La Rassegna d`Ischia 3/2008
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La Rassegna d`Ischia 3/2008
Anno XXIX N. 3 Maggio/Giugno 2008 Euro 2,00 Omero e l’origine dell’alfabeto greco Mostra-Convegno sulle piante grasse rare e da collezione Itinerario e descrizione delle isole Guida 1826 (II) Fonti archivistiche Capitolazioni delle Confraternite di Ischia (III) Rassegna Libri Ischia non ha bisogno di mito Pittori tedeschi a Ischia Hans Purrmann I Santi dell’Algeria: S. Restituta Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Anno XXIX- N. 3 Maggio/Giugno 2008 - Euro 2,00 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Editore e direttore responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.2.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione con n. 8661. Stampa Tipolito Epomeo - Forio Sommario 3 Ischia non ha bisogno di mito 4 Don Pietro Monti: Commiato 6 10 Itinerario e descrizione delle isole - 1826 (II) 11 Personaggi: Fritz Wolf - L’arte della caricatura 12 Product Placement & Location Festival 13 Rassegna Libri 17 Omero e l’origine dell’alfabeto greco 22 Il martirio di S. Restituta nei quadri di Ferdinando Mastriani 25 I Santi dell’Algeria: S. Restituta 26 Una leggenda d’Ischia: S. Restituta 28 Firenze/Mostre - Il Volto di Michelangelo 29 Mostra-Convegno sulle piante grasse 32 Le piante succulente nei giardini storici 35 Un giardino e una biblioteca..... 36 Fonti archivistiche Capitolazioni delle Confraternite di Ischia (III) 41 Note linguistiche 45 Pittori tedeschi a Ischia - Hans Purrmann Napoli/Mostre: Salvator Rosa tra mito e magia Un francobollo per Casamicciola Il 24 luglio prossimo l’Ente Poste emetterà una serie tematica di francobolli (valore 0,60) “Il turismo” dedicati a quattro località, fra cui Casamicciola Terme (NA), insieme con Tre cime di Lavaredo (BL), Introdacqua (AQ), Mamoida (NU). Due emissioni filateliche hanno già in passato riprodotto vedute dell’isola d’Ischia. Il 21 maggio 1976, nella serie di propaganda turistica un francobollo da 150 lire riportava una veduta pittorica di Forio con il Torrione e il Soccorso in evidenza. Era la prima volta che uno squarcio paesaggistico isolano compariva sui piccoli, ma efficacissimi, manifesti di grande valore pubblicistico. Il 22 settembre 1980 nella nuova serie “Castelli d’Italia”, destinata a sostituire quella cosiddetta “Siracusana” o “Italia turrita”, il valore da 100 lire riproduceva il Castello aragonese. Benedetto Croce - Dalla Costituente alla nascita della Repubblica – 1943/1948 A cura di R. de Laurentiis e Dario Della Vecchia, promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dal Circolo Sadoul e dal Centro per la promozione del libro, si è tenuta a Ischia una mostra storico-documentaria intitolata “Benedetto Croce, dalla Costituente alla nascita della Repubblica - 1943/1948”. In visione, dal 20 al 30 aprile 2008 nel Salone delle Antiche Terme Comunali, riproduzioni di documenti d’epoca, quotidiani, periodici, fotografie, tavole di illustratori italiani ed esteri. Festa del Delfino Il 10 maggio 2008 si svolgerà, a cura del Delphis Mediterranean Dolphin Conservation, la VII edizione della Festa del Delfino, dedicata alla conservazione delle comunità di cetacei delle Aree Marine Protette di Ventotene e S. Stefano e di Ischia, Procida e Vivara. Nell’occasione è stato anche bandito un concorso a tema “I Cetacei e l’inquinamento da plastica”. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista - La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie e disegni (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 25 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.it [email protected] Don Pietro Monti, rettore del Santuario di S. Restituta in Lacco Ameno, studioso di archeologia, autore di varie pubblicazioni sulla storia dell’isola d’Ischia, e che diede vita agli scavi ed al successivo Museo di S. Restituta, è morto il 13 aprile 2008. A suo ricordo riportiamo un suo articolo, pubblicato su La Tribuna Sportiva dell’isola d’Ischia n. 8/1970. ********** Ischia non ha bisogno di mito di Pietro Monti «L’Osservatore Romano» del 4 luglio 1970 pubblicava un articolo, dal titolo «Ischia e Capri fra mito e storia», inteso certamente a far propagan da turistica efficiente a favore delle due isole del Golfo, ma che, in realtà, ha dato effetto contrario e pericoloso, almeno per Ischia. Sembra che l’articolo sia stato scritto quasi per inteso dire, ignorando le nuovissime pubblicazioni, le varie campagne di scavi archeologici, i monumenti e documenti messi alla luce, l’ultimo Congresso di Archeologia Cristiana in Campania, chiusosi a Lacco Ameno il 24 aprile scorso. Ad onore della storia e per una maggiore (kmq 46,3), emerse dal mare non per notorietà dell’isola verde nel mondo, eruzione vulcanica, ma per un ringiopreme dare delle precisazioni. vanimento di un bacino magmatico Ischia, la più grande delle isole locale, nel quaternario. partenopee, situata a chiusura del L’affermazione: «Monte Epomeo, lato occidentale del Golfo di Napoli vulcano attivo» è errata, perché l’Epomeo non è stato mai un vulcano, non ha avuto mai un cratere con relativa colata lavica. Chi ha gustato lo spettacolo impareggiabile della levata o del tramonto del sole dal gigantesco pilastro epomeico si è reso conto che Don Pietro Monti ha scosso la nostra società «locale» da un’apatia verso le pagine di storia scritte nei secoli passati. È storia «locale», ma trattasi pur sempre di momenti che lo studioso serio riesce a collocare in un contesto di storia patria e, nel caso di Ischia, nel più ampio scenario della civiltà mediterranea. [...] Il pensiero va ai primi tentativi di Don Pietro di portare alla luce documenti che la sua immaginazione e il suo entusiasmo di dilettante gli facevano collocare nella zona sottostante la chiesa di S. Restituta e il municipio. Andava alla ricerca di testimonianze di fede e del culto plurisecolare di S. Restituta e le ha trovate; ma ha principalmente trovato la molla che nel breve volgere di anni gli ha fatto attingere la collocazione tra i più stimati studiosi della archeologia della nostra Isola. Ma i meriti di Don Pietro non si fermano qui. E non parlo dei suoi meriti di studioso e di divulgatore, che ha costruito la sua preparazione con la tenacia di un impegno verificato «sul campo», che da Lacco Ameno si è andato presto estendendo all’intera isola d’Ischia, e coltivato con numerosi viaggi all’estero nelle terre che ebbero con l’isola nostra comunanza di interessi e di cultura. Parlo piuttosto della spinta che dagli studi di Don Pietro è venuta anche alla valorizzazione delle ricerche allora già in atto da anni da parte della Soprintendenza archeologica ad opera, principalmente, del prof. Giorgio Buchner e del prof. David Ridgway. (Vincenzo Mennella, Prefazione al libro La tradizione storica e archeologica in età tardo-antica e medievale, 1984) Da gran tempo, gli scavi di S. Restituta erano sentiti dagli studiosi come una vera necessità, ma i più non erano disposti a vederli fare per quel tremore che, di fronte alle novità, rende istintivamente gli animi pavidi e restii. Ci voleva la volontà realizzatrice, non priva di ardimento, di un giovane sacerdote per rompere ogni indugio. Don Pietro Monti, infatti, intraprese i lavori, picconando personalmente, coadiuvato da due fidi, improvvisati, sterratori. Era il 12 aprile 1950, quando gli scavi - motivati dal pavimento ormai consunto che s’intendeva rinnovare, e dal riadattamento dell’altare, in alcune parti, fatiscente - iniziarono nel più grande riserbo. Continuarono negli anni successivi in maniera più sistematica. (Pasquale Polito, in Lacco Ameno, il paese la protettrice il folklore, 1963). La Rassegna d’Ischia 3/2008 3 Commiato (Postfazione di Pietro Monti al suo libro Ischia archeologia e storia, 1980) Chiudendo queste pagine, mi auguro di aver condotto il lettore non sulla leggenda ma attraverso una fedele ricostruzione archeologica e storica dell’Isola, e gli chiedo scusa se, durante questa lunga passeggiata, gli è capitato di inciampare più volte contro i « cocci» o di essere scivolato dentro qualche burrone storico. Avrei potuto impennarmi sulle ali del mito, parlare della lotta dei Titani contro Giove, delle lacrime di Tifeo, trasformate in acque termo-minerali risanatrici; purtroppo girovagando tra i sentieri sperduti dell’Isola, non mi sono ancora imbattuto sulle tracce del folgorante Giove né di quelle del naufrago Ulisse, scampato presso il bel fiumicello. Se avessi trovato almeno un frammento del relitto della nave di Enea o individuato l’antica sepoltura del semovente Tifeo, incatenato sotto l’Epomeo, avrei condotto queste leggende sul piano della storia. Ma la leggenda, il mito lasciamolo ai poeti, potremmo attenderci anche l’avverarsi dell’inattendibile. « Ischia non ha bisogno di mito » per essere valorizzata. Quando mi affaccio dalla cima dell’Epomeo per godere lo spettacolo della natura, come sul ponte di una gigantesca nave pietrificata, da qualunque angolo dell’orizzonte io guardi vi trovo sempre nuove attrattive che rallegrano la vista: le cale, le marine fluttuanti nei bordi, le punte rocciose allungate mollemente in un trasognato incantesimo! Nessuna Isola al mondo, come questa, costruita dalla variabilità strabiliante di un vulcanismo più unico che raro, può mostrare, in una gamma di verde e di silenzi, i segni di tante civiltà, particolarmente di quella greca che si fuse mirabilmente con la romana, di cui oggi restano testimonianze vive e reali nello sviluppo civile e sociale dell’Isola d’Ischia. Il turista che vi arriva, sbarcando in uno dei tanti porticciuoli, ha davanti ai suoi occhi visioni diverse che, per il fascino delle marine, risalenti verso l’Epomeo, e l’incantesimo dei colori, gli riempiono l’animo di stupore: vede il Castello degli Aragonesi, l’accogliente Porto di Plinio e di Ferdinando II, l’affascinante Casamicciola Terme di Lamartine, l’Ameno Lacco, la Turrita Forio, l’incomparabile visione di S. Angelo e, più in alto, Serrara, Fontana, Barano incastonate nel fianco delle colline, sullo sfondo di un celeste evanescente cielo, soffuso di luci e di vapori. Un’Isola così carica di storia e di fascino non può essere abbandonata all’irrompente dilagar dell’abusivismo! Ischia ha bisogno di spiriti ferventi perché la salvino, ha bisogno di giovani che vi cerchino ancora, con maggiori emozioni, tante tracce di civiltà sepolte che la circonfusero di industrie, di arte, di cultura e di pietà. Io la lascio a voi, o giovani! Amatela, studiatela, custoditela, difendetela! Per il trionfo della natura, per la rarità degli angoli ancora incontaminati, disponetevi, o giovani, a sacrificarvi, a farvi valere contro le resistenze più agguerrite. Solo con voi si potrà riuscire a salvare e a trasmettere alle generazioni future quel che resta del nostro patrimonio archeologico, artistico e paesaggistico, ed «a costringere i responsabili ad uscire dalle loro tane»! Non scatti più tempo! Ricordate che di quest’Isola sconvolta da fenomeni tellurici, devastata da barbari invasori, avvolta in scenari estatici, va tutto salvato. Anche i «cocci», ultime reliquie di distrutti monumenti, nella forma più insignificante, pur essi parlano, si levano giganti, come l’Epomeo nel sereno incanto della natura, al pari dell’avvenimento storico e restano segni imperituri della civiltà a cui appartennero! --------4 La Rassegna d’Ischia 3/2008 quella è una cima naturale come gli altri monti. Oggi, fortunatamente, l’attività vulcanica d’Ischia è limitata alla presenza delle acque termali. La storia dell’isola non è oscura, ma chiara e gloriosa specialmente in tutta l’età greca. La comparsa dell’uomo sull’isola avvenne in età neolitica, nel III millennio a.C, come è attestato da schegge di selce, di ossidiana, da cuspidi di frecce e raschiatoi, da frammenti di ceramica appartenenti alla facies di Serra d’Alto. Nell’età del bronzo e del ferro (1400-1300 a.C.) vi troviamo in stallati alcuni villaggi: sul Castiglione, su Monte Vico, a Mezzavia, a Succhivo; pentole, eleganti sagome di vasi e di ciotole decorate ad incisione con tipici motivi della civiltà appenninica, inducono i ricercare i centri di irradiazione dell’Oriente greco-balcanico. Certamente l’isola costituiva la indispensabile statio-base per i naviganti dell’età del bronzo che risalivano la costa tirrenica diretti verso i giacimenti minerari della Toscana (stagno, allume). E la scoperta di documenti micenei pone Ischia, alla fine del XV secolo (1450 a.C), nel quadro delle relazioni tra il mondo miceneo e su tradizioni antichissime. La più antica colonia dell’Occidente Le vie dei metalli costituirono le linee direttrici della colonizzazione greca «storica» verso l’Italia centrale. I pionieri vennero dall’isola di Eubea. Calcidesi ed Eretriesi, intorno alla prima metà dell’VIII secolo, fondarono nella zona di Lacco Ameno (Ischia) la cittadella di Pithecussaj (nome greco derivato da pithos = vaso ad indicare il luogo della produzione dei «pithoi» e del relativo smercio: l’opinione che vorrebbe far derivare il nome da scimmia è del tutto priva di fondamento). La datazione della colonia gre ca, saldamente impiantata sull’iso la d’Ischia, è stata convalidala dal ritrovamento della più antica specie della Kotyle - caratteristico vaso protocorinzio del 770 a.C. - del tipo Aetos 666 e di altra ceramica greca che è sicuramente la più antica fra quella trovata fino ad oggi in ogni altra colonia ellenica dell’Occidente. La scelta di un’isola costiera riflette chiaramente il fatto che, prima di mettere piede sulla terraferma, le nuove terre venivano ispezionate per entrare poi prudentemente in con tatto con le popolazioni «barbare» ancora sconosciute del luogo. Dopo breve stanziamento sull’isola di Pithecussaj, gli Eretriesi e i Calcidesi fondarono intorno al 750 a.C. Cuma, su colle roccioso, in riva al mare e a dominio della pianura campana. Cuma si elevò rapidamente al rango di metropoli, Pithecussaj a base di appoggio per il mercato con le coste campane; e fu il commercio della ceramica, del ferro e dei pro- dotti orientali che trasformò l’isola in un emporio intermediterraneo, dove, fin dalla metà dell’VIII secolo convergevano i traffici degli indigeni della Campania, dei popoli dell’Etruria, della Grecia, della Siria e dell’Egitto. E , unitamente a Cuma, in modo sia diretto sia indiretto, Pithecussaj trasmise ai Latini, agli Oschi e agli Umbri il proprio alfabeto di derivazione calcidese! Conoscitori dell’arte figulina, i Greci vi introdussero il tornio, sfruttando abilmente i giacimenti argillosi esistenti sui fianchi epomeici. Così accanto alla ceramica d’importazione fiorì con un carattere tutto particolare quella di produzione locale. Maggiore convalida della vitalità industriale, diventata ormai nazionale, sono le fornaci ed i laboratori messi alla luce negli scavi di S. Restituta (19671968-1970). L’espansione di Pithecussaj e di Cuma Per favorire il commercio di così notevoli ricchezze industriali, divenne estremamente necessario occupare i punti più vitali: si colonizzò e dominò Reggio, si occupò Messina per il controllo dello stretto; per assicurarsi il dominio del Golfo vennero fondate Dicearchia (Pozzuoli) e Neapolis (Città Nuova) con abitanti di Pithecussaj e di Atene. Solo così le navi greche potevano risalire le coste tirreniche verso Elea, Cuma, Pithecussaj, senza essere disturbate dai pirati o dagli Etruschi. Una posizione economica tanto favorevole alle colonie greche incominciò a contrastare gli interessi degli Etruschi, giunti ormai fin nella Campania, a tal punto che l’urto fu inevitabile. E ci furono due battaglie, in diversi momenti storici. L’articolista ha preso un abbaglio ed ha fuso i due scontri in uno solo; ha erroneamente assegnato ad Aristodemo (vincitore nella battaglia di Aricia, 524 a.C, sugli Etruschi guidati da Arunte) la vittoria della battaglia navale del 474 a.C. svoltasi nelle acque di Cuma e condotta da Jerone: quivi Siracusani, Cumani e Pithecusani ributtarono l’attacco della flotta etrusca. Pindaro, ospite di grande onore presso Jerone, immortalò nei suoi versi una così grande vittoria. Cuma fedele ai patti cedette l’isola di Pithecussaj a Jerone, il quale sognava di farne una base navale di primo ordine verso il Nord. Infatti, sull’arce di Pithecussaj, fece costruire una fortezza e vi stabilì un comando; infondatissima è l’idea che vorrebbe, ancora oggi, localizzare questa guarnigione sul Castello d’Ischia, venuto alla ribalta storica solo nel periodo medievale. Purtroppo Jerone dominò per breve tempo sull’isola di Pithecussaj, occupata subito dai Napoletani, i quali mal vedevano la presenza dei Siculi nel Golfo miranti ad assoggettare alla dittatura di Jerone tutte le colonie greche. Strabone si limita a dire che i Siracusani abbandonarono l’isola per una spaventosa eruzione vulcanica. Purtroppo in quel periodo di tempo ad Ischia non si verificarono manifestazioni di quel genere. Sulla piana di San Montano, sotto il lieve rialzo di tepida arena, dormono da millenni vestigia di civiltà lontane, le quali risalendo il Tirreno sulle triremi dalle vele di porpora approdarono all’isola di Pithecussaj. Ed accanto alla storia, ad Ischia si sente la poesia greca: squarci di poemi omerici cantati o dipinti dai ceramisti pithecusani. Su un vaso di fattura locale databile alla fine dell’VIII sec. a.C. è dipinta la scena di un naufragio, che certamente rievoca una scena del viaggio di Ulisse al passaggio tra Scilla e Cariddi. C’è poi la Coppa di Nestore del 730 a.C. con la sua iscrizione sinistrograda, ormai chiara, che mi permetto far ricantare a qualche erotico moderno nella seguente euritmia: Alla Coppa di Nestor ber valea la pena, / Ma chi alla mia sorseggia, dal desio / della bionda Afrodite sarà tosto preso. Un sigillo geometrico della fine del secolo VIII a.C. racchiude un canto riferito agli avvenimenti succedutisi dopo la distruzione di Troia: si vede la figura di un uomo che ha sulle spalle il corpo morto di un compagno di guerra; esso rappresenta Aiace che trasporta il corpo di Achille da sotto le mura di Troia alle navi greche. Il sigillo trovato su Monte Vico è il più antico documento riferentesi agli avvenimenti postumi alla distruzione di Troia. Cosi la storia d’Ischia s’illumina della poesia omerica. Ischia non ha bisogno di mito né di essere tuffata nella luce commerciale di altre località turistiche: Ischia possiede una storia tutta sua, un fascino che non cerca confronti. Pietro Monti La Rassegna d’Ischia 3/2008 5 Itinerario e descrizione delle isole di Procida, Ischia e Capri II * Epomeo e ritorno a Celso Lasciata Foria, il viaggiatore comincia a salire per questa montagna, e ne vedrà la punta occidentale piantata di vigne. La coltivazione, portata a tanta altura, dimostra l’industrioso ardimento degli Ischiotti in fatto di agricoltura, e veramente l’Isola tutta par che meriti dì essere annoverata fra le terre meglio coltivate del mondo. Inoltrandosi poi verso Panza osserverà il viaggiatore al di sotto della via una spiaggia che va a congiungersi al Capo Imperatore: ivi sono delle stufe, la di cui efficacia viene anteposta dagli abitanti di Foria a quella delle stufe di Casamiccia, e si chiamano le stufe di Cetara. Panza è un Comunello quasi tutto composto di case contadinesche sparse sopra di un’alta piattaforma che sporge dall’Epomeo. L’aria quivi dee essere straordinariamente salubre: passandovi noi nell’estate del 1824 ci venne assicurato che degli 800 abitanti del villaggio, niuno era ammalato. Oltrepassata Panza, la strada diventa sempre più alpestre e stretta, ma il fastidio che vi si può provare per tal motivo vien grandemente compensato dalle deliziose prospettive che al viaggiatore si affacciano da vari punti della strada medesima; la parte occidentale dell’Isola è quella donde si godono le vedute più graziose e una magnifica poi se ne presenta al viaggiatore quand’egli più si avvicina a Serraro; è * La prima parte è stata pubblicata nel n. 2 Marzo/Aprile 2008. ** Nuova Guida di Napoli, dei contorni, di Procida, Ischia e Capri, compilata su la Guida del Vasi ed altre opere più recenti, e dietro una visita personale del Compilatore alle Chiese, Monumenti, Antichità, ecc. ecc. di G. B. De Ferrari professore di Lingue - I edizione Napoli 1826, Tipografia di Porcelli. 6 La Rassegna d’Ischia 3/2008 quella della baja di Napoli, combinata colla porzione tuttora visibile, e più di ogni altra piacevole d’Ischia. Serraro contiene da 2500 anime. Fontana, che dopo questo è il più prossimo villaggio, ne ha solamente 600, ma ha l’onore di essere il più alto borgo dell’Isola. Per una salita agevole si va da questo luogo alla cima della montagna, ch’è alta 1800 piedi sul livello del mare. Quivi è un convento incavato nella viva rupe ed una chiesetta dedicata a S. Ni cola. Sotterrata in una cappella di questa chiesa giace la spoglia di Giuseppe d’Arguth, tedesco, la di cui storia vien riferita come segue in un libro anonimo stampato tre anni fa (Tableau topographique et historique des isles d’Ischia, de Ponza et de Vendotena, de Procida et de Nisida, du Cap de Misène et du Mont Pausilipe - Par un ultramontain - Naples 1822). » Il Sig. Giuseppe d’Arguth tedesco di nascita, e comandante del Castello d’Ischia volle personalmente inseguire due disertori della sua guarnigione, che erano andati a nascondersi in una foresta verso la cima del Monte Epomeo. Li sorprese in un luogo dei più solitarj ma, in quel punto in cui questo valoroso militare era per piombare su di essi, il suo cavallo sdrucciolò e cadde egli supino. Tosto quei scelerati armati dei loro fucili, gli presero la mira. Il Castellano in tal frangente invocò il suo protettore S. Nicola, facendo voto di dedicarsi al servigio di lui, se si degnasse salvarlo da così imminente pericolo. La sua preghiera fu esaudita: forato gli fu dalle palle il cappello ed il mantello, ma nella persona non ebbe alcuna ferita; salvato cosi miracolosamente, si divestì egli della sua carica, e si ritirò all’Ermitaggio di S. Nicola, situato sulla cresta dell’Epomeo. Vi fece ingrandire la cappella, e scavare nella rupe stessa una quantità di cellette ed altre stanze. Congregò una dozzina di Da: «Nuova Guida di Napoli, dei contorni, di Procida, Ischia e Capri» 1826 ** di G. B. De Ferrari cenobiti coi quali menò poi vita monastica provvedendo con ricche dotazioni alla loro sussistenza, non meno che al mantenimento della cappella, che adornò di altari, di reliquie, di vasi sacri, e di una facciata esterna cui sovrasta un piccolo campanile. Fece pure molto bene ai poveri, e la sua vita fu una serie, non interrotta, di buoni esempj. Fra gli ornamenti scolpiti in legno, che veggonsi tuttora nel Santuario di S. Nicola, molti sono opera delle sue proprie mani. Morì in odore di santità dopo di aver passati in questo luogo sedici anni: una tavola di pietra indica il luogo della sua sepoltura nella cappella. Per umiltà cristiana egli aveva proibito che si facesse cosa alcuna onde conservare la sua memoria, cosicché quanto si sa di lui è tradizione verbale«. Oltre a questo venerando penitente, che visse sotto il regno di Carlo III, altri eremiti hanno un dopo l’altro abitata la punta dell’Epomeo; uno di essi (il Padre Michele) è tuttora vivo nella memoria degl’Isolani; era egli pure tedesco, nato nel Palatinato: lasciò a bella posta le sponde del Reno per ve- nire ad abitare sulla rupe del S. Nicola, e dopo esser ivi rimasto fino all’età di centocinque anni, si trasferì al piccolo eremitaggio di S. Francesco di Paola nel piano di Foria: ivi morì nell’anno 1811, e vi si vede il suo ritratto non che la tomba che ne contiene le ceneri. I presenti abitatori dell’Eremo sono un anacoreta ed un laico, i quali cortesissimamente sogliono accogliere il forestiere, dargli tutte le informazioni che desidera, e far quanto da loro dipende per rendere la sua visita soddisfacente: per le loro cure è mantenuta la cappella, che una volta godeva bastanti redditi procedenti dai pii legati del Padre Giuseppe, ma ora sono ridotti a cosi poco, che il povero Eremita non potrebbe decentemente tenere la Chiesa e le sue dipendenze, se non fossero le elemosine degl’Isolani e dei forestieri che vanno a visitarla. Per quanto alto sia il convento, non è il più alto punto della montagna; sovra di esso evvi un terrazzo sul quale il viaggiatore è invitato a salire, se voglia godere la più ampia prospettiva del mondo. Verso Ponente vedrà egli in mezzo all’acque Santo Stefano, Ventotene, Ponza, e altre Isolette, appartenenti tutte al Regno di Napoli. Santo Stefano, che è la più piccola, contiene un ergastolo. Ventotene ha due miglia di lunghezza, ed un miglio di larghezza; nei tempi moderni i suoi primi abitanti furono: coloni ivi mandati dal Re Ferdinando nel 1769; vi sono adesso da 700 anime. Ponza che ne contiene all’incirca 1000, è la più grande Isola di quel gruppo, avendo 13 miglia di circonferenza: è assai stretta, ed ha tre miglia e mezzo di lunghezza: ivi si veggono alcune antichità, e fra le altre non poche grotte e nicchie antiche chiamate i bagni di Pilato. I due isolotti intorno a Ponza sono nominati Palmeruola e Zannone: non hanno abitanti né importanza alcuna fuorché nella storia naturale del globo, sotto il quale aspetto hanno, come Ponza, attratta l’attenzione ed esercitata la penna di molti celebri naturalisti, come Dolomieu, Spallanzani ecc. Ritorniamo al terrazzo dell’Epomeo, ove Virgilio, Enea, e la sua nutrice (Cajeta), Omero, e Circe, Capua ed Annibale, i campi Elisi ed il Tartaro, la prima eruzione del Vesuvio, Pompei e Plinio, Capri e Tiberio si riaffacciano in parte allo sguardo, e tutti alla rimembranza dell’osservatore di quel grandioso panorama. Lasciata poi 1’altura, bisogna che il viaggiatore riscenda a Fontana, e quindi s’inoltri, per inclinati e stretti sentieri, a Monopane e Barano. Un altro borgo si osserva dalla strada che mena a quest’ultimo luogo: chiamasi Testaccio, e non contiene più di 1500 anime; a Barano ve ne sono all’incirca 4000 e qui ha caro il viaggiatore di rincontrare quel moto di attività ch’erasi dileguato d’intorno a lui da Foria in poi. Barano è il luogo ove più che in ogni altro si fabbricano quei cappelli di paglia da uomo cosi comuni a Napoli, e nei contorni durante l’estate. Oltrepassato Barano, la via riesce tuttavia anzi che no incomoda, fintanto che il viaggiatore sia disceso in una valle che è a livello della Città di Celso. Quivi l’agricoltura è condotta in quel modo stesso che osservasi fra Capua e Napoli, la vigna essendovi graziosamente maritata all’alto pioppo fino alla di cui sommità si solleva, mentre che nelle altre partì dell’Isola, è lasciata sciolta e bassa. Questa valle decorre fra l’Epomeo e Monte Vergine, sulla di cui cima esiste una chiesa dedicata alla Vergine Santissima. Colassù pure abita un eremita, e sul fianco di questa montagna medesima giace un villaggio, il solo dell’isola che sfugga alla vista del viaggiatore che ne fa il giro: si chiama Campagnano, e per vederlo bisogna scostarsi alquanto dalla strada maestra. Vicino a Celso s’incontra gran porzione di un acquedotto notabile assai per l’elevatezza dei suoi archi: scorrono questi al di sopra del terreno per lo spazio di un miglio e mezzo, e comunicano a condotti sotterranei, per mezzo dei quali l’acqua vien portata dalla montagna a Celso in una lunghezza di sei miglia. Osservazioni generali intorno all’isola e agli abitanti Dopo di aver veduti i punti più interessanti dell’Isola, il viaggiatore è per avventura bramoso di trovare nel nostro libro qualche cenno che risguardi in generale il paese, non che gli abitanti, la qual sua curiosità noi siamo per appagare in quanto cel permettono i limiti dell’opera. Il suolo d’Ischia è quasi tutto volcanico; e fuorché in quelle parti, come il Campo dell’Arso, ove non è stato possibile il coltivarlo, la mano industre degli abitanti ha saputo ovunque introdurre la vite, cosicché l’isola tutta è propriamente un gran vigneto, quindi per quantità non meno che per isquisitezza, fra i prodotti suoi primeggia il vino. Il benessere del paese vorrebbe di questa derrata uno smercio maggiore; per ora riducasi a quello che vien mandato al mercato di Napoli, ove tanti altri buoni vini concorrono. Produce eziandio una quantità ragguardevole di fichi che, disseccati, nella fredda stagione costituiscono l’alimento principale dei poveri: vi si semina grano, e granone, ma non in dose che basti al consumo dell’Isola. Gli abitanti sono generalmente ben fatti, di bella statura, briosi, e più inclinati al vivere attivo di quei che sogljano essere gli uomini dei paesi meridionali; la qual disposizione vien loro probabilmente comunicata dall’ambiente scoperto, continuamente scosso dai venti, e pregno altronde di atomi nitrosi, e solfurei; il loro numero in tutta l’Isola è di 24.000 dei quali quattro mila, come abbiamo già detto, occupano la Città. Buon numero di costoro e di Foriani, e di quei di Casamiccia son marinari, o pescatori; gli altri si possono dividere in tre classi e cioè proprietarj, manifatturieri e campagnuoli, i quali ultimi sogliono sempre portare appesa al fianco una falciuola: noi abbiamo inteso persone rispettabili cui dispiaceva un tal costume, perché quello strumento, ogni qualvolta insorgono dispute fra loro, diviene un’arma pericolosa. Non è piccolo il numero dei forestieri, e dei Signori Napolitani che concorrono ad Ischia per prendere i bagni, o le stufe; altri vi si recano per la semplice curiosità di osservare i luoghi dell’Isola più notabili, e la spesa degli uni e degli altri La Rassegna d’Ischia 3/2008 7 contribuisce alquanto alla prosperità degl’Isolani, singolarmente a Casamiccia ove sono i bagni e le stufe più frequentate. Del rimanente e stufe e bagni s’incontrano in quasi ogni angolo delli Isola, e la loro diversa temperatura ed efficacia offre altrettanti mezzi di cura per un numero eguale d’infermità. Il governo dell’Isola, per ciò che spetta all’Ecclesiastico, è affidato ad un Vescovo che