Reclusi in libertà

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Reclusi in libertà
Rossana d’Ambrosio
Reclusi in libertà
Romanzo
© 2014
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PERSONAGGI
Claudia Evita Romero: l’architetto, protagonista
femminile
Giorgio Riva:
il matematico, marito della
protagonista
Corinna Rubino:
la dottoranda
Tom Rosset:
l’avvocato
Grazia Teggi:
la psicologa
Flavio Cassini:
l’antropologo
Margherita Repetto:
la mamma di Flavio
Gualtiero Cassini:
il papà di Flavio
Frida Cassini:
la sorella di Flavio
Carlo Gobino:
il cognato di Flavio
Filippo Cassini:
il fratello minore di Flavio
Viola Roncati:
la dottoressa
Augusto Aiani:
il costruttore
Carmine Bonadies:
il capomastro
Diana e Vito:
i volontari del carcere
I protagonisti della vicenda narrata sono frutto di fantasia.
I riferimenti ai fatti di cronaca sono reali.
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INDICE
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Incipit
pag
L’ostinazione
L’abbandono
La colpa
La sofferenza
Il dubbio
La comicità
Il cambiamento
La forza e la debolezza
Il sacrificio
I progetti e i sogni
La scrittura
L’amicizia
Il destino
La privazione e il nulla
L’inganno e la dipendenza
La sorpresa
La perfezione
Il mistero
Il viaggio irrinunciabile
La rivelazione
La fiducia
La verità
Il peso
Il carcere
La libertà
La paura
L’inatteso e l’imprevedibile
Il sapore
L’etica e l’estetica
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1.
A poco più di quarant’anni ero rinata. Una seconda
vita si apriva davanti a me, ma la gestazione che mi aveva
condotto alla rinascita non era durata nove mesi, bensì
molto di più. Avevo superato l’elefante asiatico che è il
mammifero che vanta la gravidanza più lunga, ben settecento giorni, quasi due anni. Io ero come la salamandra
nera delle Dolomiti la cui gestazione è di quarantotto
mesi.
Erano stati quattro anni intensi nei quali, tra slanci e
struggimenti, angosce e passioni, brancolavo al buio. Ora
dopo il primo vagito, ultimo grido di dolore per il passato,
ero pronta a vivere e a respirare in libertà.
La salamandra nera, secondo una credenza diffusa già
nell’antichità, tramandatasi alla cultura medievale
europea e non del tutto spenta nelle campagne, può vivere
nel fuoco e dominare la fiamma. Nella simbologia legata
alle più antiche tradizioni, era associata alla forza che non
cede alle tentazioni e al coraggio di fronte alle sofferenze.
La mia esistenza in quegli anni si era alternata tra svilimento e fiducia, tra depressione e voglia di rinascita, ed
era stata proprio come una lunga gestazione da cui rinascere con coraggio e senza ombre del passato.
Dopo tante peripezie, complessi di colpa, pesanti
catene e un periodo di dipendenza da psicofarmaci, ero
finalmente libera e ne andavo fiera. E in più ora la vita
stava per porgermi un regalo inaspettato.
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Era il mese di luglio di una calda estate, stagione che
per me è foriera di entusiasmo e novità positive.
Esattamente il contrario di ciò che mi porta l’inverno.
Sarà stato per semplice casualità, ma ogni evento difficile e drammatico della mia vita si è verificato nelle stagioni più fredde, in concomitanza di insistenti piogge
cosicché tutto l’ambiente attorno, mi è sempre apparso in
sintonia con il mio buio stato d’animo e il mio dolore.
2. L’ostinazione
L’ostinazione è un male molto forte; si aggrappa
al cervello e spezza il cuore.
Isabel Allende, La figlia della fortuna, 1999
Si ottiene molte volte più presto e con minori pericoli e spesa le cose a fuggirle, che con ogni forza e
ostinazione perseguitandole.
Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, 1520/25
Mio marito mi aveva lasciata nell’inverno di quattro
anni prima, nei gelidi giorni della merla di fine gennaio. E
lo aveva fatto nel modo più doloroso e definitivo, senza
possibilità di appello.
Il nostro matrimonio, durato otto anni, era stato
un’unione dapprima meravigliosa e appagante, fino ad
essere pian piano divorata da un tarlo che non eravamo
riusciti a combattere: la sterilità. La mia sterilità. E una
donna che si sente madre e non riesce a divenirlo, diventa
una tigre asserragliata in gabbia.
