Aveva sognato un boudoir canceroso Roma
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Aveva sognato un boudoir canceroso Roma
Aveva sognato un boudoir canceroso Roma, gennaio 1772 Aveva sognato un boudoir canceroso, con ante cigolanti rosicchiate dai tarli. Strano incubo davvero: da quando era arrivato in Italia, il giovane Heinrich Füssli non riusciva a abituarsi alla mancanza dei piumini da notte e dormiva male, tanto più che quella settimana una tramontana furiosa aveva avvolto Roma in un freddo insolito. Il grido di Antonino lo riscosse dai suoi pensieri: si lasciava la strada e si doveva prendere a sinistra per un terreno reso melmoso dalla neve della settimana precedente. Nuvoloni scuri si stavano addensando sopra la via Nomentana e in alcune case si vedevano già i lumi accesi, nonostante fosse ancora giorno. «Torna a piovere di sicuro» disse Antonino, voltandosi per un attimo verso il suo cliente. Il giovane Heinrich lo guardò sorpreso, non certo per quel che diceva, ma perché in quasi un’ora di camminata per i viottoli deserti alle porte della città la guida non gli aveva mai rivolto la parola. «Fortuna che vi siete messo gli stivali, signò» precisò Antonino, «perché qui, appena piove, molte gallerie si riempiono d’acqua». E, quasi a conferma delle sue parole, cominciarono a cadere pesanti goccioloni. Heinrich si strinse nel mantello, calcandosi il tricorno sulla testa; voleva chiedere a Antonino se mancava ancora molto, ma sul viso della sua guida scorse l’espressione di pietra che ormai ben gli conosceva. «Portatevi stivali comodi, un rotolo di fune e dei ceri» era l’unica frase che la sera prima era riuscito a scucirgli di bocca. Proprio così, era stato un affare tutt’altro che facile conquistarsi la fiducia del romano: Antonino era pressoché un ragazzo, ma di discese nel sottosuolo di Roma, da quel poco che Heinrich era riuscito a sapere, doveva essere un esperto, probabilmente il migliore che ci fosse sulla piazza. 7 Nicola Fantini Il suo nome gliel’aveva fatto il padrone della Hostaria della Foglietta, a Trastevere. Il giovane straniero smaniava aspettandosi molto da quell’escursione nell’universo pittoresco e vuoto di gallerie – impropriamente definite catacombe – scavate nel corso dei secoli per estrarre tufo e altro materiale da costruzione per gli edifici della città sovrastante. Ci era voluto andare perché gli pareva che il tempo a Roma passasse con eccessiva lentezza e, dopo la scorpacciata di musei dei primi giorni, s’era stufato di anticaglie e dei soliti incontri con visitatori stranieri. Desiderava una vera avventura romana e si riprometteva il godimento di qualcosa fuori del comune. Perciò aveva messo in giro la voce che gli piacevano le rovine, che cercava qualcosa di veramente curioso da ritrarre e che era disposto a pagare per «il disturbo», come si usava dire a Roma. Era stato proprio allora che qualcuno gli aveva messo nell’orecchio la pulce della «terra incognita» che si estendeva nei sotterranei dell’Urbe: «ultima Thule» delle esplorazioni, cosa che, per la sensibilità artistica del giovane Heinrich, poteva avere in serbo più di una attrazione. Perciò aveva preso la palla al balzo, quando Antonino gli si era presentato la sera precedente. La discesa ebbe inizio per mezzo di una fune e un verricello in una buca stretta e quasi invisibile accanto a una casupola deserta, dalle pareti ricoperte d’edera, alle porte della città. «Qui è sempre accessibile» spiegò Antonino che gli faceva strada. «Anche in altre parti della città si può scendere di sotto, ma spesso le guardie scoprono le entrate e ostruiscono i passaggi con barricate di detriti o addirittura con muretti tirati su in un paio d’ore. Figuratevi, signò, che nella Gran Confraternita ci sono persone addette solo a questo: a liberare i cunicoli chiusi dalle guardie pontificie». La Gran Confraternita?