Angelo CRESCO quaderni del Centenario, n. 2/2002

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Angelo CRESCO quaderni del Centenario, n. 2/2002
Angelo CRESCO
Segretario della Camera del Lavoro di Vicenza dal 1974 al 1976
Il mio impegno nel Sindacato è una sorta di bellissimo “Amarcord”, soprattutto per l’esperienza che ho maturato e gli entusiasmi ed i valori vissuti.
Senza retorica potrei affermare scherzosamente che mia madre mi abbia
concepito nella sede della CGIL.
Finite le scuole dell’obbligo, strappai a mio padre il permesso per lavorare
con il passaporto turistico in un albergo alla periferia di Monaco.
L’obiettivo era imparare il tedesco che per un lacustre (sono di Garda) diventava una sorta di lasciapassare per ogni professione. Dopo sei mesi mio padre,
preoccupato dalla mia assenza, mi impose di tornare a Garda. A sedici anni mi
offrirono la possibilità di essere assunto alla Philips di Monza. La Philips è una
multinazionale olandese che opera nel settore della radio-TV, e per di più allora gestiva una scuola serale di elettronica che mi avrebbe consentito di continuare gli studi. Così a sedici anni sbarcai a Monza.
Erano gli anni della repressione antisindacale, non esisteva ancora lo Statuto
dei diritti: la legge 300 era ancora un sogno. Le direzioni aziendali soffocavano
ogni iniziativa dei lavoratori con autoritarismo. Al punto che esisteva una sorta di terrore nei confronti di chi scegliesse di aderire al sindacato. Infatti su
4.500 lavoratori gli iscritti erano 300 di cui 80 alla CGIL. Per disperazione dei
dirigenti del sindacato e per incoscienza del sottoscritto, mi ritrovai a 18 anni
eletto nella Commissione Interna e nel giro di pochi mesi suo presidente. Era
l’anno 1960. Entravamo nei dieci anni che cambiarono radicalmente i rapporti
sociali e di lavoro nelle fabbriche. Alla Philips il movimento crebbe, gli iscritti
alla CGIL superarono le migliaia. Pubblicavamo con successo un giornalino
ciclostilato che chiamammo felicemente “Il televisore”. Riuscivamo da improvvisati strilloni a venderne duemila copie.
A 22 anni, finito il servizio militare, la CGIL milanese mi offrì di diventare
sindacalista a tempo pieno. Per me era realizzare il mio più grande sogno, diventare un quadro permanente. Era in quegli anni una professione di valori,
quasi di fede. In sintesi una scelta di vita.
Posso affermare senza paura di essere accusato di retorica che noi giovani
vivevamo l’attività sindacale come una missione da compiere. Mio padre, se
pur antifascista e comunista, non condivideva la mia scelta, la considerava una
forma di autolesionismo. Mi disse testualmente: «Io ho fatto dei sacrifici per
vedere realizzati una tua definitiva sistemazione e un po’ di carriera. Tu mi hai
deluso e sei senza avvenire». Rimarrà comunque il mio più grande amico e sostenitore.
Gli allora Segretari della Camera del Lavoro di Milano mi inviarono a Corsico, area di aziende cartarie e vetrarie, in qualità di Segretario della Camera
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del Lavoro locale. L’anno successivo rientrai a Milano e venni eletto nella Segreteria Provinciale dei poligrafici, sindacato che in quegli anni era convinto di
rappresentare i lavoratori considerati o che si consideravano “degli intellettuali”. Fu un’esperienza ricca, trovai non solo dei compagni ma degli amici. Il
mio cuore però era a Monza dove avevo iniziato il mio percorso e dove esercitavo il mio impegno politico come Segretario dei Giovani Socialisti. Del resto
penso che ogni giovane abbia l’ambizione di essere “profeta in patria”, io volevo esserlo tra i miei compagni della Philips, della Singer, della IBM e di tante
altre aziende presenti nella Brianza. La malattia che colpì mio padre, e la necessità di stargli vicino, mi portarono ad accogliere la proposta di trasferirmi a
Verona e divenni Segretario Generale aggiunto della C.d.L. di quella provincia, dopo aver diretto in precedenza categorie come i tessili, l’abbigliamento, i
grafici, i chimici, il commercio. Inserito negli organismi della confederazione,
entrai a far parte della Segreteria Regionale.
Verso la fine del 1973, a livello regionale e nazionale della Cgil si aprì un
confronto legato a due esigenze fondamentali:
1) la necessità di arricchimento e rinnovamento di esperienze di tutto il
gruppo dirigente regionale e nazionale;
2) l’opportunità di cogliere questa occasione per un riequilibrio tra le componenti storiche del sindacato, come arricchimento della dialettica interna e come
elemento di unità e pluralismo. La CGIL aveva basato da sempre la sua vita
interna unitaria sulle due maggiori componenti sindacali del PCI e del PSI (ve
ne era una terza del PSIUP, largamente minoritaria).