Il mio unico obiettivo, per lunghi anni, è stato sempre
lo stesso: un bambino.
Avrei fatto qualsiasi cosa pur di averlo. Quando
apprendevo dai telegiornali che qualche banda criminale
aveva organizzato l’arrivo di donne incinte dall’estero,
per farle partorire in Italia, facendo poi riconoscere il
bambino dall’uomo di coppie sterili, che dichiarava di
averlo concepito durante un rapporto occasionale, anziché
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indignarmi ero rallegrata. Compiaciuta del fatto che qualcuno si fosse prodigato nel trovare nuove vie per dare figli
a chi non riesce a concepirli.
Dal compiacimento iniziavo poi a fantasticare su
come poter entrare in contatto con queste associazioni a
delinquere. Ovviamente Giorgio prendeva tutte le
distanze da queste assurde congetture. La sua mente si
soffermava sulle sane congetture matematiche e non ne
tollerava di altro tipo. La volta che avevo provato ad
accennare all’ipotesi di avere un bambino percorrendo
una strada illecita si era infuriato, cosa che non era da lui,
e mi aveva dato della squilibrata.
– Claudia, la tua ostinata ricerca di maternità sta alterando il tuo equilibrio mentale. Ho sempre fatto di tutto
per starti accanto con amore e comprensione, ma evidentemente non è bastato. Ora, se tu sei folle fino al punto di
ipotizzare di rivolgerci ad una banda di criminali per
avere un figlio, io non ci sto. Mi hai capito bene? – aveva
urlato mentre i tratti del suo viso si alteravano vistosamente. – Ti ho seguita dappertutto tra cure e fecondazioni
assistite. Ora basta! Sei sulla strada sbagliata, ti consiglio
un sano percorso di psicoterapia. E a questo punto ci
andrai da sola. Il problema è tuo. Io non ti ho mai fatto
pesare di non poter avere figli e posso vivere anche senza
essere padre. Curati! Orientandoti al cervello, più che
all’utero!
Non solo il mio apparato riproduttivo era fallace, ma
ora ero pure carente nel cervello.
Da quel giorno, io e Giorgio avevamo proseguito
viaggiando su binari separati, con affetto ma lontani,
accompagnati da un logorante brusio di fondo che rendeva incomprensibile ogni tipo di comunicazione verbale.
Ogni tanto lui mi stringeva a sé avvolgendomi con
tenerezza per farmi sentire che c’era, ma io rimanevo
rigida tra le sue braccia come un albero secco e malato. E
in quei momenti, pur cogliendo il calore dei suoi slanci
d’affetto, pur desiderando anch’io stringerlo, restavo attanagliata e visualizzavo un albero spoglio incapace di dare
frutti, non degno di protendere i suoi rami verso il mondo.
Forse avrei dovuto ritrovare me stessa per poter ritrovare noi, ma ero imbalsamata nella mia sconfitta senza
riuscire a fare alcunché. Non avevo escluso di intraprendere un percorso di psicoterapia, ma non ero ancora
pronta a mettermi in gioco. L’idea di andare a scoperchiare un vaso pieno di dolore mi bloccava, quindi rimandavo continuamente.
Non ero riuscita a proferire parola dinanzi alle sue
esternazioni così perentorie. Le lacrime rigavano il mio
volto stanco e io mi afflosciavo piegata dall’umiliazione.
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3. L’abbandono
La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la
povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi,
eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.
Victor Hugo, I miserabili, 1862
Avevo sperimentato una sofferenza che mi pareva già
elevata, ma quella per l’abbandono, drastico e repentino,
non l’avevo messa in conto.
Giorgio era un matematico e insegnava all’università.
Da parecchi anni stava lavorando alla dimostrazione dell’ipotesi di Reimann, un luminare nato in Germania nella
prima metà del 1800.
La sua congettura, formulata per la prima volta nel
1859 è considerata il più importante problema aperto della
matematica, per la soluzione del quale il Clay
Mathematics Institute ha offerto un premio da un milione
di dollari.
Giorgio aveva coinvolto i suoi migliori allievi nello
studio per la soluzione di questo giallo matematico.
