...le mani rovesciate della poesia: / non farli stare male, sono tuoi, non farli andare via».
Nessun verso è frapposto ai due che rimano, cosicché essi risultano vicinissimi, e la presenza di questa rima risulta sottolineata ancor più potentemente. Essa pone un accento particolare sulla seconda parte dell’ultimo verso, chiusura ideale dell’intera poesia: «non farli
andare via».
Anche i vv. 12 e 15 rimano tra loro: «vento» e fallimento», da avvicinare, per assonanza
e struttura fonica, al v. 14: «petto».
Argomento: l’oggetto di questa poesia è l’esperienza del voler bene. I primi due versi,
raccolti in un’unica strofa, dichiarano subito il tema trattato nei versi successivi e sembrano posti come titolo del testo. L’affermazione che contengono è forte, non lascia spazio al
dubbio, non cerca possibili interpretazioni: «Voler bene a una persona / è un lungo viaggio».
L’esperienza del voler bene, dunque, è immediatamente accostata all’immagine del viaggio, che è la figura predominante del testo:
v. 2: «viaggio»; v. 8: «strade sopraelevate»; v. 9: «viali»; v. 12: «mappa», e una lunga serie
di paesaggi naturali che si possono incontrare viaggiando: v. 3: «rupi»; v. 5: «foreste»; v.
7: la vastità del «mare»; v. 16: «altipiani».
Il viaggio di cui il poeta parla è un percorso avventuroso, in parte sconosciuto nelle sue
tappe e pieno di imprevisti. Questa incertezza significa che in un rapporto affettivo, di
qualsiasi natura esso sia, ci sono momenti difficili, in cui prevale la fatica («bui», «il chiuso di foreste» come qualcosa di impenetrabile): questi momenti sono descritti nella seconda strofa, in cui tutto è portato verso il basso («cadute», «rupi»).
Ma nell’esperienza dell’amore ci sono anche momenti felici: il v. 8, isolato dagli altri,
riporta verso l’alto («strade sopraelevate»), e nei vv. 9-10 il buio del v. 3 lascia il posto a
«una luce sconosciuta».
Il voler bene, nella sua complessità, è fatto di sorprese continue: è l’esperienza di qualcosa di misterioso e sconosciuto, ultimamente inafferrabile, con cui si ha a che fare («bui /
improvvisi», «lampi a volte», «viali immersi all’improvviso / in una luce sconosciuta»).
Ma se queste sono la fatica e la bellezza del voler bene a una persona, come si fa a voler
bene «a mille, a tutti»? Perché è a questo che il poeta si sente chiamato. Ed è costretto,
subito, a riconoscere che la realizzazione di questo desiderio non è nelle capacità umane.
Si tratta di un’impresa impossibile: ma anche se «non ci si riesce», anche se in questa
esperienza si fallisce, si tratta di un «alto, meraviglioso fallimento».
L’unica cosa che resta da fare, nei confronti dei «mille» e dei «tutti», è affidarli: affidarli
a chi può tenerli e «non farli stare male, ... non farli andare via», raccogliendoli nella preghiera finale su cui si chiude questa poesia (le «mani rovesciate» del v. 17 indicano proprio un atteggiamento di preghiera e di mendicanza).
Struttura fonica e lessicale: nel v. 3, che inaugura la strofa in cui sono descritti i momenti più difficili dell’esperienza affettiva, il poeta insiste sul fonema /u/, che ha un suono
cupo, chiuso: «rupi, cadute d’acqua e bui», che ritorna anche nel v. 5: «chiuso di foreste».
In questo caso, la struttura fonica delle parole collabora a potenziare il loro significato.
I vv. 3 e 4, accostati tra loro, risaltano fortemente; nel v. 3 le parole sono molto brevi, come
se fossero i salti diseguali di una cascata di montagna: «rupi, cadute d’acqua e bui». Ad
102
Canone Occidentale - La poesia
esse si contrappongono le due parole che formano il verso successivo: «improvvisi, dilatati», che rallentano bruscamente il ritmo.
Ritroviamo lo stesso procedimento nei vv. 11-15, dove è descritto il tentativo del cuore di
voler bene a tutti.
I vv. 11, 12, 13, 14 e la prima parte del v. 15 sono costituiti da parole non più lunghe di
due sillabe: «Voler bene a uno, a mille, a tutti / è come tener la mappa nel vento. / Non ci
si riesce ma il cuore / me l’hanno messo al centro del petto / per questo alto...», fino ad
arrivare a «meraviglioso fallimento»: due parole di quattro e cinque sillabe, che fungono
da “freno”, segnano il traguardo e l’arrivo del tentativo di «voler bene... a tutti», di questa nobile ma impossibile impresa a cui il cuore dell’uomo è chiamato.
Il metodo
103
11. Retorica
11.1. Ambiguità e persuasione
“Bere” e “fumare” sono due verbi che normalmente si riferiscono a soggetti animati.