risiede a Celso; il giudiziario vi si esercita da due Giudici, uno de quali soggiorna al Celso, e l’altro a Foria; l’amministrativo finalmente è nei rispettivi Sindaci delle Comuni, i quali dipendono dalla Sottintendenza di Pozzuoli. Capri L’Isola di Capri giace quasi sotto il medesimo meridiano di Napoli, e sorge alta in forma di bipartita rupe all’ingresso della sua baja; considerata come punto marittimo, offre coi venti di Mezzodì e Libeccio un ancoraggio di quattro, o cinque braccia dirimpetto alla sua piccola spiaggia che guarda a Gregale; ma i bastimenti debbono ancorarsi ad un breve tiro di cannone dalla spiaggia medesima, essendovi più da vicino ad essa un fondo di quindici in venticinque braccia. Quantunque intorno all’isola vi sieno diversi scogli tanto sopra quanto sottacqua, un bastimento può con sicurezza farne il giro a breve distanza, fuorché dalla punta di Libeccio ove è un banco di sabbia che si estende molto nel mare verso Mezzogiorno. La circonferenza dell’Isola non eccede nove miglia: è lunga tre miglia ed ha tre quarti di miglio di larghezza. Il nome di Capri procede dal latino Caprae, ma fu anche chiamata Senaria, Telantea ed insula Telonis. Questo Telone, secondo Virgilio, era Re dell’Isola prima che Enea venisse in Italia. Da Virgilio pure, e da Stazio e da Tacito sappiamo che i suoi più antichi abitanti furono i Teleboi, popolo procedente dall’Acarnania in Epiro. Strabone poi dice che ai Teleboi successero nel possesso di Capri i Napoletani, i quali la diedero quindi ad Augusto in iscambio d’Ischia, al qual proposito si narra che quest’Imperatore s’innamorò di Capri per aver veduto, o, come è più probabile, creduto di vedere al suo sbarcarvi una vecchia elce rinvigorire nei suoi rami. Egli eresse nell’isola degli edifizj magnifici, e vi passò alcuni giorni prima che venisse a morte in Nola; ma toccava a Tiberio il render quest’Isola molto più famosa di quel che si fosse, colla sua lunga, e più che lunga, ignominiosa dimora. Tacito riferisce la ragione per cui questo Monarca scegliesse Capri a preferenza di Roma, e di tante nobili Città del Romano Impero. Cesare, dic’egli, dopo di aver dedicati tempj per la Campania, quantunque con un editto avesse ordinato che niuno disturbasse la sua quiete e per la conveniente disposizione delle sue guardie rimosso fosse l’affolla mento dei campagnoli, pure odiando egli i municipi, le colonie, e qualsiasi cosa sul continente, andò a nascondersi nell’Isola di Capri che è divisa per uno stretto di tre miglia dal promontorio sorrentino. Credo che a lui piacesse sommamente la solitudine di quell’isola, e perché non ha porto, cosicché pochi sussidj vi si possan portare, e questi in piccoli navigli. Il clima, durante l’inverno, viene mitigato dall’opposto monte. che rispinge i venti impetuosi, e l’estate trasformasi ivi in Primavera perché l’Isola è circondata da un mare aperto, e piacevolissimo; guardava essa un bellissimo golfo prima che il Vesuvio, montagna ignivoma, sconvolgesse la faccia del luogo. Tiberio, condotto a Capri dalla sua diffidenza, portò ivi il suo smodato lusso, e tutto il fasto di un Imperatore Romano, eresse edifizj sovra edifizj, tutti sontuosi, magnifici, e sfoggianti di marmi; quindi Stazio non senza ragione chiamò quest’Isola dites Caprae (la ricca Capri), ricca davvero di pompa Tiberiana. Dopo la morte di quel Cesare, Capri cadde nuovamente nell’obblio del volgo: gli scrittori moderni ne hanno parlato per dimostrare che nei secoli di mezzo aveva appartenuto agli Amalfitani la di cui Repubblica, ancorché nel suo nascere, fece tanti acquisti. Quest’asserzione non passò senza controversia, ma, comunque 8 La Rassegna d’Ischia 3/2008 sia, l’Isola venne poi sotto l’immediato dominio dei Re di Napoli, e fa ora parte della Provincia di questo nome. In quanto alla sua formazione, supposto fu dagli Antichi, che si dovesse ascrivere a qualche naturale evento per cui divenuta fosse un’isola dopo di aver fatta parte del vicino Promontorio chiamato allora Ateneo, la qual conghiettura ha perduto assai del suo credito dacché il celebre mineralogista Breislak ha emesso opinione che non fosse fondata; pare per altro ch’egli abbia soltanto impugnata l’idea dell’aver Capri subito un cambiamento di posizione; giacché anch’egli è convenuto nel parere che fosse una volta connessa alla Terra ferma. Credo dunque, così si esprime Breislak, che l’Isola di Capri sia stata sempre in quel luogo dov’è al presente, e che la di lei comunicazione colla terra ferma sia stata tolta o da qualche terremoto che ne abbia fatte crollare le parti intermedie, o dalla irruzione dell’Oceano, allorché questo, rotto lo stretto di Gibilterra, riempì colle sue acque molte valli e trasformò in isole le montagne più alte intorno alle quali si poté diffondere. Lui stesso, mineralogista, soggiunge però che poteva essere anche stata come uno scoglio sepolto nel mare, e di cui comparve la parte superiore, allorché avendo i due mari preso uno stesso livello, le acque del Mediterraneo si dovettero di molto abbassare. La mole generale dell’Isola è una massa di pietra calcarea uniforme e non stratificata, consimile in tutto a quella dei nostri Appennini; per altro si trovano qua e là nel terreno dell’isola fram menti di corpi marini ed altre sostanze non reperibili in queste montagne. Capri è divisa in due borgate, una delle quali, che ha lo stesso nome dell’isola, ne occupa la parte bassa; l’altra in vece è situata sul piano del più alto monte, e chiamasi Anacapri. L’Isola tutta produce vino in dose eccedente il consumo degli abitanti, per lo che molto se ne trasporta a Napoli ove si vende insieme ai migliori vini del Regno; le altre produzioni dell’isola sono oglio, vino, e la migliore erba ruggine che si conosca. Nei tempi decorsi abbondava di capre, ma vi sono scemate assai dac- ché molti terreni che quindici, o venti anni fa erano incolti, sono stati messi a lavoro; questa circostanza per altro ha fatto in parte sparire molti ruderi antichi dei quali appena più si scorge la situazione. Erano dessi gli avanzi di dodici palazzi, o ville erette da Tiberio, o ch’egli almeno abbellì ed ampliò ancor più, giacché prima di lui Capri era stata adorna di magnifici edifizj da Augusto. Questi palazzi erano dedicati ai dodici dei maggiori. All’avvicinarsi del viaggiatore gli comparisce l’Isola come un’altissima terra che si dilunga da ponente a levante con due sommità torreggianti verso questi due punti: sull’orientale scorgonsi gli ingenti avanzi di un antico palagio: è quello il luogo denominato S. Maria del Soccorso. Due altri colli si veggono fra quella montagna e l’oc cidentale, e chiamansi S. Michele, e Castiglione, o Castellone; il borgo, o Città di Capri è quel cumulo di case situate nello spazio intermedio fra belle due colline; la sommità poi all’occiden- te dell’Isola vien detta Monte Solaro, ed una scala notabilissima, per essere intagliata nella viva rupe, aggiunge non poco alla singolarità della sua apparenza: questa scala non ha meno di 535 gradini, e forma la sola via per andare da Capri ad Anacapri. I forestieri, sbarcando, sogliono essere invitati a presentarsi dinanzi al magistrato di Capri, e senza voler suggerire ciò come precauzione richiesta dalle leggi, li consigliamo a prender con sé i loro passaporti. Una sola locanda è nella Città, appartiene ad una cortesissima persona di nome Donna Rachele Tedeschi, che colle sue pulite maniere vi rende il soggiorno piacevole: due Ciceroni si trovano nell’Isola, uno dei quali è figlio di lei. Anacapri - L’alta rupe che sorge al di sopra del Palazzo della marina offre la sola via per cui si possa andare ad Anacapri, via, come abbiamo detto, consistente in una singolarissima scala: bisogna salirla a piedi, o in portantina. Prima dell’anno 1809 questa scala non avea nulla che potesse alleggerire la fatica della salita. Un muro laterale vi è stato poi costrutto, il quale serve almeno ad impedir le vertigini. Piacevole sorpresa fa al forestiere il vasto piano che gli si affaccia sull’alto del monte: colassù la sua respirazione si dilata, e può spaziare lo sguardo fino ad un’immensa distanza. Sovra di quella pianura è un Castello detto di Barbarossa forse perché fabbricato sotto il regno di Federico II che aveva questo soprannome. Una chiesa del villaggio aveva una volta un pavimento dipinto dal Solimene, rappresentante Adamo ed Eva con molti animali nel Paradiso terrestre: noi non sappiamo se quest’ornamento sia o no tuttora nella stessa Chiesa, che è adesso chiusa come appartenente ad un convento soppresso, del resto il viaggiatore sarà lietissimo della sua gita a questo villaggio per la singolare sua situazione sul più alto punto abitabile di tutta la baja di Napoli. *** “Il rifiuto del rifiuto” - Il rapporto tra giornalismo e ambiente al centro della XIV edizione del «Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi» La sostenibilità ambientale, l’emergenza rifiuti, il riscaldamento globale, temi che riempiono le pagine di giornali e i servizi televisivi in un continuo oscillare tra allarmismi e negazionismi, annunci disastrosi e appelli tranquillizzanti. Eppure le rubriche dedicate all’ambiente si limitano a raccontare della tutela di flora e fauna o a servizi di promozione turistica. Pare dunque che manchi un approccio più ampio, che consideri l’ambiente quale luogo ove si realizza lo sviluppo antropologico, sociale ed economico. È questo il focus di “Il Rifiuto del Rifiuto”, dibattito al centro della XIV edizione del Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi al Palazzo del Turismo di Riccione dal 5 al 7 giugno. Alla tavola rotonda che si svolgerà venerdì 6 e realizzata in collaborazione con Edizioni Ambiente, interverranno: Carlo Lucarelli, giornalista, autore televisivo e scrittore, Mariano Maugeri, giornalista de Il sole 24 ore e Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania. Conduce Giorgio Zanchini (Radio anch’io). Sono stati inoltre invitati Alan Weisman, giornalista e scrittore statunitense, autore di innumerevoli articoli pubblicati su note riviste come Harper’s, The New York Time Magazine e del recente libro “Il mondo senza noi” e Chris Mooney, scrittore e giornalista freelance americano specializzato sulla scienza e la politica, fondatore del blog “the intersection”. Anche quest’anno il Premio che, da quattordici nel ricordo degli inviati Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin assassinati in Somalia nel 1994 promuove un giornalismo attento ai temi sociali, si offre come palcoscenico di confronto di importanti temi d’attualità. Dall’ambiente all’immigrazione, dalla mafia alla libertà d’informazione in Cina, senza ovviamente dimenticare lo stato del giornalismo d’inchiesta. Il Premio Ilaria Alpi sarà anticipato dalla rassegna documentaria IA Doc che si svolgerà sempre al Palazzo del Turismo di Riccione da domenica 1 a mercoledi 4 giugno. Fra i titoli, in anteprima nazionale, il documentario War on Democracy di J. Pilger. La proiezione si svolgerà alle 21 di mercoledì 4 giugno, giornata interamente dedicata al giornalista e documentarista australiano in collaborazione con BFF e Fandango. In programma una rassegna di suoi lavori. War on Democracy sarà proiettato anche il 5 giugno nell’ambito del Bellaria Film Festival. Il Premio Ilaria Alpi è promosso da Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini, Comune di Riccione e Associazione Ilaria Alpi Comunità Aperta. *** La Rassegna d’Ischia 3/2008 9 Napoli / Capodimonte (18 aprile – 29 giugno 2008) Salvator Rosa tra mito e magia Al Museo di Capodimonte di Napoli è in corso e si prolungherà sino al 29 giugno 2008 la mostra monografica Salvator Rosa tra mito e magia, che si svolge nell’ambito delle celebrazioni del cinquantenario dell’apertura al pubblico del Museo di Capodimonte e che si inserisce nel programma culturale della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli, volto ad approfondire, tramite esposizioni monografiche, la conoscenza di alcuni dei protagonisti della pittura napoletana del Seicento. Salvator Rosa, pittore, poeta e musicista, è indubbiamente uno di questi, attivo non solo a Napoli, ma anche a Firenze e a Roma, collocandosi in quel particolare ambiente culturale che vede intrecciate scienza, magia, alchimia, filosofia e arte. Sono esposti circa 60 dipinti provenienti da musei italiani, europei e americani, come la Galleria d’Arte Antica di Roma, la Galleria Pitti di Firenze, la National Gallery di Londra, il Museo del Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Metropolitan Museum di New York e opere provenienti da importanti collezioni private. L’esposizione è, inoltre, arricchita e completata da una selezione di disegni e incisioni presenti nelle collezioni della Soprintendenza per il Polo Museale di Napoli. Le opere sono state selezionate da un comitato scientifico internazionale, composto da Nicola Spinosa - presidente -, Marco Chiarini, Brigitte Daprà, Helen Langdon, Wolfgang Prohaska, Aurora Spinosa e Caterina Volpi. Sono previsti, anche, molteplici eventi che avranno l’intento di mettere in luce la produzione poetica, oltre che musicale, di Salvator Rosa, sempre strettamente connessa a quella pittorica. Il visitatore avrà dunque l’occasione di ascoltare la lettura di passi tratti dalle sue Satire e da altri suoi componimenti poetici e di assistere all’esecuzione di brani appartenenti al panorama musicale del Seicento napoletano, di cui lo stesso Salvator Rosa fu esecutore. L’artista - nato a Napoli nel 1615 e morto nel 1673 a Roma – esprime, attraverso le varie forme artistiche, quel “dissenso” che contraddistingue tutta una gene- 10 Leggete e diffondete La Rassegna d’Ischia 3/2008 Salvator Rosa - Autoritrato razione di pittori e scrittori, che si pongono in maniera fortemente critica nei confronti del potere politico e religioso. «Salvator Rosa, dopo Caravaggio», - afferma Nicola Spinosa - «è certamente una di quelle personalità che più hanno segnato, non solo le vicende dell’arte in Italia tra naturalismo e barocco, quanto anche la fantasia di noi contemporanei. Poeta e pittore, letterato e uomo d’armi, uomo di teatro e pratico di alchimia, condensa in sé tutti gli aspetti più diversi e contrastanti di un partenopeo, che pur essendo stato costretto a lavorare altrove - a Roma e Firenze in particolare - conservò, comunque, dentro di sé l’animo di un uomo nato e cresciuto a Napoli, all’ombra del Vesuvio. La sua pittura, con temi biblici ed evangelici, alchemici e filosofici, magici e di stregoneria, ma anche fatta di straordinari ritratti di uomini e donne del suo tempo e autoritratti di coinvolgente comunicatività, è, infatti, attraversata, come tutta la realtà napoletana di ieri e di oggi, da luci e ombre, fatti e misfatti, miseria e nobiltà, profonda religiosità e irreversibile superstizione». Il sito del museo: www.museo-capodimonte.it La Rassegna d’Ischia Il giornalista e scrittore tedesco incantato dai paesaggi e dai colori d’Ischia Fritz Wolf L’arte della caricatura di Giuseppe Silvestri Fritz Wolf Come si legge sulla locandina la città natale di Osnabrück ha organizzato una mostra in onore di Fritz Wlof che si terrà dall‘8 maggio al 13 giugno 2008. È noto che l’isola d’Ischia è stata nel tempo, ed in particolare negli ultimi tre secoli, visitata ed amata da moltissimi artisti: scrittori, pittori, poeti, dei quali si è spesso parlato e che si ricordano in articoli e libri. Essi costituiscono un motivo di prestigio e di vanto per l’isola che, grazie anche alle loro opere, ha acquisito risonanza internazionale. Ebbene, ritengo opportuno oggi ricordare Fritz Wolf (1918-2001), giornalista tedesco, scrittore, autore delle pagine satiriche di importanti giornali, tra cui Stern e Brigitte. Venne a Ischia nel 1972 e si stabilì in un appartamento di Citara a Forio. Nel giorno stesso del suo arrivo si presentò già in divisa tennistica, pantaloncino scuro e maglietta bianca, al circolo di tennis del Gattopardo, aveva una racchetta particolare dalla forma strana che ci meravigliò molto. Aveva da poco scoperto il tennis e se n’era appassionato. In campo fu immediatamente spettacolo: lui, molto alto, con quella strana racchetta, occhi scuri, con le sue lunghissime sopracciglie, eseguiva i tipici movimenti di scuola tennistica, con una lentezza che nasceva dall’intento di attenersi scrupolosamente agli insegnamenti ricevuti. Nacque subito un rapporto di amicizia con me e con gli amici che quotidianamente frequentavano il circolo: Nicola Luongo, Raffaele Castagna, Sergio Cigliano, Pierino Verde, Salvatore Calise, Pierino Calise, Salvatore Castaldi. Si organizzavano partite di doppio accanite e divertenti e le conversazioni, che seguivano ad ogni incontro, contribuirono ad approfondire la conoscenza con Fritz Wolf ovvero con “Lupo Furioso” come gli piaceva essere chiamato. Aveva studiato un poco l’italiano, ma con quelle discussioni certamente ne migliorò la conoscenza e la capacità di esprimersi. Si parlava di tennis, della Germania, di politica e soprattutto di Ischia della quale era rimasto incantato per i suoi paesaggi ed in particolare per i colori del suo mare e del suo cielo che trovava straordinari. Capimmo subito di ritrovarci con una personalità straordinaria che si poneva di fronte agli altri ed alle cose con l’intento di cogliere sempre quanto potesse esserci di bello e di interessante tale che, filtrato dalla sua intelligenza, dalla sua ispirazione e dal suo umorismo, potesse poi trovare espressione nei suoi disegni, vignette e pagine satiriche. Si trovò ad Ischia in occasione di un evento straordinario: il colera di Napoli del 1973. Ricordo che, mentre tanti lasciarono l’isola, lui non s’impressionò per niente. Continuammo a giocare a tennis ed insieme andammo presso il Municipio di Forio per praticare la vaccinazione, quando La Rassegna d’Ischia 3/2008 11 fu estesa a tutti. Girò per l’isola alla scoperta dei luoghi più belli e caratteristici, dimostrò interesse per la sua storia e le sue tradizioni e, amante della buona cucina, frequentò i migliori ristoranti tra Lacco, Forio e Sant’Angelo. Una sera mi invitò a cena al “Padrone del mare”, un noto ristorante di Lacco Ameno, sul mare. C’erano con lui come sempre la sua gentilissima signora ed un giovane scrittore tedesco che si era indirizzato verso l’arte satirica ed umoristica ed era evidente che aveva in Wolf il suo modello e maestro. Io mi presentai con un album da disegno, di quelli che si usano alla scuola media, e chiesi a Wolf di lasciarmi un ricordo. Wolf prese l’album e mi disse: «ci devo pensare, te lo darò domani». Ricordo bene che il giovane scrittore, meravigliato, gli chiese: «tu fai questo per lui?» E Lupo Furioso rispose: «Giuseppe è un amico». L’indomani al tennis mi riportò l’album. Otto fogli, altrettanti disegni che rappresentavano un’accanita partita di tennis con un acceso litigio su una palla che si conclu- de alla fine con il prepotente che soccombe ed il modo è veramente divertente. Ci scrivemmo per diverso tempo e le sue lettere erano sempre caratterizzate dall’emblematico disegno di Lupo Furioso con la immancabile pipa. Mi inviò con dedica un suo libro di vignette satiriche. Ci incontrammo l’ultima volta nel settembre del 1997. Venne a Lacco Ameno, a casa mia, rimanemmo a lungo a chiacchierare seduti sotto un pergolato di viti, assaggiammo qualche fico e bevemmo un bicchiere di vino. Aveva compiuto ottanta anni e mi raccontò degli onori e dei tanti festeggiamenti che la sua città di Osnabrück aveva organizzato per lui. Era a Ischia come al solito per riposare, per giocare a tennis e per gustare la cucina ischitana, a base di pesce e di spaghetti. Ma credo, anche per navigare con la sua fantasia nei colori del cielo d’Ischia soprattutto quando è nuvoloso. *** Product Placement & Location Festival Questa prima edizione del “Product Placement & Location Festival” è solo il “trailer” di quello che, già dalle prossime edizioni, raccoglierà tutte le modalità d’espressione audiovisive, valutate e premiate da commissioni e giurie composte dai più autorevoli esponenti delle diverse categorie. In programma proiezioni, convegni e workshop per fare il punto, a tre anni dalla “Legge Urbani”, sulla riforma del cinema e valutare, con gli operatori, le migliori strategie per assicurare un futuro proficuo e di qualità per Cinema, Aziende e Istituzioni. Carlo Bassi, presidente del “Product Placement & Location Festival”, presenterà uno studio sul mercato maggiormente in crescita per quanto riguarda gli investimenti pubblicitari nel settore cinematografico, soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 28/2004 che disciplina anche nel nostro Paese l’utilizzo del Product Placement. Un mercato che cresce del 27% l’anno, un dato che ha portato le agenzie di comunicazione a strutturarsi anche per affrontare con competenza quello che viene definito “brand entertainment”, l’importante momento in cui il marchio diventa protagonista della sceneggiatura. Le ricerche affermano che un prodotto/brand ogni qualvolta viene percepito in modo positivo all’interno della storia rappresentata nei film ha un ritorno in termini di vendite esponenziale e riferibile al gradimento della pellicola. E’ quindi necessario fare cultura e chiarezza perchè il Product Placement trovi spazio nelle strategie di éarketing e Comunicazione delle aziende.“Ischia Film Festival International Location Market “è l’intuizione del direttore artistico Michelangelo Messina che da cinque 12 La Rassegna d’Ischia 3/2008 anni concentra una particolare attenzione ai “Luoghi“ dove il cinema si compie; l’incontro con Carlo Bassi, già amministratore delegato di AIP-Filmitalia, società per la promozione del cinema italiano, ha dato vita al nuovo, ambizioso progetto del “Product Placement & Location Festival”, che in sintesi si prefigge di creare un appuntamento annuale capace di favorire l’incontro e l’integrazione tra l’“Opera intellettuale audiovisiva”, nella sua accezione più ampia, e la Comunicazione d’Impresa. Un momento di scambio e condivisione, ma anche un’occasione per premiare i lavori che meglio esprimono la giusta unione tra l’ opera audiovisiva e il “marchio” del prodotto. Per la prima edizione del Product Placement & Location Festival sono state scelte due locations eccezionali la cinquecentesca Torre Guevara detta di Michelangelo e il Castello Aragonese d’Ischia, entrambe da anni locations storiche dell’Ischia Film Festival, che si svolgerà quest’anno dal 22 al 29 giugno. Rassegna LIBRI Isola di Procida Interno di Toniet Grassi Testi (in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco) e foto. 160 pagine in formato 30/21, con prefazione di Francesco Noviello, 2008 Toniet Grassi di origine italiana, nata in Belgio, è autrice ed editrice di questo libro che fa vivere intensamente l’isola di Procida attraverso una ampia serie di fotografie che ne riproducono tutti i suoi angoli paesaggistici ed umani. Lei ricorda, quasi vagamente, l’amore che la madre provava per Napoli e la sua baia; ed oggi quelle impressioni appena percepite sono riapparse forti e vive, quando ha scoperto l’isola di Procida: «imbarcandomi da Napoli» - lei dice – «ero lontana da immaginare che meravigliosa avventura mi sarebbe capitata». Ed ora è lei a portare al suo fianco la madre e condividerne le emozioni e la passione per l’isola: «Prendendoti la mano, ti porto con me / e passo a passo ti farò scoprire Procida... ». Leggiamo la prefazione di Francesco Noviello: - Per farsi raccontare, Procida ha sempre trovato vie misteriose e tortuose. La sua indole scontrosa l’ha portata ad aprirsi a scrittori ed artisti scomodi ed irriguardosi, come ad esempio la Morante. Ed in questo solco si colloca Interno, cahier de voyage, che raccoglie foto, ricordi e poesie di Toniet Grassi, personaggio eclettico ed inafferrabile della scena artistica belga che approda sull’isola per caso. Un naufragio inconscio, sulle orme dell’amatissima madre scomparsa che frequentava la baia di Napoli. a cura di Raffaele Castagna Come l’Arturo morantiano, Toniet si spinge in solitudine nelle sue strade spinta da ricordi personali che spesso velano lo sguardo fino ad arrivare ad un’indicibile nostalgia che traspare dalla sua poesia. Reporter d’eccezione, dispiega al meglio la sua vocazione di grande osservatrice e da accanita fotografa si sintonizza sul paesaggio sino ad afferrare il segreto del suo equilibrio precario tra il mare ed il cielo. Nei suoi scatti, infatti, non esiste una collocazione temporale. La terra è quella che videro ammirati per la prima volta i greci dalle loro navi, solo graffiata dai guasti architettonici degli ultimi anni. Un paesaggio a tratti metafisico, che rifugge da qualsiasi interpretazione storico-culturale. La viaggiatrice è solo interessata all’attrazione della luminiscenza che riluce al tramonto sul porto o alle onde di pietra porosa di tufo che disegnano leggere la costa. Sopraffacendo la diffidenza, raccoglie voci dai suoi abitanti, entra nelle loro botteghe e si fa raccontare procedimenti antichi, cogliendo i significati magici di gesti che si tramandano da secoli. La forza di questo libro è proprio nella semplicità con cui l’autrice si accosta ad un territorio che ha visto nascere dall’ “interno” una sua tensione morale e la custodisce gelosamente. Un diario per celebrare la madre, ma anche un atto d’amore verso quest’isola “paradossale” e per certi versi ancora inesplorata. - Racconto sul come scrivere i racconti *** di Borís Pil’nják Imagaenaria Edizioni Ischia. In copertina illustrazione tratta da Art Journal, London 1877. Postfazione di Gianfranco Marelli, marzo 2008. Tre racconti di Borís Pil’nják, pseudonimo di Borís Andréevič Vogau (1894-1938). Nel primo, che dà il titolo al volume, l’autore descrive la vita di una giovane compatriota russa, il cui marito (un ufficiale giapponese conosciuto ai tempi in cui l’estremità orientale dell’immenso territorio sovietico era stato occupato dall’esercito nipponico) divenne in seguito un famoso ed affermato scrittore per avere narrato in un libro - a sua insaputa - il loro intimo e passionale ménage. La giovane donna, venuta casualmente a conoscenza La Rassegna d’Ischia 3/2008 13 di come - con astuzia e tradimento - l’amato si era preso gioco del suo amore, decide pertanto di lasciarlo e di far rientro in patria. Nel presentar la richiesta, scriverà la propria biografia, oggetto di ricerca e studio da parte dell’autore del racconto. Scrive Gianfranco Marelli nella posfazione: «L’intreccio narrativo muove da un lui e da una lei che agiscono dentro e fuori il racconto, consentendo all’autore di cogliere l’insorgere di una patogenesi letteraria attraverso la sovrapposizione del piano della finzione sul piano della realtà, al fine di osservare quanto l’amore dello scrivere per sé cancella, distrugge l’amore per l’altro; una sorta di cannibalismo estetico in cui - come efficacemente l’autore rimarca - il marito non esita a preferire la fama, la notorietà, per aver scritto di lei, al vivere con lei. Nel suo minimalismo essenziale, dunque, il Racconto sul come scrivere i racconti esplora in profondità la tecnica dello scrivere, osservando quanto il racconto distrugga la realtà, poiché la realtà - una volta divenuta racconto non può più sopravvivere a se stessa: vive riflessa nell’opera dell’autore, traendone nuova linfa. Ma allora il racconto, se si dovesse paragonarlo ad uno specchio, della realtà cosa riflette? La forma del contenuto, o 14 La Rassegna d’Ischia 3/2008 il pensiero contenuto nella forma? L’autore non si esprime a proposito, si limita a riproporre al lettore una vicenda a lui capitatagli, quando nello studiare gli incartamenti per la domanda d’espatrio della moglie di un famoso scrittore giapponese s’imbatté nell’autobiografia scritta dalla giovane donna russa. “Ecco tutto - scrive nel finale del racconto Pil’njàk -. Lei visse la sua autobiografia sino in fondo; io scrissi la sua biografia, scrivendo che passare attraverso la morte è più difficile che uccidere un uomo. Lui scrisse un romanzo bellissimo”». Negli altri due racconti si assiste all’accentuazione degli aspetti emotivi, psicologici della trama narrati- va, consentendo all’autore di esprimere il proprio stile silente, privo di dialoghi, poetico più che prosastico. In Tutta la vita due grandi uccelli – un maschio e una femmina – in un oscillare di emozioni, incarnano l’animale uomo nella sua energia primordiale legata alla sopravvivenza della specie: il cibo e il sesso. In Greco-tramontana l’oscuro turbamento di una donna è all’origine di una calunnia che acquista tale potere sulle coscienze da rendere inessenziale la verità, «come se i fatti potessero essere inverosimili come la menzogna, e la menzogna potesse essere un fatto». *** Un irresistibile soffio di luce Artisti a Ischia da Böcklin agli anni del Bar Internazionale di Massimo Ielasi Imagaenaria Edizioni Ischia. Grafica e impaginazione di Enzo Migliaccio. In copertina: Herbert List (?), Margery e Carlyle Brown nella casa di Via Cesotta a Forio d’Ischia (collezione Józek Cardas). Fotografie dall’archivio di Józek Cardas. Con scritti di Tonino Della Vecchia e di Pietro Paolo Zivelli. Massimo Ielasi narra la vicenda dell’arte a Ischia tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vicenda che ci si augura «possa riprenderla un giorno un critico o uno storico e finalmente trovarle nella storia dell’arte un posto, forse piccolo, ma che sicuramente le compete». Essa si incentra nella lunga serie di artisti e di personaggi del mondo letterario e cinematografico, italiano ed estero, che crearono nell’isola quasi un secondo cenacolo, dopo quello che si formò nel Cinquecento sul Castello Aragonese intorno a Costanza d’Avalos e a Vittoria Colonna: si va da Böcklin agli anni del Bar Internazionale di Forio. Narrazione non astratta e indiretta, ma concreta e diretta, di eventi almeno in parte vissuti vivamente e comunque non troppo lontani; vicende e presenze inoltre non avulse dalla realtà quotidiana e locale, ma con essa intrecciate in un coinvolgimento costante. Si scopre così che l’isola era già essa stessa una terra di artisti pronti ad uscire dai ristretti confini insulari e ad essere valorizzati opportunamente. Si legga ad esempio l’incontro tra Luigi De Angelis e il pittore Hans Purrmann. Massimo Ielasi, gallerista in Ischia Ponte, aveva già scritto nel 1982 un libro dedicato ai pittori dell’isola d’Ischia, in cui ciascuno trova la sua collocazione artistica. Il nuovo testo dà quasi l’impressione di un racconto nostalgico rispetto ad un’epoca passata, della quale il ricordo (e non soltanto questo) non dovrebbe mai smarrirsi nell’oblio. Ma in tale prospettiva occorrerebbe che fosse l’isola a smarrire la sua nuova identità mirata a tutto distruggere nella ricerca di valori consumistici ed edonistici. Inizialmente fu Porto d’Ischia ad essere scoperta ed attratta da questi nuovi ospiti; non era certo il filone dei personaggi del Grand Tour che già avevano frequentato e percorso in lungo e in largo i luoghi dell’isola. Altri i motivi del richiamo verso i nostri lidi, non esclusi fatti politici del tempo. A mano a mano che i primi segni di sviluppo cominciano a palesarsi a Ischia e intorno al suo porto, diventano Sant’Angelo e Forio i centri di richiamo e di raccolta, soprattutto Forio con il Bar Internazionale e il suo caratteristico personaggio, Maria. Scrive Tonino Della Vecchia: «Infine Maria. Era lei, più che il suo locale come luogo di ritrovo, ad essere il vero centro di Forio. Era lei quella che comandava, che dirigeva, confermando la dedica che uno scenografo (americano o francese che fosse), le lasciò su di una foto: “Maria, sans toi Forio n’aurait pas été ce qu’il est”. E lo poté essere perché priva di atteggiamenti o presunzioni verso i suoi ospiti, ma come una cosa naturale. È lei stessa a parlarne: “Mi trovavano simpatica, cordiale, in certi momenti, di sera tardi dovevo chiudere e andare via con loro a cena fuori”». Elsa Morante scrisse: «... E alla cara Maria, la caffettiera fra tutte bella e amata, ospitale e galante». *** La Rassegna d’Ischia 3/2008 15 Il mio primo amore di Vincenzo Padula Imagaenaria Edizioni Ischia. Postfazione di Patrizia Di Meglio, marzo 2008 Come in un gioco di specchi, al vagheggiamento romantico e sensuale di un giovanissimo seminarista si oppone il delirio di una madre. Vincenzo Padula (Acri 1819-1893) ha ispirato questo racconto, apparso la prima volta nel 1841, ai luoghi e La Scuola Media Santa Caterina da Siena di Forio - Storia di un archivio Questo lavoro ripercorre la storia della Scuola Media Statale di Forio attraverso più di un cinquantennio ed ha coinvolto un gruppo di alunni e gli insegnanti del Laboratorio di ricerca di storia locale in un impegno irto di difficoltà1. Come scrive il dirigente prof. Mario Sironi, «la Scuola Media Statale Santa Caterina da Siena ha una storia lunga e antica che si intreccia con quella della comunità di Forio ed in parte dell’intera isola». Una storia lunga e antica ma, potremmo dire, anche travagliata, se si pensa soprattutto all’odissea delle varie sedi e dei vari plessi, spesso angusti e impropri, in cui è stata di volta in volta allogata con alcune classi, e che per qualche aspetto continua ancora oggi, considerando questioni di recente impatto e la persistente mancanza di una palestra. A meno che non si voglia assimilare letteralmente quella riflessione di Leo Watters, riportata nelle prime pagine del libro: «La scuola è un edificio che ha quattro pareti con dentro il domani». Proprio i frequenti traslochi hanno impoverito la conservazione di testimonianze e di documentazione. Se «la scuola è la carta d’identità di un paese» - come scrive Ortensia Castaldi nella postfazione – e che deve essere «curata, tenuta in considerazione, sostenuta nelle sue necessità da autorità e cittadini», non 1 Alunni: Angelica Buonanno, Marilena Buonanno, Giuseppina Calise, Roberta Calise, Francesco Castaldi, Gennaro Cirillo, Carmen Colella, Giusy Cucinotta, Federica Cuomo, Giuseppe D’Ambra, Simona D’Antonio, Giulia D’Ascia, Annalisa Impagliazzo, Valentina Impagliazzo, Giulio Lala, Fabio Maresca, Ivan Maresca, Vincenzo Marotta, Fabio Minichini, Domenico Onorato, Sara Patalano, Giuseppe Petrone, Claudio Proietti, Federica Restituto, Teresa Savignoni. Insegnanti coordinatori: Ortensia Castaldi, Maria Rosaria Di Costanzo. Ha collaborato Felicia Lamonaca, specializzata in ricerca storica. 