Il loro obiettivo era quello di stabilire una regola
matematica che dimostri l’esistenza o meno di una logica
cadenza nella distribuzione dei numeri primi. La presenza
di un certo ritmo oppure un’aritmia totale nel loro succedersi, comporterebbe devastanti ricadute sulle applicazioni informatiche poiché l’attuale crittografia utilizza,
come chiavi di sicurezza, numeri interi la cui fattorizzazione in numeri primi molto grandi non è calcolabile in
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tempi accettabili. Quindi i sistemi di autenticazione utilizzati dalle banche dovrebbero essere riformulati sulla base
di altre tecniche di sicurezza telematica, quali ad esempio
la crittografia con le funzioni ellittiche modulari.
Negli anni in cui io mi ero cocciutamente accanita sul
concepimento di un bambino, Giorgio che non ammetteva
di ostinarsi come me sulla nostra genitorialità, aveva
rivolto tutti i suoi interessi verso gli studi matematici. Il
suo lavoro era divenuto anche il suo hobby, lasciando solo
qualche piccolo ritaglio alla sua passione di gioventù per
le moto.
E proprio sulla sua adorata moto, compagna di giri
avventurosi, nell’inverno del 2008 ebbe un terribile incidente nella zona del cuneese. Con tutto il club dei suoi
amici motociclisti era stata organizzata una gita. Lui era il
capo fila mentre percorrevano una grossa strada statale.
L’asfalto non era bagnato e non andava forte. Non si sa
perché, ma perse il controllo della moto. Venne proiettato
verso l’alto come un razzo per poi ricadere nel burrone a
lato strada dopo aver battuto contro un muro di contenimento in cemento. Questa scena agghiacciante era stata
seguita dagli amici che erano dietro di lui a una cinquantina di metri di distanza.
L’ambulanza del 118 lo portò presso l’ospedale più
vicino, ad Alba. Io venni avvisata dai suoi amici e lo raggiunsi in poco più di un’ora. La strada per arrivare da lui
ero solo l’inizio di un percorso arduo e pieno di sorprese.
Nei giorni trascorsi al capezzale di Giorgio, nelle
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poche ore consentite mentre si trovava al reparto rianimazione, più volte avevo incrociato una giovane donna.
Aveva un volto decisamente interessante. Gli occhi chiari,
lo sguardo profondo e tagliente, la bocca sensuale. Non
appena io arrivavo, lei si dileguava senza dire neppure una
parola, investendomi coi suoi occhi penetranti e l’abbozzo
di un sorriso forzato. Talvolta giungevo prima io e lei
aspettava nel corridoio gettando furtivamente lo sguardo.
Un giorno l’avvicinai tendendole la mano: – Piacere
sono la moglie di Giorgio, – le dissi. – L’ho notata qui
diverse volte e mi stavo chiedendo se in precedenza ci
eravamo già conosciute. Fa parte della nostra famiglia ed
io ho perso la memoria?
– No, non ci siamo mai viste prima, se non recentemente in questo ospedale. Piacere, mi chiamo Corinna! –
mi disse stemperando la sua solita freddezza. – Frequento
il dottorato di ricerca nel dipartimento di matematica
all’università.
– Capisco! E come mai questa assiduità da parte di
una dottoranda? Se posso domandarglielo…
– Non è solo da parte mia l’assiduità, ma tutto il
gruppo che si occupa dello studio sull’ipotesi di Reimann
è molto affezionato al professor Riva. Ci stiamo alternando qui ad Alba io e il mio collega Kamal, un ragazzo
indiano, il genio del nostro dipartimento. Anche lui viene
qui spesso.
– Non l’ho mai visto! Comunque vi dico grazie per la
vostra presenza, ma aggiungo che per quanto premurosi
mi sembrate inopportuni. Anzi del tutto fuori luogo!
Sicuramente, vedere degli estranei lo affatica. Mi stupisce
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che la caposala del reparto non vi abbia mandato via.
– È proprio lei che ci ha chiamato!
– Come? Vi ha chiamato?
– Sì, proprio così.
– Manco foste sua sorella e suo fratello… Non
capisco.
– Il professore comunica scrivendo su quella lavagnetta che tiene spesso in mano. Aveva scritto di contattarci. Pensi che si è ricordato il numero telefonico del
dipartimento, lo ha scritto molto malamente sulla sua
lavagnetta. Un’infermiera lo ha decifrato, ha capito che
per lui fosse importante e ci ha chiamato. Quando il professor Riva ci ha visti, pur non potendo parlare ci ha
comunicato con gli occhi la sua contentezza.
