La Rassegna d`Ischia 3/2008

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La Rassegna d`Ischia 3/2008
Anno XXIX
N. 3
Maggio/Giugno 2008
Euro 2,00
Omero e l’origine dell’alfabeto greco
Mostra-Convegno
sulle piante grasse rare e da collezione
Itinerario e descrizione delle isole
Guida 1826 (II)
Fonti archivistiche
Capitolazioni delle Confraternite
di Ischia (III)
Rassegna Libri
Ischia non ha bisogno di mito
Pittori tedeschi a Ischia
Hans Purrmann
I Santi dell’Algeria: S. Restituta
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia
Anno XXIX- N. 3 Maggio/Giugno 2008 - Euro 2,00
Periodico di ricerche e di temi turistici,
culturali, politici e sportivi
Editore e direttore responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia
Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA)
Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.2.1980
Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione
con n. 8661.
Stampa Tipolito Epomeo - Forio
Sommario
3
Ischia non ha bisogno di mito
4
Don Pietro Monti: Commiato
6
10
Itinerario e descrizione delle isole - 1826 (II)
11
Personaggi: Fritz Wolf - L’arte della caricatura
12
Product Placement & Location Festival
13
Rassegna Libri
17
Omero e l’origine dell’alfabeto greco
22
Il martirio di S. Restituta nei quadri di
Ferdinando Mastriani
25
I Santi dell’Algeria: S. Restituta
26
Una leggenda d’Ischia: S. Restituta
28
Firenze/Mostre - Il Volto di Michelangelo
29 Mostra-Convegno sulle piante grasse
32
Le piante succulente nei giardini storici
35
Un giardino e una biblioteca.....
36
Fonti archivistiche
Capitolazioni delle Confraternite di Ischia (III)
41
Note linguistiche
45
Pittori tedeschi a Ischia - Hans Purrmann
Napoli/Mostre: Salvator Rosa tra mito e magia
Un francobollo per Casamicciola
Il 24 luglio prossimo l’Ente Poste emetterà una serie
tematica di francobolli (valore 0,60) “Il turismo” dedicati a quattro località, fra cui Casamicciola Terme (NA),
insieme con Tre cime di Lavaredo (BL), Introdacqua
(AQ), Mamoida (NU).
Due emissioni filateliche hanno già in passato riprodotto vedute dell’isola d’Ischia. Il 21 maggio 1976, nella
serie di propaganda turistica un francobollo da 150 lire
riportava una veduta pittorica di Forio con il Torrione
e il Soccorso in evidenza. Era la prima volta che uno
squarcio paesaggistico isolano compariva sui piccoli, ma
efficacissimi, manifesti di grande valore pubblicistico. Il
22 settembre 1980 nella nuova serie “Castelli d’Italia”,
destinata a sostituire quella cosiddetta “Siracusana”
o “Italia turrita”, il valore da 100 lire riproduceva il
Castello aragonese.
Benedetto Croce - Dalla Costituente alla
nascita della Repubblica – 1943/1948
A cura di R. de Laurentiis e Dario Della Vecchia, promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dal
Circolo Sadoul e dal Centro per la promozione del libro,
si è tenuta a Ischia una mostra storico-documentaria intitolata “Benedetto Croce, dalla Costituente alla nascita
della Repubblica - 1943/1948”. In visione, dal 20 al 30
aprile 2008 nel Salone delle Antiche Terme Comunali,
riproduzioni di documenti d’epoca, quotidiani, periodici,
fotografie, tavole di illustratori italiani ed esteri.
Festa del Delfino
Il 10 maggio 2008 si svolgerà, a cura del Delphis
Mediterranean Dolphin Conservation, la VII edizione
della Festa del Delfino, dedicata alla conservazione
delle comunità di cetacei delle Aree Marine Protette
di Ventotene e S. Stefano e di Ischia, Procida e Vivara.
Nell’occasione è stato anche bandito un concorso a tema
“I Cetacei e l’inquinamento da plastica”.
Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista - La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti,
fotografie e disegni (anche se non pubblicati), libri e giornali non
si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le
esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza,
gli scritti a disposizione.
conto corrente postale n. 29034808 intestato a
Raffaele Castagna - Via IV novembre 25
80076 Lacco Ameno (NA)
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Don Pietro Monti, rettore del Santuario di S. Restituta in Lacco Ameno, studioso di archeologia, autore di varie pubblicazioni sulla
storia dell’isola d’Ischia, e che diede vita agli scavi
ed al successivo Museo di S. Restituta, è morto il 13
aprile 2008.
A suo ricordo riportiamo un suo articolo, pubblicato su La
Tribuna Sportiva dell’isola d’Ischia n. 8/1970.