16 La Rassegna d’Ischia 3/2008 all’ambiente della sua adolescenza. Avviato al sacerdozio, studia prima in seminario e riceve gli ordini minori. Già in questi anni si dedica alla poesia. Poi sopraggiunge la crisi: innamoratosi di una ragazza di buona famiglia, egli vorrebbe sposarla, ma i genitori si oppongono e glielo impediscono, sicché è costretto a riprendere la carriera sacerdotale. Tra le sue opere, la novella in versi Il monastero di Sambucina, il poema Il Valentino, il dramma Antonello capobrigante calabresee, il poemetto incompiuto L’Orco. In Prose giornalistiche (1878) sono raccolti i suoi studi meridionalistici. *** si può dire che il problema scuola sia stato vivamente presente nelle attenzioni e nell’attività delle varie amministrazioni comunali. «Il materiale conservato ha permesso di ricostruire la storia della Scuola di Avviamento “Casa Giuseppina”, poi denominata “S. Luisa di Marillac”, in seguito “S. Caterina da Siena”, dal 1936 al 1954, quella della Scuola Media Parificata “Casa Giuseppina” dal 1951 al 1962 ed infine la nascita della Scuola Media Unificata nel 1963 e il percorso compiuto fino ad oggi. La parte più consistente della storia “ricucita” riguarda proprio la Scuola di Avviamento per la quantità cospicua delle fonti reperite, per il notevole interesse che quel periodo storico, quello del regime fascista, ha suscitato negli alunni oltre che nei docenti». Di valido supporto è stato, nei tre anni in cui è articolato il lavoro, anche il contributo di insegnanti e personale scolastico, come Elena Schiano (dirigente amministrativa che è stata testimone del passaggio dalla Scuola Media Parificata a quella Unificata), Rosa Mattera, Viola Battaglia, Suor Anna, Rosa Genovino, Anna Maria Capodanno, Francesco Trofa, Nino d’Ambra. *** A proposito di Barry B. Powell, Homer and the origin of the Greek alphabet * Omero e l’origine dell’alfabeto greco di Nunzio Speciale In questo studio l’autore si propone di esaminare i particolari contesti e le motivazioni storiche che determinarono il passaggio dalla scrittura semitica (fenicia) consonantico-sillabica all’alfabeto in Grecia («Although many have praised alphabetic writing and noted its profound influence on culture, no one has ever inquired systematically into the historical causes that underlay the radical shift from earlier and less efficient writings to alphabetic writing. Such is my purpose in this book», p. 3). Nella fattispecie, si tenta di stabilire che cosa può aver causato l’invenzione dell’alfabeto, chi lo ha potuto o voluto inventare e per quale ragione è scaturita questa straordinaria invenzione. Per questi quesiti viene proposta un’interessante soluzione. Per Powell si potrebbe pure ammettere che l’alfabeto sia stato creato anche per soddisfare determinati scopi o necessità non letterarie (annotazioni, trascrizioni, registrazioni di calcoli e conti commerciali); tuttavia, indubbi presupposti storici e culturali indurrebbero l’autore a supporre, per l’origine dell’alfabeto, finalità più letterarie che pratiche e, quindi, ad immaginare che l’alfabeto sarebbe stato inventato da un individuo, forse dell’Eubea, esclusivamente per registrare la primissima poesia in versi, l’epos di Omero, l’Iliade e l’Odissea («It is conceivable that Greek alphabetic writing was invented to record business accounts... but evidence and reason reject these suppositions», pp. 236-237 passim). È questa l’ipotesi prospettata da Powell. Passiamo, dunque, ad esaminare più da vicino il saggio e a valutarne, in seguito, il contenuto. La trattazione si articola in cinque capitoli, è preceduta da una breve prefazione e conclusa da due appendici. È presente una sezione dedicata alla definizione dei termini e dei concetti qua e là ricorrenti, talora poco noti o usati solo in ambito glottologico. Da rilevare, infine, la bibliografia, ricca e puntuale. Il primo capitolo («Review of criticism: What we know * Cambridge University Press, Cambridge-New York, 1991, pp. XXV+280; 2 grafici; 4 carte geografiche; 11 figure; 6 tavole. ** Articolo tratto dalla rivista PAN (n. 21/2003 pp. 33-41) dell’Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Civiltà EuroMediterranee e di Studi Classici Cristiani, Bzantini, Medievali, Umanistici. Ringraziamo il direttore prof.ssa Giovanna Petrone per avercene permesso la ripubblicazione. ** about the origin of the Greek alphabet», pp. 5-67) viene dedicato all’analisi critica della questione dell’alfabeto e della sua origine, argomento, in verità, non nuovo e ampiamente dibattuto. Anche Powell si propone, come altri studiosi, di collegare l’alfabeto greco con quello fenicio, di stabilirne l’epoca e il luogo dell’adattamento linguistico, di esaminare i nomi, i suoni, le forme delle lettere, di determinare le prime attestazioni e le più tarde espressioni del sistema fonetico e alfabetico. È particolare, tuttavia, l’approccio metodologico di Powell a simili questioni. Anzi, proprio fin da questo capitolo si sottintende, sia pure in modo velato, la soluzione a quel quesito che pare scorrere e snodarsi dall’inizio alla fine del libro: «Why should the Greek alphabet have been invented at all?» («...scholars have concentrated on where and when the adaptation might have taken place ... while avoiding the question, “Why should the Greek alphabet have been invented at all?”» pp. 3-4 passim). Il capitolo prosegue con la discussione delle origini dell’alfabeto greco (Erodoto V 58-61) con la storia di Cadmo e dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, (1) Crizia e i grammat’ alexiéloga (per cui cfr. D.-K. 88, B 2. 10), etc. con due tavole fonetiche greche e fenicie. Subito dopo, Powell sostiene che, nel processo di adattamento dal fenicio, l’alfabeto greco sarebbe stato creato in un determinato tempo e in un preciso luogo da un individuo, probabilmente verso l’800 a.C. Del resto, continua Powell, le varietà locali della scrittura alfabetica greca, le cosiddette varietà epicoriche, dimostrerebbero, già, di per sé, l’esistenza di un originario modello alfabetico, appunto quello fenicio, e ne attesterebbero, quindi, le successive modificazioni o adattamenti (si consideri, ad esempio, la ricorrenza della lettera f = [ph] in tutte le parlate locali ma non nel modello fenicio). In sostanza, viene proposta una 1 Cfr. soprattutto Herodot. V 58, 1: oi| deè Foiénikev ou&toi oi| suè n Kaé d mw a\ p ikoé m enoi, tw% n h& s an oi| Gefurai% o i, a$lla te pollaé oi\khésantev tauèthn thèn cwérhn e\shgagon didaskaé l ia e\ v touè v ìEllhnav kaiè dh kaiè graé m mata, ou\ k e\ o é n ta priè n ìEllhsi w| v e\ m oiè dokeé e in, prwé t a meè n toi%si kaiè a£pantev creéwntai Foiénikev: metaè deè croénou probaiénontov a£ma t°% fwn°% meteébalon kaiè toèn r|uqmoèn tw%n grammaétwn (Questi Fenici venuti con Cadmo, di cui facevano parte i Gefiei, abitando questa terra, introdussero fra i Greci molte cognizioni, e fra l'altre anche l'alfabeto - che prima i Greci, a quanto credo, non avevano - in un primo tempo quello di cui si servono anche tutti i Fenici, poi, col passar del tempo, con la lingua i Cadmei mutarono anche la forma delle lettere). La Rassegna d’Ischia 3/2008 17 teoria “monogenetica” dell’alfabeto greco, una teoria, del resto, ormai ampiamente diffusa ed accettata, in maniera pressoché unanime, dai linguisti moderni. (2) L’alfabeto sarebbe stato inventato, per Powell, da un ignoto individuo, da un genio, da un benefattore dell’umanità, che avrebbe, così, forgiato o adattato l’alfabeto dal preesistente sillabario fenicio. Non a caso, proprio per questa opera di adattamento Powell lo chiama «the adapter» (p. 12) e lo identifica in Palamede, figlio di Nauplio, inventore, anche secondo la tradizione, della stessa scrittura alfabetica. Si azzarda, pure, un’ipotesi sul possibile «place of adaptation», cioè l’Eubea. Così, certe scoperte epigrafiche, quali la Coppa di Nestore, più o meno del 740 a.C., proveniente da Pithekoussai, o il gruppo di graffiti su cocci da Lefkandi in Eubea del 775-750 a.C., primissimi esempi di scrittura nella Grecia arcaica, dimostrerebbero, insieme con altri ritrovamenti, che, già, allora l’Eubea manteneva, storicamente, effettive relazioni con l’Oriente (Al Mina in Siria, Fenicia, Egitto) e con l’Occidente (Pitecusa e Cuma) del mondo greco e che, quindi, per il carattere alfabetico di queste prime iscrizioni, poteva divenire la patria dell’inventore dell’alfabeto, dell’adapter (cfr. pp. 11-15). L’adattamento sarebbe comparso, per la prima volta, in Eubea proprio perché «the adapter may himself have been a Euboian» (p. 60) e Palamede, il mitico eu|rethév 2 Powell propone più o meno le stesse argomentazioni in un suo precedente articolo (The origin of the puzzling supplementals, in TAPA 117 (1987), pp. 1-20, soprattutto p. 2). La Coppa di Nestore e la sua iscrizione graffita in versi. Dalla necropoli nella Valle di San Montano (Lacco Ameno), tomba 168. Scavi condotti da Giorgio Buchner. 18 La Rassegna d’Ischia 3/2008 dell’alfabeto, viene considerato nativo della stessa Eubea anche dalle fonti antiche. Quindi, per Powell, gli Eubei sarebbero stati, più o meno, nell’800 a.C., dominatori incontrastati dei commerci e delle relazioni di quasi tutto il Mediterraneo ma, anche, i primi inventori o adattatori dell’alfabeto. Segue, quindi, la descrizione del sistema fonetico semitico-greco e, in tale contesto, risulta rilevante la trattazione del cosiddetto «problem of the supplementals f c y»(pp. 48-63). (3) Ancora per questo capitolo, ci pare opportuno ricordare due excursus, l’uno dedicato al cosiddetto “principio acrofonico” («the so-called acrophonic principle»), l’altro alle «matres lectiones». Un breve accenno al problema delle sibilanti chiude, infine, il capitolo. Nel secondo capitolo («Argument from the history of writing: How writing worked before the Greek alphabet», pp. 68-118) Powell si propone di analizzare la posizione dell’alfabeto greco nella storia della scrittura. A tal fine, l’esame di tre specimina delle prime forme prealfabetiche o alfabetiche (i geroglifici egizi, il sillabario cipriota, il fenicio) consente di intuire quali cambiamenti dai precedenti modelli di scrittura si possono cogliere nell’alfabeto greco. Per Powell, una simile analisi non può riguardare le lettere e le loro forme, i loro nomi o i loro suoni, ma solo deve determinare in che modo queste lettere furono usate 3 Anche Powell, come tanti altri, per visualizzare tale distribuzione di questi suoni, si avvale della mappa “colorata” di A. Kirchhoff (Studien zur Geschichte des griechischen Alphabets, Berlin 1887) che propone una suddivisione epicorica di f c y in quattro gruppi “colorati”, «dark blue», «light blue», «red», «green». in reciproca combinazione o in che modo la sintassi poté esprimere concretamente, cioè fisicamente, idee o solo parole: «Important to our inquiry will no longer be shapes, names, and sounds, but how signs were used in combination, their syntax in transforming speech, fact, idea, into a physical record» (p. 68). Infine, al termine del capitolo (pp. 109-118) Powell accenna a H.T. Wade-Gery, che, già, nel 1952 (The Poet of the Iliad, Cambridge 1952, pp. 11-14) aveva sostenuto che l’alfabeto sarebbe stato inventato in Grecia per registrare versi esametrici. Due osservazioni avrebbero corroborato una simile ipotesi: - le nostre primissime iscrizioni alfabetiche sono in versi; - i Greci utilizzarono la scrittura alfabetica esclusivamente per registrare versi eroici, una necessità, questa, che non si può riscontrare in altri tipi di scrittura, soprattutto quella logo-sillabica o sillabica (sillabario cipriota). Del resto, le attestazioni epigrafiche collimerebbero perfettamente con la tesi di Wade-Gery: «the epigrafic evidence is consonant with Wade-Gery’s thesis that the Greek alphabet was designed specifically in order to record hexametric poetry» (Barry B. Powell, Why was the Greek alphabet invented? The epigraphical evidence, in Classical Antiquity 8/2, 1989, p. 350). Nel terzo capitolo («Argument from the material remains: Greek inscriptions from the beginning to c. 650 B. C.», pp. 119-186) si procede all’esame delle iscrizioni alfabetiche dal 750 circa fino, più o meno, al 650 a.C. Qui Powell riprende alcune osservazioni già espresse in un suo precedente articolo (cfr. Powell, art. cit., in Classical Antiquity 8/2, 1989, pp. 321-350), e, in particolare, si propone di analizzare alcune iscrizioni, restituendole sul piano testuale e definendole nel loro contesto storico-letterario, e soprattutto di stabilirne un legame con la nascita dell’alfabeto. Così, proprio queste iscrizioni dovrebbero dimostrare che, già, all’inizio, la nuova scrittura alfabetica greca fu intimamente legata, nella forma e nella sostanza, con la poesia in versi. Dapprima, vengono presentate (pp. 123-158) cinquantasette brevi iscrizioni e vari corpora di abecedari; di seguito (pp. 158-180), vengono passate in rassegna undici iscrizioni più lunghe, alcune già note e ampiamente studiate altrove (ad esempio quelle della oinochoe del Dipylon o della Coppa di Nestore). Powell è indotto a supporre che gli autori delle nostre prime iscrizioni fossero uomini dei circoli conviviali che usarono la scrittura esclusivamente per personalissime espressioni, quali burle, scherzi o dichiarazioni d’amore, e non, quindi, come mezzo per trascrivere o registrare dati o conti commerciali (cfr. pp. 182-183). Proprio da ciò si deve, allora, concludere che la scrittura alfabetica greca venne usata, sin dai primordi, per esprimere poesia e, quindi, per esprimersi in versi. Anzi, queste stesse testimonianze epigrafiche attesterebbero una probabile coincidenza cronologica tra la redazione omerica e la nascita dell’alfabeto tra l’ 800 e il 750 a. C. Del resto, continua Powell, la natura poetica sarebbe evidente in queste prime iscrizioni e, così, è lecito supporre che nei primi stadi del loro alfabetismo i Greci fossero già capaci di intendere, apprezzare, scrivere esametri («we can be certain that one thing the Greek wrote down on the lost perishable medium in the earliest days of Greek literacy was hexameter verse», p. 184). Così, la tesi di Wade-Gery non può che essere integralmente ripresa e condivisa. Nel quarto capitolo («Argument from coincidence: Dating Greece’s earliest poet», pp. 187-220) proprio con l’ausilio degli indizi epigrafici Powell tenta di collocare nel tempo colui (scilicet Omero) che ispirò lo stesso adattatore nella sua mirabile invenzione («...about 800 B. C. the adapter was inspired by an individual poet to make his invention...», p. 187). Non si nega l’importanza della lingua quale possibile discrimen temporale e letterario. Non vengono neppure trascurati i contesti culturali relativi all’epos omerico, più o meno contemporanei: quindi, oggetti, pratiche e realtà sociali qua e là menzionati in Omero rappresentano, certo, indubbi presupposti di analisi e di discussione. Powell assume quale elemento di riferimento e di confronto la Coppa di Nestore, ascrivibile più o meno al 740-720 a.C. circa: l’analisi dell’iscrizione ivi contenuta indurrebbe Powell a collocare Omero poco prima della datazione della stessa iscrizione. L’alfabeto sarebbe stato inventato o introdotto in Grecia nell’800 a. C. e, così, è probabile che proprio Omero abbia composto l’Iliade e l’Odissea più o meno tra l’800 e il 750 a. C. («sometime between 800 and 750 B. C.», p. 219): si perviene, in questo modo, ad una collocazione cronologica dell’alfabeto, di Omero e dei suoi poemi. Nel capitolo finale («Conclusions from probability: how the Iliad and Odyssey were written down», pp. 221237), poi, si tenta di rispondere a quella questione che pare sottintendersi in ogni parte del libro e, cioè, quale evento o quale individuo abbia mai potuto determinare la nascita dell’alfabeto in Grecia. Occorre, del resto, verificare, per Powell, l’effettivo legame tra la prima redazione omerica e l’origine dell’alfabeto stesso. Già nel quarto capitolo si è discusso di Omero e di una pro babile datazione ed, ora, nel quinto, è opportuno che si prosegua lungo questa scia e che, quindi, si determinino, sul piano letterario, le condizioni e le modalità della prima diffusione scritta, non orale, dell’epos. Così, Powell inizia ad esaminare attentamente la tradizione aedica, quale Omero riferisce e descrive, soprattutto nell’Odissea. È impensabile, per Powell, che Omero abbia mai potuto progettare, addirittura, di trascrivere o registrare i suoi stessi poemi («modern La Rassegna d’Ischia 3/2008 19 research into oral poetry seems to force the conclusion that the notion of writing down his songs could not have come from the poet himself», p. 229). Semmai, è giusto supporre che, forse, Omero sia stato indotto a comporre la sua poesia proprio da quella straordinaria personalità, l’adapter, che avrebbe inventato l’alfabeto proprio per registrare l’Iliade e l’Odissea («His recorder, with whom Homer worked intimately, may for his own reasons have encouraged a full effort ... but the Iliad and the Odyssey were a joint venture, a cooperative effort between the poet and the man who wrote down the poet’s words», p. 230 passim). Quindi, per Powell, la registrazione della prima poesia esametrica, strettamente legata all’invenzione dell’alfabeto, non può essere disgiunta dalla composizione dei poemi omerici («We cannot separate the invention of the alphabet from the recording of early hexametric poetry. We cannot separate the recording of early hexametric poetry from Homer ... Homer sang his song and the adapter took him down», p. 237 passim). In origine, poi, vi sarebbe stato un unico testo dei poemi, quello letto dall’adapter, testo che, in seguito, forse anche parzialmente, sarebbe circolato in Eubea e, con gli Eubei, perfino in Italia («there was originally a single text of the Iliad and the Odyssey’s, the adapter’s. At first only he could read them. Copies of the poems, or parts of the poems, first circulated among Euboians, who may have carried them even to Italy. With the poems were disseminated the rules of alphabetic writing», pp. 232-233). Per Powell, questo straordinario adapter deve essere identificato con Palamede, nativo dell’Eubea, e l’Eubea, quindi, sarebbe stato il luogo di nascita dello stesso alfabetismo greco. Da notare, infine, due appendici: la prima («Gelb’s theory of the syllabic nature of West Semitic writing», pp. 238-245) è dedicata alla scrittura fenicia e proprio qui Powell, anche sulla scorta della teoria di I. J. Gelb (A Study of Writing, Chicago 1963; New evidence in favor of the syllabic character of West Semitic writing, in Bibliotheca Orientalis 15, pp. 2-7), è propenso a soste nere il carattere sillabico di questa scrittura, riprendendo, quindi, quanto aveva già espresso, sia pur velatamente, nel secondo capitolo; la seconda («Homeric references in poets of the seventh century», pp. 245-248) si lascia apprezzare, pur nella sua concisione, per l’utilità dei tanti citati riferimenti letterari omerici. Ora, come deve essere giudicata la teoria di Powell? È, certo, legittimo chiedersi se questa ipotesi dell’alfabetismo greco può essere considerata plausibile. Da parte nostra, è lecito esprimere dubbi e perplessità sulla teoria monogenetica, prospettata nel I capitolo. Non si può essere del tutto convinti che l’alfabeto possa essere stato creato da un individuo, in un determinato tempo e 20 La Rassegna d’Ischia 3/2008 in un determinato luogo, l’Eubea. Powell sembra, poi, escludere altre possibili ipotesi sul luogo e sul tempo della trasmissione, anche attraverso l’adapter, del modello fenicio. Non si può, peraltro, accettare che l’adapter, presunto creatore o inventore dell’alfabeto, possedesse, nell’VIII secolo, tali competenze alfabetiche da adattare o applicare tout court al greco il sillabario fenicio o da registrare la primissima poesia epica. Peraltro, si ha pure l’impressione che Powell ridimensioni il carattere non strettamente letterario delle prime iscrizioni eubee o la natura prevalentemente pratica delle attività commerciali degli Eubei dell’VIII secolo. Nel II capitolo alcune sezioni forniscono contributi originali e nuovi. In particolare, si deve ammettere che Powell riserva al sillabario cipriota una trattazione, particolarmente interessante. È, poi, evidente che Powell stesso non avrebbe potuto mai non citare, a sostegno delle sue argomentazioni, le conclusioni espresse da Wade-Gery. Ci pare opportuno sottolineare che la teoria di quest’ultimo venga riferita, analizzata e discussa da Powell con una notevole chiarezza espositiva, anche se utilizza (cfr. pp. 110-113), quale esempio epigrafico, la stessa iscrizione (iscrizione cipriota di Golgoi = Inscriptions Cypriote Syllabique 264) già ampiamente menzionata e dibattuta dallo stesso Wade-Gery. Però, è pur vero che questa iscrizione gli sarà parsa la più adatta ad esprimere concretamente il concetto qui marcato, che, cioè, l’alfabeto sarebbe sorto tra i Greci proprio perché mai nessuna scrittura sillabica sarebbe servita ad indicare o a registrare vera poesia («... that this script communicates for the script ever to have served as a practical vehicle for recording ambitious poetic compositions», p. 113). Nel III capitolo, Powell fornisce vari casi di restituzione testuale o di semplice lettura epigrafica, già, del resto, censurati da non pochi recensori. (4) Si può, sì, accettare che queste prime epigrafi siano contraddistinte, per la loro natura esametrica, da un tono o da un livello letterario vagamente omerico, ma, certo, non si può convenire con Powell che già allora, fra l’800 e il 750 o 650 a.C., si fosse imposta, tra i primi Greci alfabetizzati, la necessità di scrivere soltanto in metro esametrico («...the early alphabetic Greeks act as if they know only how to write hexameters», p. 184 ss.). Forse, sarebbe stato più opportuno non enfatizzare troppo l’aspetto metrico e approfondire, piuttosto, l’analisi in un più ampio contesto letterario. Eppure, è proprio sull’aspetto metrico che deve poggiare, secondo Powell, la teoria dell’alfabeto e della sua origine. 4 R. Schmitt, nella sua recensione (Kratylos, XXXVII, 1992, p. 71) esprime non poche critiche alla interpretazione o anche alla traduzione dei testi epigrafici restituiti da Powell. Non si può, poi, sostenere che il IV capitolo presenti o proponga novità riguardo la probabile cronologia di Omero e dei suoi poemi. Anzi, è indubbio che tutta la letteratura critica specializzata sulla questione serva a Powell solo per corroborare ulteriormente la sua tesi. L’ultimo capitolo non si distingue, certo, dal quarto per una differente modalità di descrizione o argomentazione. Non apprendiamo nulla di nuovo o di inedito sulle nostre già note conoscenze della performance omerica o del ruolo dell’aoidòs. Poi, sembra che tutta la tradizione letteraria venga volutamente utilizzata dallo stesso Powell per formulare la sua teoria alfabetica. È, sì, incontestabile che le prime attestazioni epigrafiche sono distinte da una natura esametrica, ma è improbabile che un alfabeto venga inventato o solo introdotto esclusivamente per registrare i poemi in esametro. Non si capisce, poi, perchè l’adapter debba essere identificato necessariamente col presunto creatore o inventore dell’alfabeto. Dovremmo, piuttosto, chiederci se Palamede possa essere effettivamente vissuto tra l’ 800 e il 750 a. C., come supposto da Powell. Proviamo, quindi, ad esaminarne la linea genealogica. Basti, al riguardo, la testimonianza di Apollodoro. Apollod., Bibl., III, 2, 2 (15) Wagner: >Aeroéphn deè kaiè Klumeénhn Katreuèv Nauplié§ diédwsin ei\v a\llodapaèv h\peiérouv a\pempolh%sai. Touétwn >Aeroéphn meèn e$ghme Pleisqeénhv kaiè pai%dav >Agameémnona kaè Meneélaon e\teéknwse, Klumeénhn deè gamei% Nauépliov , kaiè teéknwn pathèr giénetai Oi$akov kaiè Palamhédouv. (Catreo concede a Nauplio di portar via in terra straniera Erope e Climene. Di queste Pleistene sposa Erope e ne nascono i figli Agamennone e Menelao; Nauplio sposa Climene da cui nascono Eace e Palamede). Palamede sarebbe stato, così, figlio di Nauplio e di Climene e Climene, a sua volta, sarebbe stata sorella di Erope, madre di Agamennone e Menelao: la sua genealogia si legherebbe, quindi, a quella degli Atridi e, di conseguenza, alla cronologia della guerra di Troia. Ora, secondo la tradizione cronografica, la fine della guerra di Troia sarebbe avvenuta non prima del 1344-1334 (Duride, 76 J. fr. 41; Timeo, 566 J. fr. 80, 146 b) e non oltre il 1160-1150 (Artemone, 443 J. fr. 2; Democrito in DL, IX 41) e, comunque, convenzionalmente, intorno al 1184, quindi 80 anni prima dell’invasione dorica del Peloponneso. (5) Dunque, se dobbiamo considerare la ricostruzione delle fonti storiografiche, Palamede non può essere vissuto tra l’800 e il 750 a.C., come sostiene Powell. Si può, comunque, ammettere che proprio nel suddetto arco di tempo abbia assunto un ruolo fondamentale l’Eubea appunto per i suoi vividi rapporti commerciali con l’Est e l’Ovest del mondo greco, allora noto. Non si può pretendere, però, di collegare la nascita dell’alfabeto con la redazione omerica, né, tantomeno, di postulare una possibile contemporaneità di due distinti eventi letterari. Nondimeno, non può che suscitare un certo fascino l’ipotesi di Powell, anche se costruita solo su «arguments from probability». Poi, è inaccettabile che l’alfabeto sia stato inventato, magari per adattamento dell’adapter, solo per registrare Omero e la sua poesia: anche prima di Omero si possono rinvenire tracce dell’alfabeto e del suo uso in Grecia per ragioni non strettamente letterarie. Del resto, i Fenici, inventori, per Erodoto, della scrittura sillabica, trasmettitori dell’alfabeto in Grecia – senza il necessario filtro di un presunto adapter – eccellevano nel commercio e, dunque, è molto probabile che l’alfabeto, non a caso, servì, in prima istanza, per trattare, per commerciare, non soltanto per scrivere versi. Anche Aristotele rileva l’utilità della scrittura, la sua primaria funzione nell’oi\konomiéa e, soprattutto, nel crhmatismoèv, (6) vale a dire in quei campi di attività sociali, ove la scrittura, in qualsiasi età, in qualsiasi civiltà o cultura, trova la sua prima, naturale applicazione, la registrazione, cioè, di dati, conti, calcoli. (7) Non si può, quindi, condividere, da parte nostra, la teoria di Powell, anche se non priva, in effetti, di un certo fascino: a lui va, in effetti, il merito di aver proposto, in maniera singolare, un’interpretazione della scrittura, dell’alfabeto, della letteratura. Nunzio Speciale 5 Cfr. Apoll. FGHist. 