– Già, per lui la matematica è sempre la prima cosa…
– risposi io seccamente.
– Il personale medico dice che il suo cervello, i suoi
pensieri, le sue preoccupazioni sono tutte orientate alla
matematica e non appena si riprende dai sedativi, butta
giù formule a una velocità impressionante. Qui sono tutti
sbalorditi.
– Lo vedranno come il genio folle. E un po’ folle lo è,
a pensare ai suoi studi mentre si trova in questo stato.
Dovrebbe pensare alla salute!
– Io credo che questo atteggiamento lo aiuti…
– Forse si butta nelle formule e congetture matematiche proprio per non pensare alla salute. Sa benissimo di
essersi rotto due vertebre dorsali. Sa che non potrà mai più
camminare. Non userà mai più le gambe, avrà difficoltà a
tenere il busto eretto. Le mani ora le usa in modo malde-
stro, poi chissà…
– Infatti quello che riesce a scrivere è difficilmente
comprensibile, ma noi allievi che lo conosciamo molto
bene da anni riusciamo a interpretarlo. Siamo abituati a
codificare i simboli buttati giù velocemente alla lavagna
dell’aula magna nelle interminabili dimostrazioni. Ora la
sua scrittura è più stentata, ma io e Kamal ce la caviamo
lo stesso.
– Che devo dire? Bravi! Pare che siate voi la sua famiglia.
– Sembrerà strano ma, in questi giorni, la sua mente
ha elaborato ulteriori passaggi preziosi che portano a stabilire nessi importantissimi tra l’ipotesi di Reimann e la
funzione z.
– La smetta per favore. Chi se ne importa della funzione z?! Ma si rende conto della situazione?
– Sì, perfettamente! – mi rispose guardandomi dritta
negli occhi senza il minimo cenno d’imbarazzo. – È come
se il suo cervello, prima in coma a causa dell’incidente e
poi per l’induzione dei farmaci, avesse ricevuto uno scossone produttivo per le sue facoltà cognitive. In pratica il
trauma l’ha portato ad elaborare nuovi preziosi passaggi
per la dimostrazione di questa congettura. Ora nei
momenti di lucidità, man mano che i farmaci vengono
diminuiti, vuole mettere nero su bianco. Per questo ha
sentito il bisogno di avere noi accanto. Per fissare insieme
le sue preziose intuizioni e condividerle con noi.
– Che cosa devo dedurre e concludere? Lo tiene in
vita soltanto la matematica. Per il resto non ha nulla da
condividere. Io passo ore accanto a lui, ma restiamo
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entrambi in silenzio. Certo in questo stato, per giunta tracheotomizzato non riesce a parlare. Con voi usa la lavagnetta ma con me non ha manifestato il desiderio di scrivere. Quando gli domando se ha male o se ha sete mi
risponde con gli occhi. Non mi ha mai accennato di voler
dire altro.
– Non è facile per lui scrivere sulla lavagnetta. Butta
giù a fatica segni quasi indecifrabili. Il suo corpo è
distrutto e debilitato ma il suo cervello è come se avesse
preso il volo superando se stesso e le sue già grandi capacità intellettive.
Io e Corinna avevamo preso a discorrere mettendo da
parte la riluttanza iniziale. I suoi occhi erano divenuti
meno gelidi e mentre mi parlava di Giorgio e delle sue
straordinarie facoltà mentali quasi si illuminavano.
Leggevo in lei un’ammirazione e una devozione smisurate, tanto che da quel momento iniziai a dubitare che fossero stati amanti.
Ma in quel contesto come potevo affrontarla, accusandola di essere l’amante di mio marito? Conscia del
dramma che stavamo vivendo, cercavo di allontanare da
me ulteriori angosce, ma tutto mi pareva estremamente
difficile.
Ricordo che di colpo, quella che per anni mi era sembrata una sterile routine matrimoniale, mi apparve come
un caldo focolare da rimpiangere e avrei dato tutto quanto
in mio potere perché ogni cosa potesse tornare come
prima, incasellata in quella quotidianità serena che profuma di famiglia.
