NEWSLETTER RICERCA E INNOVAZIONE N. 3

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NEWSLETTER RICERCA E INNOVAZIONE N. 3
Newsletter n. 3
UNIONE INDUSTRIALE PRATESE
NEWSLETTER RICERCA E INNOVAZIONE N. 3
MONOGRAFIE
Gli enzimi……ma cosa sono?
Gli enzimi sono proteine, cioè composti organici (aventi come fondamento il carbonio) molto
complessi, che contengono anche azoto e che,
pertanto, possono essere definiti composti azotati.
Gli enzimi sono prodotti o meglio, secreti, dalle
cellule animali e vegetali o da microrganismi
quali i batteri o i funghi.
In questo periodo storico dove l’introduzione
degli organismi geneticamente modificati ha
diffuso un clima di sospetto verso le bio-tecnologie, è opportuno osservare che, gli enzimi,
pur essendo secreti da organismi viventi, non
sono viventi.
La funzione degli enzimi, in natura, è quella di
trasformare una sostanza complessa, denominata substrato, in strutture più semplici atte
ad essere utilizzate come sostanze nutrienti.
Per capire la funzione degli enzimi si può, per
esempio, osservare come un fungo riesca a
crescere su un tronco di un albero alimentandosi con il legno che, notoriamente, non è una
sostanza nutriente. Il fungo secerne appropriati enzimi i quali riescono a scomporre la
cellulosa del legno (substrato) in componenti
base ottenendo quindi glucosio che è un’ottima sostanza nutriente.
Come funzionano gli enzimi
La funzione degli enzimi è fondamentale anche
in organismi complessi; il nostro metabolismo è
infatti ottenuto grazie agli enzimi secreti dalle
cellule, noi però a differenza dei funghi sopra
citati abbiamo una dieta alimentare priva di
legno, in quanto non secerniamo quello specifico enzima che ci permetterebbe di scomporre e quindi digerire la cellulosa.
Esaminando più dettagliatamente la funzione
degli enzimi si osserva che essi si comportano
da catalizzatori nelle reazioni chimiche. In pratica essi agevolano le reazioni chimiche facendole avvenire ad un velocità più elevata
ed, in qualche caso, consentono reazioni che,
altrimenti, in quelle condizioni, non sarebbero
potute avvenire spontaneamente.
Percorso reattivo
La funzione del catalizzatore, da un punto di
vista energetico, consente alla reazione di svilupparsi rapidamente senza necessità di apporto di energia esterna e, di conseguenza, in
maniera economicamente vantaggiosa. Per esempio, una reazione
che, in presenza di un enzima avviene a 25°C, potrebbe, in sua assenza, richiedere temperature significativamente maggiori di 100200°C. E’ anche opportuno sottolineare che gli enzimi non prendono
parte alla reazione.
I reagenti ed i prodotti della reazione, sono i medesimi sia che la reazione avvenga in maniera enzimatica o meno. Gli enzimi intervengono
solo sul cammino della reazione, modificandolo, affinché il prodotto della reazione
sia ottenuto con minor “fatica”.
Con il termine generico enzima si identificano
molte proteine che hanno azioni chimiche diverse: per convenzione i nomi generici degli
enzimi hanno un suffisso –asi e richiamano alla
mente l’azione chimica che li caratterizza.
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Per esempio, l’amilasi, indica quell’enzima che
scompone un particolare polisaccaride (es.:
l’amido - sostanza costituita da molte molecole dette monosaccaridi legate fra loro) nei suoi
“mattoni” i monosaccaridi (zuccheri semplici).
Gli enzimi offrono notevoli possibilità di utilizzazione in campo industriale e consentono di
realizzare processi a minor impatto ambientale
ed a basso consumo energetico.
Una caratteristica interessante degli enzimi è
comunque la selettività: in presenza di diversi
substrati, la reazione enzimatica avviene solo
nei confronti di un particolare substrato mentre tutti gli altri possono risultare inerti.
Selettiva del substrato
La tabella seguente mette a confronto le reazioni enzimatiche e quelle chimiche:
Caratteristica
Reazione enzimatica
Reazione chimica
Substrato attaccato
Solo un substrato specifico
Più substrati
Al termine della reazione
Gli enzimi non si consumano
Le sostanze chimiche si consumano
Dosaggi richiesti
Molto bassi (anche in relazione
al fatto che non si consumano)
Tipicamente alti
Impatto ambientale
Molto basso (gli enzimi si
degradano per via biologica)
Può essere fortemente negativo
Per maggiori informazioni: [email protected]
Industria tessile ed enzimi: esiste un rapporto?