244 Ff 61-62. Cfr. pure la serie della cronologia della guerra di Troia, fornita da F. Cassola, La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, p. 24 ss., e ripresa da D. Musti, Storia greca, vol. I, Roma-Bari 1990, p. 69. 6 Sulla nozione della crematistica cfr. M. Venturi Ferriolo, Aristotele e la crematistica, Firenze 1983; C. Ampolo, Oikonomìa. Tre osservazioni sui rapporti tra la finanza e l’economia greca, in AION, sez. arch. e st. antica I (1979), p. 119 ss.; P. Spahn, Die Anfänge der antiken Ökonomie, in Chiron 14 (1984), p. 301 ss. 7 Cfr. il saggio di M. Lombardo, Mercanti, transazioni economiche, scrittura, in Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne di M. Detienne, Lille 1988, pp. 159-187 (trad. it. Roma-Bari 1989, pp. 85-108). Per questo valore della scrittura legata alla crematistica Lombardo riprende la nozione sociolinguistica di «dominio scrittorio delle transazioni economiche» usata da G.R. Cardona nel terzo capitolo (Sociologia della scrittura, pp. 89-131) del suo saggio Antropologia della scrittura, Torino 1981. La Rassegna d’Ischia 3/2008 21 Rappresentazione del martirio di S. Restituta e dell’arrivo del suo corpo su una fragile barca, a Lacco Ameno nella baia di San Montano Quadri di Ferdinando Mastriani (fine sec. XIX) nel Santuario di S. Restituta 1 - Restituta davanti ai giudici - Lo spazio centrale è dominato dalla giovane Restituta, vestita di tunica bianca e con una piccola croce sul petto; è scortata da due legionari, perché professa la religione di Cristo. Il prefetto togato, sul seggio curule, la interroga. Ai lati due scrivani stilano su tavoletta cerata le risposte di Restituta. A sinistra due donne fanno da testimoni. Sotto, fuori della tela, si legge: A divozione di Diego Buonocore. 2 - Flagellazione di Restituta - Sullo sfondo (un angolo della prigione) è attaccato al muro un anello di ferro, da cui pende una fune. Nel centro la bianca figura di Restituta, serenamente bella, docile all’imminente castigo. A destra, fra due assistenti il Giudice in piedi, l’indice della mano destra puntato contro di lei, sentenzia: “Sia flagellata”. A sinistra, altri due carnefici con i flagelli nel pugno si accingono alla flagellazione. Sotto il quadro, si legge: A div. di Domenico De Filippo. 3 - Restituta in prigione - Sullo sfondo interno di un’oscura cella si apre una finestra con reticolo di ferro, attraverso la quale entra un fascio di luce che illumina la scena. A sinistra un Angelo irrompe nella prigione per dare coraggio alla giovane martire che, a quella visione celeste, si piega in ginocchio. Sotto il quadro la leggenda: A div. di Silvestro Piro. 22 La Rassegna d’Ischia 3/2008 4 – Restituta è distesa sull’eculeo - Il dipinto è dominato da un lungo cavalletto di legno, che all’estremità è munito di ruote, attraverso le quali scorre una fune per disarticolare le membra di Restituta che è raffigurata distesa sul cavalletto; legata alla chioma e ai piedi, con funi che corrono sulle ruote. A sinistra due carnefici: uno tira la fune sotto il cavalletto. A destra altri due carnefici tirano dal loro verso l’altra fune legata ai piedi di Restituta. Sotto il quadro la leggenda: A div. di Luigi cav. Nesbitt. 5 – Restituta sospesa per i capelli - In un cortile s’innalza un palo dal quale pende una corda legata alla chioma di Restituta che s’aderge bianco-vestita tra due soldati romani. A destra due carnefici nell’atto di tirare la fune per sollevare il corpo della martire. A sinistra altri carnefici si affrettano a trapassarle i piedi con un lungo chiodo per fissarli sul lastricato. Sotto il quadro: A div. di Giovanni Di Meglio. 6 – Restituta condannata ad essere bruciata in mare - Sullo sfondo della marina di Cartagine si staglia la bianca e radiosa figura di Restituta, scortata dai carnefici; sul petto, accanto al Crocifisso, reca una tavoletta su cui dovrebbe essere inciso il motivo della condanna. Il giudice togato la invita a salire sulla barca. A destra donne addolorate e piangenti. A sinistra una nave carica di materiale infiammabile con gli uomini dell’equipaggio. La scritta: A div. di Giovanni Climaco. La Rassegna d’Ischia 3/2008 23 7 – Restituta salva dall’incendio - Due barche e due scene del tutto diverse: a destra un veliero avviluppato dalle fiamme, con gli uomini con mani elevate, avviliti, sconfitti; a sinistra la barca su cui giace Restituta con il capo radiato dalla gloria e sorretta da un Angelo. A prua un altro Angelo guida verso lidi lontani la barca. La scritta: A div. di Giuseppe Pascale. 8 – Il sogno di Lucina - Interno di una stanza con giaciglio oltre la quale si scopre una marina piena di luce. Nel centro un Angelo cinto di nastro azzurro appare improvviso per annunziare il lieto messaggio. A sinistra Lucina resta attonita all’invito di recarsi alla spiaggia per accogliere la Vergine martirizzata in Africa. In alto, sullo sfondo marino appare la barchetta sulla riva, vegliata dagli Angeli. La scritta: A div. di Calise C. e Patalano F. Sirabella. 9 – La spiaggia di San Montano con la barca - Su una barca priva di remi e di vele è disteso il corpo di Restituta. Un Angelo le sorregge il capo reclinato nel gaudio del Signore. Sull’orlo della spiaggia ricoperta di bianchi gigli, appare Lucina: si ferma estatica e ammira il prodigio. Ai lati, sullo sfondo, le linee rocciose di Monte di Vico e di Zaro; intorno tanta, tanta pace! La scritta: A div. di Domenico Castagna. 24 La Rassegna d’Ischia 3/2008 10 – Il corteo verso il paese - A sinistra, lungo la strada, tre donne in ginocchio spandono, commosse, petali e corolle di fiori. A destra un sacerdote in paramenti rossi porta la Croce astile. Segue il Clero con pianeta rossa e candela accesa in mano. Segue su un drappo dorato il corpo di Restituta, portato da quattro accoliti in cotta bianca. Dietro i fedeli... Un gruppo di donne sul ciglio della strada saluta la Vergine augusta. La scritta: A div. di Pietro Paolo Castagna I Santi dell’Algeria * Santa Restituta (Dal breviario della diocesi di Algeri) - Restituta, vergine e martire, originaria della seconda Hyppona, soprannominata Diarrhite, oggi Biserta, situata nella Proconsolare, in riva al mare, soffrì diversi tormenti sotto il giudice Procolo, in Africa, al tempo dell’imperatore Valeriano. Posta su una barca riempita di pece e di stoppa, affinché fosse bruciata in mare, rese lo spirito pregando Dio, quando si mise fuoco a queste materie e la fiamma faceva di lei stessa come il focolaio di un incendio. La mano di Dio spinse la barca con i suoi resti fino all’isola Enaria (Ischia, vicino a Napoli), dove furono ricevuti dai Cristiani con una grande venerazione. Più tardi, l’imperatore Costantino fece costruire a Napoli una basilica in suo onore. Lei non fu famosa solamente a Napoli, ma anche a Cartagine, dove ha sofferto nell’anno 256. Si pensa che questa grande basilica, dove furono celebrati parecchi concili e dove Sant’Agostino predicò spesso, si chiamasse Restituta a causa di lei. L’isola di Ischia ha dovuto la sua fama alle sante reliquie di Restituta e la sua memoria è conservata tutt’oggi coi più grandi onori. Riflessioni La pazienza è l’ultimo sforzo della carità; diventa, agli occhi di Dio, un olocausto così prezioso che si affretta a darle una ricompensa gloriosa fin da quaggiù, dove l’umanità non può esimersi da un tenero sentimento di rispetto per chi ha saputo soffrire nobilmente. Sì, il martirio è la più bella delle glorie agli occhi di tutti, anche di quelli che sanno ammirare solamente le vanità, perché trovano pure delle lacrime per le grandi celebrità. Più il supplizio immaginato dal persecutore fu atroce ed inaudito, più la vittima è soggetta alla pietosa * Victor Bérard, Les Saints de l’Algérie présentés à la veneration des fidèles par la traduction des textes liturgiques, Valence, 1857. commozione della posterità; vari paesi si onorano delle sue spoglie e santi pontefici onoreranno la memoria di Santa Restituta. Senza nutrirsi del pensiero di ottenere mai tanti grandi omaggi, il Cristiano arriverà all’edificazione dei suoi fratelli, se soffre senza lamentarsi, umiliandosi sotto la mano di Dio che colpisce ed abbatte solamente per rialzare e per guarire. Restituta, vierge et martyre, originaire de la deuxième Hippone, surnommée Diarrhite (aujourd’hui Bizerte), située dans la Proconsulaire, au bord de la mer, souffrit divers tourments sous le juge Proculus, en Afrique, du temps de l’empereur Valerien. Placée sur une barque remplie de poix et d’étoupes, pour qu’elle y fût brûlée en mer, elle rendit l’esprit en priant Dieu, lorsqu’on eût mis le feu a ces matières et que la flamme faisait d’elle-même comme le foyer d’un incendie. Le doigt de Dieu poussa la barque où étaient ses restes jusqu’à l’île Enaria (Ischia, près de Naples), où ils furent reçus par les Chrétiens avec une grande vénération. Plus tard, l’empereur Constantin fit bâtir à Naples une basilique en son honneur. Elle ne fut pas seulement illustre à Naples, mais aussi à Carthage, ou elle a souffert l’an 256. On pense que cette grande basilique, où furent célébrés plusieurs Conciles et où Saint Augustin prêcha souvent, se nommait Restitute à cause d’elle. L’île d’Ischia a dû sa renommée aux saintes reliques de Restituta et sa mémoire y est conservée jusqu’à ce jour avec les plus grands honneurs. Réflexions La patience est le dernier effort de la charité ; elle devient, aux yeux de Dieu, un holocauste si précieux qu’il se hâte de lui donner une récompense glorieuse dès ici-bas, où l’humanité ne peut se défendre d’un tendre sentiment de respect pour celui qui a su noblement souffrir. Oui, le martyre est la plus belle des gloires aux yeux de tous, même de ceux qui ne savent admirer que les vanités, car ils trouvent aussi des larmes pour des célébrités touchantes. Plus le supplice imaginé par le persécuteur fut atroce et inouï, plus la victime en est recommandée au pieux attendrissement de la postérité; des contrées diverses s’honorent de ses restes, et de saints pontifes préconiseront la mémoire de Sainte Restituta. Sans se nourrir de la pensée d’obtenir jamais d’aussi grands hommages, le Chrétien arrivera à l’édification de ses frères, s’il souffre sans se plaindre, en s’humiliant sous la main de Dieu qui ne frappe et n’abaisse que pour relever et pour guérir. La Rassegna d’Ischia 3/2008 25 «The London Magazine» - January to June 1821, vol. III A legend of Ischia 1 Una leggenda di Ischia 1 There is a dreamy softness, as day fades, Gathering along the ether; it pervades The sea and earth, and o’er the wakeful soul A deepening hue of meditation flings, Whilst the advancing shadows thinly roll O’er the bright waters; from their obscure wings Shedding oblivion on all mundane things. In the pale clearness of the delicate sky Yon mountain rears its ever-during head, O’er which the ocean’s habitant once sped, Now echoing to the sea-gull’s wailing cry; Lonely it stands, lifting to heaven its brow, Scath’d with the levin-flash, where clouds repose Their dreary forms, when the sirocco blows Its baleful breath on withering man; but now Its rugged lineaments are pictured fair On evening’s wan expanse; and on the height The convent tenants breathe a taintless air, On whose pellucid wings their vesper prayer, Unmix’d with aught of earth, springs in its upward flight. The breezes, winnowing round each fairy hill, So mildly blow, that scarce the clustering vine Waves with their gentle fanning, as they still Among its odours playfully entwine. And now the moon brightens her crescent pale, With one sole star, streaming celestial light; And, from the dusky hill and shadowy vale, With her fair beam scatters the gloom of night. See! Meteor-like, beneath the tendril bower, The wheeling fire-fly shoots his flame serene, Kindling with living flash the twilight hour, And glancing on the vine-leafs tender green; Whilst the last bird of even, which all night long Pours to the listening wood his plaintive note, In fitful sweetness tunes his liquid song, Anon, in melody’s mil tide to float, On the enraptur’d ear: - no other sound Breaks the deep seeming thoughtfulness around. C’è una dolcezza trasognata, come dissolvenze diurne, che si spande nell’etere e pervade il mare e la terra, e sull’anima insonne getta un colore cupo di meditazione, mentre le avanzanti ombre lievi rotolano sulle brillanti acque; dalle loro ali oscure scende l’oblio su tutte le cose del mondo. Nella pallida chiarezza del cielo delicato quella montagna innalza sempre la sua vetta, sulla quale l’abitante dell’oceano una volta prosperò, ora fa eco all’alcione che geme e stride; solitario s’eleva, volgendo al cielo la sua cima, fulminata dal bagliore, dove le nubi posano le loro forme cupe, quando lo scirocco soffia il suo alito funesto sull’uomo che inaridisce; ma ora i suoi lineamenti accidentati sono chiaramente dipinti sulla smorta distesa della sera; e sulla vetta gli inquilini dell’eremo respirano un’aria pura, sulle cui ali trasparenti la loro preghiera del vespro, non mista con alcunché di terreno, vola verso l’alto. Le brezze, spirando intorno ad ogni magica collina, così lievemente soffiano, che di rado i grappoli della vite ondulano al loro leggero soffio, mentre tra loro sempre intrecciano i loro piacevoli odori. Ed ora la luna illumina la sua chiara falce, con un unico astro, fluente luce celestiale; e dalla fosca collina e dalla valle ombrosa, con i suoi raggi disperde l’oscurità della notte. Vedi! Come meteora, sotto la pergola di viticci, la volteggiante lucciola lancia la sua fiamma serena, accendendo con il suo vivo bagliore l’ora del crepuscolo, e luccicando sul verde delicato dei pampini della vite; mentre l’ultimo uccello del vespro, che tutta la notte effonde al bosco in ascolto le sue note lamentose, in motivi di mutevole dolcezza sintonizza il suo canto, presto, per fluttuare nel pieno flusso della melodia, nell’estasi dell’ascolto: - nessun altro suono rompe l’apparente profondo raccoglimento circostante. It was in such a night, when storms were o’er, When the rent cloud had sail’d in blackness by, Leaving in lovelier blue the vernal sky : When the bright wave soft rippled to the shore, And winds were hush’d: - it was in such a night, Upon the silent swelling of the tide, A boat was seen, in solitary plight, Drifting to Ischia’s coast, with none to guide Tale era la notte, quando cessò la bufera, quando la nube squarciata spazzò via il buio, lasciando nel più bel blu il cielo primaverile: quando la brillante molle onda si increspò sulla spiaggia, ed i venti s’acquietarono: - tale era la notte, sopra il moto silenzioso della marea, una barca fu vista, in solitario sforzo, andare alla deriva lungo la costa d’Ischia, e nessuno 1 Ischia is a small romantic island, of volcanic origin, in the vicinity of the Bay of Naples. A church is erected in the Vale of Lacco, in honour of Santa Restituta, a patroness of the island, whose festival annually attracts, not only rhe islanders, attired in their best garb, but also the more devout Catholics form Naples. 1 Ischia è una piccola romantica isola, di origine vulcanica, del Golfo di Napoli. La chiesa è eretta nella valle di Lacco, in onore di S. Restituta, la patrona dell’isola, i cui annuali festeggiamenti attirano nel borgo non solo gli isolani, ma anche i più devoti cattolici di Napoli, i quali vengono ad implorare e a chiedere grazie alla Santa. 26 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Its reckless course; but on the risings sheen Of that calm sea, near ever, and more near, It came, as if a spirit’s hand unseen Had led it gently from the realm of fear. “Some boat, perchance, torn by the sweeping gale And bounding surge, from a neglectful bark; Or the sole relic of some hapless sail, Wreck’d on Italia’s shore, when tempests dark Scowl’d in the sounding heavens, - whose luckless crew, With unclosed eyes, fix’d in eternal sleep, Cold and unshrowded in the weltering deep, To home, to light, and life, have bid adieu. Within yon little bay, whose gentle wave, Claspt by those arms, feels no disturbing gale, Whose playful ripplings idly love to lave, The yellow sands that skirt the sloplag vale, There, where the glimmering air its doubtful gleam Sheds soft upon the waters, like the play Of wilder’d fancy in a matin dream, The alien boat in peaceful haven lay. And other boats around the stranger press, And with experienced looks the seaman eyes The shapely contour of his easy prise, Whilst vaguely circulates the erring guess Of port and destiny. Why do they stand With one consent in still and silent gaze, As if the touch of an enchanter’s wand Had frozen then to shapes of mute amaze ? What is’t they look on ? - Wrapt in slumber deep, And shadowed by the evening’s falling gloom, A female form reclin’d; quiet her sleep; Her face dropp’d on an arm, polish’d and fair; The fluttering wind had strewn her silken hair Of black o’er a pale cheek; most calm and holy Was her repose ; yet trace of melancholy Had sunken these, of meek distress to tell. Her breathing was as still as the odorous smell Exhal’d from pulseless flowers; nor could be seen Motion of lips, or the fair bosom’s swell – So huah’d she lay, so fearfully serene. The dark and silken lashes overshade An eye half open, glaz’d, and strangely still – And then her touch – ah heavens! – how deatly chill! – Alas! The young, the beauteous maid is dead! guida il suo corso imprudente; ma nel nuovo splendore di quel calmo mare, vicino e sempre più vicino, essa veniva, come se l’invisibile mano di uno spirito l’avesse condotta dolcemente dal regno del pericolo. Un’imbarcazione, forse, lacerata dalla burrasca e dai flutti rimbalzanti su trasandato burchiello; ossia il solo relitto di una vela sfortunata naufragò su una spiaggia d’Italia, quando la tetra tempesta infuriava sonora nel cielo, - e l’equipaggio sfortunato, con gli occhi schiusi, fissi nel sonno eterno, freddo e non celato nel ribollente mare, ha detto addio alla casa, alla luce, e alla vita. – In quella piccola baia, la cui onda mite, chiusa da quei bracci, non avverte vento ostile, la cui dolce crespa ama pigramente dilavare le dorate sabbie che costeggiano il versante della valle là, dove l’aria baluginante il suo incerto barlume sparge molle sull’acqua, come la vana fantasia di un sogno mattutino, lo straniero legno stava nel sicuro porto. E le altre barche s’accalcano intorno ad esso, e con lo sguardo esperto i marinai osservano l’armonioso contorno di questo facile trofeo, mentre vagamente circola l’errata congettura del porto e del destino. Perché essi stanno in unanime consenso con lo sguardo assorto e silente, come se il tocco di una bacchetta d’incantatore li avesse congelati in figure di muto stupore? Cosa è che vedono? Avvolta in un sonno profondo, e oscurata dalle tenebre della cadente sera, una figura femminile è reclinata; calmo il suo sonno; il volto è poggiato su un braccio, fiero e sereno. Il vento fluttuante ha sciolto i suoi neri serici capelli sulle pallide guance; più calmo e santo il suo riposo; ma tracce di melancolia l’avevano segnato, per dire di mite angoscia. La sua respirazione era come il fragrante odore esalato da fiori privi di vita; né poteva essere visto moto di labbra, o il battito regolare del petto. Così ha soffocato il lamento, così paurosamente serena. Le brune e delicate ciglia adombrano un occhio semichiuso, vitreo, e stranamente sereno; e poi il suo senso - Ah cielo! Come mortalmente freddo! Ahimé! La giovane, la bella fanciulla è morta! Oh! Bear her gently in your manly arms, And sing a requiem to her parted soul, Even as gaze on her dissolving charms, Let the slow strain to heaven’s bright portals roll: And when the stranger asks in future time, Who rests the inmate of her sainted tomb? Tell him, a virgin of a foreign clime, Who, faithful to her creed, ne’er bent the knee To any god of mortal mould; that He Who kens the latent impulse of the heart, Amidst ordeals of infernal birth, Did, in her hour of need, his strength impart, And turn to marvelling fear the demon mirth Of Painims’ frenzy, at they saw the flame, Oh! Portatela dolcemente nelle vostre braccia virili, e recitate un requiem per la sua anima dipartita, mentre lo sguardo è fisso sul suo fascino che svanisce, lasciate che il lento sforzo la porti alla luminosa porta del cielo; e quando lo straniero nei tempi futuri chiede: Chi è chiuso nella sua tomba santa? ditegli, una vergine di una regione straniera, che, fedele al suo credo, non volle piegare le ginocchia davanti ad alcun dio di natura mortale; ella, che conobbe l’impulso latente del cuore, tra prove durissime di origine infernale, nella sua ora del bisogno, ricevette la sua forza, e volse in stupefacente paura la demone allegria e la frenesia dei carnefici, i quali videro le fiamme, La Rassegna d’Ischia 3/2008 27 Prepared to desolate that beauteous clay, Round her soft limbs innocuously play, And frustrate thus their ineffectual aim: That, harden’d still in heart, in a lone boat At length they plac’d her unresisting form, With things deflagrable, thus left to float And perish on the tide by fire or storm. But neither fire nor flood had power to harm One precious limb; the fire hath shot in air, And the strong surge hath curl’d in vain alarm, And hath not hurt one solitary hair: But God, who saw the sorrows of the maid, Lull’d her in peaceful sleep; and as the breath Of dreams most holy on her faint lips play’d, He took her to himself: - thus gentle was her death! – Firenze / Mostre Il Volto di Michelangelo Fondazione Casa Buonarroti / Firenze (6 maggio - 30 luglio 2008) a cura di Pina Ragionieri L’interesse per l’argomento è naturale per chi, lavorando all’interno del museo della Casa Buonarroti, per così dire all’ombra di Michelangelo, di ritratti dal vero del Maestro ne può vedere in originale ben quattro (che saranno tutti esposti in questa mostra); e sono i dipinti di Giuliano Bugiardini e di Jacopino del Conte, la medaglia di Leone Leoni e quel vero, emozionante ritratto dell’anima che è il busto in bronzo di Daniele da Volterra. Ma nella bibliografia michelangiolesca sono tutt’altro che numerose le voci che interessano il nostro discorso; ed è con ogni probabilità da confermare l’opinione secondo la quale alla base della situazione sta l’avversione dell’artista a ritrarsi e ad essere ritratto, come testimoniano gli antichi biografi. L’argomento affrontato dalla mostra presenta dunque un indiscutibile carattere di novità. Ma l’immagine di Michelangelo ci è tramandata anche da un altro genere di ritratto: come per altri grandi, e non solo della storia dell’arte, la sua fisionomia fu infatti riprodotta da artisti a lui contemporanei, conferendone le caratteristiche a personaggi effigiati in scene d’insieme; e qui soccorrono molti esempi, tra i quali basterà ricordare il Raffaello della Stanza della Segnatura in Vaticano o il Vasari del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze: opere non trasportabili che in mostra saranno 28 La Rassegna d’Ischia 3/2008 preparate per bruciare quel bel corpo umano, aleggiare innocuamente attorno alle sue delicate membra, e frustrare così il loro inefficace proposito: esse, alimentate nel loro nucleo, verso una sola barca a lungo si rivolsero in modo irresistibile, con materie combustibili, così finì di stare a galla e colò a fondo pel fuoco e la tempesta. Ma né il fuoco né la marea poterono recar danno ad una delle preziose membra; il fuoco divampò in aria, e i forti marosi si levarono in vano allarme, senza toccare neppure uno solo dei suoi capelli. Ma Dio che vide le sofferenze della fanciulla, la cullò in un sonno pacato; e mentre l’alito di sogni più santi aleggiava sulle sua languide labbra, Lui la condusse a sé: - così placida fu la sua morte! evocate attraverso elaborazioni digitali. Sono presenti in mostra alcune immagini contemporanee al Maestro, che si collocano tra l’aneddoto e la fantasia: proviene dal British Museum una rarissima e bella incisione che ritrae, in meditazione, il Michelangelo ventitreenne del primo soggiorno romano e della Pietà di San Pietro; una pagina di una preziosa cinquecentina mostra “Michael Fiorentino” che scolpisce, seminudo e con gran foga, una statua femminile nella quale si volle riconoscere l’Aurora della Sagrestia Nuova. Dopo la scomparsa dell’artista, alla soglia degli anni ottanta del secolo, in un piacevole quadretto della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, anch’esso presente in mostra, Federico Zuccari ritrae il fratello Taddeo mentre dipinge la facciata di palazzo Mattei, intanto che Michelangelo, nel corso di una delle sue consuete passeggiate per Roma, si sofferma a osservarlo. È noto che Michelangelo raffigurò se stesso assai raramente. Citiamo qui l’autoritratto inserito nella pelle scorticata del San Bartolomeo del Giudizio finale sistino, e il volto sereno, al di là di ogni dolore, del Nicodemo della Pietà del Museo dell’Opera del Duomo a Firenze. Sono situazioni abbastanza sporadiche ed eccezionali che ci permettono di comprendere come mai è divenuta nei secoli proverbiale la ritrosia dell’artista a effigiare gli altri e se stesso: lo dice il Vasari, e non bastano a contraddirlo i due esempi di autoritratto or ora citati, né la distrutta statua bronzea di Giulio II, né il ritratto perduto del bellissimo Tommaso Cavalieri, né le effigi di Pietro Aretino e di Biagio da Cesena che si riconoscono in quello spietato affresco di eterna salva- zione e condanna che è il Giudizio finale. E, infatti, i due antichi biografi preferirono ritrarre il Buonarroti tramandandone le fattezze per iscritto, il Condivi (1553) mischiando caratteristiche fisiche con tendenze, abitudini e pensieri; il Vasari, nell’edizione giuntina del 1568, copiando senza remora alcuna la descrizione del collega, fin nei particolari di certe pagliuzze fra l’oro e l’azzurro negli occhi del Maestro. Il nostro discorso non si ferma però ai contemporanei del Maestro, anche perché visitando la mostra all’interno della Casa Buonarroti si potrà ammirare la sala al primo piano del museo detta “Galleria”, nella quale il pronipote di Michelangelo organizzò un omaggio al grande avo, a circa cinquant’anni dalla sua morte, ricordandone virtù pubbliche e private in una serie di opere affidate agli artisti di maggior rilievo operanti nella prima parte del Seicento a Firenze. Giungeranno in Casa Buonarroti rari esempi di ritratti secenteschi e settecenteschi, e non mancheranno immagini del mito di Michelangelo, piacevole e immaginifico, creato dal romanticismo storico. Proprio da qui partirà il percorso espositivo: disegni, sculture, medaglie e dipinti, in un viaggio a ritroso nel tempo che comincerà dall’Ottocento per giungere alla fine della mostra alle immagini eseguite quando il Maestro era ancora in vita. Ci sarà infine, a conclusione della mostra, un ritratto “interiore” dell’artista, attraverso una presentazione non solo dei ritratti “scritti” che di lui vennero fatti, ma anche delle sue Rime. Ufficio stampa Susanna Holm www.casabuonarroti.it Al parco botanico GIARDINI RAVINO di Forio Mostra - Convegno sulle piante grasse rare e da collezione Si è tenuta a Forio nel mese di aprile scorso una esposizione internazionale di piante grasse rare e da collezione, alla quale hanno fatto da supporto seminari di approfondimento, dibattiti e percorsi didattici sul tema della biodiversità, con la partecipazione di esperti e docenti specifici. Il tutto è avvenuto nella verde ed accogliente cornice del parco botanico tropical mediterraneo Giardini Ravino creati, di recente, da Giuseppe D’Ambra ed inseriti in un ambiente che ha nello sfondo il monte Epomeo, mentre si affaccia sulla baia di Citara ed il suo mare: uno spazio dedicato alla conservazione di specie erbacee, arbustive e arboree di grande interesse, soprattutto esotiche, e distinto non solo per rarità botaniche ed esemplari cactacei maestosi, m anche per la cura nella coltivazione e l’originalità nell’allestimento. Vi hanno collaborato l’Orto Botanico delle Succulente di Zurigo, Uni-Botanica, Forum Biodiversità elvetico, Biomaps Working Group e Institut für Biodiversität der Pflanzen dell’Università di Bonn. Il sogno divenuto realtà di Giuseppe D’Ambra Giuseppe D’Ambra, marittimo di lungo corso e grande appassionato di piante grasse (cactacee, succulente) e palme, ritornava dai suoi viaggi intorno al mondo con borse piene di talee e semi di piante particolari, uniche in Italia ed Europa. Il clima mite dell’isola d’Ischia e l’esposizione ad ovest di Villa Ravino hanno reso possibile la crescita e la riproduzione di queste piante, uniche per genere e dimensione. Un capitale enorme che, con grande dedizione e sacrificio, la famiglia D’Ambra ha voluto rendere fruibile a tutti. Con la regia del padre, anche la nuova generazione, forte di una passione quasi ‘genetica’, ha creato un giardino botanico aperto al pubblico; una iniziativa che per molti versi può sembrare inusuale, ma che proprio per la sua particolarità è sembrata vincente. Elemento conduttore