Nel frattempo, cercavo di dominare la mia ansia e
attendevo di capire. Cercavo di scoprire se davvero
Giorgio e Corinna fossero amanti o avessero avuto una
breve storia, nonostante la differenza d’età. Provavo a
decifrare i loro comportamenti nel poco tempo in cui era
possibile osservarli. Poi mi sentivo una stupida nel dare
peso a questa ipotesi, avendo dall’altra parte la certezza
delle nostre vite compromesse da una disgrazia tanto
devastante. Ce l’avrei fatta a stargli accanto nel modo
giusto? Ad affrontare un percorso così impervio? Mi sentivo impotente, senza forze e anche vigliacca, ingiusta, nel
soffermarmi più volte a pensare. Nel chiedermi ripetutamente se una vita come quella che si prospettava a
Giorgio valesse la pena di essere vissuta o se non fosse
meglio morire. Ma perché mi domandavo questo? Perché
mettevo in dubbio la sua volontà di aggrapparsi alla vita e
la mia forza di stargli accanto? Mi sentivo in colpa per i
miei dubbi e le mie paure, ma di fatto c’erano e mi trafiggevano ogni istante, come lame taglienti allo stomaco.
Io e Corinna ci alternavamo nell’ospedale di Alba,
ormai da più di un mese; non erano infatti maturate le
condizione perché Giorgio potesse essere trasferito a
Torino. Ci incrociavamo nell’ora del pranzo, durante il
quale Giorgio ingeriva appena qualche cucchiaio di
liquidi. Per il resto veniva nutrito artificialmente.
– Signora non vorrei essere vista come un’invadente –
mi aveva detto un giorno, con fare calmo e quasi amicale,
mentre usciva dalla stanza di degenza. Ho una zia ad Alba
che mi può ospitare, quindi per me non è un problema
venire qui anche tutti i giorni.
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– E Kamal, il ragazzo indiano genio del dipartimento?
– Kamal viene solo ogni tanto, prende il treno perché
non possiede l’automobile. Al professore fa bene sentirsi
vicino al suo dipartimento e al lavoro che ama tanto.
Spero che questo a lei non dia fastidio.
– Anche i medici ritengono che sentirsi vicino al suo
dipartimento e alle cose che gli piacciono sia positivo per
la sua ripresa! E allora va bene, che altro potrei dire?
– Grazie Claudia – mi rispose con un sorriso triste,
pronunciando per la prima volta il mio nome – E lei
viaggia tutti i giorni?
– Io ho preso alloggio in una piccola pensione nel
centro di Alba, non lontano dall’ospedale. Seguo la sicurezza di un cantiere a Monticello d’Alba, a dieci chilometri da qui. Per fortuna un collega ha accettato uno
scambio di cantieri, così non sono costretta a tornare a
Torino. Per qualsiasi eventualità preferisco essere sempre
qui. Al mattino vado per i sopralluoghi in cantiere, verso
mezzogiorno arrivo in ospedale e ci rimango fino a sera.
Anche se per lo più è sedato, quando apre gli occhi e vede
che c’è qualcuno accanto a lui, è contento.
– Ho notato che lei è qui tutti i pomeriggi e per non
creare sovrapposizioni io vengo al mattino, così c’è
sempre chi gli fa compagnia.
– Ci sono stati nuovi sviluppi sulla faccenda z?
– La funzione z e l’ipotesi di Reimann intende…
– Sì proprio quella…
– Pian piano aggiungiamo nuovi passaggi. È come se
il professor Riva volesse trasmettere a noi qualcosa che
teme possa andare perduto. Probabilmente in qualche
fugace attimo ha un’illuminazione. Se c’è qualcuno al suo
fianco in grado di capirlo e di mettere giù le sue intuizioni,
lui è contento perché teme di dimenticare ciò che per
pochi istanti gli è balenato nella mente.
– Corinna, credo che purtroppo la funzione z sia l’ultima cosa in ordine di importanza. Priorità z.
– Perché dice questo?
– Ieri ho avuto un incontro con il medico della terapia
d’urgenza che lo segue dal suo arrivo in ospedale. C’era
anche l’ortopedico, il neurologo, lo pneumologo,
insomma tutta l’equipe che lo ha in cura. La sua situazione è molto critica.
– Lo so, ma il professore ce la farà.