**********
Ischia non ha bisogno di mito
di Pietro Monti
«L’Osservatore Romano» del 4 luglio 1970 pubblicava un articolo, dal
titolo «Ischia e Capri fra mito e storia», inteso certamente a far propagan­
da turistica efficiente a favore del­le due isole del Golfo, ma che, in realtà,
ha dato effetto contrario e pericoloso, almeno per Ischia.
Sembra che l’articolo sia stato scritto quasi per inteso dire, igno­rando le
nuovissime pubblicazio­ni, le varie campagne di scavi ar­cheologici, i monumenti e docu­menti messi alla luce, l’ultimo Congresso di Archeologia
Cristia­na in Campania, chiusosi a Lacco Ameno il 24 aprile scorso. Ad
ono­re della storia e per una maggiore (kmq 46,3), emerse dal mare non per
notorietà dell’isola verde nel mondo, eruzione vulcanica, ma per un ringiopreme dare delle precisazioni.
vanimento di un bacino magmatico
Ischia, la più grande delle iso­le locale, nel qua­ternario.
partenopee, situata a chiusura del L’affermazione: «Monte Epomeo,
lato occidentale del Golfo di Napoli vulcano attivo» è errata, perché
l’Epomeo non è stato mai un vulcano,
non ha avu­to mai un cratere con relativa colata lavica. Chi ha gustato lo
spettacolo impareggiabile della levata
o del tramonto del sole dal gigantesco
pilastro epomeico si è reso conto che
Don Pietro Monti ha scosso la nostra società «locale» da un’apatia verso le pagine di storia scritte nei secoli passati.
È storia «locale», ma trattasi pur sempre di momenti che lo studioso serio riesce a collocare in un contesto di storia patria
e, nel caso di Ischia, nel più ampio scenario della civiltà mediterranea.
[...] Il pensiero va ai primi tentativi di Don Pietro di portare alla luce documenti che la sua immaginazione e il suo
entusiasmo di dilettante gli facevano collocare nella zona sottostante la chiesa di S. Restituta e il municipio. Andava alla
ricerca di testimonianze di fede e del culto plurisecolare di S. Restituta e le ha trovate; ma ha principalmente trovato la
molla che nel breve volgere di anni gli ha fatto attingere la collocazione tra i più stimati studiosi della archeologia della
nostra Isola.
Ma i meriti di Don Pietro non si fermano qui. E non parlo dei suoi meriti di studioso e di divulgatore, che ha costruito la
sua preparazione con la tenacia di un impegno verificato «sul campo», che da Lacco Ameno si è andato presto estendendo
all’intera isola d’Ischia, e coltivato con numerosi viaggi all’estero nelle terre che ebbero con l’isola nostra comunanza
di interessi e di cultura. Parlo piuttosto della spinta che dagli studi di Don Pietro è venuta anche alla valorizzazione
delle ricerche allora già in atto da anni da parte della Soprintendenza archeologica ad opera, principalmente, del prof.
Giorgio Buchner e del prof. David Ridgway. (Vincenzo Mennella, Prefazione al libro La tradizione storica e archeologica in età tardo-antica e medievale, 1984)
Da gran tempo, gli scavi di S. Restituta erano sentiti dagli studiosi come una vera necessità, ma i più non erano disposti
a vederli fare per quel tremore che, di fronte alle novità, rende istintivamente gli animi pavidi e restii. Ci voleva la volontà
realizzatrice, non priva di ardimento, di un giovane sacerdote per rompere ogni indugio. Don Pietro Monti, infatti, intraprese i lavori, picconando personalmente, coadiuvato da due fidi, improvvisati, sterratori.
Era il 12 aprile 1950, quando gli scavi - motivati dal pavimento ormai consunto che s’intendeva rinnovare, e dal riadattamento dell’altare, in alcune parti, fatiscente - iniziarono nel più grande riserbo. Continuarono negli anni successivi in
maniera più sistematica.
(Pasquale Polito, in Lacco Ameno, il paese la protettrice il folklore, 1963).
La Rassegna d’Ischia 3/2008
3
Commiato
(Postfazione di Pietro Monti al suo libro Ischia archeologia e storia, 1980)
Chiudendo queste pagine, mi auguro di aver condotto il lettore non
sulla leggenda ma attraverso una fedele ricostruzione archeologica e
storica dell’Isola, e gli chiedo scusa se, du­rante questa lunga passeggiata,
gli è capitato di inciampare più volte contro i « cocci» o di essere scivolato
dentro qualche bur­rone storico.