Per questo motivo, la frase:
Marco non beve e non fuma
non presenta nessun problema ed è di interpretazione immediata.
Ma leggiamo il seguente slogan pubblicitario:
Non beve e non fuma.
Un diesel davvero sportivo
L’accostamento delle due frasi risulta insolito e ambiguo: c’è un uso della lingua che cattura immediatamente la nostra attenzione. Ciò avviene perché i verbi “bere” e “fumare”,
contrariamente a quanto succede di solito, sono riferiti a un oggetto inanimato (il motore
di una macchina) e assumono un significato diverso da quello consueto: indicano un’automobile il cui motore non consuma troppo («non beve») e inquina meno di altri («non
fuma»).
Lo scopo della pubblicità è persuadere e convincere. Il primo modo che essa ha per realizzare il suo scopo è l’utilizzo delle figure retoriche.
La retorica è l’arte e la tecnica del discorso persuasivo, ovvero l’insieme degli elementi
che servono per convincere un interlocutore in un dialogo, o il lettore di un testo.
Un po’ di storia: per tradizione, la retorica nasce nel V secolo a.C. in campo giuridico.
All’interno di una lunga serie di processi per l’attribuzione di terreni, Corace e Tisia, considerati i fondatori della retorica, studiarono tutti i mezzi e le tecniche possibili per dimostrare la verosimiglianza di una tesi, convinti che il sembrare vero contasse più dell’essere vero.
Nel frattempo, un’altra forma di retorica si andava affermando: essa cercava di raggiungere lo scopo di convincere non provando a dimostrare che un certo argomento fosse verosimile, ma sfruttando il fascino che una parola sapientemente manipolata era in grado di
esercitare sugli ascoltatori, puntando cioè sulla loro reazione emotiva più che sul consenso razionale.
La forza della parola: da allora, furono molti coloro che proposero e studiarono una serie
di accorgimenti che, se ben utilizzati in un discorso o in un testo, avrebbero potuto meglio
“persuadere” e convincere gli ascoltatori o i lettori. Per ottenere questo, si faceva (e si fa
ancora) leva sui sentimenti degli ascoltatori o dei lettori, oppure si cercava di convincerli
tramite dimostrazioni.
Dietro le attuali definizioni delle “figure retoriche” ci sono secoli di studi, ricerche,
discussioni e vere e proprie diatribe tra singoli retori e le scuole di retorica, che vennero
104
Canone Occidentale - La poesia
istituite proprio per l’importanza di tale disciplina.
Vediamo un brano tratto dall’Elogio di Elena, un’orazione composta da Gorgia, allievo di
Tisia, in difesa della donna che, secondo la tradizione, scatenò la guerra di Troia:
Esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia. Infatti,
ella fece quel che fece o per meditata decisione degli dei; oppure perché rapita con forza; o
perché convinta con parole.
Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina
non si può con previdenza umana impedire. La Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Se dunque alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata.
Se con forza fu rapita, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in
quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subì una sventura. Merita dunque,
colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente. Ma colei che fu violata, e della patria privata, e dei suoi cari orbata,
come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata?
Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderla, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che divinissime cose sa compiere; riesce
infatti a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la
pietà. Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di
parole e così poco di sua volontà? Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente e a credere nei detti, e a consentire nei fatti.
La retorica e noi: oggi la retorica è ancora molto diffusa; anzi, lo è talmente che quasi
non ci accorgiamo della sua presenza.
Non è solo la pubblicità a farne un largo uso; anche noi, quotidianamente, ricorriamo
all’arte della retorica.
Ad esempio, tutte le volte che raccontiamo un fatto. Supponiamo di dover riferire agli
amici di aver pescato un grosso pesce, o di aver percorso a piedi un lungo tragitto, o di
aver aspettato a lungo per entrare a una mostra. Ebbene, di sicuro, nel nostro racconto, il
pesce diventerà più grande e più pesante di quanto non fosse stato in realtà; così come la
strada percorsa risulterà più lunga di quanto non sia stata; allo stesso modo, la fila per
entrare nella mostra affollata avrà assunto dimensioni record. Sì, abbiamo esagerato. Ma
perché? Per poter meglio catturare l’attenzione dei nostri ascoltatori, e per il piacere di
suscitare in loro meraviglia e stupore. Senza saperlo, abbiamo utilizzato la figura retorica
dell’iperbole, che consiste nell’esagerare o ridurre, oltre i limiti normali, la qualità di
una persona, di un animale, di una cosa o di un’idea.
Da quanto detto si capisce che la retorica non è qualcosa da relegare nei secoli passati:
anche oggi è il modo di organizzare qualsiasi testo e qualsiasi discorso. Per questo è utile
studiarla: per comprendere e imparare ad usare meglio la lingua che parliamo e le sue
potenzialità.