– Nell’incidente è stato sbalzato via dalla moto, con
violenza, andando a ricadere sul muro in cemento del
bordo strada. Ha battuto violentemente lo sterno. Hanno
accusato questo colpo le costole, che fratturandosi hanno
trafitto i polmoni, e poi due vertebre. In questo momento
il pericolo più grave è quello polmonare, ma quando avrà
superato quello, ci sarà un problema insormontabile. La
frattura di quelle due vertebre e il conseguente danno al
midollo gli impediranno per sempre una vita normale.
Non appena sarà fuori pericolo di vita verrà trasferito a
Torino, all’unità spinale del CTO. Ma nessun intervento
gli restituirà la mobilità, potrà solo fare della rieducazione
per recuperare qualcosa… I medici sono stati schietti.
Tornerò a colloquio con loro nei prossimi giorni, ma mi
hanno già detto che non ci si può aspettare miracoli.
– Io invece credo di sì. La sua forza di volontà lo aiuterà a superare questi momenti drammatici. E per quanto
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riguarda il recupero degli arti so che lui ce la metterà tutta
e allora staremo a vedere… Io sono certa che farà passi da
gigante anche se questo percorso sarà lungo e faticoso. Le
sfide comunque sono da lui!
Mentre io continuavo ad avere paura per il futuro e a
pormi innumerevoli domande sul fatto che potesse valere
la pena di combattere a ogni costo, Corinna appariva
molto diversa. Più forte, volitiva, convinta che il suo
coraggio avrebbe compiuto il miracolo restituendo a
Giorgio una vita quasi perfetta. A rifletterci su si comportava proprio come una donna che, mossa dall’impeto di
un amore in piena, non può immaginare per un solo
istante che il suo legame non sia imperituro.
Iniziavo a pensare con ferma convinzione che Corinna
fosse davvero la sua amante. E mi dicevo che se Giorgio
ne fosse uscito vivo, presto mi avrebbe lasciata per stare
con lei. Così provavo a immaginare Giorgio e Corinna
insieme. Da quanto tempo mi stavano ingannando?
Cercavo di vederli nel loro passato prima dell’incidente,
quando io ero ancora ignara di tutto, poi nel loro futuro…
incerto sì, ma grazie alla forza trascinante di Corinna,
migliore di quello che avrei potuto offrirgli io. Corinna,
più giovane, più appassionata, più devota, più fiduciosa. E
infine più prolifica. Non una donna sterile e svilita per il
suo fallimento.
Pian piano maturavo la convinzione che dovevo rassegnarmi. Lei lo meritava più di me.
Nei giorni a seguire la situazione di Giorgio non
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migliorò. Non era assolutamente in grado di riprendere a
respirare autonomamente. Anche se i medici non si pronunciavano, a me appariva peggiorato. Il suo capo restava
per lo più riverso su un lato. I suoi occhi, prima vigili e
luminosi, li vedevo assenti e persi nel vuoto. Mi pareva un
moribondo che a tratti si risvegliava dal suo torpore e si
dimenava per comunicare cose incomprensibili. Quel
poco di vitalità che gli era rimasta la esprimeva con
rabbia, tutta la rabbia per non riuscire a farsi comprendere. La sua irrequietezza mi inquietava fino a paralizzarmi. Mi chiedevo quale sarebbe stato il futuro di noi tre.
E ripensavo a quando, nel corso di alcune discussioni a
casa di amici, mentre si parlava di eventualità così remote
da apparire assurde, lui aveva sempre sostenuto che
avrebbe preferito non vivere piuttosto che ritrovarsi ad
essere un disabile grave a vita e a dipendere dagli altri.
Gli erano stati diminuiti i farmaci analgesici e ora,
quando gli domandavo se provava dolore, sbarrava i suoi
occhi sgomenti, tentava di afferrare la mia mano ma non
ci riusciva. Continuava a essere nutrito artificialmente e
ogni momento della sua esistenza era divenuto straziante.
Cercai il suo neurologo, sentivo il bisogno di saperne
di più sul suo stato.
– Dottor Rizzo, sono molto preoccupata. Lo vedo
decisamente peggiorato. È così irrequieto, prima sembrava più tranquillo e meno sofferente.
– Questo dipende dal fatto che abbiamo iniziato a
ridurre i sedativi.
– Io ho bisogno di sapere, di capire.
– Il pericolo connesso alla sfera polmonare non è
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ancora scongiurato, ma abbiamo buone probabilità che ce
la possa fare. Possiamo cautamente stare tranquilli.
– Sì ma superato questo, quando sarà fuori pericolo di
vita, quale potrà essere la sua esistenza?