… Lo strano termine colpì Heinrich che avrebbe voluto far domande, ma era tutto occupato a camminare ingobbito, badando a non ferirsi la testa nella bassa galleria. Così per una trentina di braccia: le pareti di tufo sgocciolavano acqua e gli stivali sguazzavano nel fango, come Antonino aveva preannunciato. Poco a poco però il soffitto si fece più alto finché i due si trovarono in uno slargo da cui si dipartivano vari cunicoli secondari e scale che scendevano ai 8 La setta delle catacombe livelli inferiori. «Dev’essere facile perdere l’orientamento qui» disse Heinrich, ma non ebbe risposta dalla sua guida tutta intenta nei suoi preparativi. Antonino accese infatti il cero e se ne mise un paio nella tasca. «Le catacombe non sono per tutti» spiegò alla fine, rivolgendo al suo cliente uno sguardo severo; e a Heinrich parve quasi che volesse invitarlo a riesaminare le proprie paure e, nel caso, a tornare indietro. Proprio in quel mentre, dal buio di una nicchia emerse uno squallido tipo dall’espressione famelica, che alla cintura teneva appeso un coltellaccio; fece un cenno di saluto a Antonino e si riacquattò nell’ombra. «È un uomo della Gran Confraternita» sussurrò la guida e, senza altre spiegazioni, si mosse nella direzione opposta. L’andamento iniziale delle gallerie sembrava fatto proprio per scoraggiare gli incerti: l’acqua in alcuni punti raggiungeva le ginocchia, il soffitto era poco più alto di un braccio, i bivi parevano susseguirsi senza nessuna soluzione di continuità. Si addentrarono per camminamenti oscuri, sfiorando a volte numerose cisterne d’acqua profonda in cui dondolavano vere e proprie barche, come quelle che si vedevano sul Tevere; con i ceri illuminarono nicchie in cui si scorgevano resti di ossa giallognole, attraversarono un vasto complesso di antri dal pavimento coperto di immondizie ammassate a grandi cumuli nelle accozzaglie più stravaganti: frammenti di statue antiche, sedie senza una gamba, cappelli, vasi da notte, libri, quadri, pentolacce, stoviglie. Per tutto il tragitto, al di là dei cumuli di spazzatura, Heinrich ebbe l’impressione di intravedere sagome umane che si muovevano cautamente: come se qualcuno seguisse con interesse il suo addentrarsi nel sottosuolo romano. Ma forse era la sua fantasia eccitata a creare migliaia di immagini inquietanti riguardo a quei corridoi senza fine; sicuramente c’entrava anche lo strano silenzio rotto unicamente dal gocciolìo dell’acqua e da bisbigli furtivi, il giovane non capiva se di topi o di misteriosi esseri umani. Non riuscì a calcolare quanto tempo fosse passato, quando lui e la guida giunsero a uno spazio vuoto dal soffitto alto a occhio e croce più di quattro uomini uno sull’altro. A Heinrich parve che il luogo somigliasse a uno dei grandi mausolei circo9 Nicola Fantini lari che aveva visitato sull’Appia antica, perché nelle pareti di tufo si aprivano nicchie con statue e capitelli corinzi. Si trovava dunque in una antica tomba sotterranea? Comunque ci dovevano essere da qualche parte varie aperture verso l’esterno, perché dei fasci di luce traversavano la penombra. Heinrich non era però preparato alla vista del vero e proprio villaggio che vi sorgeva: catapecchie di legno e stracci, abitate da un popolo di ombre abbigliate come spaventapasseri, le cui teste accostate in un fitto confabulare seguivano ogni movimento dei nuovi arrivati. Antonino si fermò davanti a una strana baracca, costituita dallo scheletro di un enorme guardaroba con le ante a colonnine, come quelli che in Francia si chiamavano «boudoir». Heinrich ebbe un sussulto, ricordando lo strano incubo che l’aveva agitato la notte precedente. Che diavolo mi sta succedendo?… Una sezione del grande armadio era stata destinata a soggiorno e qui, accanto a un braciere fumante, sedeva un vecchio vestito di una livrea turchina che ai suoi tempi doveva essere stata sontuosa ma che ormai era a brandelli e tirava sul ventre gonfio. Visti da qualche passo di distanza, nella penombra dell’antro, gli occhi del vecchio parvero a Heinrich annebbiati; la mascella cascante. Il giovane straniero lanciò un’occhiata nell’altro sportello anch’esso aperto: c’era sistemato un giaciglio di stracci e paglia. Antonino intanto si era accostato al vecchio e parlava con lui sottovoce. Fu allora che Heinrich notò, in un cantone dell’armadio, una grande accetta poggiata alla parete e