Il metodo
105
12. Le principali figure retoriche
12.1. Metafora
La metafora è di gran lunga la più importante delle figure retoriche, molte delle quali sono
tipi particolari di metafora.
Il procedimento su cui essa si basa è un trasferimento:
I leoni sono coraggiosi
metafora:
Pietro è un leone
Dal paragone di queste due frasi si ricava che un enunciato metaforico è il risultato del trasferimento di una proprietà generica (il coraggio) dal suo soggetto abituale (i leoni) ad un
nuovo soggetto (Pietro).
■ Significato letterale e significato metaforico
La prima delle due frasi riportate ha un significato letterale, mentre la seconda ha un
significato metaforico.
Anche se ci sono notevoli differenze tra l’uno e l’altro, è possibile che si verifichi una
sorta di scambio tra loro. Tanto è vero che ci sono espressioni linguistiche, dette metafore morte, che in origine nascevano come metafore; poi però, col tempo, hanno dato luogo
a significati letterali:
le gambe del tavolo
il collo della bottiglia
le onde sonore
}
metafore morte
sono metafore più o meno antiche che oggi non sono più avvertite come tali, perché in loro
ha prevalso, col tempo, il significato letterale (il nome di queste metafore morte in retorica è catacresi).
■ Il contesto in cui si esprime la metafora
Il significato della metafora è il risultato di una interrelazione tra due elementi:
Lucia procedeva a tentoni nell’interrogazione
“Lucia” e l’“interrogazione” mantengono il loro significato letterale e costituiscono una
cornice entro cui interpretare metaforicamente l’espressione “procedeva a tentoni”. Il contesto che offre la cornice è indispensabile per comprendere se un enunciato sia metaforico o no.
Il ragazzo bendato procedeva a tentoni cercando i suoi amici
In questa frase, invece, non c’è più un significato metaforico, perché il contesto (un gioco
di gruppo) permette di stabilire che “procedeva a tentoni” ha un significato letterale.
Dunque la metafora è un meccanismo sintattico, ed è il risultato del contrasto tra due ele-
106
Canone Occidentale - La poesia
menti linguistici legati sintatticamente tra loro. Per questo motivo il contesto in cui essa si
esprime è molto importante.
Naturalmente, ci sono alcune espressioni tipicamente metaforiche per le quali non serve
conoscere il contesto in cui si esprimono: ad esempio, la crema della società.
■ Metafora e linguaggio
La nave solcava il mare
Se provo a esprimere il significato di questa frase senza utilizzare un’espressione metaforica, il risultato potrebbe essere questo:
La nave avanzava nel mare creando un movimento dell’acqua simile a quello che l’aratro
crea avanzando nella terra
Oltre ad essere molto improbabile che qualcuno si esprima in modo così prolisso e contorto, questa parafrasi è alquanto inadeguata ad esprimere con la stessa forza il significato della metafora “la nave solcava il mare”: breve, efficace e perentoria.
L’esempio serve per comprendere quanto la metafora sia intimamente legata al linguaggio
d’uso comune e come sia utile ed efficace. Ma soprattutto, indica una delle sue principali
caratteristiche, che consiste nel venire in soccorso al linguaggio, per nominare e comunicare oggetti di difficile denominazione, e per trasmettere, anche con espressioni sintetiche,
significati assai complessi attraverso una forma efficace.
La metafora è un procedimento attraverso cui la lingua si arricchisce continuamente di
nuove espressioni e nuove sfumature; è una figura retorica strettamente legata alla
creatività della lingua. Non è un fenomeno nuovo o speciale, ma è connaturato alla lingua stessa.
■ Tipi di metafora
I modi per realizzare una metafora sono tanti, e ognuno di essi conferisce alla metafora
una particolare caratteristica. Le differenze tra le forme di metafora dipendono dal tipo
grammaticale di parola usata.
Vediamone alcuni esempi:
metafora di nome
il the è l’oro della Cina
metafora nome + aggettivo
un sorriso luminoso
metafora di verbo
brillava per la sua disinvoltura
Oltre a questi tipi, le metafore possono essere realizzate attraverso combinazioni di parole. La più comune è quella con il genitivo (complemento di specificazione):
metafora di genitivo
la tempesta del cuore
■ La metafora in poesia
La metafora ha trovato nella poesia un posto d’onore principalmente per due motivi: il
primo è la sua capacità di sintesi.
Il linguaggio della poesia è sintetico, “rapido”. Dato che la metafora è una figura retorica che
nasconde i legami espliciti a favore di una sintesi espressiva, essa si adatta benissimo alla
poesia, in cui la lingua si comunica attraverso una concentrazione lessicale e semantica.
Il metodo
107
L’altro motivo è che attraverso la metafora (ma anche attraverso altre figure retoriche) si
indica un significato che, rispetto a quello letterale, è più ricco, complesso e maggiormente evocativo.