In questo contesto la Segreteria nazionale, in accordo con la Segreteria
regionale, mi chiese la disponibilità ad assumere l’eventuale direzione
provinciale della Camera del Lavoro di Vicenza. Venni chiamato a Roma
da Luciano Lama e Agostino Marianetti, che mi comunicarono la loro
intenzione. Dopo di che i compagni di Vicenza mi chiamarono a lavorare
con loro, eleggendomi Segretario Generale.
Il mio primo giorno coincise con le bombe di piazza La Loggia a Brescia.
Quell’atto criminale creò rabbia, sconcerto ed emozione. I sindacati unitariamente organizzarono uno sciopero generale e una grande manifestazione. Mi ricordo una piazza dei Signori stipata all’inverosimile.
L’indignazione, la voglia di risposta democratica, la partecipazione dei lavoratori furono per me il primo impatto con il valore del movimento operaio vicentino, la cui combattività e capacità di elaborazione erano elevatissime. Invece la situazione organizzativa ed economica della CGIL era grave: un esercito di funzionari con paghe da fame, molti senza posizione assicurativa, con grande capacità di lotta, non sempre finalizzata a dovere. Le
prime scelte che proposi furono di ridurre l’apparato della Segreteria Camerale, gonfio all’inverosimile e di inviare i funzionari nelle Camere del Lavo-
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ro di zona e nelle categorie: questo per rafforzare la presenza sul territorio,
incominciando anche un’opera di maggiore iniziativa e di risanamento economico. Affrontammo anche episodi di poca correttezza amministrativa
da parte di taluni Segretari di categoria che, strumentalizzando l’autonomia
categoriale, tentavano di sottrarsi agli impegni assunti e alla solidarietà militante che deve essere sempre alla base della vita interna.
La diversa collocazione del Partito Socialista e del Partito Comunista era
a volte elemento di frizione interna, soprattutto nei momenti di scontro politico. Infatti la partecipazione al Governo del PSI era spesso considerata da
taluni dirigenti sindacali del PCI e del PSIUP un “tradimento”. Noi stessi
venivamo guardati da taluni “irriducibili” come “sospetti da tener sotto
controllo”. Non dimenticherò mai taluni slogans gridati nei cortei e nelle
manifestazioni anche da qualche mio collega della segreteria. Una di quelle
parole d’ordine in particolare, se giudicata oggi, la definiremmo tutti demenziale. Allora era un grido di “lotta”: «governo Rumor-De Martino, il
Vietnam è vicino!.
Diverso era invece il clima unitario che respiravamo e che costruivamo
sulle rivendicazioni aziendali e sociali sulle quali vi era una grande compattezza.
Clima di civile e appassionato confronto, a volte condizionato dalle scelte
nazionali della Confederazione e della FIOM. La dialettica che si sviluppava a quel livello coinvolgeva meccanicamente le strutture periferiche. A Vicenza, al di là di qualche momento dovuto a strumentali contrapposizioni
personalistiche, i rapporti erano ottimi e franchi. Avevamo solo qualche
“battitore libero” che, ripeto, in nome di una fantomatica “autonomia” di
categoria tentava di sorvolare sui doveri di solidarietà economica non rispettando né le regole né gli impegni assunti.
I rapporti con gli altri sindacati, Cisl e Uil, non erano idilliaci, a volte
permeati da polemiche ed incrinature le cui responsabilità non erano sempre da imputare agli altri. Di solito sul banco “degli imputati” noi mettevamo la CISL, il cui peso organizzativo e politico era maggioritario.
Nell’insieme però si compiva uno sforzo comune per costruire l’unità tra
diversi, con risultati che non esito a definire qualificanti.
Il gruppo dirigente della Cgil era comunque assai impegnato e vivace,
magari carico a volte di troppa ideologia ma con tanta passione. C’erano
diversi giovani e qualche rappresentante della vecchia guardia. Ricordo in
particolare Cattelan, Falisi, Trevisan, Coletto, Pasetto, Mancini, Facchin,
Guglielmini, Sartori e, per l’attaccamento ineguagliabile alla CGIL, Natalino Cervio. Non posso non dedicare due righe particolari a Mario Maoloni. Questo compagno colto, aperto, unitario, veniva da Pesaro e in quegli
anni di tentazioni settarie e di intolleranza, contrappose alle pigre scelte di
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parte la ricerca di unità con contenuti riformistici. Però, come sempre accade, capire troppo in anticipo rispetto agli altri diventa spesso una colpa e
Maoloni ne pagò un prezzo.