della mostraconvegno è stata la biodiversità, ossia la complessità e multiformità della vita: un termine sino a pochi anni fa sconosciuto ai più. Esistono molteplici ragioni per considerare la biodiversità, intesa come diversità genetica e molteplicità di specie ed ecosistemi, la principale risorsa naturale per l’uomo: le nostre possibilità di alimentazione, ma anche di cura medica, infatti, sono strettamente correlate alla biodiversità, che ci garantisce l’esistenza di materie prime, di fonti energetiche e, perché no, delle fibre con cui sono fatti i nostri abiti. Essa ci rende servizi immensi: specie ed ecosistemi diversi rendono possibile l’impollinazione e una naturale disinfestazione antiparassitaria degli alberi da frutto, preservano l’integrità del ciclo idrologico e di quello alimentare, favoriscono il degrado di sostanze nocive e sono utili per scongiurare catastrofi ambientali, come alluvioni e frane. Da un punto di vista economico, dunque, appare fondamentale salvaguardare e promuovere la biodiversità. Ma le questioni economiche non mettono in secondo piano un altro aspetto, altrettanto importante: la bellezza delle diverse specie naturali. Una bellezza che si caratterizza per l’estrema multiformità e variegatura, fattori questi che, inoltre, consentono agli organismi viventi di colonizzare quasi ogni angolo del pianeta. Le piante succulente, ad esempio, hanno conquistato anche ecosistemi particolarmente poveri d’acqua, dando vita a risultati adattativi straordinariamente diversi: ne esistono specie dal fusto ingrossato, La Rassegna d’Ischia 3/2008 29 altre con foglie carnose; ci sono affarini striscianti e giganti alti svariati metri; mostriciattoli spinosi e tenere piantine dall’epidermide delicata. E poi i loro fiori! L’argomento “giardino” e “piante succulente” è stato sviluppato sotto diversi aspetti, come “monumento vivente - pedagogia dei giardini d’Europa” (Aline Rutily, ricercatrice del Centro d’arte visiva della Sorbona di Parigi, e Mariella Morbidelli, educatrice); “le piante succulente: un laboratorio didattico per la tutela della biodiversità” (Elena Gaudio, consigliere nazionale di Italia Nostra); “impiego delle piante succulente nella progettazione del verde” (Bruno Filippo Lapadula, architetto, esperto di studi di impatto ambientale, docente di storia del giardino e del paesaggio all’Università La Sapienza di Roma); “piante succulente al rischio di estinzione” (Andrea Cattabriga, botanico, presidente dell’Associazione per la biodiversità e la sua conservazione); “influsso del cambiamento climatico sull’estensione delle piante cioè la biodiversità” (Detley Metzing dell’Univ. di Oldeburg/Botanischer Garten). Nelle foto vari momenti dei tre giorni della mostra-convegno e aspetti dei Giardini Ravino 30 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Angelica Sollino ha trattato della “flora dei fondali marini ischitani”, con particolare riguardo alla Posidonia. Intorno all’isola d’Ischia le praterie di Posidonia oceanica formano una “cintura verde” pressoché continua, ricoprendo circa 17 kmq di fondale marino. I prati più estesi sono situati sulla sommità della Secca d’Ischia o Banco d’Ischia e sul fondo del canale d’Ischia che si congiunge con le praterie delle isole di Vivara e Procida. La prateria di Lacco Ameno è situata nel settore nord dell’isola nella baia delimitata da Monte Vico. Si estende con continuità a profondità tra 0,5 e 32 m. Molto studiata. Moderatamente esposta al moto ondoso. È impiantata su sabbie da molto fini a frazioni medie. La prateria della Scarrupata di Barano si estende nel versante sud-est dell’isola da 10 a 35 m di profondità. Esposta ai venti meridionali. Impiantata su matte. Tra 10 e 35 m di profondità ha una distribuzione continua. Discontinuità di pendenza tra 15 e 20 m e tra 25 e 30 m. Sedimenti da sabbie grossolane a sabbie fangose. Molto lontana dai centri urbani, per cui è una prateria con ridotto disturbo antropico. La prateria della Nave è situata in prossimità dello scoglio emerso denominato “La Nave”, è posizionata a sud-ovest dell’isola, tra 20 e 30 m di profondità. Esposta alle correnti e ai venti occidentali. Insediata su roccia nella porzione più superficiale a 15 m. Insediata su sedimento detritico biogenico e matte sul limite inferiore 28-30 m. Ha una distribuzione a macchie. La prateria del Castello Aragonese è situata intorno al castello ma anche nella baia di Cartaromana. Molto riparata dal moto ondoso. Impiantata su matte molto alta. A 5-6m di profondità è molto estesa Attualmente con l’istituzione dell’Area Marina Protetta del Regno di Nettuno le praterie dell’isola avranno la possibilità di essere preservate per il futuro ponendo l’accento su un’attenzione consapevole. Maria Cristina Buia, biologa marina presso la Stazione Zoologica A. Dohrn di Napoli, ha parlato della “biodiversità dei sistemi vegetali marini” ed ha, tra l’altro, sviluppato i seguenti punti: Caratteristiche delle piante marine: vivono nell’ambiente marino e non altrove; hanno un’impollinazione idrofila sommersa; la dispersione dei semi avviene grazie ad agenti biotici e abiotici; le foglie hanno una cuticola molto ridotta ed una epidermide priva di stomi; hanno rizomi che ne garantiscono l’ancoraggio; hanno radici che svolgono un importante ruolo nel processo di trasferimento dei nutrienti ma che dipendono dalle foglie e dai rizomi per il trasporto dell’O2. Cause di regressione antropica: Eutrofizzazione (dal 1975 si assiste ad una diminuzione della trasparenza dell’acqua di 0.1 m /anno); condizioni di anossia livelli tossici di nutrienti; acquacoltura (la sedimentazione di materiale organico comporta una riduzione della qualità dell’acqua ed un aumentato carico organico nei sedimenti - Posidonia e Cymodocea); cause meccaniche (pesca a strascico, ancoraggi e ripascimenti); introduzione specie alloctone; cambiamenti climatici (innalzamento livello del mare di 0.6 cm/anno con regressione linea di costa ed erosione di 6m/anno). Come prevenire la regressione delle praterie: Controllo e trattamento delle acque urbane e industriali per ridurre il carico di nutrienti, di materia organica e di prodotti chimici; magggiore regolamentazione dell’uso del territorio per ridurre l’erosione del suolo; regolamentazione dell’acquacultura, pesca e prelievo sabbie sulle praterie o in zone ad esse adiacenti; regolamentazione degli ancoraggi; enfatizzazione dell’importanza delle praterie a fanerogame e aumento delle penali per chi provoca disturbi su piccola scala. Altri interventi - Il geologo Aniello Di Iorio: “Il suolo, supporto della biodiversità; origine ed evoluzione geografica dei suoli sull’isola d’Ischia”. - Pasquale De Toro (docente alla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli): “Conservazione della biodiversità e salvaguardia del Creato: dalla riflessione etica sull’ambiente alla conversione ecologica”: «Uno dei campi, nei quali appare urgente operare, è senz’altro quello della salvaguardia del creato. Alle nuove generazioni è affidato il futuro del pianeta, in cui sono evidenti i segni di uno sviluppo che non sempre ha saputo tutelare i delicati equilibri della natura. Prima che sia troppo tardi, occorre adottare scelte coraggiose, che sappiano ricreare una forte alleanza tra l’uomo e la terra. Serve un sì deciso alla tutela del creato e un impegno forte per invertire quelle tendenze che rischiano di portare a situazioni di degrado irreversibile» (visita pastorale del Papa a Loreto il 2 settembre 2007). Secondo Giuseppe Sollino, docente di scienze naturali e responsabile del C.A.T. dei Giardini Ravino, la riduzione delle entità floristiche presenti e l’attuale costituzione della flora di Ischia sono fortemente influenzate dalle varie forme di pressione antropica cui l’isola è stata sottoposta in tempi storici e in tempi più recenti dalla variazione d’uso del territori (industrializzazione turistica). Se è vero che l’isola contiene ancora dei veri e propri tesori botanici, sono altresì importanti la loro protezione e la loro tutela. Le cause che determinano la regressione o la scomparsa di una specie sono da ricercarsi nell’esasperata antropizzazione che altera o distrugge gli ambienti spesso molto ridotti e particolarmente sensibili. Bisogna prendere coscienza a tutti i livelli che la flora dell’isola d’Ischia è ancora eccezionale per rarità ed endemismi ed è indispensabile conservarla e proteggerla per trasmetterla arricchita alle popolazioni future. Nella flora dell’isola d’Ischia un posto di rilievo occupa la “macchia mediterranea” formata da piante xerofile, sempreverdi e ricche di fioriture brillanti. L’alloro, le querce, l’olivo e il carrubo sono gli elementi arborei che insieme ai tipici arbusti come le ginestre, il mirto, le filliree e i cisti conferiscono le inimitabili variazioni cromatiche mediterranee dell’isola. Particolarmente verdi sono, poi, le parti collinari soprattutto in primavera, quando le pendici delle zone alte dell’isola evidenziano il verde diffuso dei castagni, dei lecci e delle acacie. Il sottobosco è, poi, ricchissimo di piante aromatiche ed officinali come la nepente, la salvia, il rosmarino, l’origano ecc. Infine fioriture continue sono quelle dei cisti, delle valeriane, dei ciclamini e delle orchidee selvatiche. Si trovano così ecosistemi molto diversi tra loro che, seppur limitati nella estensione, risultano di grande valenza ecologica. Più di 700 specie diverse nei La Rassegna d’Ischia 3/2008 31 46,5 kmq con alcuni endemismi e rarità come il papiro delle fumarole (Cyperus polistachius Rottb.) e la felce dell’Epomeo (Woodwardia radicans L.). Tra le piante rare scomparse dal territorio isolano vanno annoverate l’Ipomea Imperati (Vahl) Grisebach (specie legata alle dune sabbiose litorali, rarissima nel bacino mediterraneo occidentale. Segnalata per la prima volta sull’isola da Michele Tenore nel 1802, fu ritrovata anche da Giovanni Gussone nel 1854. La sua presenza ad Ischia è segnalata fino al 1980, quando una frana che coinvolse la spiaggia dei Maronti, presso Cava Scura, la cancellò definitivamente dal territorio. Recentemente è stata reintrodotta nel litorale della Baia di San Montano); la Kochia saxicola Guss. (descritta da Giovanni Gussone nel 1854, che la rinvenne sugli Scogli di S. Anna nella Baia di Cartaromana. Estinta sugli scogli di Ischia, la specie è ancora presente sugli scogli dell’isola di Capri e a Strombolicchio. Recentemente (luglio 2004) la specie è stata reintrodotta sullo scoglio citato dal Gussone); il Limonium (Statice) inarimensis Guss. (pianta studiata e descritta da G. Gussone nel 1854, che non è stata ritrovata in nessun’altra parte del mondo). La manifestazione si è conclusca con la celebrazione della Santa Messa da parte del vescovo d’Ischia mons. Filippo Strofaldi. *** Le piante succulente nei giardini storici di Bruno Filippo Lapadula (1) Per giardino si intende, in qualunque paese ed in qualunque epoca, un luogo chiuso con colture erbacee, arbustive ed arboree di tipo utilitaristico ed ornamentale. Questa interpretazione non è di uso generalizzato e non è affatto scontata, anche se esprime dei concetti che risalgono almeno al IV millennio a. C. È invece facilmente dimostrabile quanto sia esatta, oltre che attraverso i fatti (un giardino non recintato sopravvive per poco tempo), dall’etimologia dei termini usati per indicare un giardino che, in quasi tutte le lingue del mondo, si può far risalire a parole che significano recinto. Quindi all’idea di giardino possiamo associare l’immagine di una zona protetta ed esclusiva dove raccogliere, coltivare, studiare ed ammirare quanto di più straordinario offre la natura. Per giardino storico non trovo nulla che possa superare la definizione del filosofo siciliano Rosario Assunto (19151994): «luogo destinato a vivere la contemplazione e a contemplare la vita nell’atto stesso di viverla. Il giardino, diciamo, come opera d’arte il cui godimento si identifica con il vivere in essa: un vivere nel quale il momento della contemplazione (e quindi del godimento estetico, che non è passività ricettiva, ma è un fare avente, nella contemplazione, il proprio movente ed il proprio fine) non sia, come nell’architettura a qualunque uso assegnata, correlativo alla destinazione pratica del luogo, ma sia lo scopo per il quale il luogo-giardino è stato ideato e realizzato»2. Quindi è il luogo per eccellenza dove dedicarsi a quello che i romani avrebbero definito otium. 1 Architetto esperto in valutazione d’impatto ambientale, professore a.c. di Storia del giardino e del paesaggio all’Università di Roma. 2 R. Assunto, Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e associati ed., Milano, 1988. 32 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Giardini pre-colombiani Tra le piante che conserviamo nei nostri giardini, che sono oggetto di cure e che facciamo materia di studio e contemplazione, le succulente occupano oggi un posto molto importante. Piante che mancavano invece nei giardini storici più antichi. Quelli, per intendersi, realizzati nell’area culturale che gravitava sul Mediterraneo sino al sec. XVIII. In Europa il rapporto tra giardino e piante grasse si è manifestato in modo significativo solo in tempi recenti. Ma se teniamo conto delle precedenti definizioni di giardino e di giardino storico, non potrebbe essere (almeno potenzialmente) più stretto. Infatti non riesco ad immaginare qualcos’altro che assomigli di più ad una scultura o ad un gioiello, da custodire ed ammirare, di una succulenta. La coltivazione di queste piante si è diffusa (soprattutto a scopo ornamentale) solo due secoli dopo i viaggi degli esploratori europei che le avevano scoperte approdando, a partire dalla fine del sec. XV, nelle regioni tropicali dell’America e dell’Africa. Invece tale presenza certamente già c’era ed era molto intensa presso civiltà, come quelle pre-colombiane, delle quali però conosciamo purtroppo assai poco. Perché l’avidità e l’ignoranza degli stessi esploratori le hanno quasi cancellate del tutto dalla storia. Lo storico statunitense William H. Prescott (1796-1859) ha riunito in uno dei suoi libri le descrizioni, riferite dai conquistadores spagnoli, delle città e dei giardini aztechi che si trovavano nell’area del Messico attuale: «L’orgoglio di Iztapalapan, al quale il suo signore aveva prodigato le sue cure e le sue rendite, erano i famosi giardini. Occupavano un’immensa distesa di terreno ed erano tracciati a riquadri regolari; i sentieri che li contornavano erano bordati da tralicci che sostenevano rampicanti ed arbusti aromatici, che riempivan l’aria dei loro profumi. I giardini erano colmi di alberi da frutto, importati da località remote, e della festosa famiglia dei fiori appartenenti alla flora messicana, che, disposti scientificamente, crescono lussureggianti nella mite temperatura dell’altipiano» 3. Gli spagnoli (soprattutto per vantare l’entità della loro conquista) avevano registrato l’esistenza di splendidi giardini nelle città azteche 4, confermata poi dagli scavi archeologici 5, ma non li hanno conservati. Quindi sappiamo molto poco dell’aspetto che avevano e delle piante che vi venivano coltivate, perché tutto venne meticolosamente distrutto. Non è però difficile immaginare che vi fossero importanti collezioni di piante grasse. Vi sono molti indizi a dimostrarlo. Ad esempio una nochtli (Opunzia) era l’emblema della capitale Tenochtitlan (l’attuale Città del Messico) e compariva nello stesso nome della città. È provato anche che gli aztechi conoscevano in modo approfondito e sistematico le proprietà alimentari (sono molti e vari per forma, dimensione, colore e sapore i frutti delle Cactacee come il Myrtillocactus geometrizans o il Ferocactus pilosus, delle Opunzie come l’Opuntia ficus-indica e di tante altre come la Mammillaria heyderi o lo Stenocereus thuberi) e medicinali delle piante che crescevano nell’America centrale. Gli studi di antropologia ed etno-botanica hanno stabilito che i nativi americani avevano sperimentato gli effetti di almeno un centinaio di piante psico-attive e che ne facevano uso già a partire dal IV millennio a. C. Tra queste avevano un ruolo prevalente le succulente. All’epoca della conquista spagnola la botanica era molto sviluppata presso gli Aztechi, non solo tra i “curanderos” e coloro che direttamente traevano da quelle conoscenze beneficio, ma anche tra i sacerdoti e i regnanti» 6. Il grande interesse scientifico degli Aztechi, per le piante e soprattutto per gli effetti curativi e allucinogeni degli estratti vegetali, conferma il livello di civiltà raggiunto, prima dell’arrivo degli europei, dai popoli dell’America centrale e meridionale. Purtroppo quando gli spagnoli bruciarono la maggior parte dei manoscritti aztechi 7, non risparmiarono quelli che descrivevano le piante e le loro proprietà, perché sottovalutati da un’ignoranza arrogante ed accusati dalla chiesa di contenere formule utilizzate in riti magici e diabolici. Invece gli aztechi avevano raggiunto un elevato livello di conoscenza delle possibilità curative delle succulente e conoscevano molto bene gli effetti sul corpo umano di sostanze come: lo jiculi o peyote (polpa del cactus Lophophora williamsii) con funzioni sia allucinogene che medicinali (con cui curavano molte malattie: polmonite, tubercolosi, scarlattina, reumatismi, diabete, emorragie, dolori intestinali, crampi, punture, ecc.) ed energetiche (che assumevano per compensare gli effetti della stanchezza, della fame e della sete); l’oclti o pulque (la bevanda fermentata ricavata dall’Agave salmiana o dall’Agave tequilana) con funzioni sia nutritive che medicinali e rituali; e tante altre 8. È dunque accertato che una parte rilevante degli antichi 8 Qualche notizia si può trovare in: E. Riva, L’universo delle piante medicinali. Trattato storico, botanico e farmacologico di 400 piante di tutto il mondo, Tassotti ed., Bassano, 1995. 3 W. H. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi ed., Torino, 1970. 4 Si veda: E. Cerulli, Civiltà etnologiche e America precolombiana, in Aa.Vv., Enciclopedia Universale dell’arte, Volume VI, op. cit. 5 Si veda: T. W. Killion, The Archaeology of Settlement Agriculture, in Gardens of Prehistory, The University of Alabama Press, 1992. 6 C. Zanovello, Alla scoperta di Cartus Preziosi, F. Muzzio ed., Padova, 1992. 7 Della botanica e della medicina azteche sono rimaste notizie: nel Codex Badianus compilato nel 1542 dal medico di origine azteca Manuel de la Cruz, che riporta i nomi locali delle piante, le riproduzioni, le descrizioni e gli usi che ne facevano i guaritori indigeni; ed nel Rerum Medicarum Nuovae Hispaniae Thesaurus, seu Plantarum, Animalium, Mineralium Mexicanorium Historia, scritto dal medico spagnolo Francisco Hernandez (1514-1578) tra il 1572 ed il 1577 (ma pubblicato solo nel 1651), che descrive le piante sia dal punto di vista botanico che farmacologico. La Rassegna d’Ischia 3/2008 33 saperi siano andati perduti (per esempio esisteva una seconda pianta con effetti simili al peyote della quale si è perduta la notizia). Ciò si è tradotto in danni per la salute, perché non conosciamo più molte sostanze attive, e nello stesso tempo per l’ambiente. Infatti l’ignoranza non favorisce certamente l’equilibrio degli ecosistemi e la conservazione della biodiversità, perché è più facile trascurare e quindi distruggere o far scomparire ciò che non si conosce. Oggi invece vi è sicuramente un maggiore senso di responsabilità (diffuso almeno in una parte della popolazione mondiale) e sappiamo anche che non deve essere solo l’interesse (anche se di tipo scientifico) a motivare la conservazione dell’ambiente e lo studio di ciò che non si conosce. La natura va rispettata sempre e comunque. Anche in questo campo le culture, così dette primitive, hanno dimostrato di aver avuto una sensibilità ambientale molto superiore alla nostra. Malgrado le distruzioni ed i massacri, qualcosa dei meravigliosi giardini aztechi e dei loro interessi botanici, almeno indirettamente, è rimasto ed influenza, a nostra insaputa, gli orti botanici: «Una delle cose che più colpirono i conquistadores al loro arrivo a Tenochtitlan, ora Città del Messico, fu la bellezza e la ricchezza di alcuni giardini, veri e propri orti botanici, organizzati razionalmente e con criteri sistematici. Sembra in proposito che i giardini botanici europei, tutti costituiti dopo la Conquista, siano stati ispirati appunto da quanto visto in Messico» 9. Questa mania di raccogliere piante dai luoghi più lontani (che oggi contraddistingue tutti gli appassionati di giardinaggio, compresi ovviamente i collezionisti di piante grasse) ha dunque origini remote e diffuse. Già i re assiri ed i faraoni egiziani si vantavano nelle loro iscrizioni (rispettivamente cuneiformi o geroglifiche) di aver fatto arrivare per i loro giardini piante dai luoghi più lontani. In misura minore che in America centrale e meridionale, anche in Africa ed in Europa erano note le proprietà delle piante grasse. Gli egiziani, ad esempio, conoscevano l’uso di alcune specie di Aloe (che si pensa potessero essere impiegate nei processi di mummificazione) già a partire dal sec. XVI a. C. Molte altre specie erano utilizzate, almeno dal I millennio a. C., in tutta l’Africa (soprattutto nella medicina tradizionale delle popolazioni sudafricane come ad esempio l’Euphorbia candelabrum usatoa come emetico e o l’Aloe secundiflora adoperata come disinfettante e antimalarico) e nell’Europa meridionale dove alcune Crassulacee (come il Sedum ed il Sempervivum) erano utilizzate anche a scopo alimentare oltre che medicinale. Orti botanici Le grandi varietà di succulente sono state viste in America ed in Africa alla fine del sec. XV e sono state portate in Occidente nel corso del sec. XVI a partire cioè dal periodo in cui l’Europa, decadute le tradizionali vie commerciali verso Oriente, aprì nuovi mercati con l’Africa e l’America. Ma si dovrà attendere il sec. XVIII ed esploratori-scienziati come l’inglese James Cook (1728-1779), il francese Luis Antoine de Bouganville (1789-1811) ed il tedesco Alexander von Humbolt (1769-1859), perché venissero descritte e colle9 C. Zanovello, op. cit. 34 La Rassegna d’Ischia 3/2008 zionate, ed il naturalista svedese Carl von Linné (Linneo, 1707-1778), perché cominciassero ad essere classificate. Quando in Europa arrivarono le succulente, l’Italia aveva oramai perso l’importanza economica che aveva nei secoli precedenti ed insieme il suo ruolo culturale. Tutto stava accadendo altrove (in Gran Bretagna, Francia, Stati Tedeschi, Paesi Bassi e Scandinavia) dove facevano capo i flussi commerciali, provenienti da Ovest e da Sud, ma dove le condizioni ambientali non erano certo favorevoli ad acclimatare le succulente e le altre specie esotiche. Quindi, soprattutto all’inizio (le piante grasse dimostrarono poi una maggiore adattabilità rispetto alle altre specie esotiche), le prime raccolte di queste piante venivano conservate quasi esclusivamente al chiuso. Ma, proprio per garantire le indispensabili condizioni di temperatura, umidità ed insolazione, avvenne qualcosa di assolutamente nuovo. I giardini classici (italiani e francesi) dal sec. XV al XVII avevano utilizzato piante anche non autoctone (giunte soprattutto dall’Oriente), ordinandole e potandole secondo rigidi schemi architettonici, ed i giardini paesaggistici (inglesi) dal sec. XVIII le avevano importate ed acclimatate dalle colonie, disponendole con maggiore libertà compositiva e lasciandole crescere senza impedimenti a formare paesaggi idilliaci. Non si era ancora tentato di ricostruire con criteri scientifici dei veri e propri ambienti integralmente e volutamente esotici, come avvenne nelle grandi serre. Il grande interesse per queste novità produsse il moltiplicarsi degli Orti Botanici10. I primi erano stati quelli italiani. Come al solito vantiamo le nostre primogeniture e (se escludiamo le vaghe notizie di antichissimi orti botanici greci ed ellenistici) possiamo partire da quello del sec. I voluto dall’imperatore Vespasiano (9-79) nel Forum Pacis a Roma, per continuare con quello del sec. XIV creato dal magister Matteo Silvatico (?-1340) a Salerno, per arrivare a quello della metà del sec. XVI di Padova e poi a tutti quelli che arricchirono le università e gli ospedali a partire dal Rinascimento, prima in Italia e poi in Europa. Nessuno di questi aveva però, all’epoca della sua apertura, delle collezioni di piante grasse. Per incontrare invece orti botanici 11 con serre per piante tropicali dobbiamo arrivare al sec. XVII e solo nell’Europa del Nord, come quelli di Copenhagen in Danimarca; Amsterdam (creato per accogliere le collezioni delle piante importate dalla Compagnia delle Indie Orientali) in Olanda; Parigi (Jardin des Plantes) in Francia; Kew in Gran Bretagna. Gli ampliamenti si succedettero e straordinarie collezioni con migliaia di esemplari vennero aggiunte nei secoli. A partire da questi, ne sorsero tanti altri come l’orto botanico del sec. XVIII a Shönbrun in Austria o quello del sec. XIX a Laeken in Belgio (creato per le piante provenienti dal Congo).. Bruno Filippo Lapadula 10 Per una storia degli orti botanici cfr.: P. Meda, Guida agli Orti e ai Giardini botanici, Mondadori ed., Milano, 1996; F. Consolino, E, Banfi, Orti botanici nel mondo, Zanichelli ed., Bologna, 1997; A. Piva, P. Galliani, Nuovi paesaggi. Storia e rinnovamento degli orti botanici in Italia, Marsilio ed., Padova, 2002. 11 Per una rassegna sia storica che tecnica si vedano: J. Hix, The Glass House, Phaidon ed., London, 1974; S. Saudan-Skira, M. Saudan, Orangeries: Palaces of glass. Their history and development, Evergreen ed., Köln 1998; F. Pautz, Serres des jardins botaniques d’Europe, Aubanel ed., Genève, 2007. Un giardino e una biblioteca per la felicità completa! Basta possedere un giardino e una biblioteca per conoscere la felicità completa: un saggio l’ha detto e forse sentito direttamente (il saggio non afferma niente che non abbia vissuto). Ma che cosa si deve intendere con l’espressione “felicità completa”? La massima non precisa, giustamente, questo significato, perché il suo contenuto è soggettivo. È l’individuo che giustifica, apprezza e fa proprie le tesi proposte, secondo la sua disponibilità spirituale, le sue convinzioni, la sua sensibilità. In assoluto, e quale premessa evidente, risulta chiaro che la causa efficace non consiste affatto nel semplice possesso di un giardino e di una biblioteca. Se si riconosce che tutti desiderano una vera felicità, occorre ammettere che i due elementi devono rispondere ad una reale utilità che contribuirà a rendere felici. Poiché si tratta del piacere dell’anima, i due elementi rappresentano i luoghi materiali che permettono di entrare in comunicazione con il mondo spirituale. Ogni giardino, il più semplice come il più lussureggiante, è così vasto, più vasto della sua stessa estensione, e accanto agli esempi di vita che ci offre, agli spettacoli rinnovellati di anno in anno, si vive un’esistenza solida e corroborante. Bellezza, grandezza, fedeltà del giardino! Quanto dobbiamo ad esso delle nostre estasi e della nostra bontà! I libri sono il veicolo che trasmette i tesori dell’umanità; la biblioteca è lo scrigno che conserva ciò che l’uomo, di generazione in generazione, ha saputo trarre da quella visione. Il modello resta lo stesso: la natura nella sua magnificenza; ma vediamo sempre qualcosa di nuovo che arricchisce la sua conoscenza. Il giardino, espressione del mondo sensibile, colpisce soltanto perché è presente ai nostri sensi e visibile quotidianamente nello spazio. I libri suscitano l’ispirazione della vita interiore e il legame d’amore tra gli spiriti: il loro dominio nel tempo. La letteratura e le opere che ne sono l’espressione, in ciascuna epoca, generano profonde impressioni; sola, la parola dell’anima giunge all’anima. Una casa senza giardino e biblioteca è una casa senza solide fondamenta e senza vita, esposta ai rischi, alla miseria, alle atrocità dei tempi. La riproduzione e il rinnovamento che si verificano negli alberi e nei fiori con la loro facoltà di adattarsi all’ambiente, presuppongono la presenza di una forza interiore che invade il campo delle nostre meditazioni. Ma è solo uno degli aspetti più complessi della vita. L’uomo, il “sapiens”, si innalza al di sopra di tutti gli esseri che lo circondano e scopre la sua dignità nella capacità di pensare; sebbene sia la canna più fragile della natura, come diceva Pascal, l’uomo è una canna pensante. Di conseguenza egli sente la necessità di spiegare e risolvere tutti i problemi suoi, per penetrare la sua essenza. Con l’intelligenza, i sentimenti, la volontà, cioè con ciascun potere dell’anima, egli cerca di realizzare la virtù propria del suo essere umano, di comprendere nell’unità della coscienza la vastità del tempo. L’uomo ama dunque la cura del passato, il culto della tradizione. Il giardino e la biblioteca diventano così un insieme che non può essere diviso: l’uno è complementare dell’altro. Il contatto con l’antichità e con le relative conquiste ha bisogno di riflettersi nella realtà di tutti i giorni e comporta la necessità di considerare gli sforzi e i sacrifici che ci sono imposti. Per un certo aspetto la vita appare come una ricerca di questi valori eterni che sono stati vivi ieri e che hanno impresso la loro impronta nei vari momenti, la cui somma forma i secoli. Ma si avverte ancora un passato profondamente differente dal presente. Il mondo ricomincia per ciascun individuo. E quell’ultimo non è mai eguale a se stesso: la vita ricomincia in ciascun momento. Nelle ragioni che tendono a giustificare la vita, sia come continuità (il legame con il passato), sia come divenire, l’uomo si sforza di definire la sua spiritualità e di cogliere l’equilibrio e l’armonia nel fondo della sua anima. Nella misura in cui si concretizza questo risultato resta circoscritta la possibilità di accettare quanto afferma il saggio: basta possedere un giardino e una biblioteca per essere felici. Entrambi sono egualmente insostituibili nella loro funzione. Il giardino e la biblioteca costituiscono un’esigenza unica per coloro che desiderano, almeno, un po’ di fede, ma soprattutto sono in grado di trovarne i presupposti. Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia 3/2008 35 Colligite fragmenta, ne pereant Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia (XI) A cura di Agostino Di Lustro Le Capitolazioni delle Confratenite della Città d’Ischia conservate nell’Archivio di Stato di Napoli III 5) Confraternita di Santa Maria dell’Ortodonico Nella zona Nord-Est del Castello d’Ischia sorge la chiesa detta di Santa Maria dell’Ortodonico. Quando sia stata fondata, non si evince da alcun documento in nostro possesso. Il Notamento di tutti i Beneficii cioè Vescovato, Abbatie, Parrocchie, Dignità, Canonicati….. presentato dal vescovo Innico d’Avalos come relazione ad limina nel 1598, pur descrivendo minuziosamente tutte le chiese, cappelle, benefici e altari esistenti in cattedrale e nella città d’Ischia, non fa alcun cenno a questa chiesa. L’anno successivo 1599, nei Decreta et Constitutiones Sinodales Dioecesanae Isclanae dello stesso vescovo, troviamo un brevissimo accenno a questa chiesa alla pagina 13 nel capitolo dedicato alle processioni. Trattando infatti delle confraternite e della precedenza nelle processioni, dopo aver detto che la precedenza assoluta spetta alla confraternita del Santissimo Sacramento che aveva sede nella chiesa cattedrale, aggiunge che il secondo posto spetta Confraternitati Beatae Mariae de Orthodinico. Dobbiamo notare però che i decreti sinodali del d’Avalos parlano della confraternita e non della chiesa di Santa Maria dell’Ortodonico. È necessario tuttavia aggiungere subito che su questa confraternita non si hanno ulteriori notizie dopo questa data per cui non riusciamo a sapere altro di essa, segno che deve essere scomparsa presto. In un anno non precisato, nella chiesa dell’Ortodonico venne traslata la parrocchia di Santa Barbara, come ci attesta il Notamento degli atti beneficiali della città e diocesi d’Ischia nel quale è citato questo documento: Status et nota reddituum Parochialis Ecclesie Sancte Barbare traslate in Ecclesia Sancte Marie dell’Orto d’Onico intus civitatem de libera collatione folia scripta n. 39 (1). Il vescovo Nicola Antonio Schiaffinati, nella relazione ad limina presentata il 20 giugno 1739, non cita esplicitamente la chiesa dell’Ortodonico, né tampoco la confraternita, ma ne fa cenno indirettamente quando scrive: Altera vero parecia sub titulo Sancte Barbare, et Conceptionis Beate Virginis cui preest unus ex Canonicis Cathedralis Ecclesie, mediocriter instructe reperitur Sacra suppellectile, et concinniorem habet formam, sed neque sacra Eucaristia, neque Sacra olea, sive Fons Baptismalis in ea adsunt; Necessitate tamen urgente Parochus ea desumit a Cattedrali. Parochianos habet qua1) L’annotazione non indica alcuna data. 36 La Rassegna d’Ischia 3/2008 draginta tres cum onere dispensandi pauperibus carolenos vigenti quinque panis quotannis. Allo stesso parroco di Santa Barbara era affidata anche la chiesa di Sancto Nicolao Barensi; seu Sancta Maria de Libera dicata, asseritur esse Parochialis, et est sub cura eiusdem Parochi Sancte Barbare. La Nota dei luoghi pii laicali del 1777 dell’Archivio Diocesano d’Ischia ci fa sapere che: nel circuito di detto castello vi è la cappella, o sia chiesa di Santa Maria della Concezione detta dell’Ortodonico senza aggiungere altro. All’inizio del secolo XIX le chiese del Castello furono chiuse e le loro poche suppellettili furono portate in altre chiese. In tale occasione il quadro della Madonna fu portato nella nuova cattedrale e sistemato nella sacrestia dove è rimasto fino a pochi anni fa. Oggi è conservato nel Museo Diocesano d’Ischia. Si tratta di una tela della Madonna delle Grazie e, dall’atteggiamento della Madonna, si ha l’impressione che debba trattarsi della parte superstite di una tela più grande successivamente tagliata e supportata da una tavola. L’antica chiesa è stata restaurata da pochi anni e inserita nell’itinerario di visita del Castello. In essa è stato sistemato anche un piccolo organo positivo proveniente dall’ormai cadente cappella dei Baldino di Fiaiano. 6) Confraternita o cappella di Santa Maria della Presenza nella chiesa di Santa Maria della Scala di Celsa Un’annotazione del volume 87 del convento di Santa Maria della Scala di Celsa conservato nel fondo Corporazioni Religiose Soppresse dell’Archivio di Stato di Napoli, riportata al foglio 545, ci informa che nel 1494 Bartolomeo Genovese, dimorante nella città d’Ischia nella parrocchia di San Biase, con testamento sottoscritto da ben nove testimoni, dispone che, alla sua morte, venga seppellito nella chiesa di Santa Maria della Scala alla cappella intitolata Santa Maria della Presenza volgarmente detta la Cappella della Fratellanza; item vuole messe trentuno per una sol volta alla detta Cappella ed alla medesima lascia un’onza di carlini d’argento appresso i beni ….sopra una selva, dove si dice… (il vuoto è nel documento) di Colella Canetta, di Galatio Taliecio. Qualche anno dopo, nel 1505, Lucia Barbara d’Ischia, con suo testamento, dispone di essere sepolta nella cappella di San Nicola da Tolentino nella chiesa degli Agostiniani di Celsa e che in detta cappella si celebrino, per una sola volta, messe quaranta. Inoltre dona un terreno ubicato a Cufa appo de beni di Sebastiano Barbosa, degli eredi del fu Magnifico Gaspare, di Giacomo de Implica, alla cappella della Fratellanza posta in Santa Maria della Scala, con obligo d’una messa cantata nel giorno di tutti i Santi, e se detta cappella andasse in altre mani, vuole che detti confrati percepischino i frutti di detta terra e faccino dire detta messa cantata ( vol. 87 ff. 546-547). Da queste due testimonianze siamo informati che questa cappella, della quale non conosciamo neppure l’ubicazione esatta nell’ambito della chiesa del convento agostiniano di Celsa, fosse sede già nel 1494 di una confraternita della quale però non ci viene dato il nome. Mancano altri riferimenti documentari che riguardino la cappella o confraternita, se di vera e propria confraternita si tratta. Se così fosse, questi sarebbero i documenti più antichi in nostro possesso che ci parlano di una confraternita, visto che di altre, anche se la tradizione dice che risalirebbero ad un’epoca anteriore, non vi sono testimonianze documentarie coeve anteriori a queste date. 7) Confraternita di Santa Maria della Pietà nella chiesa di Santa Maria della Scala La prima testimonianza esplicita dell’esistenza di questa confraternita ci viene offerta da alcuni documenti citati nel volume 87 del fondo Corporazioni Religiose Soppresse dell’Archivio di Strato di Napoli. Il 16 settembre 1539 Ursolina Manna di Napoli vidua del fu Antonio Marino, madre e tutrice testamentaria di Panitia Manna, assegna per le doti di detta figlia, moglie di Alfonso Russo, docati trecento su un tenimento, posto nelle pertinenze d’Ischia dove si dice lo Monte di Campagnano, appresso i beni di Marino de Lanfreschi, del Convento di S. Domenico, di Domenico Buono, della chiesa di S. Bartolomeo (sic!), del convento di S. Maria della Scala, via publica per franca eccetto dal peso di tomola tre di grano dovuti alla Confraternita di Santa Maria della Pietà come questo appare da detto istromento. Ma già qualche anno prima nel 1536 ( ibidem f. 34 ) per mano del not. Polidoro Albano del 1536 Margherita di Arzes vidua del fu Damiano de Angelis vende a Marco Antonio Malfitano una casa posta nella città d’Ischa, con orto nella parrocchia di S. Nicola ad esso Damiano venduta da Melchiorre Calcinello, mediante istromento del Notare Giovan Battista Funereo franca eccetto il peso d’annui docati tre dovuti al Convento di Santa Maria Scala, appo i beni dotali di Fraustina Caralce redditizii alla Confraternita di Santa Maria della Pietà. Di Giovanni Prende de Arzes, e via pubblica da due parti per docati ottanta come questo e più chiaramente appare dal detto istromento al quale. Un terzo documento di poco posteriore viene riportato in transunto nel volume 113 dello stesso fondo archivistico sopra più volte citato. Con atto del not. Polidoro Albano d’Ischia dell’11 aprile 1548 con cui Bonaduce Caballo affranca carlini 15 dei 30 da lui dovuti sopra una casa ubicata nella città spettanti alla cappella della Pietà. Infatti Giovan Angelo de Massa del Casale di Moropana d’Ischia vende annui carlini sedeci di censo enphiteutico perpetuo cum protestate affrancandi a Bonaduce Caballo della città d’Ischa per capitale di carlini 16 sopra una terra di capacità di mezzo tumolo in circa sita e posta nel Casale di Morpane juxta li beni di Agostino Conte, li beni di Marino di Massa, di Giulia Ungano, et altri confini, quale Bonaduce detti carlini 16 li gira alli Mastri della Confraternita di Santa Maria della Pietà, che sono il Padre fra Iacono Calise priore del Convento di Santa Maria della Scala, Iacovo Bona, Gaetano, e Marc’Antonio Malfitano mastri e procuratori di detta Confrateria, in parte dell’annuo censo di carlini trenta che detta Confrateria deve sopra una casa di detto Bonaduce, dentro detta città, consistente in più membri nella parrocchia di Santo Vincenzo (sic), juxta l’altri beni di detto Bonaduce, la strada publica da due parte, in parte di detti carlini 30 cede a detta Confrateria per l’affranco di carlini quindici, de quali si obliga pagarli ogn’anno il sodetto Vincenzo Angelo sopra la sodetta terra, come per istromento rogato per mano di Notare Polidoro Albano a 11 aprile 1548, quale ne fa fede Notare Aniello Mancusi d’Ischia, conservatore delle scritture di notar Polidoro. I protocolli del notar Polidoro Albano, del quale abbiamo notizie di atti rogati tra il 29 marzo 1525 (cfr. Corporazioni Religiose Soppresse vol. 87 f. 9) e il 24 dicembre 1566 (ibidem, f. 43 ), e quelli del not. Aniello o, per meglio dire, Giovanni Aniello Mancusi, del quale ho trovato citazioni di atti rogati tra il 9 novembre 1568 ( ibidem, f. 49) e il 2 settembre 1607 (ibidem, f. 88) sono andati perduti. Queste notizie sono le più antiche che possediamo non solo su questa confraternita, ma anche sul culto a Santa Maria della Pietà, titolo mariano affine a quello dell’Addolorata tanto diffuso sulla nostra Isola. C’è da osservare ancora che tra il 1534 e il 1548 è stato vescovo d’Ischia Agostino Pastineo, dell’Ordine dei Servi di Maria, per cui possiamo supporre che abbia favorito lo sviluppo del culto all’Addolorata, tipico dell’ordine monastico di cui faceva parte. L’anno di fondazione della Confraternita della Pietà, che non ha nulla a che vedere con quella omonima di Casamicciola, che sarà fondata all’inzio del secolo XVII, non ci è stato tramandato. La Confraternita aveva sede in una cappella della chiesa del convento di Santa Maria della Scala al quale pagava ogni anno quattro ducati e mezzo per le messe che in essa celebravano i frati agostiniani. Con atto del not. Polidoro Albano del 3 dicembre 1564 (ibidem vol. 119 ff. nn.). Il volume 85 dello stesso fondo, al f. 41 sostiene, invece, che il notaio è Aniello di Francesco. E’ probabile che ci sia qualche errore perché dalle fonti documentarie da me esaminate risulta che del notaio Giovanni Aniello di (o de) Francesco di Napoli, ma commorante in Ischia, ci sono notizie di atti rogati dall’11 agosto 1599 (ibidem vol. 87 f. 153) e il 27 gennaio 1637 (ibidem, f. 224). I protocolli del not. De Francesco nel sec. XVIII erano conservati dagli eredi del not. Aniello Attanasio d’Ischia. Oggi non esistono più). Vicienzo dell’Infrischi, Nicolao Monsignore, et Giovanni Iacono de Fiorenza della città d’Isca a quelli tempi Mastri et Economi della cappella, et Confrateria de Santa Maria della Pietà costrutta dentro Santa Maria della Scala s’obligano pagare allo nostro Convento altri annui docati quattro per la celebrazione di altre due messe la settimana videlicet lunedì, et venerdi in detta Cappella, et pregarsi pro bene fattoribus, pro animabus fratrum et sororum, et pro salute viventium, per quanto a loro potera, et piacera altre l’altri annui docati quattro, e mezzo che li pagavano per la celebrazione di due altre messe, videlicet una la domenica, et una il sabato. I beni della confraternita vennero concessi dalla Città La Rassegna d’Ischia 3/2008 37 al costruendo monastero di monache di Santa Maria della Consolazione per cui il documento continua a descriverci la vicenda della confraternita. E molti anni dall’hora incqua si celebrorno dette messe et il convento doveva conseguire de piu de ducati cento per le dette messe. Per la consequutione delli quali nell’anno 1615 Frate Agostino Recene all’hora collettore, et Procuratore di detto Convento fece convenire nella corte vescovile d’Isca li detti confrati et per essi le Reverende Monache d’Isca a pagarli lo che dovevano che ascendeva alla summa de docati cento per esserno le dette Signore Monache padrone di detta confrateria, et dell’intrate d’esse, assegnatole per subsidio loro, et per possernosi edificare il loro monisterio dentro la città d’Ischa in virtù d’istromento quale si conserva in deposito al numero 51 in carta pergamena; et in virtu de sentenza lata da detta Corte Vescovile se conferma nell’originale processo contro dette Reverende Monache nel nostro deposito numero 70 condennate a pagare tutti li censi decorsi, et in exequtione d’essa furno exequiti due censi di ducati cento de capitale che si dovevano a dette Reverende Monache dal Clerico Gioseppe Agnese et poi furno conceduti ad extinctum candele, et furno comprati da Marino pignatielli tanquam ultimo licitatore, et plus offerente, et ad esso Marino fu estinta la candela quale non avendo denari pro manibus li rinunciò al convento; et cossì è restata detta lite senza farci altro. Il 3 settembre 1575 la Città d‘Ischia concesse la chiesa con la sepoltura e gli altari laterali della cappella della confraternita di Santa Maria della Pietà agli Agostiniani di S. Maria della Scala con tutti i beni che sarebbero stati donati in futuro agli stessi altari, riservandosi solo i beni posseduti o che sarebbero pervenuti in seguito all’altare maggiore.Tale donazione viene fatta a nome dei cittadini e dell’Università. Ci si potrebbe chiedere perché sia l’Università a disporre tale donazione. C’è da presumere che la confraternita appartenesse alla Città d’Ischia, anche se non lo si legge esplicitamente in nessuna delle fonti documentarie a mia conoscenza. Le entrate della confraternita erano state concesse alle Monache dell’erigendo monastero di S. Maria della Consolazione per cui si deve pensare che presto la confraternita scomparve definitivamente. Cessione dei beni a beneficio del convento di Santa Maria della Scala Archivio di Stato di Napoli Corporazioni Religiose Soppresse Fascio 119 - Quinterno non numerato Primo foglio recto A 13 settembre 1575 Nel Borgo di Celsa della Città d’Ischia a detto di nella presenza di detti Illustrissimi constituti personalmente li Magnifici Giovanni Antonio Pesce Sindico et Eletto della città di Ischia con li predetti collega per questo presente anno il Magnifico Antonio Scotto similmente eletto et ancora et Carlo Melluso, et Colella Canetta et sei consiglieri et deputati ancora in detto predetto anno agenti et intervenienti nell’infrascritti nomine per la causa nello soprascritto istromento contenuto da una parte et l’infrascritti nomine come persona pubblica per ragione del suo officio interveniente 38 La Rassegna d’Ischia 3/2008 all’infrascripta omnia et singola in nome e parte del Padre Priore e frati et loro successori del Venerabile Convento di Santa Maria della Scala seu di Santo Agostino e per essi frati imperpetuum et dal altra parte li prefati Magnifici Giovanni Antonio Pesce, e li predetti Colella, et Carlo in nome ut supra sponte asserirno avante di essi et esso nomine pubblico ut supra nomine audiente et intelligente come li giorni passati et proprio hieri 12 del detto mese di settembre in publico testimonij Il Magnifico Antonio Scotto in nome ut supra de’ Magnifici Deputati, et consiglieri radunato et chiamato il Popolo, ed cittadini seu la maggior parte della Città d’Ischia, fra l’altre proposte, proposero detti Magnifici eletti e consiglieri, nella porta della Città predetta loco solito et consueto similmente proposero di donare e concedere a detto convento e frati successori in esso in perpetuo la cappella l’altare et tumulo seu sepoltura di Santa Maria della Pietà et Confraternita, nella chiesa predetta, et ogni ragione in essi habendi, et detti Citatini et Università competente, etiam di possere vendere alienare locare disponere a loro arbitrio et volontà videlicet essi frati per utilità di detto convento et di essi frati presenti e futuri, con questa declaratione, che l’entrate et ligati o in qualsivoglia modo per qualsivoglia altra donatione a devozione delli detti altari e cappelle ut supra donate diano di detto Convento, et frati, quello che fusse donato et lassato all’altare maggiore della detta Confraternita de Santa Maria della Pietà sia di detta Confraternità e non di detto convento e frati, et altre cose contente nella proposizione fatta et apparente nel sopra detto scritto in strumento et così fu pari voto concluso pro ut donaverunt ditti magnifici eletti e deputati seu consiglieri et altri citatini la presenti con nessuna altra clausola et patti, detto convento e frati predetti pro ut questo et altro chiaramente appare da detto publico istromento rogato per mano di detto notare nella Città d’Ischa a detto di 12 del presente mese di settembre 1575 al quale si habbia ragione in virtù del sudetto Instromento di detti magnifici Eletti, e Consiglieri et deputati promisero de rato per essi predetti Magnifici Giovanni Antonio Pesce Colella Canetta Carlo Melluso et Nicola Giovanni Caldaia quale ratificorno il sopradetto instromento del sodetto tenore d’esso quali personalmente si obligorno in nomine di detta Università di osservare quanto si contiene in detto instromento conforme nel sopra scritto instromento contiene quibus sic assertis quali Magnifici Giovanni Antonio Pesce Colella Canetta e Carlo Melluso in nomine ut supra cerziorati et pienamente informati per essi, che dissero del sopra detto scritto instromento, quanto si contiene in esso ad essi letto propria vulgari rata per il sudetto nome il sopra detto scritto instrumento parola per parola etiam informati per persone dotte come dissero delle ragioni si come ad essi piace, in nomine ut supra sponte detto giorno avante di detto nome et testimonij non per forza, ma per ogni miglior via, volendo la predetta promessione per li sodetti magnifici eletti et altri deputati et citatini fatta et attendere adempire et osservare quanto si contiene al sudetto scritto instromento di donatione fatta a detto convento e quanto in esso instromento si contiene ratificorno et accettorno et ratificorno detti Magnifici Colella Carlo et Giovanni Antonio ut supra donorno cessero et donono et cedeono ad essi frati et convento et loro successori in esso le dette cappelle sepolture et altari ut supra scritto instromento si contiene nomine predetti frati assenti e detto nomine publico presente quali eletti e deputati seu consiglieri si obligorno in nomine ut supra tutti li loro beni mobilia stabili presenti e futuri in nome di detta citta promettendono la defensione et avvittione generale et particolare et promettono non venir meno a quanto si contiene nel sudetto instromento alla sopradetta pena scritta nel sodetto instromento rogato per mano di notare felippo Casdia di Ischa a 12 di settembre 1575. Foglio secondo recto Nel anno 1575 a 12 di settembre nella Città d’Ischa e proprio nella porta dove si dice il corpo di guardia per instromento rogato per mano di Notare Filippo Casdia di detta Città di Isca appare come avante a presenza d’esso notare e testimoni radunati et chiamati in unum per chiamata fatta per Pietro Assante ordinario sergente della Corte del Magnifico Capitanio di Ischa videlicet il Magnifico Antonio Scotto di detta Città eletto et Sindico per il presente anno, tanto per se quanto in nome e parte del magnifico Giovanni Antonio Pesce della medesima città, Notare Gasparro de Ruggiero, Prospero Melluso, Giovanni Geronimo Meglio, et ancora il Magnifico Vincenzo di Infrischo in luogo e parte del Magnifico Colella Canetta Magnifico Vincenzo di Afflitto in luoco e parte dei magnifici Carlo Melluso, et Magnifico Giovanni Geronimo fonerio in loco e parte de Magnifico Giovanni Baldaja similmente deputati in luogo et parte di Colella Carlo et Nicola Giovanni absenti per li quali promisero ratificare il presente contratto, et ogni cosa in esso contenuto, nel qual luoco radunati per il reggimento e governo di detta Città et delli infrascritti altri Cittadini nobili persone videlicet Berlingiero di Crescienzo magnifico Geronimo Malfitano, Mario di Meglio, Giovanni Antonio Mele, Giovanni Berardino ferrario, magnifico Giovanni Lombardo, Cacicco Mascolo, Giovanni Giacomo di Fiorenza, Giovanni Michele Canetta, fabritio, Giovanni Camillo franzese, Andrea di cioffa, Cola Giovanni Iondo, Antonio Calabrese, Magnifico Marco de meglio debono, Dato di Besogno, magnifico Geronimo Mazzella, lutio peruto, federico Albano, Francesco dello Ruzzo, Annibale Guarino, Giovanni Matteo de Capece, Prospero di Lorenzo, Cesare d’Infrischo, Geronimo Santo mano, Michele Mascolo, Francesco loijsa, Giovanni Berardino di Meglio, Giulio Cesare Melluso, Martino Bonino, Magnifico Gratiuso foglia di Gifuni, Cipriano di Ischa, Notare Giulio Cesare Roncione, Cola Giovanni Gattola, fabritio Vitale, et Cesare Basso, facendo la maggior e minor parte di detti cittadini di detta Università in nome di tutta l’Università radunati et chiamati in unum ut supra, nel predetto luogo della porta, per gli negozi publici, soliti et consueti dove si sogliono congregare ad honore di Dio onnipotente, fedeltà e servitio della Regia Maestà et fra l’altre signanter per l’infrascritto atto facendo loro, et more solito et consueto per cautela, con autorità, et beneplacito del Illustrissimo Signor Oratio Tutta villa Regio Governatore di detta Città et Isola d’Ischa ibidem presente et suo assenso consenso, autorita et beneplacito prestando, il quale Magnifico Antonio Scotto eletto in nome ut supra avante d’essi et tutti l’altri predetti consiglieri deputati et tutti l’infrascritti Cittadini fra l’altra per essi proposte proposero, narrorno in questo sudetto videlicet in vulgare parlando Signori le signorie vostre sperando come la Cappella della confraternita posta nel Borgo di Celsa sotto il titolo di Santa Maria della Pietà in essa accomodata di fabrica e de miglior modo, et ci sono alcuni luochi di possernosi edificare alcuni altari in la detta cappella alli luochi dove erano primo per diroccarli alle cappelle, per che l’entrate che tiene detta Cappella di detta Confraternita, sono girate de assignate per subsidio delle Monache del Monistero, che se ha da costruire dentro la Città et per evitar ogn’altra cosa che potesse succedere, et acciò, che nesciuno se potesse appatronare li detti altari in la ecclesia della Confraternita li per meglio lasciar li detti luochi de altari e sepolture, et cappelle e donarle allo convento e frati di Santo Augustino seu Santa Maria della Scala posta nel borgo di Celsa, essendoci frati et figlioli di questa Città, et per altri degni et giusti rispetti, che da mo se li debbano donare, et assegnare e detti frati presenti et per li successori, che siano in loro potestà, dare vendere et donar, et assegnare a chi li rare fa per utilità del Convento e frati predetti dette Cappelle, luochi et altari edificandi e conficiendi, et sepolture predette con questa dichiarazione, che resta l’intrante lasciate, et legati o qualsivoglia cosa che fosse donata ad devozione delli altari predetti reffarando et edificarrando in detta cappella della detta Confraternita Verso Siano dello detto convento e frati presenti e successori, et che da hoggi avante siano in dominio et patrone dello detto convento, et frati predetti li detti luochi, altari e sepolture, ogni tempo futuro, avessero e tenessero e che detta Università, et uomini futuri e successori in detta Citta, e Borgo confrati, che in detta Confrataria sono et in futuro fossero, e sarando non habbiano da fare ne debbiano attione alcuna ut supra di luoghi, altari che se edificheranno, alle sepolture, all’intrate, che in futurum tenessero et quomodocumque fossero lasciate, et donate, ma penitus detti eletti et deputati, et altri cittadini e confrati presenti e futuri, et justa detta Università ne siano spoliati et privati di detti luochi, altari, entrate che tenessero in futuro da oggi avanti, et sepolture da hoggi avante, con questa declaratione ancora, che essendo lasciata o donata alcuna entrata allo altare maggiore alla detta Cappella della Confraternità e non di detto Convento, e frati, e che detti frati di detto convento non se ce habbiano intromettere inpacciar in cos’alcuna, così non se ne sono impacciati, ne intromessi all’altre robbe, et entrate di detta cappella et confraternità per lo tempo passato. Questo è il parer nostro et de Antonio Scotto eletto ut supra et così propongono ogn’uno delle signorie Vostre deputati, et altri nobili Cittadini e qua convocati et coadunati habbiate da dir l’intentione et parer vostro come meglio li parerà. Il quale Signor Governatore deputati, et altri introscritti Cittadini hanno resposto e detto, che è bene quanto s’è esposto a detto per lo Magnifico Antonio Scotto in la preposta fatta per lo detto Magnifico Antonio Sindico et eletto ut supra Replicano e dicono et se contentono relassar allo detto Convento, e frati di Santa Maria della Scala presenti e futuri li detti luochi di altari conficiendi e che si farando edificarando e cappelle in la detta cappella della confraternita predetta con le dette sepolture costrutte, con tutte l’intrate, che fussero lasciate, et donati ad essi altari da hoggi avanti eccetto e riservato quelle entrate, che fussero lasciate all’altare maggiore della detta cappella e confraternita, sia della detta cappella e confraternita, conforme alla proposta fatta per lo detto magnifico Antonio Scotto et cossi volemo et ce contentamo, et sic omnes predicti eletti et deputati seu consiglieri, La Rassegna d’Ischia 3/2008 39 et altri supradetti cittadini di paro voto nessuno discrepante dissero e conclusero volgarmente parlando videlicet donandoli li detti luochi de altari et sepolture, che se farando in detta cappella de Confraternita et ogni Entrata, che li fusse lasciata da hoggi avante, et quanto li fusse donato per la devozione delli altari e cappelle predette infuturum sia delli frati e successori di detto convento et si e fatta conclusione predetta fra detto Signor Governatore, eletti e consiglieri et altri cittadini tutti convenienti avanti di detto Notare e Testimoni et nunc pro tunc et e contra ogni futuro tempo moto proprio donorno donatione titulo irrevocabile inter vivos per fustem assignaverunt li sodetti luochi conficiendi di detti altari conficiendi da edificarsi e fabbricandosi le cappelle in detta cappella con sepolture sistenti e conficiendi per detto convento et frati et successori esso nomine publico come persona publica per loro ragioni e suo officio ibidem consentiendi recipiendi et stipulandi juxta la propria positione fatta ita quod detti luochi d’altari e fabbrica edificandi ut supra con sepolture predette e detti eletti deputati consiglieri e cittadini presenti prenominati promisero non se intromettere ne fare intromettere, in nessun modo nel altari predetti nelle cappelle di detta cappella; edificande ne le sepolture predette et entrate di esse in nessun tempo ma sono esclusi e spogliati prout sponte non vi dolo nomine proprio in nomine ut supra essi stessi si escludono si spogliono, et pongono li sodetti frati e successori in detto con- La vento siano in possessione et dominio et proprietate di dette cappelle altari e sepolture, ne posseno disponere conforme l’entrate et beni di detto convento, con dette condittioni et declarattione e proposittione che essendo fatto lascito o legato o donatione al altare maggiorre della detta confraternità sia dello detto altare e confratarnità, e non del detto convento et frati et promettono detti eletti e cittadini non venir meno a quanto si contiene in nessun modo non revocare ne fare revocare et non venir meno per qualsivoglia causa juxta vel injusta, et tenere detta donatione sempre ferma et vera prometteno non venir Terzo foglio recto meno per qualsivoglia causa et detta donatione esse fatte con tutte le clausole necessarie in qualsivoglia modo et forma e detti eletti e consiglieri promettono in nomine di detta Università non venir meno, et obbligano tutti li beni di detta Università presenti e futuri in qualsivogliano luochi et entrate, non servando nessuno jus raggione et prometteno non venir meno alla pena di onze cinquanta la mettà alla Corte dove serando convenuti, et l’altra in beneficio della parte lesa come questo et altro appare dal instromento rogato per mano di detto Filippo Casdia d’Ischia di et anno ut supra quale si conserva in nostro archivio in carta di pecora folio n. 60 campione vecchio folio 40 n. 50. Primavera dell’Europa 2008 Agostino Di Lustro aperta a tutte le scuole La Primavera dell’Europa è un evento annuale che invita le scuole a dedicare uno o più giorni del loro calendario per organizzare eventi focalizzati sul dibattito, l’interazione e la riflessione su temi legati all’Europa. La Primavera dell’Europa rappresenta per i giovani un’opportunità per esprimere i loro punti di vista e per rendere manifeste le loro voci in Europa. L’edizione 2008 va dal 25 marzo al 30 giugno, con un particolare punto di attenzione il 9 maggio, quando viene celebrata la Giornata dell’Europa. La campagna gira intorno al motto “Unire le culture mediante il dialogo” e si unisce all’iniziativa dell’Anno Europeo del Dialogo Interculturale. La campagna ha la finalità di accrescere la consapevolezza della diversità culturale tra i giovani, come risorsa fondamentale nella nostra comune eredità culturale europea. La manifestazione è aperta a tutte le scuole dell’infanzia, alle primarie e a quelle secondarie di primo e secondo grado, alle scuole professionali e a quelle per alunni con bisogni speciali, d’Europa e del resto del mondo. È anche aperta a lezioni tenute da organizzazioni preposte ad attività extracurriculari le cui finalità siano lo sviluppo e il potenziamento di abilità in linea con il curriculum scolastico. La Commissione Europea e European Schoolnet invitano le scuole a registrarsi o a confermare le iscrizioni passate sul portale web, che è disponibile in 23 lingue. Alle scuole iscritte verrà fornito un supporto per la preparazione delle loro stesse attività e iniziative previste per una realizzazione a livello locale, nazionale ed europeo. Il team della Primavera dell’Europa incoraggerà e faciliterà, sia a livello centrale che nazionale, visite nelle scuole da parte di figure pubbliche locali, nazionali ed europee. Tali visite costituiscono l’opportunità di discutere sugli ultimi sviluppi dell’Unione Europea e sui temi correlati e di fare sentire le voci dei giovani europei ai rappresentanti degli organi decisionali. La campagna è sostenuta dai ministeri dell’educazione dei 27 stati membri. È gestita da un team composto da un gruppo di esperti di European Schoolnet, da un gruppo che garantisce le relazioni nazionali, nominato dai vari ministeri dell’educazione e da un gruppo di insegnanti consulenti. La Primavera dell’Europa fu lanciata per la prima volta nel 2002 come campagna allo scopo di: Accrescere la consapevolezza sull’Unione Europea, i suoi cittadini e le istituzioni correlate; promuovere a scuola un’educazione alla cittadinanza europea attraverso attività curriculari tradizionali e legate all’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). 