Parlando di “tempesta del cuore”, si avranno presenti contemporaneamente due significati,
con tutte le loro sfumature: quello di un cuore agitato dalle passioni e dai sentimenti, ma
anche quello di una tempesta. La compresenza di più significati ha a che fare con la connotazione, che si è detto essere una delle principali caratteristiche del linguaggio della poesia.
Esempi di metafora in poesia:
… e prego anch’io nel tuo porto quïete.
(morte)
(Foscolo, In morte del fratello Giovanni)
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via…
(gioventù)
(Leopardi, La sera del dì di festa)
…tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
(in disgrazia)
(in trionfo)
(Manzoni, Il Cinque Maggio)
La metafora oggi: questa figura retorica si usa continuamente, anche nel linguaggio
comune. Ancor oggi, infatti, è una delle figure retoriche più produttive: essere un pozzo di
scienza; essere connessi (con riferimento a Internet); divorare l’asfalto; costa un occhio
della testa; avere un cuore d’oro; essere una roccia.
Laboratorio
1
Trascrivete a fianco del testo che cosa rappresentano le metafore in corsivo:
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,…
( figlio ) ( _______ )
(Carducci, Pianto antico)
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
( ____________________ )
(Pascoli, La mia sera)
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
(Ungaretti, Natale)
( ____________________ )
108
Canone Occidentale - La poesia
12.2. Allegoria
Spesso la metafora non riguarda una singola parola, ma anche intere frasi. L’uso continuato della metafora è detto allegoria.
Quintiliano definisce l’allegoria come l’indicare una cosa con le parole e un’altra con le
idee sottintese.
L’allegoria è il risultato di una serie ininterrotta di metafore, dunque una “metafora continuata” o “prolungata”, un ampliamento di essa.
Leggiamo alcuni versi del poeta latino Orazio:
O nave, ti rigetteranno in mare nuovi
flutti: o che fai? saldamente tieniti
stretta al porto
Per nave il poeta intende la repubblica, per flutti le guerre civili e per porto la pace e la
concordia.
Il seguente esempio di allegoria è tratto dall’Orlando furioso di Ariosto. Nella strofa che
riportiamo, il tema metaforico nautico viene ripreso in quasi tutti i versi:
Or, se mi mostra la mia carta il vero,
non è lontano a discoprirsi il porto;
sì che nel lito i voti scioglier spero
a chi nel mar per tanta via m’ha scorto;
ove, o di non tornar col legno intero,
o d’errar sempre, ebbi già il viso smorto.
Ma mi par di veder, ma veggo certo,
veggo la terra, e veggo il lido aperto.
Spesso il riconoscimento dell’allegoria è agevolato dalla presenza di strutture del tipo
come... così, o quali...:
E come i gru van cantando lor lai
... così vidi venir...
(Dante, Inferno V)
Non sempre, però, sono presenti nel testo termini che introducono l’allegoria. A volte, per
coglierne la presenza, occorre procedere nella lettura del testo, come nel caso della poesia
di Pascoli X agosto:
Ritornava una rondine al tetto
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto
la cena de’ suoi rondinini.
Quella che sembra la descrizione della morte di una rondine, nello sviluppo dei versi appare accostata alla tragica morte del padre di Pascoli, trovato senza vita sulla via del ritorno
a casa, con accanto i doni che stava portando ai figli.
Non esistono limiti quantitativi all’allegoria: ci sono intere poesie, a volte interi poemi
che sono costituiti dallo sviluppo di una metafora.
109
Il metodo
12.3. Similitudine
Nella destra scotea la spaventosa
peliaca trave; come viva fiamma,
o come disco di nascente Sole
balenava il suo scudo…
(Omero, Iliade Libro XXII, nella traduzione di V. Monti)
In questi versi, lo scudo del guerriero viene paragonato a una fiamma viva, che si muove
(forse per i bagliori che quest’arma di difesa emana), e al sole dell’alba.
La similitudine consiste nel paragonare persone, animali, cose, sentimenti per associazione di idee; è introdotta da come, sembra, pare, è simile, somiglia, ecc.
Mentre la metafora è un paragone aperto, dinamico, che fonde e rende compresenti i due
elementi che la compongono, la similitudine è un paragone statico, che non prevede più
di una soluzione (il “come” stabilisce un’unica direzione di interpretazione della similitudine, cosa che non avviene con la metafora).
Altri esempi di similitudine:
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
(Pavese, Incontro)
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma…
(Saba, Ritratto della mia bambina)
La similitudine oggi: essere forte come un leone; essere debole come una formica; vergognarsi come un ladro; correre come il vento.
Laboratorio
1
Riconoscete le figure retoriche dei versi seguenti. Sono metafore o similitudini?
Trascrivete poi il loro significato.
SIGNIFICATO
Gli venne dunque incontro
con la nutrice che aveva in braccio il bambino,
il figlio amato di Ettore, simile a chiara stella.