un paio di toponi morti a cui era stata mozzata la testa. Subito sentì corrergli la paura giù per la schiena: presentì il pericolo, rimpiangendo di aver dato retta alla propria curiosità e di essersi spinto fin laggiù. Provando un certo disagio, si guardò alle spalle dove si apriva l’imboccatura della galleria da cui era arrivato. Fu preso dalla voglia di fuggire, ma non aveva idea di come poter tornare indietro, e senza Antonino di sicuro non ce l’avrebbe mai fatta. La sua guida si volse verso Heinrich: «Il vecchio Tomaso vuole conoscervi» e lo spinse verso il portoncino aperto del boudoir. «Venite avanti, signò, accostatevi» tossì in quel momen10 La setta delle catacombe to il vecchio, tenendo le mani ossute posate sulle ginocchia. «Dovete essere ben stanco di tanto camminare, perché i signori come voi sono abituati a viaggiare in carrozza…» e, dicendo questo, fece l’atto di spolverare con la punta delle dita uno sgabellaccio traballante alla sua destra. Lo straniero non desiderava affatto sedersi su quell’aggeggio, ma sedette ugualmente per l’incomprensibile paura di sembrare scortese. Solo allora si accorse che il vecchio aveva occhiaie vuote, di cieco. «Dunque siete tedesco» disse il vecchio continuando a tossire. «Svizzero: di Zurigo, per servirvi». «Ah! Meglio, molto meglio svizzero che tedesco. E cattolico siete?». «No, signore. Seguace di Zwingli». «Così mi piacete ancor di più. Brava gente i protestanti, li preferisco a questi lazzaroni di cattolici romani: nobilotti che stanno in panciolle tutto il santo giorno, oppure fratonzoli che pensano solo alle cose dello spirito. Perché Roma è maestra in novene, processioni, canonizzazioni, autodafé, ma solo in questo…», se avesse avuto la vista, Heinrich avrebbe detto che quell’uomo lo stava studiando. «Però» aggiunse il vecchio, «gli stranieri che piacciono a noi che viviamo qui sotto sono solo quelli ricchi e che non fanno i ficcanaso». «Ficcanaso non sono di certo» tentò di rassicurarlo Heinrich, «Voglioso di imparare, piuttosto. Ma, quanto all’essere ricco, purtroppo sono soltanto un artista: giovane e non ancora famoso. Mi chiamo Heinrich Füssli e sono venuto in Italia proprio per approfondire i miei studi artistici». «Né carne né pesce, insomma» brontolò il vecchio, allungando le lunghe mani verso il braciere. «Lo sa il cielo se vorrei non esserlo, ma è così. Però non sempre si può fare ciò che si vuole» sospirò il giovane svizzero, cercando di ammansirlo. Intorno al boudoir dove lui e il vecchio stavano seduti, si era intanto radunata una piccola folla. Heinrich non osava però voltarsi a osservare quella gente, pur sentendo alle sue spalle un bisbigliare fitto di curiosità. E intanto tra sé pensava: sono nei guai; tanto più che Antonino sembrava essersi volatilizzato. «Mio gentile signorino svizzero, voi siete certo del genere 11 Nicola Fantini conciliante: di quelli che mai vorrebbero offendere. Di rado mi sbaglio nel giudicare, io. Perciò, arrivato a questo punto, è mio dovere istruirvi sull’antico costume che vige nel mondo sotterraneo della nostra onorata Gran Confraternita: chi scende qui sotto per la prima volta offre ai presenti un piccolo convito con un poco di vino e munizioni di bocca, in modo da sanzionare la reciproca amicizia. Perché qui da noi non si dà niente per niente, ma un “regalo” resta comunque un forte vincolo; mi intendete, signorino?». Che poteva fare? Heinrich si sentì in trappola, tanto più che comprendeva benissimo che, se non avesse consegnato la borsa di sua spontanea volontà, gliel’avrebbero presa a forza. Era nelle loro mani… Estrasse dunque il sacchetto in cui teneva il denaro e lo allungò al cieco. Il vecchio parve soppesarlo con una strana espressione di avidità sul viso; poi lo buttò a qualcuno che stava alle spalle di Heinrich e che fu lesto a afferrarlo. Il giovane svizzero fece appena in tempo a voltarsi per vedere un gruppetto di quattro o cinque mendicanti – bambini a quanto gli parve, per la loro statura – che, lanciandosi l’un l’altro la borsa come per gioco, corsero via scomparendo in uno dei cunicoli che si aprivano in fondo all’antro. Intanto, a