L’applicazione degli enzimi nei processi tessili
risale al lontano 1857, quando si iniziò ad utilizzare l’amilasi, un enzima che permette di rimuovere dalle fibre amido, nella sbozzimatura
del cotone.
I vantaggi specifici derivanti dal loro uso sono:
- reazioni più veloci
- capacità di agire solo su specifici substrati
- trattamenti in condizioni operative blande
- controllo agevole dei processi
- sostituzione di reagenti chimici
- processo ecologici ottenuti via sostanze
(enzimi) biodegradabili
Anche se ogni tipo di fibra, da quelle sintetiche a quelle ottenute da cellulosa (viscosa,
lyocell, acetato di cellulosa o triacetato di cellulosa) ha i suoi specifici processi, forse i maggiori sforzi sono stati fatti per mettere a punto
enzimi che lavorassero su fibre vegetali (cotone, ma anche lino) e su fibre animali (in particolare lana, ma anche cashimire, mohair, alpaca…..).
Prima di addentrarsi in una breve rassegna è
bene ricordare che spesso le fibre greggie sono
trattate, prima della tessitura, con prodotti che
servono a migliorare la tessibilità e che necessariamente vanno rimossi prima della nobilitazione.
La maggiore utilizzazione di enzimi nel comparto tessile si ha nel caso di tessuti di cotone o
di sue miste con fibre sintetiche; dove si utilizzano comunemente sbozzime di tipo enzimatico per rimuovere l’amido o altre sostanze
apprettanti senza danneggiare le fibre di cotone.
Esistono inoltre, anche se poco usati, dei trattamenti enzimatici di “pulizia” utilizzabili per la
rimozione di oli, cere, sporco e quant’altro.
Un altro processo enzimatico ormai completamente industrializzato è rappresentato dal biostonewash che ha ormai integrato, ed in parte sostituito l’invecchiamento dei jeans con il
metodo tradizionale dello “stone wash” meccanico eseguito esclusivamente con pietra
pomice. L’utilizzazione degli enzimi (cellulasi)
permette di minimizzare i danni da abrasione
meccanica tipici dei trattamenti con pietra
pomice, di accelerare i tempi di lavorazione e
di ridurre notevolmente l’impatto ambientale
legato alle lavorazioni eseguite con la pietra
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pomice.
Si ritrovano anche frequenti applicazioni industriali dei trattamenti cosiddetti biopolishing;
con questo termine si intende definire quell’insieme di processi effettuati per via enzimatica
che servono a per migliorare la mano e l’aspetto
di un tessuto. Si va da processi su cotone che
rimuovono sia i pills (palline che originano il
tipico fenomeno del pilling), che la lanugine
superficiale, aumentandone talvolta anche la
drappeggiabilità del tessuto, fino ai trattamenti
di cosiddetto “bruciapelo enzimatico”.
Anche se meno utilizzati esistono esperienza
di sbianca della juta e del cotone per via enzimatica, caratterizzati da aumenti della lucentezza del tessuto e diminuzione della quantità di acqua ossigenata impiegate.
Alcuni trattamenti con enzimi, pur essendo ormai studiati da anni, non risultano significativamente presenti nelle applicazioni industriali;
tra questi si ricordano:
- i processi di sbianca e sbozziamutura
contemporanei per il cotone;
- i trattamenti antinfeltranti per la lana, caratterizzati dall’abbattimento dell’impatto
ambientale tipico dei trattamenti tradizionali che prevedono l’uso di sostanze ossidanti o riducenti;
- la carbonizzazione enzimatica della lana
che tende a rimuovere a bassi costi, i contaminanti vegetali evitando di danneggiare
le fibre;
- la sgommatura enzimatica della seta
che assicura un’ottima rimozione della sericina senza danneggiare la fibroina avendo,
come effetto secondario, un aumento dell’affinità verso coloranti reattivi;
- i trattamenti enzimatici con per perossidasi che sono utilizzabili su tessuti di cotone o lana e che permettono di eliminare ogni
traccia di perossido (acqua ossigenata utilizzata in fase di candeggio), senza dover
ricorrere ai ripetuti lavaggi con acqua del
processo tradizionale, dopo i trattamenti di
sbianca
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Biotecnologie: dove siamo?
Esiste una marcata differenza fra ricerca e
applicazioni industriali nel settore delle biotecnologie. A livello di laboratorio sono stati individuati molto sistemi enzimatici, ma i processi
enzimatici industriali non sono molti. Questo è
dovuto non solo ad una ridotta collaborazione
fra mondo scientifico e industriale, ma anche
al fatto che i produttori sviluppano solamente
alternative a processi che già esistono, cosa
che li rende poco interessanti agli occhi dei
possibili fruitori.