(Omero, Iliade Libro VI, nella traduzione di S. Quasimodo)
__________
__________
110
Canone Occidentale - La poesia
Sono i tuoi puri occhi
due miracolose corolle
sbocciate a lavarmi lo sguardo.
__________
__________
__________
__________
__________
__________
__________
__________
(Antonia Pozzi, Notturno invernale)
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
fulmini nel ferir le spade sono.
(Tasso, Gerusalemme liberata)
Come d’autunno si levan le foglie
[...]
similmente il mal seme d’Adamo...
(Dante, Inferno III)
Tu sei come una giovane,
bianca pollastra.
(Saba, A mia moglie)
Il metodo
111
Le figure retoriche che ora vedremo (sinestesia, metonimia e sineddoche) possono considerarsi tipi particolari di metafora.
12.4. Sinestesia
Or ch’a i silenzi di cerulea sera
tra fresco mormorio d’alberi e fiori
ella siede,...
(Carducci, Visione)
L’espressione fresco mormorio crea un’immagine associando due termini che appartengono a sfere sensoriali diverse, quella tattile (fresco) e quella uditiva (mormorio): questa
è la sinestesia.
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
sfera uditiva (voci) + sfera visiva (tenebra azzurra)
(Pascoli, La mia sera)
Per la fresca finestra
scorre amaro un sentore di foglie.
sfera gustativa (amaro) + sfera uditiva (sentore)
(Pavese, Ulisse)
Sepolto nella bruma il mare odora.
sfera visiva (bruma) + sfera olfattiva (odora)
(Cardarelli, Sera di Liguria)
La sinestesia oggi: è molto usata nella pubblicità, dove la sinestesia più famosa e più abusata è il gusto morbido attribuito a famosi alcolici, a formaggi ecc. Altre sinestesie ricorrenti: colori a tinte calde/fredde (sfera visiva + sfera tattile); musica dolce (sfera uditiva +
sfera gustativa); suono vellutato (sfera uditiva + sfera tattile).
Laboratorio
1
Completate le sinestesie, segnalando quali sensi sono coinvolti e attraverso quali
parole:
Ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.
sfera ______ (aspro) + sfera ______ ( _____ )
(Carducci, San Martino)
E del grave occhio glauco entro l’austera
dolcezza si rispecchia ampio e quieto
il divino del pian silenzio verde.
sfera ______ ( ____ ) + sfera ______ ( ____ )
(Carducci, Il bove)
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
(Pascoli, Il gelsomino)
sfera ______ ( ____ ) + sfera ______ ( ____ )
112
Canone Occidentale - La poesia
12.5. Metonimia
… porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
(Leopardi, A Silvia)
In questo esempio, la faticosa tela sta per “faticoso lavoro”: dunque il poeta usa un termine concreto (tela) per indicare l’astratto (lavoro).
La metonimia consiste nella sostituzione di un termine con un altro, che possono avere
tra di loro uno dei seguenti rapporti:
-
la causa per l’effetto / l’effetto per la causa;
la materia per l’oggetto;
il contenente per il contenuto;
lo strumento al posto della persona;
l’astratto per il concreto / il concreto per l’astratto;
il simbolo per la cosa simbolizzata.
Esempi:
… s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
(le finestre sono
illuminate)
la causa per
l’effetto
(tromba)
l’effetto per la
causa
(un uomo)
lo strumento al
posto della persona
(gloria poetica)
il simbolo per la cosa
simbolizzata
(Cardarelli, Sera di Liguria)
assursero in fretta dai blandi riposi,
chiamati repente da squillo guerrier.
(Manzoni, Adelchi, atto terzo, coro)
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
(Leopardi, A Silvia)
… e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor,…
(Leopardi, Le ricordanze)
La metonimia oggi: leggere Tolkien (l’autore per l’opera); bere un Martini (il produttore
per il prodotto); bere un bicchiere (il contenente per il contenuto); andare in San Pietro (il
patrono per la chiesa); non ha cuore (il fisico per il morale); avere molte amicizie (l’astratto per il concreto). Tante le metonimie del simbolo per la cosa simboleggiata: armi per
“guerra”, e delle divise per designare chi le indossa: bianconeri per “giocatori della
Juventus”. Da aggiungere le denominazioni delle sedi per le istituzioni o gli organi di
governo: il Vaticano, Palazzo Chigi, la Casa Bianca.
Il metodo
113
Laboratorio
1
Completate le seguenti metonimie, segnalando il tipo di sostituzione:
Mentre Rinaldo così parla, fende
con tanta fretta il suttil legno l’onde,
(barca) _________________
(Ariosto, Orlando furioso, canto XLIII)
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.
(dal mosto che bolle nei tini) _________________
(G. Carducci, San Martino)
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
(G. Leopardi, Il passero solitario)
(i giovani) _________________
114
Canone Occidentale - La poesia
12.6. Sineddoche
E quando la fatal prora d’Enea
per tanto mar la foce tua cercò,…
(Carducci, Agli amici della Valle Tiberina)
Qui Carducci indica la nave, nominandone solo una parte: la prora.