un altro segno del cieco, alcune vecchie si avvicinarono trasportando un tavolo che doveva essere appartenuto un tempo a qualche dimora gentilizia perché, pur nella sua decrepitezza, conservava alcuni intarsi di pietre dure a forma di festoni di fiori. In quattro e quattr’otto fu apprestata una piccola sala da pranzo, con tanto di tovaglia anche se di pizzi sbrindellati, alcune seggiole di diversa foggia e dimensione, una lampada a olio avvolta in un drappo di seta rossa. Fu come un segnale perché da tutte le gallerie laterali sbucassero decine di mendicanti cenciosi e sciancati. Allo svizzero parve una scena spettrale, anche perché la debole luce sanguigna, che la lanterna poggiata sul tavolo emetteva, accentuava l’aria sinistra delle figure che si stavano avvicinando. La confusione era tale che il cieco dovette far silenzio piantando un pugno sul tavolo. Delle grida di giubilo, poco dopo, avvisarono che i ragazzini spariti con la borsa erano di ritorno, con una cesta di for12 La setta delle catacombe maggini e salsicce, quattro ruote di pane e un piccolo otre di vino. Solo quando il tutto venne poggiato sul tavolo, Heinrich si rese conto che non si trattava di bambini ma di nani, alcuni dei quali dovevano anche essere abbastanza avanti con l’età, perché delle buffe parrucche color talpa nascondevano malamente ciocche di capelli bianchi. A quello che sembrava il più vecchio di loro, e che venne apostrofato col nome di Jacobus, il cieco affidò il compito di fare le parti. Cosa che il nano, sfoderato un piccolo coltello che teneva appeso alla cintura, eseguì in un compunto silenzio quasi fosse un maestro di cerimonie. Il cerchio intorno a Heinrich si restrinse. Il giovane straniero cercò di farsi più piccolo che poteva, ma non riuscì a sottrarsi alle spinte della piccola folla che lo circondava. La cosa che comunque gli dava maggiormente fastidio era il fetore di corpi sporchi e sudati riuniti in così poco spazio. «Calma, confratelli» tuonò il cieco. «Che nessuno osi allungare una mano prima che io abbia fatto gli auguri di lunga vita al nostro anfitrione forestiero. Datemi una scodella pulita da offrire a lui per primo e poi berremo tutti alla sua salute!». Prontamente a Heinrich venne allungata una tazza che portava i segni di essere stata usata come portamoccoli; il vino era torbido e ci galleggiavano frammenti di pece provenienti di certo dal barile da cui era stato spillato. Comunque il malcapitato trangugiò il tutto d’un fiato, mentre intorno a lui si incrociavano gli evviva. Poi, mentre i mendicanti si buttavano sul piccolo festino senza fargli più caso, Heinrich ebbe un momento di tregua per valutare il pasticcio in cui s’era cacciato. Vie di uscita purtroppo non ne vedeva: gli conveniva perciò far buon viso a cattivo gioco. «Jacobus mi dice che tenete una faccia ingrugnata, signorino svizzero» la voce del vecchio lo fece sussultare. «Non vi dovete crucciare se abbiamo forzato la vostra liberalità: in fondo, vi siete conquistati degli amici, dato che nessuno dei membri della nostra onorata Confraternita è mai stato un ingrato, e in più avete dato ai vostri nemici l’avviso che, ormai privo della borsa, non possono più spogliarvi di nulla, a meno che non vogliano farvi fare la fine di San Bartolomeo» e rise, stridulo, come se avesse detto la battuta più divertente del mondo. Poi 13 Nicola Fantini si chinò verso il giovane straniero: «Dunque, dicevate che siete venuto a Roma per imparare l’arte, no?». «Vorrei disegnare la vita: le statue dei musei mi annoiavano…». Heinrich sussultò vedendo un grosso topo occhieggiare da una fessura dell’armadio; forse era stato attirato dalle briciole del piccolo banchetto. Fu un attimo: il vecchio lo infilzò con uno spiedo, tanto che il giovane si chiese se quel tale che aveva sentito chiamare Tomaso fosse davvero cieco; di nuovo sentì nelle viscere un groppo di paura. «Siete venuto nel posto giusto, mio caro pittore, perché vera istruzione coi fiocchi vi possiamo dare. Ma prima devi dirmi se sei in grado di pagare: noi non diamo niente per niente» aggiunse bruscamente il vecchio, passando