Ci sono indubbiamente anche dei problemi oggettivi da superare. I processi enzimatici sono
in genere costosi, anche se in alcuni casi i
costi totali possono risultare competitivi.
Molti sono i parametri che ricoprono ruoli chiave nel processo in genere più lungo di quelli
tradizionali. Se si pone attenzione al fatto che
è assai complessa l’interazione sia con altri
enzimi che quella con composti chimici, si riesce a comprendere come mai si abbia scarsa
riproducibilità a livello industriale. In laboratorio si ha il completo controllo dei parametri,
cosa assai difficile a livello industriale dove la
realtà del processo è assai più complessa. Un
modo per rendere più agevole il passaggio dal
laboratorio alla fase produttiva è ovviamente
quello di usare impianti pilota. Gli enzimi, che
operano in genere a 40-80°C, a pH=4-8 e a
pressione atmosferica, sono sensibili alla temperatura, al pH, all’umidità e alla presenza di
contaminanti. Lo stoccaggio costituisce un altro problema, in quanto hanno una vita media
inferiore a molti composti chimici.
Interessanti prospettive sembra aprire l’ingegneria genetica che permette di modificare le
proprietà degli enzimi esistenti creandone nuovi
fatti in laboratorio “su misura”.
Esiste un interesse degli ambienti politici, in
particolare a livello europeo, verso le biotecnologie, perché in particolare in prospettiva
futura consentiranno di ottenere tecnologie
“pulite”, a basso impatto ambientale. Tutto
questo si traduce in investimenti, comunitari
essenzialmente, a favore di progetti di ricerca
che promettono di arrivare a nuovi processi
industriali. Tanto per fare un esempio, si è appena concluso un progetto di ricerca europeo
della durata complessiva di tre anni (BTP) volto all’individuazione di un pretrattamento integrato con enzimi di tessuti costituiti da cotone e da sue miste, sia per processi continui
che per quelli discontinui. Esistono altri progetto che riguardano la sbozzima e la sbianca
enzimatica: utilizzando un enzima della Novozymes, leader mondiale dei produttori di enzimi
col 43% del mercato, si sta tentando di arrivare ad un processo di sbozzima enzimatica in
continuo.
Sta guadagnando interesse sia il biopolishing
che il biostoning, come anche la biopurga del
cotone. Attualmente, anche se il maggior numero di trattamenti enzimatici è a vantaggio
del cotone, il loro uso va aumentando anche
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per le altre fibre naturali, quali la lana, e a
particolari fibre chimiche.
Nel 1998 il giro di affari mondiale degli enzimi
era di circa $ 1,5 bilioni di dollari con incrementi annui, a seconda del settore, che potevano arrivare al 15%. Attualmente si stima che
si aggiri attorno agli $ 80-130 bilioni di dollari
annui. S’intuisce allora perché i grandi gruppi
industriali si interessino alle biotecnologie. In
tale ottica hanno individuato il settore tessile
come un settore chiave.
Per maggiori informazioni: [email protected]
Impianto sperimentale per la sbozzima con enzima
PUBBLICAZIONI
Sbianca a raggi laser
La sbianca delle fibre cellulosiche naturali come
il cotone è uno dei processi più importanti nell’industria tessile. Purtroppo questa attività,
effettuata con agenti ossidanti, talvolta alogenati, genera, in quest’ultimo caso, una notevole quantità di contaminanti, a base di cloro, nelle acque di scarico.
Lo studio di vie alternative come quella di seguito descritta, meno inquinanti dal punto di
vista ambientale, è pertanto molto importante.
Un campione di tessuto di cotone purgato è
trattato con una soluzione acquosa di sodioboroidruro (NaBH4) e, successivamente, irradiato
con radiazione laser a temperatura ambiente
ed infine lavato con acqua ed asciugato.
Il grado di bianco e l’indice di giallo, ottenuti
con il trattamento, sono misurati con uno spettrofotrometro.
Come parametro di riferimento, per verificare
l’efficacia del trattamento, è stato preso lo
stesso tessuto di cotone sbiancato con il metodo a base di NaClO2.
Partendo da un cotone purgato con valori di
grado di bianco e di grado di giallo pari a: 29,12
e 10,77, già dopo 1 minuto di irraggiamento
laser, il grado di bianco e l’indice di giallo raggiungono valori migliori (51,57 e 1,72) di un trattamento tradizionale che dura circa 60 minuti e
che richiede temperature poco sotto i 100°C.