Avrei potuto impennarmi sulle ali del mito, parlare della lotta dei Titani
contro Giove, delle lacrime di Tifeo, trasformate in ac­que termo-minerali
risanatrici; purtroppo girovagando tra i sentieri sperduti dell’Isola, non
mi sono ancora imbattuto sulle tracce del folgorante Giove né di quelle
del naufrago Ulisse, scampato presso il bel fiumicello. Se avessi trovato
almeno un frammento del relitto della nave di Enea o individuato l’antica
sepoltura del semovente Tifeo, incatenato sotto l’Epomeo, avrei condotto
queste leggende sul piano della storia. Ma la leggenda, il mito lasciamolo
ai poeti, potremmo attenderci anche l’av­verarsi dell’inattendibile.
« Ischia non ha bisogno di mito » per essere valorizzata.
Quando mi affaccio dalla cima dell’Epomeo per godere lo spettacolo
della natura, come sul ponte di una gigantesca nave pietrificata, da qualunque angolo dell’orizzonte io guardi vi tro­vo sempre nuove attrattive
che rallegrano la vista: le cale, le marine fluttuanti nei bordi, le punte
rocciose allungate mollemente in un trasognato incantesimo!
Nessuna Isola al mondo, come questa, costruita dalla va­riabilità strabiliante di un vulcanismo più unico che raro, può mostrare, in una gamma
di verde e di silenzi, i segni di tante civiltà, particolarmente di quella greca
che si fuse mirabilmente con la romana, di cui oggi restano testimonianze
vive e reali nello sviluppo civile e sociale dell’Isola d’Ischia.
Il turista che vi arriva, sbarcando in uno dei tanti porticciuoli, ha davanti ai suoi occhi visioni diverse che, per il fascino delle marine, risalenti
verso l’Epomeo, e l’incantesimo dei co­lori, gli riempiono l’animo di stupore: vede il Castello degli Ara­gonesi, l’accogliente Porto di Plinio e di
Ferdinando II, l’affasci­nante Casamicciola Terme di Lamartine, l’Ameno
Lacco, la Tur­rita Forio, l’incomparabile visione di S. Angelo e, più in alto,
Serrara, Fontana, Barano incastonate nel fianco delle colline, sullo sfondo
di un celeste evanescente cielo, soffuso di luci e di vapori.
Un’Isola così carica di storia e di fascino non può essere abbandonata
all’irrompente dilagar dell’abusivismo! Ischia ha bisogno di spiriti ferventi perché la salvino, ha bisogno di gio­vani che vi cerchino ancora, con
maggiori emozioni, tante tracce di civiltà sepolte che la circonfusero di
industrie, di arte, di cul­tura e di pietà.
Io la lascio a voi, o giovani!
Amatela, studiatela, custoditela, difendetela!
Per il trionfo della natura, per la rarità degli angoli ancora incontaminati, disponetevi, o giovani, a sacrificarvi, a farvi va­lere contro le resistenze
più agguerrite. Solo con voi si potrà riuscire a salvare e a trasmettere alle
generazioni future quel che resta del nostro patrimonio archeologico,
artistico e paesag­gistico, ed «a costringere i responsabili ad uscire dalle
loro tane»! Non scatti più tempo!
Ricordate che di quest’Isola sconvolta da fenomeni tellu­rici, devastata
da barbari invasori, avvolta in scenari estatici, va tutto salvato. Anche i
«cocci», ultime reliquie di distrutti monumenti, nella forma più insignificante, pur essi parlano, si levano giganti, come l’Epomeo nel sereno
incanto della na­tura, al pari dell’avvenimento storico e restano segni
imperituri della civiltà a cui appartennero!
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La Rassegna d’Ischia 3/2008
quella è una cima naturale come gli
altri monti. Og­gi, fortunatamente,
l’attività vul­canica d’Ischia è limitata
alla presenza delle acque termali.
La storia dell’isola non è oscu­ra,
ma chiara e gloriosa special­mente in
tutta l’età greca.
La comparsa dell’uomo sull’iso­la
avvenne in età neolitica, nel III millennio a.C, come è attestato da schegge di selce, di ossidiana, da cuspidi di
frecce e raschiatoi, da fram­menti di
ceramica appartenenti alla facies di
Serra d’Alto.
Nell’età del bronzo e del ferro
(1400-1300 a.C.) vi troviamo in­
stallati alcuni villaggi: sul Castiglione, su Monte Vico, a Mezzavia, a
Succhivo; pentole, eleganti sagome
di vasi e di ciotole deco­rate ad incisione con tipici moti­vi della civiltà
appenninica, in­ducono i ricercare i
centri di ir­radiazione dell’Oriente
greco-bal­canico.