40 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Note linguistiche - La metafonia della “a” tonica Isola d’Ischia - Procida - Torre del Greco di Salvatore Argenziano «… il villaggio di Fontana, il più alto dell’isola. Esso, insieme con la vicina Serrara e con le frazioni di Socchivo, Sant’Angelo, Ciglio, Calimera, forma un comune di circa 2260 abitanti». Così scrive la signorina Ilse Freund del suo soggiorno a Ischia, durante l’autunno del 1929. Tre mesi trascorsi nella ristretta comunità di quelle due frazioni, Serrara e Fontana. Non il grand-tour del sud, a visitare règge favolose e antiche città dissepolte. Tre mesi in compagnia della sessantottenne levatrice Brigida, «la mia affabulatrice», della undicenne Giuseppina «particolarmente intelligente, esperta di fonetica», del parroco don Mario, dell’insegnante Stefano e di tanti «cari amici di Serrara Fontana». La ventitreenne Ilse interroga, ascolta, annota tutto con il rigore scientifico del ricercatore di stampo teutonico. Prepara la sua ricerca su un dialetto non ancora contaminato dalla lingua napoletana, in un villaggio arroccato sotto la cima dell’Epomeo, dove sono «bionde molte donne che potrebbero passare per contadine tedesche o svizzere», dove da appena due anni c’è la luce elettrica, dove «le donne anziane filano ancora… ma le giovani… si comprano nella Napoli moderna la biancheria». In questo contesto sociale Ilse Freund riesce a estrarre quanto di più antico c’è ancora nel linguaggio, nella parlata, nella espressività morfologica, ormai in via di estinzione. Nel novembre del 1932 Ilse Freund presenta la sua tesi di dottorato all’Università di Tübingen “Beiträge zur Mundart von Ischia”/ “Contributo al dialetto di Ischia”, pubblicata in versione italiana (curata dal prof. Nicola Luongo) ultimamente da La Rassegna d’Ischia. Relatore il professore Gerhard Rohlfs, già famoso per i suoi studi su i dialetti dell’Italia meridionale. Del lavoro di Ilse Freund non sono in grado di parlarne per chiara incompetenza linguistica. Nunn è arte meia e nun me voglio mettere a fá u scenziato. Ma colgo dalle prime pagine qualche cosa che mi interessa e che mi riporta alle mie stroppole sul dialetto torrese (L’ottava vocale - v. riquadro a p. 43) e sul dialetto procidano (Peggio pe lloro - v. riquadro a p. 42). Vocalismo - Vocali accentate a in ogni posizione davanti alle finali ī, ŭ > ę La forma di scrittura del lavoro è estremamente sintetica e cerco di esplicitare alla mia maniera, anche per chiarire (a me stesso) la simbologia fonetica. In sostanza la Freund rileva che la vocale /a/, in sillaba tonica, quando nella sua derivazione etimologica è preceduta dalla /i/ lunga o dalla /u/ breve, si muta in una /è/ dal suono aperto. Non si parla d’altro che di metafonia, fenomeno studiato con molto interesse ed estremo rigore dagli studiosi della lingua italiana ed anche napoletana in presenza di / i / lunga e di / u / breve ma, per questi, limitatamente a quanto attiene alle vocali toniche /e/ (lat. pèdi, it. pièdi, nap. piéri) e /o/ (lat. bonu, it. buòno, nap. buóno). Femminile cucchiàra cainàta cecàta fràte iànca pignàta tiàna Torre Procida1 cucchiáro caináto cainèto cántaro cecáto cechèto fráti iánco máfaro máno mántice márterì pignáto tiáno tumpágno Forme Verbali Napoletano Torre Tu tràse Tu fàie Tu vàie Tu sàpe Vuie jàte tu trási tu fáie tu váie tu sápi vuie játe Serrara cucchière caienète chèndere cechète frète iènco mèfere mène mèndece mèrtelì pignète tiène tumbègne Serrara tu trèse2 tu fèie tu vèie tu sèpe vuie jète Tra le anomalie messe in evidenza dall’autrice c’è la pronuncia della parola capa3 > caput, testa. Ci si aspetterebbe chèpe ma la pronuncia resta con la /a/ tonica. A questo proposito cita il dialetto di Monte di Procida per il quale la pronuncia è chèpe 4. 1 Da Vefio di Vittorio Parascandolo. 2 Seconda persona singolare dell’indicativo dei verbi della prima coniugazione. 3 In torrese la pronuncia di cápa è con la á chiusa. Non tragga in inganno la desinenza /a/ e il fatto che il termine sia femminile. Per la pronuncia della á tonica è determinante la discendenza da caput. 4 Ricordiamo che nel dialetto di Monte di Procida scrive il poeta Michele Sovente, per il quale l’infinito in –are si pronuncia –ò, fare > fò, il parlare > u pparlò. La Rassegna d’Ischia 3/2008 41 - Pronto. - Ciao, Antonio. Eri fuori? - No, scusami. Stévo nt’u bágno. (La /á/ di bágno ha suono chiuso). Così mi rispose al telefono un carissimo amico torrese, uno dei tanti iniziali sostenitori della insussistenza della pronuncia chiusa della /a/, quel suono cupo che per alcuni diventa /o/. Nun te preoccupò, diceva mio figlio bambino, facendo affettuosamente il verso alla nonna. Antonio diceva che solo quelli di “vasciammare” pronunciavano quella /a/ cupa, chiusa della quale io mi affannavo a dimostrare l’esistenza nel dialetto torrese. Ma non era l’unico. Aniello era di vasciammare e aveva negozio in piazza e quotidianamente parlava in torrese. Quando gli parlai di “pàzza” e “pázzo”, di “màzza” e “mázzo”, mi disse, meravigliato, che era vero ma lui prima non l’aveva mai notato. I torresi veraci, però, non erano gli unici a non percepirne la differenza grammaticale. Un illustre studioso della lingua napoletana, che aveva esercitato la professione di medico della mutua a Torre, mi disse che in tanti anni non aveva mai notato questa differenza fonetica nei suoi assistiti di ceto popolare. Lo stesso mi disse un noto linguista e divulgatore della lingua napoletana che a Torre aveva frequentato il liceo. L’elenco potrebbe continuare, tra increduli e meravigliati. Credo che la ragione sia da ricercare nella inesistenza di questa pronuncia nell’alfabeto napoletano e anche italiano. Possibile che questa trasformazione della /a/ si fosse avuta solo nella parlata torrese? Ma ho qualche dubbio dato il valore morfologico di questa pronuncia. Il fatto di denotare il maschile dal femminile mi porta a ipotizzare una origine più antica. Ma perché solo a Torre? Questa ipotesi è totalmente gratuita o conseguenza della mia ignoranza della linguistica meridionale? Poi conobbi il poeta Michele Sovente che di linguistica non vuole parlare. Questa /a/ che nella sua poesia diventa /o/ rievoca atmosfere ataviche. Suoni ritenuti popolari e sguaiati, misconosciuti dai suoi concittadini di Cappella, fino a quando la sua poesia non riceve gli alti riconoscimenti internazionali. E Sovente mi racconta delle prime sue esperienze poetiche con la lingua di Cappella. “Mi dicevano - ma che vai scrivendo? -, quando all’inizio adottai questo linguaggio, quasi vergognandosi della divulgazione di quello che ritenevano un paesano difetto di pronuncia”. Un altro prezioso contributo di confronto nell’analisi della /á/ chiusa torrese mi giunge dalla lettura di un documentato testo sul dialetto di Forio d’Ischia 5. Da questo traggo altri esempi di trasformazione metafonetica della vocale tonica / a /, nella coniugazione dei verbi, già messa in evidenza anche per il dialetto torrese. Le difficoltà incontrate a dimostrare questa particolare pronuncia sono dovute alla inconsueta articolazione fonetica della / á / chiusa. L’esistenza di questo suono, però, non era completamente ignorato dai linguisti. Il 5 Il testo in esame è Guida Grammaticale del Dialetto Foriano Letterario di Giovanni Castagna, edizione La Rassegna d’Ischia, 1980. 42 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Poi ancora un’amica di origine procidana mi regalò “Vefio” di Vittorio Parascandolo. Mi fermo alle prime pagine. Abbabbiéto, maschile. Abbabbiàta, femminile. Abbaschéto, maschile. Abbascàta, femminile. Abbunéto, maschile. Abbunàta, femminile. Non occorre andare oltre. È così per tutte le trecento pagine della bellissima raccolta di Parascandolo. Questa è una evidente variazione morfologica tra maschile e femminile derivante dalla trasformazione metafonetica della sillaba tonica. Una trasformazione che a Torre porta alla /á/ chiusa e a Procida alla /è/. Certamente non è il caso di trarre conclusioni, data la limitata elencazione di esempi ma... e se questa fosse stata una caratteristica antica delle lingue meridionali? E se anche il napoletano avesse avuto in origine questa particolarità grammaticale? Sostenerlo oggi, senza documenti sonori, è impossibile come d’altra parte è difficile dimostrare il contrario. Forse i parlanti stessi, in passato, come accade oggi, potrebbero non aver percepito questa differenza di suono e non averne fatto riferimento. Forse un osservatore esterno l’avrebbe potuto notare. Leggendo l’estratto su “La Lingua Napoletana” dal “Voyage dans le royaume de Naples” del francese Jean-Jacques Bouchard (Parigi, 1606. Roma 1641), nella traduzione di Amedeo Messina per l’Istituto Linguistico Campano, mi colpiscono due osservazioni dello studioso francese, a proposito della pronuncia del napoletano: “In primo luogo la gola, in fondo alla quale fanno nascere e trattengono la voce soprattutto sulla a, in modo che il parlare sembra un gargarismo. .... La loro a è lunga, ma oscura, pronunciata com’essa è dalla gola...”. Che cosa di particolare avrà sentito lo straniero in quella pronuncia? Certo che, se la lingua napoletana, nel suo secolare processo di toscanizzazione, avesse perduto anche questa particolarità morfologica, non potremmo che rammaricarci. Se così fosse, i napoletani avrebbero abbandonato l’uso di una ottava vocale cupa, un po’ cafona, guadagnandone in eleganza musicale ma certamente perdendo qualche cosa in ricchezza espressiva. Peggio pe lloro. Salvatore Argenziano professore Nicola De Blasi ne mette in evidenza la particolarità: “esiste anche una / a / posteriore pronunciata come un suono velarizzato che tende quasi a un suono intermedio tra / à / e /ò /” 6. Ad esempio della metafonia sulla tonica / a /, riporto alcuni casi di forme verbali del dialetto torrese e di quello di Forio d’Ischia. continua a pagina 44 6 Nicola De Blasi – Luigi Imperatore: Il Napoletano parlato e Scritto. Che questo suono velarizzato della / á / fosse poco noto, ne ebbi la prova parlandone con Luigi Imperatore. Per alcuni anni Imperatore era stato medico della mutua degli agricoltori a Torre del Greco e mi disse di non avere mai notata quella pronuncia. L’ottava vocale dell’alfabeto torrese - La scala fonetica delle vocali della parlata torrese comprende otto suoni vocalici e non sette come per la scala vocalica italiana e napoletana. La fondamentale è la /à/, la vocale più aperta e centrale. La progressione è la seguente: i é è à á ò ó u -i-, -é-, -è-, -à-, -á-, -ò-, -ó-, -u Le vocali estreme, -i-, -u-, sono deboli. Le altre sono forti. Nella scala fonetica delle vocali, la fondamentale è la /à/. Attraverso crescenti interventi articolatori della bocca si hanno le varietà “anteriori” (da /a/ verso /è/ /é/ e poi /i/), e “posteriori” (da /à/ verso /á/ e poi /ò/ /ó/ e /u/), con successive chiusure. La pronuncia della vocale /a/ può essere: aperta come in a càsa, a màmma, a sàcca; o chiusa: u sácco, u cárro. Per la rappresentazione fonetica indichiamo questa variante chiusa col simbolo /á/ quando la vocale appartiene ad una sillaba tonica. Negli altri casi la indicheremo con il simbolo /ä/. Beninteso che questa doppia grafia è assolutamente da escludere nello scrivere al di fuori di un contesto esplicativo della fonia delle parole. Nella simbologia dell’Associazione fonetica internazionale, questo suono è simile a quello rappresentato dal simbolo [ə]. In inglese corrisponde alla pronuncia di /ar/ di sugar, oppure /er/ di mother, ecc. Questa particolare pronuncia chiusa della /á/ non si riscontra nell’alfabeto italiano ed è poco comune anche nella lingua napoletana, ma non nelle parlate della provincia. Si ottiene impostando la bocca per la pronuncia di /a/ e chiudendola leggermente, verso la pronuncia di /o/. Qualcuno arriva anche a pronunciarla /o/ (vieni accà, pronunciato vieni accò). Questa estrema pronuncia della /á/ chiusa si ritrova spesso nei versi del poeta Michele Sovente di Cappella (NA). Da notare che la /a/ nelle parole di genere femminile è normalmente aperta: a càsa, a sàcca, a scafaréa. È chiusa nelle parole di genere maschile: u tárálláro, u márenáro. La trasformazione da aperta a chiusa costituisce elemento di distinzione tra femminile e maschile: a bancarèlla, u báncáriéllo, – a carósa, u cäruso; a pazza, u pázzo. *Nel corpo della parola raramente la /a/ è muta. *In fine di parola è muta, a cas(a) ma non quando è seguita da consonante a casa nost(a). La vocale -á-, pronuncia chiusa (tra la -a- e la -ò-), diversa dalla –à- aperta, si ritrova nella lingua (o dialetto) torrese come suono distintivo di variazioni grammaticali. La variante fonica della -á- può avere valore sia nella distinzione di alcune parole di significato diverso, sia nella variazione del genere femminile/maschile e singolare/plurale ed anche nella coniugazione verbale. In sostanza la -á- chiusa o grave non costituisce, come spesso ritenuto, una corruzione popolare e paesano della pronuncia ma un vero e, proprio mezzo di distinzione grammaticale. Per noi ragazzi di “vasciammare” a Torre, i napoletani erano quelli che parlavano a bocca aperta. Napulitaaa, mangiapataaa (razzismo strapaesano). Alcuni esempi serviranno a illustrare il concetto. I due vocaboli sacca e sacco (tasca e sacco) per la pronuncia indistinta delle vocali -a- ed -o- finali, risulterebbero distinguibili solo se in presenza di articolo (u sacco, a sacca) oppure dal contesto del discorso. Il torrese pronuncia diversamente la -a-, per cui il sacco suona sácc(o) e la tasca suona sàcc(a). Lo stesso discorso vale per mazza e mázzo (bastone e sedere); pacca e pácco; bancarella, con tutte le -a- aperte, e bäncäriéllo, dove la chiusura si estende a tutte le -a- della parola. L’origine di questo fenomeno potrebbe ricercarsi nella presenza dell’articolo -u-, anticamente -lu-, vocale chiusa, pronunciata a bocca anteriormente chiusa, il che condizionerebbe la pronuncia chiusa della -á- successiva. Così la presenza dell’articolo femminile -a-, vocale aperta che richiede l’apertura della bocca, lasciandola aperta per la pronuncia successiva. Queste sono illazioni da dimostrare, anche perché il napoletano dice ‘o sacco ed anche nu sacco, -a- aperta, nonostante la presenza della –u di nu. La presenza della “u” quale determinante della “á” chiusa è in contrasto con alcune parole maschili con pronuncia aperta: u càne, u ppàne, u pàte, u fràte, u bàrr, u ccàfè ecc. Pertanto possiamo ricondurre la variante /á/ ad un vero fenomeno di metafonia (alterazione di una vocale sotto l’influenza di una vocale precedente, normalmente finale di parola), che è presente quando la desinenza finale è la /o/ oppure la /i/ ed assente con le desinenze /a/ ed /e/. A questo proposito si noti che quelle parole che conservano la “a” aperta al singolare, la richiedono chiusa al plurale. U càne, i cáni; u pàte, i páti; u fràte, i fráti. Questa trasformazione grammaticale metafonetica suggerisce, anzi pretende, la grafia storica del napoletano, con la “i” finale, suono indistinto per il plurale, e anche nella coniugazione dei verbi, ove occorre. Spesso leggo “e” finale di parole, quando il suono è indistinto, a prescindere dalla esatta derivazione grammaticale. Ancora noto differenza di pronuncia, distintive di significati diversi per u bànco, il banco di scuola e u bánco, quale banco di lavoro da cui báncone, Bánco ’i Napule e bäncäriéllo. Lo stesso fenomeno si riscontra nel passaggio femminile/ maschile. Bianco è jánco al maschile e jànca al femminile. E così chiátto e chiàtta, pázzo e pàzza, ncäzzáto e ncazzàta. Per quanto attiene alla coniugazione dei verbi, si noti che per i verbi della prima coniugazione, desinenza -are- l’elisione di -re- che comporta l’accentazione fonica (apostrofo) della -a- finale, presenta già la pronuncia in -/á/-: truvá, mangiá, parlá, ecc. Quando il verbo è sostantivato, anche le altre -adella parola si chiudono in -á-. U ppärlá, u mmängiá, per la presenza (forse) dell’articolo -u-. Prendiamo in esame la coniugazione del presente indicativo del verbo parlare. Io pàrlo, -a- aperta. Tu párli, -á- chiusa. Isso pàrla, ancora -a- aperta. Nuje parlàmmo, vuje pärláte, loro pàrlano. La seconda persona singolare potrebbe essere influenzata dalla presenza di -u- del pronome tu. Non è chiaro perché la prima e la seconda plurale siano diverse, dopo la presenza di nuje e vuje che hanno le stesse vocali. Forse l’influenza è da ricercarsi solo nelle desinenze verbali, come fenomeno di metafonia, come avviene nei verbi in -ere- della seconda coniugazione (io cóso, tu cusi ecc.). In conclusione ritengo che lo studio di questo fenomeno possa avere un certo interesse, come evoluzione del parlare napoletano e non quale retrocessione popolare e provinciale dello stesso. Pertanto passo la palla a chi se ne intende. Salvatore Argenziano La Rassegna d’Ischia 3/2008 43 Napoletano Tu ràtte Vuie rattàte Tu sbàtte Torrese tu rátti vuie rattáte tu sbátti t Foriano tu rètte vuie rattète u sbètte Formazione del maschile dal femminile con tonica / a /. Femminile Torrese Foriano Nnammuràta Cumpàgna Marenàra nnammuráto nnammurète cumpágno cumpègne marenáro marenèro In sostanza, quanto è risultato sempre evidente ai linguisti a proposito della trasformazione fonetica della / a / 7 lì dove la trasformazione conduceva ad una chiara pronuncia della / è /, non è mai stato messo in chiara evidenza per l’area dialettale torrese, data la inusuale pronuncia della / á / chiusa, quella / á / cafona che anche i torresi fanno fatica a riconoscere e, qualche volta, ma solo per qualcuno, ad ammetterne l’esistenza. Salvatore Argenziano 7 Rosanna Sornicola - La variazione dialettale nell’area costiera napoletana: il progetto di un Archivio di testi dialettali parlati. Alcuni fenomeni dialettali che caratterizzano l’area flegrea e relative isole: Palatalizzazione di /a/ tonica, di natura metafonetica: rèccio ‘braccio’, mangièto ‘mangiato’. Questo fenomeno caratterizza Procida e i comuni ischitani considerati, ma è documentato anche per Pozzuoli da Rohlfs I, § 22/13. ABANO TERME - Higan / L’altra Sponda del Fiume Manifestazione Culturale sulle Arti e Tradizioni dell’estremo Oriente Concluso con grande successo di pubblico e critica l’evento Higan 2007, è pronto il progetto di Higan 2009, ampliato sia in termini di offerta culturale che di spazi espositivi, che si presenta ad Abano Terme con due appuntamenti di avvicinamento all’evento del prossimo anno, al fine di anticipare al pubblico le grandi tematiche che verranno trattate. Per creare una linea di continuità tra Higan 2007 e il grande evento che sarà Higan 2009, gli organizzatori hanno deciso di articolare un percorso di avvicinamento a tale data sostanziato in due appuntamenti che verranno realizzati tra maggio e giugno nella città termale di Abano Terme: 10-11 maggio 2008 “Corpo e mente tra Oriente ed Occidente”. Il filo conduttore sarà il Respiro: l’importanza della respirazione in Oriente verrà analizzata in particolari ambiti quali la meditazione, le arti marziali, la salute. 31 maggio 1-2 giugno 2008 “La poesia della natura” I grandi temi saranno l’estetica del verde, la poesia e la cerimonia del tè: tutti aspetti della dimensione Zen della cultura giapponese. Due grandi mostre esploreranno il profondo rapporto che la cultura giapponese ha sviluppato con la natura e le modalità con cui ha espresso tale rapporto. In particolare sarà presentata al pubblico la prima mostra dedicata ai bonsai di azalea e rosa in Italia a cura della Nippon Bonsai Sakka Kyookai Europe. 44 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Nel pieno della loro fioritura, le azalee saranno anche oggetto di una conferenza a cura del Prof. Francesco Merlo docente di agronomia dell’Università di Torino che dispenserà consigli per la loro cura, nonché di un workshop per avanzati per la creazione ed il mantenimento di bonsai di azalea. La seconda mostra vedrà protagonisti gli haiku, i brevissimi componimenti poetici giapponesi, interpretati in una mostra di opere di Basho a cura del Maestro di Shodoo Norio Nagayama, ed accompagnati da opere di ikebana realizzate dalla Maestra Emiko Murayama in arrivo dal Giappone. Corsi di cura dei bonsai e dimostrazioni di ikebana faranno da cornice pratica al tema dell’estetica del verde. Gli haiku verranno inoltre proposti e spiegati al pubblico tramite una conferenza di approfondimento, un itinerario poetico a cura del Prof. Bonaventura Ruperti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Durante entrambi gli appuntamenti il pubblico potrà inoltre visitare lo Hyakusen (le 100 scelte) con moltissime proposte in arrivo direttamente dal Giappone: oggettistica, lacche, complementi d’arredo e abiti tradizionali, nonché la libreria, con titoli inerenti i temi trattati nei due week-end, e l’angolo del tè con una selezione di pregiati tè cinesi e giapponesi. Per i più golosi, dimostrazioni di preparazione del Sushi da Chef in arrivo dal Giappone e degustazioni di sushi e di tè. Per maggiori informazioni e programma completo: www.higan.com I pittori tedeschi a Ischia Hans Purrmann di Erhard Göpel * Traduzione di Nicola Luongo - «Signor Purrmann, venga giù, lei oggi è in bella evidenza sul Frankfurter Zeitung!», gridò un giornalaio noto per la sua stravaganza sulla via principale di Speyer ad un pittore che, un’assolata mattina, dipingeva su un’alta impalcatura l’insegna commerciale di una tabaccheria. Il noto critico Julius Meier-Graefe aveva Hans Purrmann parlato di una mostra della Secessione da poco aperta a Berlino ed aveva presentato il ventitreenne artista come nuovo talento. Il commerciante d’arte Paul Cassirer di Berlino, a cui Purrmann era stato raccomandato durante il suo tempo di studio monacense dall’esperto artistico Karl Voll, aveva colà mandato quattro quadri senza il consenso di Purrmann, ed erano stati esposti. In un manoscritto, Max Liebermann gli aveva comunicato la scelta dell’attivo membro della Secessione. Ai curiosi sopraggiunti fu letta sulla pubblica via la critica di Meier-Graefe, ed io (Hans Purrmann) divenni la persona più felice». Questo è uno dei pochi episodi che il pittore Hans Purrmann ha riportato nei Ricordi del mio tempo di studio dalla città natale di Speyer, dove nacque nel 1880. [ ... ] Manet, Cézanne, Matisse furono i suoi grandi ispiratori. Purrmann familiarizzò ben presto con Matisse e l’indusse ad aprire un atelier didattico, in cui Purrmann fu scelto come direttore. L’influsso di Matisse, che accompagnò alcune volte d’estate sulla coste del Mediterraneo, divenne determinate per lui originario del Palatinato e lo portò alla liberazione interna, non all’imitazione. Venne fuori il talento coloristico, che nella scuola monacense e nella sua pittura dei valori non era maturato pienamente. Purrmann imparò ad usare puramente il colore, ad applicarlo in modo sottile e chiaro, a smaterializzarlo. Nell’entourage di Matisse, trovò tutti quei motivi che nella sua vita non abbandonò mai: le coste meridionali nella luce chiara, i porti, in cui si svolge un’intensa vita lavorativa, la struttura di case cubiche, la selvaggia vegetazione su pendii collinari, la frutta come nature morte, i fiori, l’azione, la rappresentazione di uomini in ritratti caratterizzati acutamente e nell’esistenza tranquillizzante di bambino, ragazza, donna giovane e madre. Le concezioni di Matisse gli insegnarono a riflettere sulle opere d’arte; esse fornirono i loro frutti in quel saggio epocale scritto per una rivista svizzera dopo il 1945, “L’unità dell’opera d’arte”, e resero il giudizio di Purrmann sull’arte così sicuro, che poté aiutare molti artisti suoi amici, se un loro quadro rimaneva bloccato nella sua composizione. Hans Purrmann - Sommer auf Ischia, 1963 Von Erhard Göpel * «Herr Purrmann, kommen Sie herunter, Sie stehen heute groß in der Frankfurter Zeitung!» rief ein als Original bekannter Zeitungsverkäufer auf der Hauptstraße in Speyer dem Tünchergesellen zu, der «an einem sonnigen Vormittag auf hohem Gerüst das Firmenschild eines Tabakladens malte». Der bekannte Kritiker Julius MeierGraefe hatte eine neueröffnete Berliner Sezessionsausstellung besprochen und den dreiundzwanzigjährigen Künstler als ein neues Talent bezeichnet. Der Berliner Kunsthändler Paul Cassirer, an den Purrmann während seiner Münchner Studienzeit von dem Kunstgelehrten Karl Voll empfohlen worden war, hatte ohne * Erhard Göpel: Hans Purrmann Sommer auf Ischia, 1963, Purrmanns Zutun vier Bilder dorthin geschickt, und sie waren ausgestellt worden. In einem Handschreiben hatte Max Liebermann ihm die Wahl zum aktiven Mitglied der «Sezession» mitgeteilt. Hinzugekommenen Neugierigen wurde auf offener Straße die Kritik MeierGraefes vorgelesen, «und ich (Hans Purrmann) war der glücklichste Mensch geworden». Dies ist eine der wenigen Episoden, die der Maler Hans Purrmann in den Erinnerungen an meine Studienzeit aus der Heimatstadt Speyer, wo er 1880 geboren wurde, festgehalten hat. [ ... ] Manet, Cézanne, Matisse waren die großen Anreger. Purrmann wurde bald mit Matisse bekannt und veranlaßte ihn, ein Lehratelier zu eröffnen, zu dessen Obmann Purrmann gewählt wurde. Der Einfluß von Matisse, den er einige Male im Sommer an die Mittelmeerküste begleitete, wurde entscheidend für den Pfälzer und führte zu innerer Befreiung, nicht zur Nachahmung. Die koloristische Begabung, die in der Münchner Schule und deren Valeurmalerei nicht voll zur Entfaltung gekommen war, trat hervor. Purrmann lernte, die Farbe rein zu verwenden, dünn und durchsichtig aufzutragen, sie zu entmaterialisieren. Im Umkreis von Matisse fand er die Motivwelt, die ihn sein Leben lang nicht wieder losließ: die südlichen Küsten im hellen Licht, die Häfen, in denen sich reges Arbeitsleben abspielt, die von kubischen Häusern gegliederte wilde Vegetation auf Hügelhängen, das Früchtestilleben, das Blumenstück, den Akt, die Darstellung von Menschen im scharf charakterisierten Porträt und im beruhigten Dasein als Kind, Mädchen, junge Frau und Mutter. Die Einsichten von Matisse lehrten ihn, über Kunstwerke nachzudenken; sie trugen in dem nach 1945 für eine La Rassegna d’Ischia 3/2008 45 Egli era ritenuto un grande medico dei quadri. La guerra fece allontanare Purrmann da Parigi nel 1914. Restò qualche tempo a Württemberg e sul Lago di Costanza; ritornò poi a Berlino e negli anni ‘20 sviluppò un proprio stile coloristico. Dal 1950, il golfo di Napoli con la sua chiara luce mediterranea, che fa ben risaltare i contorni sullo sfondo del cielo, e con i suoi intensi colori fu la meta di lunghi soggiorni. A Porto d’Ischia si formò intorno a Hans Purrmann ogni anno, dal 1953 al 1958, d’estate un circolo di pittori, che durante il giorno dipingevano, e di sera s’incontravano dal Calabrese, un piccolo negozio di generi misti sulla banchina, bevevano e discutevano. Hans Purrmann ha descritto questo circolo in una lettera de1 1956 al pittore e intagliatore in legno Herbert Tucholski, che prima della guerra aveva lavorato nella Villa Romana a Firenze, e mantenne soprattutto un contatto con i suoi amici, non importa dove vivessero: «Ero a Ischia l’estate scorsa. L’avevo scelta essenzialmente a causa della mia salute come luogo di lavoro, perché il gran caldo è per me un vero e proprio bisogno. Ero molto soddisfatto di questo soggiorno, tanto più che avevo costantemente la più gradevole compagnia. Non solo, perché ho incontrato spesso il nostro amico Gilles e abbiamo trascorso insieme le serate più belle. Abbiamo parlato alcune volte anche di lei. Mi sono rallegrato molto, come piacevolmente e benevolmente Gilles parlava di lei e come le voleva bene. - Sa quale grande ammirazione Schweizer Zeitschrift geschriebenen epochemachenden Aufsatz «Die Einheit des Kunstwerks» Frucht und machten Purrmanns Kunsturteil so sicher, daß er vielen seiner Künstlerfreunde helfen konnte, wenn ein Bild steckengeblieben war. Er galt als großer Bilderarzt. Der Krieg vertrieb Purrmann 1914 aus Paris. Er blieb einige Zeit in Württemberg und am Bodensee, ging