Aumentando il tempo d’irraggiamento i valori
migliorano mentre, aumentando l’energia del
laser, si osserva una minima diminuzione dell’efficienza del processo in particolare a livello
dell’indice di giallo.
I valori di bianco e indice di giallo indicano che,
un aumento della concentrazione del sodioboroidruro, migliora l’efficienza del processo, anche se, per concentrazioni superiori al 2%, si
ha un livellamento.
Si è anche osservato un insignificante processo di sbianca in acqua deionizzata, che consente di affermare che il sodioboroidruro sia
indispensabile.
I ricercatori hanno ipotizzato che i pigmenti
naturali presenti sulla fibra greggia vengano
resi più affini all’azione riducente del sodioboroidruro dall’azione del laser. A livello macroscopico tutto questo si manifesta con un maggiore grado di bianco del cotone. E’ un po’
quello che accade nella depigmentazione (mordenzatura) del cachemire con sali di ferro e
acqua ossigenata.
Tale ipotesi è avvalorata da reazioni analoghe
Il puntino nero si riferisce al grado di bianco, quello bianco all’indice di giallo
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che si verificano su composti insolubili simili
che subiscono irraggiamento UV invece che
laser.
E’ ovvio che tale processo che prevede l’uso,
anche se in minima quantità, di sodioboroidruro non è completamente ecologico, ma solamente meno inquinante di quelli tradizionali.
Tale studio è da considerare come un primo
gradino verso un processo ecologico.
Per maggiori informazioni: [email protected]
RICERCHE
Hipermax
Hipermax, acronimo di “High Performance Industrial Protein Matrices Through Bioprocessing”, è un progetto di ricerca co-finanziato
dall’Unione Europea nell’ambito del 6° Programma Quadro. Il progetto, in corso di svolgimento, della durata di tre anni (è iniziato il 1-32004 e terminerà il 28-2-2007), coinvolge oltre al DWI an der RWTH, Istituto Tedesco per
la Ricerca sulla Lana dell’Università di Aachen,
che funge da coordinatore, altri 15 soggetti
europei di 6 differenti paesi dell’Unione. Si articola sull’interscambio di conoscenze provenienti da diversi settori quali la microbiologia,
la biochimica, l’enzimologia, la ricerca nel campo
delle fibre, la scienza dei materiali e l’industria.
Lo scopo è quello di sviluppare nuove tecnologie enzimatiche altamente efficienti, economiche e che accrescano in modo desiderato le
proprietà sia superficiali che massive dei tessuti o di altri prodotti come il cuoio. Dal punto
di vista scientifico, si desidera scoprire nuovi
enzimi e aumentare la conoscenza circa i meccanismi di reazione enzimatici da applicare a
substrati quali lana, seta, pelle, con il fine di
produrre nuovi materiali “su misura” impiegando tecnologie a basso impatto ambientale.
Le attività del progetto comprendono:
1. Lo studio della reattività di alcuni enzimi
2. La ricerca dei metodi per produrre enzimi
modificati
3. La produzione di nuovi enzimi su scala pilota
4. L’utilizzo di nuovi enzimi per produrre materiali con nuove proprietà
5. L’ottenimento di prodotti ad elevato valore
aggiunto partendo da materiali di scarto tramite l’uso di processi enzimatici.
Tutto nasce dalla convinzione che l’industria
tessile e del cuoio sono settori caratterizzati
da un lento sviluppo se paragonati agli altri
settori. Si auspica quindi che l’introduzione di
nuovi sistemi enzimatici riduca l’impatto ambientale di tali industrie, rimpiazzando i rea-
genti chimici inquinanti impiegati oggigiorno, e
permetta la produzione di materiali ad elevate
prestazioni.
A livello italiano i soggetti interessati sono la
Stazione Sperimentale per la Seta, l’Università
di Pisa, Tecnotessile, la Tintoria del Sole spa e
E. Pecci & C spa.
In dettaglio attualmente Tecnotessile sta studiando trattamenti al plasma o con electronbeam (processo in cui i cambiamenti nella materia sono indotti da un fascio di elettroni) per
impiegarli, come pretrattamenti a finissaggi
enzimatici, nell’ottica di migliorare l’accessibilità dell’enzima al substrato tessile e quindi l’effetto del processo enzimatico, che nelle intenzioni dei ricercatori, a studi conclusi, potrà
essere applicato a tessuti di lana o seta in
alternativa ai processi tradizionali.