Come la metonimia, la sineddoche è una figura di sostituzione. Ma a differenza della
metonimia, il rapporto che sta alla base della sineddoche è esclusivamente di quantità.
Si ha una metonimia quando si usa:
- la parte per il tutto / il tutto per la parte;
- il genere per la specie / la specie per il genere;
- il singolare per il plurale / il plurale per il singolare.
Esempi:
…E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,…
(i venti) la specie per il genere
(Foscolo, Alla sera)
… onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque…
(versi)
il singolare per il plurale
(Foscolo, A Zacinto)
La sineddoche oggi: i senza-tetto (per “casa”, la parte per il tutto); “dacci oggi il nostro
pane quotidiano” (per “cibo”, la specie per il genere); lo straniero per “gli stranieri” (il
singolare per il plurale).
Laboratorio
1
Completate la relazione su cui si basa la sineddoche:
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
(gli uccellini) ________________
(Pascoli, Il gelsomino notturno)
O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.
(fame)
( _____ )
_________________
_________________
(persona)
_________________
(Dante, Purgatorio XXIX)
- O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno:…
(Dante, Inferno XXIX)
Il metodo
115
12.7. Altre figure retoriche
■ PERIFRASI o CIRCONLOCUZIONE
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse
(Dante, Inferno XXV)
Dante utilizza un verso e mezzo per indicare una parte del corpo umano, l’ombelico.
La perifrasi è “un giro di parole” che sostituisce un unico termine definendolo o parafrasandolo.
Esempi:
in corso velocissimo se ’n vanno
là ’ve Cristo soffrì mortale affanno.
(Gerusalemme)
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto I)
l’amor che move il sole e l’altre stelle
(Dio)
(Dante, Paradiso XXXIII)
Ma lasciamolo andar dove lo manda
il nudo arcier che l’ha nel cor ferito.
(l’amore)
(Ariosto, Orlando furioso, canto CIX)
La perifrasi oggi: viene usata per nobilitare alcuni lavori un tempo disprezzati: così con
“operatore ecologico” si indica il netturbino (o quello che si chiamava “spazzino”).
Ricorre spesso nelle formule burocratiche: “Le esprimo i sensi della più profonda gratitudine” significa un semplice “grazie”.
Laboratorio
1
Indicate l’oggetto della perifrasi segnalata in corsivo:
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?
( _____ )
(Gozzano, La signorina Felicita)
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero...
( _____ )
(Montale, Piccolo testamento)
... nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui...
(Manzoni, Il Cinque Maggio)
( _____ )
116
Canone Occidentale - La poesia
■ IPERBOLE
- O frati, - dissi, - che per centomila
perigli siete giunti all’occidente
(Dante, Inferno XXVI)
In questi versi danteschi è riportato il discorso con cui Ulisse convinse i suoi compagni a
un’impresa mai tentata prima. Per meglio persuaderli egli utilizza l’iperbole centomila
perigli, dove il numero di centomila non è da interpretarsi letteralmente, ma sta ad indicare un numero elevatissimo.
L’iperbole consiste nell’esagerare o ridurre, oltre i limiti normali, la qualità di una persona, di un animale, di una cosa o di un’idea.
Esempi:
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto XII)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
(Montale, Satura, Xenia II)
Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!
(Quasimodo, Ora che sale il giorno)
L’iperbole oggi: mi piace da morire; scrivimi due righe; non ha un briciolo di cervello
(con metonimia “cervello”: il concreto per l’astratto); essere accecato dalla rabbia; non
vedere al di là del proprio naso; bere un goccio d’acqua.
■ CLIMAX
O mia stella, o fortuna, o fato, o morte,
o per me sempre dolce giorno e crudo, ...
(Petrarca, Canzoniere CCXCVIII)
Il poeta crea una gradazione tra diversi concetti di destino: dal più immediato e “umano”
(stella: “avere una buona stella”, ecc.) a quelli più divini (fortuna, fato) e fatali (morte).
La climax consiste nell’ordinare i concetti in modo che dall’uno si passi all’altro come
per gradi.
Quando Orion dal cielo
declinando imperversa;
e pioggia e nevi e gelo
sopra la terra ottenebrata versa, [...]
(Parini, La caduta)
Il metodo
117
In questi versi si passa dal concetto più “piccolo” al più “grande”: gelo è più di neve,
che a sua volta è più di pioggia.
Altri esempi:
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso, [...]
(Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)
Non cala il ferro mai, ch’a pien non colga,
né coglie a pien, che piaga anco non faccia,
né piaga fa, che l’alma altrui non tolga;
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto IX)
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; ...
(Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno)
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, propende.
(D’Annunzio, L’onda)
■ ANAFORA
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo; ...
(Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)
L’anafora consiste nella ripetizione di una o più parola all’inizio di due o più versi.
Esempi:
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
118
Canone Occidentale - La poesia
per me si va tra la perduta gente.
(Dante, Inferno III)
Figlio, l’alma t’è ’scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossecato
(Jacopone da Todi, Laude)
■ ANTITESI
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
(E. Montale, Satura, Xenia II)
In questi versi il viaggio (metafora della vita del poeta) è descritto con gli aggettivi breve
e lungo.
L’antitesi consiste nella contrapposizione di idee espressa mettendo in corrispondenza
parole di significato opposto.
Su questa figura retorica alcuni autori costruiscono intere poesie, come l’esempio seguente tratto dal Canzoniere di Petrarca:
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra
(Petrarca, Canzoniere CXXXIV)
o come in questo di Dante, dove ci sono tre antitesi consecutive:
- Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura
(Dante, Paradiso XXXIII)
■ OSSIMORO
Sentia nell’inno la dolcezza amara
de’ canti uditi da fanciullo; ...
(Giusti, Sant’Ambrogio)
L’espressione dolcezza amara è ottenuta mediante l’accostamento di due parole che indicano l’una il contrario dell’altra.
L’ossimoro è una figura retorica simile all’antitesi, e consiste nel giustapporre due termini di significato opposto, da cui risultano binomi che solitamente sono composti da:
- sostantivo + aggettivo:
Il metodo
119
Figure di Neumi elle sono
in questa concordia discorde.
(D’Annunzio, Undulna)
- verbo + sostantivo:
Cessate d’uccidere i morti
(Ungaretti, Non gridate più)
- aggettivo + avverbio:
Ma il fanciullo Rinaldo e sovra questi
e sovra quanti in mostra eran condutti,
dolcemente feroce alzar vedresti
la regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto I)
■ CHIASMO
Immota e come attonita ste’ alquanto;
poi sciolse al duol la lingua, e gli occhi al pianto.
(Ariosto, Orlando furioso, canto VIII)
Potremmo schematizzare le parti di verso segnalate in corsivo e sottolineate con AB BA,
dove A sta per i termini astratti (duol, pianto) e B per quelli concreti (la lingua, gli occhi),
oppure attraverso una croce:
duol
la lingua
gli occhi
al pianto
Il chiasmo consiste nel disporre in modo incrociato, secondo la forma della lettera greca
χ (chi), due termini o due frasi.
I tipi di chiasmo sono essenzialmente due:
- quando le espressioni che lo compongono si corrispondono per la struttura grammaticale:
Quell’uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno, ...
(Dante, Paradiso XIV)
120
Canone Occidentale - La poesia
Fuggì tutta la notte e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto VII)
- quando la corrispondenza avviene per significato:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto
(Ariosto, Orlando furioso, canto I)
ingiusto fece me contra me giusto
(Dante, Inferno XIII)
Il chiasmo oggi: un chiasmo pubblicitario è Profumo Antico Nuovo Pulito.
■ PERSONIFICAZIONE
Febbraio è sbarazzino.
…
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante,
che mette a soqquadro la casa, …
(Cardarelli, Febbraio)
In questa poesia il mese di febbraio è visto come un ragazzo, e il poeta gli attribuisce un
tipo di comportamento giovanile: fastidioso, irritante.
Come suggerisce il nome, la personificazione consiste nell’attribuire a cose e ad animali azioni o sentimenti umani: ovvero nel renderli “persone” attraverso le caratteristiche loro attribuite.
Ad esempio, nell’Iliade vediamo cavalli che piangono:
D’Achille i cavalli intanto, veduto
il loro auriga dalla lancia di Ettore
nella polvere abbattuto, lontano
dalla battaglia erano là piangenti.
(Omero, Iliade Libro XVII, traduzione di Lorenzo De Ninis)
Altri esempi:
… e da le aurate volte
a lei impietosita eco rispose…
(Parini, Il giorno)
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Il metodo
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(Pascoli, La mia sera)
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
(Pascoli, Il gelsomino notturno)
È giù nel
cortile
la povera
fontana
malata,
che spasimo
sentirla
tossire!
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace,
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che ài
il core
mi preme.
(Palazzeschi, La fontana malata)
Vanno a sera a dormire dietro i monti
le nuvolette stanche.
(Saba, Favoletta)
■ ALLITTERAZIONE
e caddi come corpo morto cade.
(Dante, Inferno V)
In questo verso dantesco, due sono i suoni ripetuti con grande insistenza: /c/ e /o/.
L’allitterazione consiste nel ripetere le stesse lettere (vocale, consonante o sillaba) all’inizio, ma anche all’interno di due o più parole successive legate dal senso.