dann wieder nach Berlin und bildete dort in den zwanziger Jahren einen eigenen koloristischen Stil aus. Seit 1950, wurde der Golf von Neapel mit seinem südlich klaren Licht, das die Konturen rein gegen den Himmel stellt, und seinen intensiven Farben das Ziel langer Aufenthalte. In Porto d‘Ischia bildete sich um Hans Purrmann jedes Jahr, von 1953 bis 1958, im Sommer ein Kreis von Malern, die tagsüber malten und abends beim Kalabresen, einer kleinen Gemischtwarenhandlung am Kai, zusammenkamen, tranken und diskutierten. Hans Purrmann hat diese Runde in einem Brief aus dem Jahre 1956 an den Maler und Holzschneider Herbert Tucholski, der vor dem Kriege einige Zeit in der 46 La Rassegna d’Ischia 3/2008 provi per Gilles come persona e come artista e quanto ciò [la malattia di Gilles] mi tocchi nel profondo». La lettera continua: «Mi rallegra molto il fatto che conduce una vita così interessante e può fare così grandi viaggi, finanche in Cina, e intanto per il suo lavoro ha portato a casa “un grande raccolto”. Come volentieri mi sarei intrattenuto ancora una volta a parlare con lui delle sue esperienze». In tutte queste estati a Ischia Purrmann si è accostato di più alla sua visione del quadro tutto costruito sul colore, senza perdere in sensualità, in intensità, che scorre immediatamente dalla natura alle immagini. E i dipinti fatti in questi anni sono il punto culminante della pittura tedesca. Nel 1955 capitò l’occasione all’autore di questa presentazione unitamente a sua moglie di vivere per alcune settimane la vita del circolo artistico di Hans Purrmann a Ischia. Il gruppo era formato in questo anno da paesaggisti. Siamo stati accettati gentilmente ed abbiamo soggiornato prima per un paio di giorni nell’albergo al porto, in cui Purrmann aveva preso in affitto alcune stanze al primo piano con molteplici viste panoramiche. Quando la mattina prendevamo la colazione nel giardino, sentivamo che Purrmann già aveva lavorato in questo tempo davanti al suo soggetto e riposato. Alle sei o ancora più presto si alzava, portava gli attrezzi e lo sgabello a tre gambe e si cercava il suo posto. Qui era un soggetto con alberi d’olivi Villa Romana in Florenz gearbeitet hatte, geschildert, wie er überhaupt den Kontakt zu seinen Freunden, gleichgültig, wo sie leben, aufrechterhält: «Letzten Sommer war ich auf Ischia. Ich hatte es hauptsächlich meiner Gesundheit wegen als Arbeitsplatz gewählt, denn mir wird die große Wärme geradezu ein Bedürfnis. Ich war sehr zufrieden mit diesem Aufenthalt, um so mehr, als ich ständig die angenehmste Ansprache hatte. Nicht allein, daß ich mit unserem Freund Gilles oft zusammenkam und wir die schönsten Abende miteinander verlebten. Einige Male haben wir auch von Ihnen gesprochen. Ich habe mich sehr gefreut, wie nett und reizend Gilles von Ihnen sprach und wie gern er Sie hatte. - Sie wissen, welch große Bewunderung ich für Gilles als Mensch und als Künstler habe und wie nahe mir dies [Gilles‘ Krankheit] geht». Der Brief fährt fort: «Es freut mich sehr, daß Sie ein so interessantes Leben führen und so große Reisen - sogar bis nach Chinamachen konnten und dabei für Ihre Arbeit eine große Ernte mit nach Hause brachten. Wie gern würde ich mich wieder einmal über Ihre Erlebnisse mit Ihnen unterhaltene». In jedem dieser Sommer auf Ischia kam Purrmann seiner Vision des ganz auf Farbe gestellten Bildes näher, ohne an Sinnlichkeit, an Fülle, die unmittelbar aus der Natur in die Bilder strömt, zu verlieren. Die in diesen Jahren entstande nen Bilder sind ein Höhepunkt deutscher Malerei. Im Jahre 1955 ergab sich für den Verfasser dieses Nachwortes zusammen mit seiner Frau die Gelegenheit, einige Wochen lang das Leben des Künstlerkreises um Hans Purrmann auf Ischia zu teilen. Die Runde war in diesem Jahre von Land schaftern besetzt. Wir wurden freundlich aufgenommen und wohnten zuerst ein paar Tage in dem Albergo am Hafen, in dem Purrmann einige Zimmer der ersten Etage mit vielfältigen Ausblicken gemietet hatte. Als wir am Morgen beim Frühstück im Garten saßen, hörten wir, daß Purrmann um diese Zeit schon vor seinem Motiv gearbeitet hatte und sich ausruhte. Um sechs Uhr oder noch früher stand er auf, trug Malgerät und Dreibein sulla collina, coi muri di pietra grigi, che delimitavano i giardini. Il secondo soggetto di quei giorni era al lato del porto, una via parallela al molo, che attraversava l’ombra arborea e che liberava lo sguardo su un gruppo di case, che dominava un edificio ad un piano. Il frontone triangolare guardava sul porto. Siamo riusciti a trovare questi soggetti soltanto più tardi, quando abbiamo potuto vedere i quadri iniziati o quasi pronti. Era ovviamente facile trovare la posizione esatta da cui aveva dipinto Purrmann. Le punte di ferro della sedia a tre gambe erano impresse profondamente nel suolo marrone sul lato destro della strada, da un punto di vista sempre diverso, il più possibile lontano dal gruppo di case. La mattina tarda, Purrmann appariva di nuovo nell’abito di lino chiaro, andava a prendere la posta, a mezzogiorno mangiava e trascorreva dormendo, come gli italiani, la calura del primo pomeriggio. Verso le quattro, le quattro e mezzo riprendeva la tavolozza dei giorni produttivi. Egli non sopportava “macchie sulla tavolozza”. Un precetto inderogabile di artigiano, suggerito dal padre, l’utensile dopo ogni fase di lavoro va pulito, ha ancora effetto. A questa ora, sono stati apportati ai dipinti i cambiamenti decisivi. Con pennello fine, lavorava qui all’animazione della materia cromatica. «La pittura deve essere sensibile», come Purrmann dice. Altri giorni, quando lo scirocco debilitava con la sua afa, sono discussi i dipinti. Purrmann sfida addirittura la selbst, und suchte sich seinen Platz. Da war ein Motiv mit Ölbäumen, den Hügel hinauf, mit den grauen Steinmauern, die die Gärten abgrenzen. Das zweite Motiv dieser Tage lag an der Hafenseite, an einem der Kaimauer parallelen Weg, den Baumschatten durchschnitten und der den Blick auf eine Häusergruppe freigab, die ein einstöckiges Gebäude beherrschte. Der dreieckige Giebel blickte zum Hafen. Diese Motive machten wir allerdings erst später ausfindig, als wir die angefangenen oder halbfertigen Bilder zu sehen bekamen. Dann freiliech war es leicht, den genauen Standort zu finden, von dem aus Purrmann gemalt hatte. Die Eisen-spitzen des dreibeinigen Sessels waren tief in den braunen Boden auf der rechten Straßenseite eingedrückt, bei jeder Sitzung von neuem, in möglichst großem Abstand von der Häusergruppe. Am späten Vormittag tauchte Purrmann im hellen Leinenanzug wieder auf, holte seine Post, aß zu Mittag und verschlief, wie die Italiener, die Hitze des frühen Nachmittags. Gegen vier, halb fünf wurde an produktiven Tagen die Palette critica. «Dica solo qualcosa, ciò mi stimola». Dapprima non ci si fida. Poi però si vede, che qui ogni critica è accettata, non ferisce e non tocca anche il processo creativo. Perché l’autocritica di Purrmann è di un taglio così corrosivo che quella dell’amico è invece innocente. Per lo più tiene in conto i commenti professionali dei colleghi che lavorano coi segni cromatici e lasciano cadere parole come giallo di cadmio, lacca di alizarina, verde di ossido di cromo, e si fanno capire col gesto. Abbiamo appreso come hanno dipinto Cézanne e Renoir. In pochissimi casi c’era una firma di piombo o di gesso. Si cominciava subito con sottili, trasparenti linee ad acquerello, davanti alla natura. Trapelava la gradazione dei colori, a cui in seguito soggiaceva tutto il dipinto. “Il quadro deve essere un’unità in ogni stato”: lui usava la parola ”ensemble”. Purrmann tirò fuori un quadro che aveva composto al mattino. Erano alberi di olivo dietro la casa. I rami serpeggiavano sul terreno. Questo aveva il fascino di un acquerello di Cézanne; il bianco della tela, toccata appena da qualche pennellata, era già una superficie approntata, era già uno spazio per il dipinto. Tutto sembrava ancora possibile. Purrmann lo sapeva, non si lasciava ingannare. Un quadro, diceva, consta di tre stadi: il primo, che appare ben riuscito; il secondo, in cui si scorge un ”caos”; il terzo lo raggiungono solo pochi quadri; è la riacquisita prima condizione, ma ora consapevole, riuscita in pieno. Trasformare il caos in ordine gli riuscì anche a Ischia solo tra gravi depressioni, che non wieder aufgesetzt. «Palettenscheps» duldete er nicht. Ein unabänderliches Handwerkergebot, vom Vater eingebleut, das Werkzeug nach jedem Arbeitsgang sauberzumachen, wirkt nach. Zu dieser Stunde wurden kaum entscheidende Ver änderungen an den Bildern vorgenommen. Mit feinem Pinsel ging es hier eher um Belebung der Farbmaterie. «Malerei muß sensibel sein», wie Purrmann sagt. An anderen Tagen, wenn der Schirokko lähmend in der Luft liegt, werden die Bilder diskutiert. Purrmann fordert dann die Kritik geradezu heraus. «Sagen Sie nur etwas, das regt mich an». Zuerst traut man sich nicht. Dann aber sieht man, daß hier jede Kritik angenommen wird, nicht verletzt und auch den schöpferischen Prozeß nicht berührt. Denn Purrmanns Selbstkritik ist von einer so ätzenden Schärfe, daß die der Vertrauten daneben harmlos ist. Am meisten gibt er auf die professionellen Bemerkungen der Kollegen, die mit Farbbezeichnungen arbeiten, Worte wie Kadmiumgelb, Krapplack, Chromoxydgrün fallen lassen, sich mit einer Geste verständlich machen. Man lernte hier, wie Cézanne, wie Renoir gemalt hat. Eine Unterzeichnung mit Blei oder Kreide gab es in den wenigsten Fällen. Es wurde sofort mit dünnen, aquarellhaft durchsichtigen Pinsellinien begonnen, vor der Natur. Die farbige Tonleiter, auf die später das ganze Bild gestimmt war, klang an. «Das Bild muß in jedem Zustand eine Einheit sein» - er gebrauchte das Wort «ensemble». Purrmann zog ein Bild hervor, das er am Morgen angelegt hatte. Es waren die Ölbäume hinter dem Haus. Die Äste züngelten über die Fläche. Es hatte den Reiz eines Aquarells von Cézanne; das Weiß der Leinwand war, kaum von einigen Pinselstrichen berührt, schon organisierte Fläche, schon Bildraum. Alles schien noch möglich. Purrmann kannte das, ließ sich nicht täuschen. Ein Bild, sagte er, hat drei Stadien: das erste, scheinbar gelungene; das zweite,in dem es ein «Chaos» ist; das dritte Stadium erreichen nur wenige Bilder; es ist der wiedergewonnene erste Zustand, nun aber bewußt, geglückt. Chaos in Ordnung zu verwandeln gelang auch auf Ischia nur unter schweren La Rassegna d’Ischia 3/2008 47 lo facevano dormire di notte. Di pomeriggio giaceva sul letto e scrutava a lungo il quadro appeso al muro. Come per fustigare se stesso, citava una frase di Renoir: «Chi ha riservato tre mesi per un quadro e non sa poi ancora dove sia l’imperfezione, deve abbandonare la pittura». Tra i quadri di quell’estate c’erano molte apprensioni, specialmente un quadro con cielo temporalesco su un’alta collina, dal cui verde spuntavano case quadrate gialle e rosa. Davanti, il muro di pietra grigia. Il quadro era stato iniziato a casa in un pomeriggio tempestoso. Sembra precipitare giù di schianto. Non può essere questo il motivo ispiratore. Il rimedio, cioè il ritorno davanti al motivo, davanti alla natura, è da escludere. Il quadro fu dipinto di nuovo tre o quattro volte nel corso delle settimane seguenti. Solo a Montagnola, lontano dall’atmosfera dell’isola, gli riuscì di conferire la forma desiderata e il carattere unitario, concentrando nella maniera giusta colori, superfici, linee nel controverso quadro. Ma se spuntava un motivo ispiratore, dopo aver meditato, Purrmann si fermava davanti al quadro, dando con prudenza poche pennellate e segnando i punti critici. Il mattino dopo, molto tempo prima che la calura scoppiasse sull’isola, riconsiderava il motivo e cercava la tensione tra le necessarie “correzioni”, la condizione del quadro e il caos “natura”. Spesso erano necessarie molte sedute, come mostravano le tracce del seggiolino pieghevole. Meditazioni di questo tipo venivano fuori dai colloqui nelle stanze che servivano da atelier nell’albergo, frutti naturali Depressionen, sie ließen ihn nachts nicht schlafen. Nachmittags lag er auf dem Bett und betrachtete lange das Bild, das an der Wand lehnte. Wie um sich selbst zu geißeln, zitierte er einen Satz von Renoir: «Wer ein Bild drei Monate beiseite gestellt hat und dann noch nicht weiß, wo der Fehler steckt, der soll das Malen lassen». Es gab unter den Bildern dieses Sommers wahre Sorgenkinder, besonders eines mit Gewitterhimmel über einem ansteigenden Hügel, aus dessen Grün Häuserkarrees gelb, rosa auftauchen. Vorn die graue Steinmauer. Das Bild wurde an einem gewittrigen Nachmittag im Haus begonnen. Es fällt in sich zusammen. Das Motiv gibt es nicht so. Das Allheilmittel, Rückkehr vor das Motiv, vor die Natur, ist ausgeschlossen. Das Bild wurde im Laufe der kommenden Wochen drei-, viermal neu gemalt. Erst in Montagnola, fern von der Atmosphäre der Insel, gelang es, in der Konzentration auf Farbe, Fläche, Linie das widerspenstige Bild zur Form zu zwingen, die Einheit herzustellen. Existierte jedoch ein Motiv, so fuhr Purrmann nach der Meditation 48 La Rassegna d’Ischia 3/2008 della visione artistica di Purrmann, che il pittore non solo rappresentava, ma viveva. Mentre gli altri osservavano i quadri, si poteva guardare intorno indisturbati. Su un comodino c’era un volumetto non appariscente in dodicesimo. Erano le poesie di Goethe di cui Purrmann conosceva molte a memoria. Amava le poesie più dei romanzi, probabilmente perché una strofa è ben visibile come la superficie di un dipinto. Il ritmo corrisponde al manoscritto del pittore, le vocali ai colori, le consonanti al disegno, il contenuto al motivo e lo splendore al coinvolgimento e all’essere coinvolti. Nell’un caso e nell’altro è un sentimento di felicità. Le alte fresche stanze, in cui si svolgevano le nostre discussioni, hanno una tradizione nella vita di Purrmann. Aveva preso in affitto entrambe le camere, le cui finestre guardavano sul porto, perché il corridoio intermedio coperto con piastrelle era abbastanza ampio per collocarvi il cavalletto. La finestra del corridoio offriva una vista composita sul bacino del porto. A sinistra la lingua di terra si stende intorno al bacino e riceve il suo accento dallo snello faro. A destra il bacino del porto sporge di più, navi e motopescherecci a vela di varia grandezza e numero, verniciati secondo vecchie regole a tinte forti, sono ormeggiati alle sue sponde, la cui oscillazione ricorda le verdi cime delle colline. Il bianco profilo della Villa Dohrn fiancheggia l’entrata. Purrmann ha dipinto spesso questo soggetto, già all’inizio degli anni ‘20, quando fu per la prima volta sull’isola con vor dem Bild mit wenigen behutsamen Pinselstrichen über die Malerei hin und markierte kritische Stellen. Am nächsten Morgen ging er, lange bevor die Hitze über der Insel ausbrach, vor das Motiv und suchte die Spannung zwischen den notwendigen «Verbesserungen», dem Zustand des Bildes und dem Chaos «Natur». Oft waren viele Sitzungen nötig, wie die Spuren des Feldstuhles zeigten. Überlegungen dieser Art wuchsen aus den Gesprächen in den als Atelier dienenden Räumen im Albergo, natürliche Früchte der Kunstanschauungen Purrmanns, die der Maler nicht nur vortrug, sondern lebte. Während die anderen die Bilder betrachteten, konnte man sich ungestört umsehen. Auf dem Nachttisch lag ein un scheinbares Duodezbändchen. Es waren Goethes Gedichte, von denen Purrmann viele auswendig kann. Er liebt Gedichte mehr als Romane, wahrscheinlich, weil eine Strophe übersehbar wie die Fläche eines Bildes ist. Der Rhythmus entspricht der Handschrift des Malers, die Vokale den Farben, die Konsonanten der Zeichnung, der Inhalt dem Motiv, und der Glanz, das Ergreifen und Ergriffenwerden ist hier wie dort Glück. Die hohen, kühlen Zimmer, in denen unsere Diskussionen stattfanden, haben Tradition im Leben Purrmanns. Er hatte beide Räume, deren Fenster zum Hafen gehen, gemietet, denn der mit Fliesen bedeckte Korridor dazwischen war gerade breit genug, um die Staffelei aufzustellen. Das Gangfenster gab einen vorkomponierten Blick auf das Hafen becken frei. Links greift die Landzunge um das Bassin und erhält ihren Akzent von dem schlanken Leuchtturm. Rechts lädt das Becken stärker aus, Schiffe und Segelkutter in wechselnder Größe und Zahl, nach alten Regeln starkfarbig gestrichen, liegen an der Ufermauer, deren Schwingung der grüngesäumte Hügelkamm wiederholt. Der weiße Würfel der Villa Dohrn flankiert die Einfahrt. Dieses Motiv hat Purrmann oft gemalt, schon Anfang der zwanziger Jahre, als er mit seinem nur wenig älteren Freund Konrad von Kardorff zum erstenmal auf der Insel war. So wie er heute ein Bild vor der Natur wieder angeht, hat er auch nach Jahren immer wieder das schon bekannte l’amico Konrad von Kardorff solo di poco più anziano. Proprio come lui oggi comincia un nuovo quadro davanti alla natura, ha per anni preparato il già noto soggetto. Perché abituarsi ad apprezzare un nuovo paesaggio, costa spesso al pittore un anno intero o mezzo, e un angolo della natura, che ha dipinto una volta, è qualcosa di indomabile e di indomito, che Cézanne temeva come il «terrible effet de la nature». Da qualsiasi finestra delle due ampie camere si guardasse, gli squarci prospettavano un qualcosa di noto. Erano tutti soggetti di Purrmann. Qui il formato verticale del lato portuale sinistro, dove ormeggiano yacht e barche a vela, le cui cime degli alberi oscillavano leggermente e descrivevano nel cielo ogni movimento dell’acqua. Similmente come avveniva nel porto di Sanary, dove Purrmann nel 1930, dopo una lunga malattia, ha dipinto una serie di quadri, su cui ondeggiano i bianchi scafi. La finestra della camera di destra guardava direttamente sulla banchina sempre popolata di gente, carri ed animali. La visione obliqua produce delle profondità che dovettero ricomparire come spazio figurativo. I cutter appena arrivati che portano o caricano sabbia, pietre, legno, le larghe chiatte dai cui ampi boccaporti splendono gialle zucche, rossi pomodori, meloni verdi e annunciano le stagioni, le vele marrone scure o gialle, già issate, e le loro forme così irregolarmente affascinanti spronavano facilmente l’artista a sovraccaricare un dipinto. Spesso la prima impressione veniva ordinata soltanto quando era stata fissata sulla tela e già aggiunti gli accenti coloristici. Una volta si presentò sulla terrazza della casa d’italiani, in cui abitavamo, a Porto d’Ischia. Motiv vorgenommen. Denn das Einleben in eine neue Landschaft kostet einen Maler oft ein halbes, ein ganzes Jahr, und dem Stück Natur, das er einmal gemalt hat, ist etwas von dem Ungebändigten, Ungezähmten genommen, das Cézanne als den «terrible effet de la nature» fürchtete. Aus welchem Fenster der beiden langgestreckten Räume man auch blickte, die Ausschnitte kamen einem bekannt vor. Es waren lauter Motive Purrmanns. Hier das Hochformat der linken Hafenseite, wo die Jachten und Segelboote lagen, deren Mastspitzen leise schwankten und jede Bewegung des Wassers an den Himmel schrieben. Ähnlich wie im Hafen von Sanary, wo Purrmann 1930 nach langer Krankheit die Reihe der Bilder gemalt hat, auf denen die weißen Schiffsleiber schwingen. Das Fenster des rechten Raumes ging unmittelbar auf den immer von Menschen, Wagen und Tieren bevölkerten Kai. Die schräge Aufsicht erzeugt Tiefe, die als Bildraum wieder erstehen mußte. Die anlaufenden Kutter, die Sand, Stei- L’ampiezza della veduta, l’orizzonte alto, che avrebbe stimolato Beckmann a forti dipinti marini, non l’attraevano. Egli concentrò in un piccolo formato la veduta sul bacino del porto e sulle verdi alture che emergevano lì dietro. Dipingeva tutto un pomeriggio con rapidi sguardi sul paesaggio e con lunghe occhiate sulla tela. Finiva di dipingere e lasciava a quel punto il quadro iniziato. Con la coscienza sporca lo tiravamo fuori il mattino seguente e andavamo al luogo, da cui aveva dipinto. La sorpresa era grande. La realtà aveva soltanto fornito lo spunto per la composizione. Egli aveva preso di mira una delle case cubiche emergenti dal verde del declivio e riportata sul quadro come semplice forma grande come l’unghia del pollice, come puro colore, come giallo splendente. Intorno a questa casa, a questa superficie, a questo giallo, “organizza” il quadro. Il giorno seguente, molto di quello che aveva già fatto, fu eliminato, soprattutto il verde della collina venne trasformato in turchese. Ma restò la forma quadrata della casa, parallela alla superficie figurativa: alla macchia gialla alla Vermeer si riferiscono tutti i colori del quadro che certamente in seguito nell’atelier di Montagnola ha subito ancora tante trasformazioni. I quadri, che si nutrono del colore, a differenza di quelli, che vivono della composizione, dell’energia delle linee, hanno un tratto paradisiaco, irradiano felicità. I pochi veri coloristi come Tiziano, Veronese, Vermeer, Guardì, Tiepolo, Delacroix, Cézanne, Matisse sono amati più dei giganti Michelangelo, Rembrandt, Picasso. Si potrebbe collocare Purrmann a fianco dei Veneziani, vicino a Guardì, a cui anche l’acqua, la laguna, le isole intorno a Venezia hanno offerto ispirazione per quadri perfetti. ne, Holz bringen oder laden, die breiten Schuten, aus deren offenen Luken kürbis gelb, tomatenrot, melonengrün die Früchte leuchten und die Jahreszeiten anzeigen, die gehißten dunkelbraunen oder gelben Segel und ihre reizvoll unregelmäßigen Formen führten leicht dazu, das Bild zu überladen. Oft wurden die Eindrücke erst, wenn sie schon auf der Leinwand standen, geordnet und die koloristischen Akzente gesetzt. Einmal kam er auf die Terrasse des Hauses, in dem wir oberhalb von Porto d‘Ischia bei Italienern wohnten. Die Weitr äumigkeit der Sicht, der hochliegende Horizont, der Beckmann zu mächtigen Seebildern angeregt hätte, reizte ihn nicht. Er faßte in kleinem Format den Blick auf das Hafenbecken und auf die dahinter ansteigenden grünen Höhen zusammen. Er malte einen ganzen Nachmittag mit schnellen Blicken auf die Landschaft und mit langen Blicken auf die Leinwand. Malgerät und das angefangene Bild ließ er da. Schlechten Gewissens zogen wir es am nächsten Morgen hervor und gingen an den Platz, von dem aus es gemalt war. Die Überraschung war groß. Die Wirklichkeit hatte für die Komposition nur als Anregung gedient. Eines der aus dem Grün des Hanges auftauchenden kubischen Häuser hatte er aufs Korn genommen und als reine Fläche daumennagelgroß ins Bild gestellt, als pure Farbe, als leuchtendes Gelb. Um dieses Haus, diese Fläche, dieses Gelb, „organisierte“ er das Bild. Am nächsten Tag wurde vieles umgestülpt, namentlich das Grün der Hügel zum Türkis hin gesteigert. Aber das Quadrat des Hauses, parallel zur Bildfläche, blieb: auf den vermeergelben Fleck bezogen sich alle Farben des Bildes. Es hat sicherlich später im Atelier in Montagnola noch viele Verwandlungen erlebt. Bilder, die sich aus der Farbe nähren, haben im Gegensatz zu denen, die aus der Komposition, der Energie der Linie leben, einen paradiesischen Zug, verströmen Glück. Man liebt die wenigen wahren Koloristen Tizian, Veronese, Vermeer, Guardi, Tiepolo, Delacroix, Cézanne, Matisse mehr als die Giganten Michelangelo, Rembrandt, Picasso. Purrmann möchte La Rassegna d’Ischia 3/2008 49 Sul far della sera, stanchi delle conversazioni e delle intense vedute, scendevamo le fresche scale dell’albergo e andavamo dal Calabrese, accostavamo i tavoli, su cui tintinnavano i bicchieri, ordinavamo vino, pane, Gorgonzola, mangiavamo, bevevamo noi teste calde, finché la notte avvolgeva l’isola feacia. L’anno seguente Purrmann andò a Lacco Ameno. Le case adagiate nel verde delle colline diventarono il leitmotiv dei paesaggi che colà apparivano. Ma si sentiva solo; avvertiva la mancanza delle conversazioni serali dal Calabrese e tornò di nuovo a Porto d’Ischia l’estate seguente. Si possono dedurre le annate dei quadri dai motivi e dalla maniera di dipingere. Il movimento lineare diventa sempre più silenzioso, il pennello non disegna più, neanche nei primi stadi; lui dipinge. L’equilibrio di un quadro è ora tutto nel colore. Giallo puro, blu puro, rosso profondo, un verde rilucente nel turchese. Ma il profondo blu scuro è contemporaneamente mare e colore, l’azzurro è cielo e colore, il rosso bruno del suolo è terra e tronco di olivo, il grigio verde è macchia colorata e foglia, il verde chiaro dei pini è al contempo pianta e pietra ornamentale degli edifici. Il bianco intenso diventa nuvola e la parte più chiara del quadro, un giallo, un violetto la parete di una casa. Colore ed elemento - aria, nuvola, acqua, pianta e terra – si fondono. Qui è la grandezza di questi piccoli dipinti. Purrmann trascorse l’estate del 1959 ospite nella Villa Massimo a Roma. Il suo stato di salute era preoccupante, il proseguimento del viaggio per Ischia impossibile. Si faceva condurre nel giardino della Villa. I dipinti, fatti a man in der Nähe der Venezianer ansiedeln, in dei Nachbarschaft Guardis, dem auch das Wasser, die Lagune, die Inseln um Venedig vollkommene Bilder geschenkt haben. Im einfallenden Abend, von den Gesprächen, vom intensiven Sehen müde, stiegen wir die kühle Treppe des Albergos hinab und gingen zum Kalabresen, rückten die Tische, auf denen die Gläser klirrten, zusammen, bestellten Wein, Brot, Gorgonzola, aßen, tranken und redeten uns die Köpfe heiß, bis schließlich die Nacht das phäakische Eiland einhüllte. Im nächsten Jahr ging Purrmann nach Lacco Ameno. Die in das Grün der Hügel gebetteten Häuser wurden zum Leitmotiv der dort entstandenen Landschaften. Doch fühlte er sich einsam; er entbehrte die Abendgespräche beim Kalabresen und zog die folgenden Sommer wieder nach Porto d‘Ischia. Man kann die Jahrgänge der Bilder an den Motiven und der Malweise ablesen. Die lineare Bewegung wird immer stiller, der Pinsel zeichnet nicht mehr, auch in den ersten Stadien nicht; er malt. Das Gleichgewicht eines Bildes liegt nun ganz in der Farbe. Reines Gelb, reines Blau, tiefes Rot, nach Türkis hin schim50 La Rassegna d’Ischia 3/2008 Roma, sono alti appena due spanne, larghi due. Il motivo conserva solo gradazioni di verde, il verde per i cipressi, il verde per l’erba, per il fogliame, e il violetto delle ombre. Si cerca di venire a capo con le sfumature giuste. Il marrone luminoso dei tronchi offre poca struttura; come anche il bianco di un muro, di una pallida nuvola, il blu delicato del cielo romano. Questo basta ai quadri, che hanno molto di Cézanne e molto dell’elegia goethiana di Marienbad. Il rigoglio dell’isola d’Ischia è cambiato, si è limitato ad una fila di alberi nel parco. La ricchezza del mondo per l’ottantenne pittore è diventata dovunque a portata di mano. A Montagnola, al confine tra montagna e pianura, tra Nord e Sud, l’ottantenne pittore si è di nuovo ristabilito. Nel 1962, per la prima volta viaggiò in ambulanza, in posizione orizzontale. Suo figlio gli aveva preso in affitto una villa vicino a La Spezia, a Levanto dove abitava al pianoterra e poteva essere portato facilmente su una sedia davanti al suo quadro. Di nuovo ci sono meravigliosi paesaggi, dagli intensi colori, che richiamano i colori dell’isola d’Ischia. La natura stimolava l’ottantatreenne al faticoso lavoro nell’atelier, che era spesso un rifacimento di quadri vecchi in forme nuove. Nel 1963, riprese a viaggiare e si fermò nello stesso luogo. D’inverno, incontra i suoi amici a Montagnola, dipinge giovani donne e fiori, elabora schizzi estivi. Ci si rallegra già delle conversazioni davanti ai quadri, di solito paesaggi, che ha portato con sé. Erhard Göpel merndes Grün. Doch ist das tiefdunkle Blau zugleich Meer und Farbe, das Azurblau Himmel und Farbe, das Rotbraun des Bodens Erde und Olivenstamm, das Graugrün Farbfleck und Blattwerk, das helle Grün der Pinien Pflanze und zugleich Stein des Bildbaues. Das bauschige Weiß wird zur Wolke und hellsten Bildstelle, ein Gelb, ein Violett zur Hauswand. Farbe und Element - Luft, Wolke, Wasser, Pflanze und Erde - verschmelzen. Darin liegt die Größe dieser kleinen Bilder. Den Sommer des Jahres 1959 brachte Purrmann in der Villa Massimo in Rom als Gast zu. Sein Gesundheitszustand war gefährdet, die Weiterreise nach Ischia unmöglich. Er ließ sich in den Garten der Villa fahren. Die Bilder, die in Rom entstanden, sind kaum zwei Spannen hoch, zwei Spannen breit. Das Motiv hält nur Stufen von Grün bereit, Zypressen grün, Grasgrün, Laubgrün, dazu nur das Violett der Schatten. Es geht darum, mit den Nuancen auszukommen. Das lichte Braun der Stämme gibt wenig Struktur; dazu das Weiß einer Mauer, einer blassen Wolke, das dünne Blau des römischen Himmels. Dies genügt zu Bildern, die viel von Cézanne und viel von Goethes Marienbader Elegie haben. Die Fülle der Insel Ischia ist verwandelt, hat sich einer Baumreihe im Park mitgeteilt. Der Reichtum der Welt ist dem achtzigjährigen Maler überall greifbar geworden. In Montagnola, auf der Grenze zwischen Gebirge und Ebene, zwischen Norden und Süden, hat sich der achtzigjährige Maler wieder erholt. Im Jahre 1962 reiste er das erste Mal wieder nach Italien, liegend, im Krankenwagen. Sein Sohn hatte ihm eine Villa bei La Spezia, in Levanto, gemietet, in der er zu ebener Erde wohnte und zum Malen leicht im Stuhl vor das Motiv gerollt werden konnte. Wieder sind herrliche, tieffarbige Landschaften entstanden, die an das Kolorit der Ischiabilder anknüpfen. Die Natur belebte den heute Dreiundachtzigjährigen nach dem mühsamen Arbeiten im Atelier, das oft ein Überarbeiten älterer Bilder war, aufs neue. 1963 wiederholte er die Reise und hielt sich am gleichen Ort auf. Im Winter empfängt er in Montagnola seine Freunde, malt junge Frauen und Blumen, arbeitet Skizzen des Sommers aus. Man freut sich schon auf das Gespräch vor den Bildern, meist Landschaften, die er mitgebracht hat. Erhard Göpel Hans Purrmann - Porto d’Ischia Hans Purrmann - Porto d’Ischia Hans Purrmann - Olivo e muro Hans Purrmann - Via con palma Hans Purrmann - Case a Porto d’Ischia Hans Purrmann - Costa (Lacco Ameno) La Rassegna d’Ischia 51