L’Università di Pisa sta studiando la realizzazione di supporti per la crescita cellulare da utilizzare nella rigenerazione di tessuti (ingegneria
tissutale) mediante la reticolazione catalizzata
dalla transglutaminasi di gelatina in miscela con
polisaccaridi. Tali materiali hanno proprietà meccaniche e di biocompatibilità tali da farne prevedere un possibile utilizzo come biomateriali.
Infine la Stazione Sperimentale per la Seta,
sapendo che la reticolazione o la funzionalizzazione della seta, migliora notevolmente le
sue proprietà e sapendo che la fibroina contiene una scarsa quantità di glutammina, ha
pensato di usare un diverso residuo amminoacidico per tale scopo, la tirosina. Questo ha
comportato rivolgere l’attenzione a enzimi diversi: le perossidasi e le tirosinasi. In futuro,
anche la sericina sarà usata come substrato
per le reazioni catalizzate sia dagli enzimi ossidativi che dalle transglutaminasi per reticolare
e/o funzionalizzare questa proteina allo scopo
di sfruttarne le proprietà in ambito tessile o in
altri settori industriali.
Per maggiori informazioni: [email protected]
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Bio-Lana
Il progetto europeo “Enzymatic modification of
wool – BIOWOOL” (2000-2003) aveva come
obiettivo lo sviluppo di processi di finissaggio
per la lana, a base enzimatica, che fossero
flessibili e che, nel contempo, avessero un basso impatto ambientale.
A tale scopo sono stati individuati nuovi sistemi enzimatici non proteolitici (enzimi che non
degradano le proteine di cui è costituita la lana)
appropriati per modificare specificatamente le
fibre di lana.
Alcuni nuovi enzimi sono stati prodotti utilizzando moderne tecniche di genetica molecolare. I microrganismi responsabili della produzione dell’enzima sono stati geneticamente
modificati così da ottenere degli enzimi con
funzionalità studiate specificatamente per il
substrato bersaglio.
L’efficienza dell’attività degli enzimi impiegati
nel progetto è stata monitorata sia con metodi avanzati di analisi superficiale, sia con misure di performance tecniche. L’effetto del trattamento enzimatico è stato valutato controllando, sul tessuto, parametri quali la resistenza al restringimento, la mano, la morbidezza e
la tingibilità.
Alcuni test sono stati effettuati anche su scala
pilota e industriale.
Il consorzio era costituito da sette soggetti
coordinati dall’istituto di ricerca finlandese VTT
Biotechnology per l’Italia hanno partecipato
Tintoria del Sole S.p.A., E. Pecci & C. S.p.A. e
Tecnotessile.
Tecnotessile, in collaborazione con le due industrie italiane, ha realizzato due studi, in parallelo, con l’intento di migliorare le proprietà
dei tessuti di lana attraverso l’uso della transglutaminasi, un enzima capace di favorire reazioni di reticolazione fra leproteine presenti
sulla superficie della lana, a livello dei processi
di finissaggio:
• Nel primo si è studiato un processo di tintura
che consisteva in una combinazione di coloranti acidi e premetallizzati in presenza di transglutaminasi. Sono state eseguite prove pilota
in sedici differenti condizioni variando sia la
concentrazione dell’enzima (da 0,175 a 1,75
mg di enzima per g di lana) sia quella degli
ausiliari tessili, mantenendo costante la quantità di tessuto trattato. I dati ottenuti hanno
portato a concludere che l’enzima lavora solamente a livello della superficie del tessuto migliorando le proprietà meccaniche in particolare nella direzione più debole, la trama. In particolare, si è osservato un aumento della resi-
stenza alla trazione (accompagnato, sorprendentemente, da un aumento dell’allungamento
a rottura) e della resistenza alla lacerazione
che, in taluni casi, è stata notevolissima. Non
si sono osservati peggioramenti nella solidità
del colore dei campioni tinti pretrattati con l’enzima rispetto a quelli non pretrattati. Non è da
dimenticare che lo scorrimento alla cucitura
talvolta è risultato peggiore quando si impiegavano coloranti premetallizzati dopo il processo enzimatico, mentre è migliorato (in certi
casi anche in modo significativo) quando il pretrattamento con l’enzima veniva seguito da una
tintura con coloranti acidi.
• Nel secondo si è studiato un processo di
innesto di sostanze attraverso l’uso di transglutaminasi, eventualmente da farsi dopo un
pre trattamento con plasma. L’idea base comunque era quella di aumentare la resistenza
alla trazione ed alla lacerazione catalizzando,
con transglutaminasi, reazioni di specifici ausiliari chimici con le fibre superficiali della lana
per aumentarne le proprietà superficiali e/o
quelle massive.