all’improvviso dal voi al tu, «altrimenti è meglio che levi il culo dal tuo sgabello e te ne torni da dove sei venuto». Tornare da dove era venuto? Heinrich non cercava di meglio. Ma come uscire di lì, dato che la sua guida era sparita? Lo inquietava il modo con cui quella gente lo guardava avidamente. Con un filo di voce cercò di spiegare che non aveva con sé niente di valore, oltre al denaro che aveva già consegnato. Allora il nano che veniva chiamato Jacobus allungò le mani verso l’orologio a cipolla che sporgeva dal taschino di Heinrich. A malincuore il giovane straniero lo prese, lasciandoglielo poi cadere sul palmo aperto. Il piccoletto lo mostrò ai presenti e poi, tra battimani e bisbigli di ammirazione, lo consegnò al cieco. Il vecchio si fregò le mani: «Mi fa piacere che tu sia così ragionevole. D’altra parte, non potevi cascare meglio. Perché, se il tuo desiderio è davvero quello di voler disegnare la vita, qui sotto, da noi, c’è tutto quello che ti abbisogna: la carne e il ricordo, la fogna e il fuoco, il brivido e lo sghignazzo… Vedi, ragazzo, il nostro di quaggiù è il mondo vero, quello dove si tirano tutti i Destini. E se hai bisogno di storie e emozioni qui ne avrai finché vorrai» disse abbassando la voce e chinandosi verso Heinrich. «Non chiedo altro» rispose il giovane, sudando e facendosi più umile che poteva; tremava. «La vita vera è qui sotto, ti dico» continuò il cieco, «Perché la vita puzza e, credi a me, tutto quello che appare buono e 14 La setta delle catacombe bello non è che finzione: basta attendere e finisce per puzzare…». «Be’, non è proprio quel che ci insegnano a scuola. Per esempio, una volta lessi su un libro del famoso maestro Winckelmann che…». L’urlo del vecchio bloccò a Heinrich le parole in bocca. Un verso agghiacciante, sepolcrale, come il giovane non ne aveva mai sentiti. «Winckelmann!? Johann Joachim Winckelmann!?». Heinrich non avrebbe saputo spiegare cosa gli sembrasse più diabolico in quel momento, se la voce maliziosa e crudele del vecchio, o la terribile fessura della bocca di denti neri. Qualcosa nel tono usato dal cieco lo mise sul chi va là. Era in pericolo, Heinrich lo sentiva in ogni sua fibra: come sempre nei momenti di grande eccitazione in cui però la mente lavora più in fretta del solito e comprende anche ciò che è oscuro. E c’era tanto odio nel tono del cieco. «Il cavalier Winckelmann?» ripeté il vecchio Tomaso, quasi strozzandosi. «Cosa sai di lui?», e l’intonazione si fece d’un tratto inquisitoria. «So che è morto, a Trieste, non molto tempo fa» rispose Heinrich, guardingo. «Una volta mi diedero da tradurre in inglese alcuni suoi scritti. Ci guadagnai qualche soldo, giusto per fare questo viaggio in Italia…». La paura del giovane straniero prese i colori tenebrosi di quell’armadione scalcagnato e roso dai topi, del fumo del vecchio braciere, dei cumuli di immondizia che intravedeva intorno a sé con la coda dell’occhio. Da un angolo buio emerse un piccolo negro avvolto dalla testa ai piedi in un abito di seta straordinariamente candido: nella penombra della grotta spiccavano i suoi vestiti e il bianco dei suoi occhi, dando l’idea di un folletto senza mani e senza piedi, di uno sguardo senza viso. Lo svizzero rabbrividì vedendolo avvicinarsi al vecchio cieco e parlottargli all’orecchio. Colse tra i bisbigli qualche mezza frase: «…indagare sui motivi che l’hanno portato fin qui… meglio chiamare la Commendatrice…». Un gobbo che Heinrich aveva sentito chiamare Sebastian si volse verso lo svizzero e sorrise così ambiguamente da metterlo a disagio: «Dimmi, svizzero, ti interessa davvero sapere la 15 Nicola Fantini verità sulla fine di Winckelmann? Ti assicuro che è una storia istruttiva…». Heinrich avvertì nelle narici uno strano e nauseante profumo che dava alla testa. Confusamente sentì la voce del gobbo insinuarsi nelle sue orecchie come un ronzio d’api; gli parve che gambe e braccia gli si facessero pesanti, così che non poté neppure tentare di lottare quando qualcuno lo agguantò da dietro e gli venne annodata stretta sugli occhi una benda. Gli sembrò di entrare in un terribile sogno. 16