Per estensione, consiste nella ripetizione di suoni in qualsiasi posizione, vicini tra loro
quanto basta per essere avvertiti facilmente nella loro sequenza.
tra fresco mormorio d’alberi e fiori
(Carducci, Visione)
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria,…
(Cardarelli, Sera di Liguria)
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Canone Occidentale - La poesia
Viene il freddo. Giri per dirlo
tu, sgricciolo, intorno le siepi;
e sentire fai nel tuo zirlo
lo strido di gelo che crepi.
(Pascoli, L’uccellino del freddo)
Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza.
(Ungaretti, Universo)
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
(Pascoli, La mia sera)
■ ONOMATOPEA
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,…
(D’Annunzio, L’onda)
In questi versi, attraverso un’accurata scelta e un accostamento efficace dei vocaboli, il
poeta riesce a riprodurre il rumore dell’acqua.
L’onomatopea consiste nella composizione di parole che cercano di imitare e riprodurre un suono, un rumore o la voce degli animali.
Esempi:
A tutte l’ore gettate all’aria,
chi di tra i solchi, chi di sui rami,
la vostra voce stridula e varia,
chi, che ripeta, chi, che richiami.
(Pascoli, Primo canto)
Le vele le vele le vele
che schioccano e frustano al vento
(Campana, Barche amarrate)
Il metodo
123
Laboratorio
ESEMPIO DI ANALISI RETORICA
L’analisi retorica di un testo poetico può sembrare un esercizio arido, e in parte lo è.
Tuttavia ci fa “entrare” nel testo, di cui ci rivela alcuni meccanismi base. Insomma ci
rende lettori più consapevoli.
Prendiamo un’ottava della Gerusalemme liberata del Tasso e proviamo a rintracciare tutte
le figure retoriche.
Vinta da l’ira è la ragione e l’arte
e le forze il furor ministra e cresce.
Sempre che scende il ferro o fora o parte
o piastra o maglia, e colpo in van non esce.
Sparsa è d’arme la terra e l’arme sparte
di sangue, e ’l sangue co ’l sudor si mesce.
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
fulmini nel ferir le spade sono.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto VI, ottava 48)
Principali figure retoriche:
- Personificazione: «il furor» (v. 2) è come una persona che amministra, distribuisce e
accresce le forze e l’ingegno del cavaliere.
- Sineddoche: «il ferro» sta per la spada, secondo il rapporto “la parte per il tutto”.
- Metafora: le spade, nella battaglia, sono descritte come «lampo», «tuono» e «fulmini»,
gli elementi caratteristici di una tempesta. Inoltre, la successione di questi tre termini
forma una climax.
- Chiasmo: al v. 5 troviamo la disposizione incrociata del chiasmo: «Sparsa è d’arme la
terra e l’arme sparte».
Altre figure retoriche:
- Polisindeto, ovvero il collegamento di vari termini mediante ripetute congiunzioni: «o
..., o ..., o ..., o ...» (vv. 3-4).
- Poliptoto, ovvero la ripetizione di un vocabolo in forme o funzioni grammaticali diverse: «sparsa» e «sparte» (v. 5).
- Iperbato, cioè il separare due parole che dovrebbero stare insieme, interponendovi altri
elementi, al v. 5: «Sparsa è d’arme la terra».
- Anastrofe, cioè l’inversione dell’ordine naturale o abituale delle parole all’interno di un
verso:«fulmini nel ferir le spade sono», dove il verbo viene posto alla fine della frase.
124
Canone Occidentale - La poesia
Esercizio 1
Resta Goffredo a i detti, a lo splendore,
d’occhi abbagliato, attonito di core.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto I)
In questi due versi sono presenti:
- un chiasmo:
__________________________________
- un’allitterazione:
__________________________________
Esercizio 2
Là dove più mi dolse, altri si dole,
e dolendo adolcisce il mio dolore; [...]
(Petrarca, Canzoniere CV)
Quale figura retorica è contenuta nell’espressione dolendo addolcisce?
■■ sinestesia
■■ ossimoro
■■ iperbole
Esercizio 3
O, tinta d’un lieve rossore,
casina che sorridi al sole!
(Pascoli, In viaggio)
Individuate all’interno dei versi le seguenti figure retoriche:
- sinestesia:
____________________________
- personificazione:
____________________________
Esercizio 4
Tu fiore non retto da stelo,
tu luce non nata da fuoco,
tu simile a stella nel cielo;
(Pascoli, Il sogno della vergine)
Riconoscete la similitudine e la metafora contenute nei versi:
- similitudine:
____________________________
- metafora:
____________________________
Il metodo
125
Esercizio 4
Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrata i’ porto.
Forse un dì fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
(Tasso, Gerusalemme liberata, canto I, ottava 4)
- In questa ottava è contenuta un’allegoria. Provate a coglierne gli elementi e a spiegarla.
- Altre figure retoriche:
carte sta per _______________
Di che figura retorica si tratta?
–––––––––––––––––––––––––
fronte sta per _______________
ed è:
■■ metonimia
■■ iperbole
■■ perifrasi