Sono state eseguite due serie di test: una
con pre trattamento con plasma ed una senza.
I risultati ottenuti hanno portato a concludere
che i trattamenti via transglutaminasi con un
prodotto di finissaggio reperibile commercialmente, avente gruppi cationici, portano ad un
aumento della resistenza alla lacerazione e ad
un modico aumento delle proprietà di restringimento dei tessuti di lana. Talvolta si osserva
anche una migliore bagnabilità.
Fra i test con pre trattamento via plasma, i
migliori risultati sono stati ottenuti o utilizzando la transglutaminasi da sola o combinandola
con l’uso di ammine contenti zolfo e gruppi
etossi.
Ulteriori ricerche su questo enzima sono in corso.
Per maggiori informazioni: [email protected]
BREVETTI
Transglutaminasi e nobilitazione
L’oggetto del brevetto è il trattamento enzimatico con transglutaminasi applicato a tessuti o filati composti da fibre animali (lana principalmente) o da loro miste sia con fibre di
tipo cellulosico, sia di tipo sintetico.
Lo scopo è quello di migliorare le proprietà che
sono oggetto dei tradizionali processi di finissaggio.
La transglutaminasi ha la funzione di legare
alla fibra i cosiddetti agenti attivi in modo co-
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valente o meno. Gli agenti attivi, che sono i
veri e propri responsabili del miglioramento di
performance, devono, ovviamente, essere
modificati per poter interagire con le transglutaminasi. In particolare essi devono contenere
dei gruppi amminici primari (-R’NH2) in cui R’ è
un gruppo alifatico ramificato o meno, che contiene da 1 a 8 atomi di carbonio ed è anche
possibile usare la putresceina (1,4-diamminobutano).
Gli agenti attivi possono essere essenze, prodotti repellenti per gli insetti, sostanze con
proprietà antimicrobiche o composti che migliorano le performance o le proprietà estetiche del tessuto.
Tra i numerosi tipi di transglutaminasi, in genere, si preferisce usare quelle calcio-dipendenti.
Infatti l’interazione dello ione calcio (Ca2+) con
questi enzimi garantisce:
- un miglior controllo della reazione;
- il miglioramento di alcuni parametri (resistenza allo scoppio, resistenza alla rottura, resistenza al restringimento, mano, grado di
pilling, sofficità, tingibilità);
rispetto all’utilizzazione di altri tipi di transglutaminasi.
Allo scopo di facilitare la penetrazione dell’enzima all’interno della fibra può essere opportuno eseguire un pre trattamento sia con sostanze chimiche riducenti sia ossidanti.
Tale pre trattamento può, a sua volta, essere
di tipo enzimatico a base di enzimi proteolitici.
E’ infatti possibile pre trattare con proteasi,
benché sia sconsigliabile, effettuarlo assieme
o dopo le transglutaminasi, in quanto esso causa una riduzione della resistenza dei tessuti o
dei filati.
Il processo prevede le fasi:
- solubilizzazione della transglutaminasi calcio-dipendente: sciogliere 0,5-10 mg di enzima per ml di acqua e agitare a 15-70°C
per un periodo variabile da 30 minuti a 18
ore;
- impregnazione del tessuto: immergere il tessuto nella soluzione preparata in precedenza alla temperatura di 15-70°C;
- introduzione in soluzione del calcio: il calcio
è introdotto in soluzione solamente dopo
l’impregnazione del tessuto, in quanto esso
potrebbe interferire, negativamente, con la
fase precedente;
- processo enzimatico: mantenere la temperatura fra 37 e 60°C, controllare il pH (spesso può essere utile usare un tampone), porre
attenzione al tipo di elettrolita in soluzione
così come alla velocità di agitazione;
- terminazione: aumentare la temperatura al
di sopra dei 60°C disattivando direttamente l’enzima oppure rimuovendo il Ca2+ dalla
soluzione (arrestare indirettamente l’azione
enzimatica) sia attraverso lavaggi acquosi,
sia attraverso l’introduzione di agenti chelanti (vedi EDTA).
Come si intuisce i parametri riguardanti il processo sono indicazioni di massima, che devono essere ottimizzate per ogni specifico trattamento di finissaggio da realizzare.
Per maggiori informazioni: [email protected]
CURIOSITA’
Ingiallimento dei tessuti
L’ingiallimento degli abiti nei magazzini o durante il trasporto in nave continua ad essere
una delle maggiori fonti di problemi per i confezionisti.