– Il danno è grave, questo glielo abbiamo già spiegato. L’uso degli arti inferiori purtroppo è compromesso.
Potrà esserci un parziale recupero sull’uso degli arti superiori. Per muoversi avrà bisogno di una carrozzina elettrica. Non sarà in grado di usare quelle carrozzine per le
quali è necessario l’uso della forza delle braccia per muovere le ruote. Con una buona riabilitazione potrà muoversi
con l’uso dei comandi posti sui braccioli, quindi sarà in
parte autonomo.
– A me pare che la situazione sia drammatica da come
lo vedo...
– Le assicuro che potrà esserci un buon recupero.
Credo che si dovrà effettuare, ma su questo sentiremo
ancora l’ortopedico, un intervento alla schiena per consentirgli di stare seduto in posizione eretta.
– Un recupero lungo e faticoso per vivere poi in
quello stato e chissà magari anche peggio… Posso dirle
solo una cosa, mio marito non avrebbe mai scelto di
vivere in quello stato. Ora tra respirazione assistita, interventi da superare, alimentazione artificiale, mi chiedo se
non si stia sfociando nell’accanimento terapeutico.
– Ma signora che cosa dice? Suo marito non è in
coma, costretto a una vita vegetativa. Si aggrappa alla vita
con tutto il desiderio di farcela e una grande forza di
volontà. Lo osservi mentre cerca addirittura di impegnarsi
portando avanti i suoi studi matematici. Magari dopo la
ripresa, sarà anche in grado di apportare grandi contributi
scientifici, grandi svolte nel suo campo. E certamente
questo sarà una grossa molla per lui. Il fatto di non poter
più deambulare sulle sue gambe, di non poter più andare
in moto, passerà in secondo piano. Subentrano altri valori,
altre ambizioni. Signora, quando dice che suo marito non
avrebbe mai scelto di vivere in quello stato, provi a guardare le cose dal “nuovo” punto di vista di suo marito, – mi
disse soffermandosi con particolare enfasi sull’aggettivo
“nuovo”.
– Non riesco ad accettare una prospettiva di vita così
disperata.
– È questo il punto! Non è lei che deve accettare. È
suo marito che deve farlo. E le assicuro che lo sta facendo.
Certamente sarà dispiaciuto di aver perso l’uso delle
gambe, ma dirotterà le sue aspettative su altri interessi e i
familiari dovranno aiutarlo in tal senso. Nell’incanalare
tutte le sue risorse, i suoi desideri, le sue soddisfazioni,
negli ambiti che a lui non sono preclusi. So quanto sia
faticoso, ma bisogna remare con lui nel mare in tempesta.
– Ho come l’impressione che lo stiamo trascinando
dove la tempesta imperversa ancora più forte!
– Io ho invece l’impressione che lei remi contro. Mi
perdoni per questa espressione così dura. Capisco il suo
sgomento, i suoi timori. Ma mi creda, i malati maturano
spesso più in fretta dei familiari, hanno una buona dose di
coraggio e dimostrano un grande attaccamento alla vita,
nonostante tutto. Si lasci contagiare dall’entusiasmo di
suo marito e da quello degli allievi del suo dipartimento.
Loro hanno un grande ruolo e una grande capacità nel
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riportarlo a quella parte di vita che sarà in grado di sorreggerlo.
In effetti, sia accanto a Corinna che a Kamal, Giorgio
sembrava prendere vitalità, appariva meno irrequieto e
mentre li guardavo tutti insieme nel tentativo di proseguire con le congetture matematiche, avevo compreso che
quello fosse per lui il più grande appiglio alla sua esistenza.
Corinna, fra tutti, era in grado di capirlo più di
chiunque altro. Certamente più di me. Ma anche più dei
medici e degli infermieri abituati ad accogliere le modalità compromesse di comunicazione delle persone traumatizzate.
Un mattino di una cupa giornata di fine febbraio, ricevetti una telefonata dall’ospedale sul mio cellulare. Era la
caposala del reparto dove Giorgio era ricoverato.
– Signora, mi spiace doverle comunicare che la situazione di suo marito si è aggravata nella notte. So che lei
viene sempre a fine mattinata, ma se potesse venire anche
prima…
– Certo…mi precipito, il tempo di arrivare – riuscii a
rispondere con voce mal ferma.