La Vicenza di quegli anni, politicamente moderata, era tuttavia un crogiolo di rivendicazioni, di elaborazione politica, di lotte e conquiste. Il sindacato aveva un prestigio, una capacità di mobilitazione e di elaborazione
non secondi a nessuno. Le nostre battaglie erano impensabili nelle altre
province Venete. Rispondevamo colpo su colpo ad una Confindustria chiusa e conservatrice. Infatti in quegli anni pochi erano gli “imprenditori”,
molti i “padroni”. Il sindacato non faceva sconti a nessuno. Ricordo, tra le
altre, le vertenze alla Lanerossi, alla Cotorossi, alla Marzotto, alle Smalterie e i rinnovi dei contratti integrativi in tutti i settori. La partecipazione agli
scioperi nazionali per le riforma di strutture ottenevano la totalità delle adesioni. Nacquero in quegli anni le piattaforme di zona, i confronti serrati con
le istituzioni e gli Enti Locali.
I successi raggiunti determinarono una crescita politica ed un aumento
notevole di iscritti al sindacato e in particolare alla CGIL.
L’unico neo fu la vertenza, che assieme alla UIL, intraprendemmo alla
Marzotto contro la mobilità di reparto. La CISL si dissociò. La Marzotto
venne considerata, dall’allora Segretario Generale della FILTEA, Sergio
Garavini, una sorta di laboratorio. Tra noi vi erano gli entusiasti, nell’ottica
che il capo ha sempre ragione. I dissidenti rimasero in silenzio, e chi come
me sollevò grandi perplessità venne nei fatti isolato. Gli scioperi che si susseguirono, dapprima con discrete adesioni, alla fine fallirono perché
l’obbiettivo era sbagliato. Il risultato fu che dividemmo il movimento vicentino, perdemmo per strada la UIL e soprattutto i lavoratori. Venimmo
sconfitti, senza la solidarietà di chi a livello nazionale aveva dato il via ad
una scelta sbagliata nei contenuti e sciagurata nel risultato.
La forza e il prestigio del sindacato determinarono in quegli anni il sostegno delle Amministrazioni Comunali, ne fossero realmente persuase o meno, all’azione dei lavoratori. Tutti i Consigli Comunali vennero convocati e
si conclusero con l’adesione agli obiettivi delle nostre piattaforme territoriali. I rappresentanti di tutti i partiti, con più o meno convinzione, portarono
nelle assemblee di fabbrica le loro adesioni alle vertenze.
La determinazione dei lavoratori era come sempre eccezionale, sia nei
momenti in cui erano in corso vertenze di zona, sia quando ci trovavamo di
fronte a fabbriche in crisi. Il sostegno ai lavoratori colpiti trovava sempre
solidarietà attiva ed economica nei lavoratori delle altre aziende. Rispetto
alle lunghe lotte alle Smalterie e alla Cotorossi, voglio ricordare per tutti
l’emblematica esperienza di quest’ultima. Grazie al ruolo dell’allora viceSindaco Bressan e al Comitato politico formato dagli onorevoli Zavagnin,
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Giuliari e dal sottoscritto, che nel frattempo era stato eletto parlamentare, e
dei dirigenti sindacali di tutte le confederazioni fu possibile vedere una città
unita nella difesa di una fabbrica che economicamente era in balia di buchi
di bilancio che sembravano insuperabili. È stata quella un’esperienza che
ha fatto storia, e che è diventata un modello per molte altre lotte.
Ho già anticipato il fatto d’essere stato eletto deputato, nelle politiche del
‘76. La maggioranza della federazione del PSI di Vicenza, che mi aveva accolto e aiutato dopo la morte di Sergio Perin – leader dei Socialisti vicentini, persona amata e insostituibile per capacità e rapporti – si sentiva la cenerentola tra le province venete. I Socialisti vicentini pensarono di doversi
impegnare a fondo per ridare a Vicenza una presenza istituzionale che consentisse la ripresa del partito in quella provincia. Le elezioni anticipate erano l’occasione attesa. Il Segretario di allora Gino Segato che mi seguiva
come un padre mi propose, insieme al gruppo dirigente provinciale, di diventare il candidato dei socialisti vicentini. Mancavano pochi mesi
all’appuntamento elettorale. Ne parlai immediatamente con i dirigenti provinciali del sindacato e con i segretari confederali, prima con Marianetti e
Didò, poi con Lama. Avutone il consenso, rassegnai le dimissioni. Venni
informato che nell’ottica della dialettica interna e pluralista che caratterizzava la vita democratica della CGIL, la segreteria provinciale della Camera
del Lavoro sarebbe ritornata ad un rappresentante della corrente sindacale
comunista. Dopo una fase in cui l’attività della segreteria della Cdl venne
coordinata da Maoloni, l’incarico di segretario passò a Falisi e qualche anno dopo a Gildo Palmieri (che era già stato segretario provinciale prima di
me). Palmieri è un uomo che ho conosciuto bene e che ho sempre stimato
perché non era settario ed era legato intensamente al movimento sindacale.
Nel 1983 Gildo mi raggiunse in Parlamento.
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il retro di una tessera Cgil