L’ingiallimento può essere definito come una
degradazione di colore che si genera sui tessuti durante i processi produttivi, lo stoccaggio in magazzino o l’utilizzazione. Questo è particolarmente evidente sui capi bianchi o nei
capi con colori pastello. In molti casi, l’ingiallimento, che si manifesta sotto forma di una
colorazione giallo-pallida, porta inesorabilmente ma lentamente ad un cambiamento di colore, che il consumatore medio interpreta come
un affievolimento del colore o una colorazione
di scarsa qualità.
Le cause dell’ingiallimento possono essere attribuite alle seguenti problematiche
•
I candeggianti ottici: si tratta di sostanze utilizzate per innalzare il grado di bianco. Queste sostanze sono capaci di assorbire
le radiazioni elettromagnetiche ultraviolette
(presenti nella luce solare, ma non visibili all’occhio umano) e di riammetterle nel visibile
sotto forma di luce bianca, incrementando così
la sensazione di bianco di un manufatto. I candeggianti ottici, a causa della loro natura chimica, sono sensibili alla prolungata esposizione alla luce solare, agli agenti ossidanti, agli
agenti atmosferici, etc.. In genere questi composti hanno una bassa solidità del colore alla
luce e tendono a perdere rapidamente la capacità di assorbire le radiazioni UV contenute
nella luce solare. L’uso improprio, la scarsa qualità, le alte concentrazioni di tali coloranti fluorescenti possono facilmente portare ad un ingiallimento del manufatto.
•
Gli ammorbidenti da soli non provocano ingiallimento. Tuttavia i materiali contenenti
ammorbidenti possono presentare ingiallimen-
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to quando entrano a contatto con biossiso
d’azoto (NO2: è uno dei prodotti di combustione dei motori a scoppio del riscaldamento domestico, etc.).
•
I trattamenti che prevedono l’uso di
calore su tessuti di cotone provocano un leggero ingiallimento. E’ noto, per esempio, che
gli ammorbidenti cationici, sottoposti ad alta
temperatura, provocano facilmente un ingiallimento.
•
L’ingiallimento fenolico (Phenolic Yellowing) è uno dei più comuni tipi di ingiallimento; avviene generalmente durante l’immagazzinamento. L’ingiallimento è dovuto all’azione
di ossidi di azoto su composti fenolici (es. butilidrossitoluene BHT), impiegati come antiossidanti aggiunti ai materiali plastici, oli, cere
per contrastare gli effetti del tempo. Questi
antiossidanti, reagendo con le atmosfere inquinate da ossidi di azoto, originano dei prodotti colorati in giallo che hanno la tendenza a
sublimare; a passare cioè direttamente da solido ad aeriforme. Visto questo comportamento gli antiossidanti modificati, migrano facilmente dai materiali di confezionamento, quali
cartone, carta o buste plastiche, ai manufatti
tessili in esso contenuti, originando ingiallimenti,
prevalentemente nelle zone di piegatura del
capo (parti a più intimo contatto con il contenitore). Il pH debolmente alcalino dei tessuti
(7-9 ), esplica un’azione di accelerazione dell’ingiallimento. La fonte di alcalinità nel cotone
bianco è legata alla presenza di residui chimici
del processo di sbianca. Una volta assorbiti
nella cellulosa, è difficile rimuoverli ed occorrono dei lavaggi acidi per assicurare un controllo del pH. Per avere ingiallimento occorre sì
avere biossiso di azoto, sì composti fenolici
ma anche condizioni alcaline. Nessuno di questi fattori, da solo, è sufficiente a provocare
ingiallimento. Concentrazioni di circa 2 ppm di
biossido di azoto sono sufficienti a provocare
ingiallimento: tali basse concentrazioni si raggiungono anche con i gas di scarico delle automobili, con i sistemi di riscaldamento a gas,
con inquinanti industriali e talvolta con lo smog.
•
La decolorazione via ozono (O3) dei
capi indaco è dovuta all’ossidazione del colorante. Dal momento che l’ozono atmosferico è
un potente agente ossidante, grazie alla sola
presenza dei raggi UV della luce solare, decompone i coloranti provocandone l’ingiallimento. L’ozono è anche un prodotto delle industrie
e dei veicoli a motore. La decolorazione via
ozono è un grosso problema per l’industria dei
jeans, anche perché è un processo irreversibi-
le. Già con concentrazioni pari a 0,5 ppm si
hanno i primi effetti: 1 g di ozono può distruggere 10,9 g di colorante. Tale effetto è più
visibile su colorazioni tenui. Tracce di prodotti
per la sbianca, presenti nei tessuti, possono
provocare ingiallimento o decolorazione a macchia di leopardo sul denim. L’ingiallimento via
ozono è direttamente proporzionale alla rideposizione del colorante indaco durante i vari
lavaggi, fenomeno noto come “backstaining”.