Mi catapultai percorrendo il pezzo di strada a piedi,
nel centro storico del paese, a passo velocissimo. Arrivai
in venti minuti.
Su una sedia tra quelle poste nell’ampio corridoio
dinanzi alla sua stanza, c’era Corinna. Era raggomitolata.
Le sue gambe erano piegate con i talloni che premevano
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sul bordo del sedile. Le braccia cingevano le gambe al di
sopra delle caviglie. La testa abbandonata sulle ginocchia.
Il mio passo svelto e deciso si arrestò davanti a lei rannicchiata in posizione fetale. Non l’avevo mai vista così.
Non alzò neppure la testa anche se aveva sicuramente
udito i miei passi e percepiva che fossi lì a guardarla. A
circa un metro da lei, sentii i lamenti del suo pianto. Era
un pianto inconsolabile, ma soffocato e non urlato al
mondo.
Feci ancora pochi passi per accedere alla camera dove
era ricoverato Giorgio. Sulla porta c’erano il dottor Rizzo
e un’infermiera.
– Siamo desolati signora. La situazione di suo marito
si è ulteriormente aggravata. Abbiamo fatto di tutto, ma
non ce l’abbiamo fatta.
– Mi aveva detto un paio di giorni fa che potevamo
essere cautamente tranquilli…
– La parola cautamente era riferita al fatto che non
fosse ancora del tutto fuori pericolo, ma ero pronta a credere che ne sarebbe uscito. Tutti lo credevamo, ma purtroppo non è andata così. La medicina non è una scienza
esatta e noi, in situazioni come queste, ci sentiamo davvero impotenti.
In quei lunghi interminabili istanti rimasi impietrita,
chiedendomi se stessi sognando o fossi desta. Mi pareva
quasi un film. Ma io mi sentivo più in platea che sulla
scena e osservavo il tutto da una certa distanza.
Chiesi di poterlo vedere. Era nel letto di degenza.
Sfiorai le sue mani ancora calde, accarezzai il suo viso
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con tenerezza augurandogli di raggiungere un posto
sereno lontano dal dolore e dalla disperazione.
Nel chiedermi se fosse già in qualche luogo dal quale
era possibile vederci, realizzai che mentre io non versavo
una lacrima, Corinna, raggomitolata nel corridoio accanto
alla camera, non si dava pace.
Giorgio ci aveva abbandonati, ma per me l’evento più
drammatico si era verificato prima, quando il suo corpo
aveva abbandonato lui costringendolo a vivere in catene
per il resto della sua esistenza. Quindi la sua morte non mi
appariva più tragica della sua disgrazia. La vedevo come
l’interruzione della sua sofferenza. Per me era come se
una mano pietosa l’avesse strappato alla vita terrena per
portarlo in un luogo tranquillo. E io stessa in quei
momenti sperimentavo una strana e assurda sensazione di
pace.
4. La colpa
La colpa è proprio l’unico fardello che gli esseri
umani non possono sopportare da soli.
Anaïs Nin, Una spia nella casa dell’amore, 1954
Ancora non sapevo che quell’inspiegabile sensazione
di pace e rassegnazione, provata nel giorno della sua
morte, mi avrebbe abbandonato presto per lasciarmi
addosso sensi di colpa, rimpianti e molto altro con cui, in
futuro, avrei dovuto fare i conti per poter continuare a
vivere.
Era il 29 febbraio del 2008 e, da lì a breve, la mia vita
iniziò ad apparirmi ben più difficile di come superficialmente avevo immaginato in quei primi istanti senza di lui.
Tre giorni dopo si svolse il funerale, a Torino, con rito
religioso nella sontuosa basilica della Gran Madre, situata
nell’omonima piazza tra il Po e i piedi della collina.
La basilica era gremita di gente, fiumane di allievi,
colleghi, amici e lontani parenti. Giorgio non aveva
parenti prossimi; era figlio unico di due figli unici. Dopo
il rito religioso al quale parteciparono circa mezzo
migliaio di persone, ci spostammo al cimitero monumentale di Torino per la sepoltura, dove ovviamente eravamo
molti di meno, comunque sfioravamo il centinaio. Non
mancavano Corinna, Kamal e i più fedeli allievi del suo
dipartimento. C’erano gli amici più cari tra cui il nostro
avvocato Tom Rosset, alcuni miei colleghi architetti e
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