Misure preventive
Durante il confezionamento:
- Utilizzare tessuti con pH=5,5-6,5
- Utilizzare buste per il confezionamento prive di BHT
- Utilizzare lubrificanti per macchine privi di
BHT
- Utilizzare ammorbidenti non sensibili all’ozono
- Utilizzare prodotti antideposizione durante
la sbozzima e lo stone-wash dei capi in denim per prevenire il backstaining
- Risciacquare ed effettuare un trattamento
anticloro per eliminare le tracce di prodotti
sbiancanti
Durante lo stoccaggio:
- Mantenere la temperatura bassa
- Mantenere l’umidità bassa
- Prevenire un’eccessiva illuminazione
- Ridurre al minimo il contatto con l’aria
- Stoccare in luoghi in assenza di gas di scarico
- Eliminare il legno, anche sotto forma di assi
negli scaffali, nei magazzini, in quanto è fonte di composti fenolici
- Non utilizzare per il confezionamento carta
marrone, cartone marrone o buste plastiche che contengano antiossidanti
Per maggiori informazioni: [email protected]
Celle a combustibile a autovetture: auto ad
idrogeno
Le prime utilizzazioni delle celle a combustibile
risalgono addirittura agli anni sessanta, quando la NASA le scelse come generatori di energia per le missioni Gemini e Apollo. La scoperta
del principio del loro funzionamento è, tuttavia, molto più lontana, risale addirittura all’anno 1839 grazie al fisico britannico William Grove.
Due elettrodi, anode (anodo) e cathode (catodo) nella figura, sono connessi da un circuito elettrico esterno e separati da un elettrolita, cioè un materiale che permette il passaggio degli ioni ma blocca gli elettroni (e-). Un
combustibile, l’idrogeno (hydrogen), fluisce
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Newsletter n. 3
UNIONE INDUSTRIALE PRATESE
verso l’anodo dove l’atomo neutro si scinde in
uno ione positivo, H+, il protone, e una carico
negativa, l’elettrone (e-). Il protone migra verso
il catodo dove si combina con l’ossigeno, O2,
dell’aria (air) dando come prodotti della reazione calore (heat) e acqua (water). L’elettrone nel frattempo migra attraverso un circuito elettrico esterno generando una corrente.
Per accelerare la reazione si usa utilizzare un
catalizzatore al platino.
C’è tuttavia un problema di inquinamento assai più sottile: se da un lato è vero che il
motore ad idrogeno non inquina perché genera
come prodotti di scarico vapore acque (il calore prodotto fa evaporare l’acqua) e al limite
potremmo avere problemi riguardanti una maggiore umidità nei centri urbani, dall’altro il processo che porta all’idrogeno dai derivati del
petrolio ha un certo grado d’inquinamento.
A medio breve-termine però non si vede però
sistema alternativo per la produzione di idrogeno. Vi sono ovviamente allo studio soluzioni
alternative per rendere meno inquinante questa fase produttiva.
Per maggiori informazioni: [email protected]
LA corrente elettrica che generano può essere usata per far funzionare motori elettrici come
quelli delle autovetture. Invece dei gas esausti di un motore a scoppio, abbiamo come residui solamente calore ed acqua, cioè nessuna
sostanza tossica. Inoltre si ha un inquinamento acustico praticamente nullo, vista l’alta silenziosità del motore.
Le celle a combustibile stanno attaccando e
con successo la nicchia di mercato delle autovetture elettriche, quelle a batterie ricaricabili
per intendersi, in quanto queste ultime presentano degli importanti ostacoli per il loro utilizzo: la limitata autonomia e le lunghe operazioni di ricarica.
La scelta dell’idrogeno come combustibile è
ottima perché è molto potente (viene usato
come combustibile nello Shuttle), sia perché
può essere bruciato, come abbiamo visto, senza emettere inquinanti. L’idrogeno tuttavia è
molto pericoloso, perché è in grado di reagire
con molti elementi (per esempio l’ossigeno),
per cui deve essere immagazzinato in serbatoi
molto sicuri. Questa sua caratteristica rende
molto più sicura l’immagazzinazione nei serbatoi delle autovetture di un “precursore”, un
derivato del petrolio, che opportunamente trattata all’interno dell’autovettura genera l’idrogeno da utilizzare nelle celle a combustibile.
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