Certamente l’isola costituiva la
indispensabile statio-base per i naviganti dell’età del bronzo che risalivano la costa tirrenica di­retti verso
i giacimenti minerari della Toscana
(stagno, allume). E la scoperta di documenti micenei pone Ischia, alla fine
del XV se­colo (1450 a.C), nel quadro
delle relazioni tra il mondo miceneo
e su tradizioni antichissime.
La più antica colonia
dell’Occidente
Le vie dei metalli costituirono le
linee direttrici della colonizza­zione
greca «storica» verso l’Ita­lia centrale. I pionieri vennero dall’isola di
Eubea. Calcidesi ed Eretriesi, intorno
alla prima metà dell’VIII secolo, fondarono nella zona di Lacco Ameno
(Ischia) la cittadella di Pithecussaj
(nome greco derivato da pithos = vaso
ad indicare il luogo della produ­zione
dei «pithoi» e del relativo smercio:
l’opinione che vorrebbe far derivare
il nome da scimmia è del tutto priva
di fondamento).
La datazione della colonia gre­
ca, saldamente impiantata sull’iso­
la d’Ischia, è stata convalidala dal
ritrovamento della più antica spe­cie
della Kotyle - caratteristico vaso
protocorinzio del 770 a.C. - del tipo
Aetos 666 e di altra cera­mica greca
che è sicuramente la più antica fra
quella trovata fino ad oggi in ogni
altra colonia el­lenica dell’Occidente.
La scelta di un’isola costiera riflette
chiara­mente il fatto che, prima di
met­tere piede sulla terraferma, le
nuo­ve terre venivano ispezionate
per entrare poi prudentemente in con­
tatto con le popolazioni «barba­re»
ancora sconosciute del luogo. Dopo
breve stanziamento sul­l’isola di Pithecussaj, gli Eretriesi e i Calcidesi
fondarono intorno al 750 a.C. Cuma,
su colle roccio­so, in riva al mare e a
dominio della pianura campana.
Cuma si elevò rapidamente al
rango di metropoli, Pithecussaj a
base di appoggio per il mercato con
le coste campane; e fu il commercio
della ceramica, del fer­ro e dei pro-
dotti orientali che tra­sformò l’isola
in un emporio intermediterraneo,
dove, fin dalla metà dell’VIII secolo convergeva­no i traffici degli
indigeni della Campania, dei popoli
dell’Etruria, della Grecia, della Siria e
del­l’Egitto. E , unitamente a Cuma, in
modo sia diretto sia indiretto, Pithecussaj trasmise ai Latini, agli Oschi
e agli Umbri il pro­prio alfabeto di
derivazione calci­dese!
Conoscitori dell’arte figulina, i
Greci vi introdussero il tornio, sfruttando abilmente i giacimenti argillosi
esistenti sui fianchi epomeici. Così
accanto alla ceramica d’importazione
fiorì con un carat­tere tutto particolare
quella di produzione locale. Maggiore con­valida della vitalità industriale,
diventata ormai nazionale, sono le
fornaci ed i laboratori messi alla luce
negli scavi di S. Restituta (19671968-1970).
L’espansione di Pithecussaj e di Cuma
Per favorire il commercio di co­sì notevoli ricchezze industriali, divenne
estremamente necessario occupare i punti più vitali: si co­lonizzò e dominò
Reggio, si oc­cupò Messina per il controllo del­lo stretto; per assicurarsi il
do­minio del Golfo vennero fondate Dicearchia (Pozzuoli) e Neapolis (Città
Nuova) con abitanti di Pi­thecussaj e di Atene. Solo così le navi greche potevano risalire le coste tirreniche verso Elea, Cuma, Pithecussaj, senza essere
distur­bate dai pirati o dagli Etruschi.
Una posizione economica tanto favorevole alle colonie greche in­cominciò
a contrastare gli inte­ressi degli Etruschi, giunti ormai fin nella Campania, a tal
punto che l’urto fu inevitabile. E ci fu­rono due battaglie, in diversi mo­menti
storici.
L’articolista ha preso un abbaglio ed ha fuso i due scontri in uno solo; ha
erroneamente assegnato ad Aristodemo (vincitore nella battaglia di Aricia,
524 a.C, sugli Etruschi guidati da Arunte) la vittoria del­la battaglia navale del
474 a.C. svoltasi nelle acque di Cuma e condotta da Jerone: quivi Siracu­sani,
Cumani e Pithecusani ri­buttarono l’attacco della flotta etrusca.
Pindaro, ospite di grande ono­re presso Jerone, immortalò nei suoi versi una
così grande vittoria.
Cuma fedele ai patti cedette l’isola di Pithecussaj a Jerone, il quale sognava
di farne una base navale di primo ordine verso il Nord. Infatti, sull’arce di
Pithecussaj, fece costruire una fortez­za e vi stabilì un comando; infondatissima
è l’idea che vorrebbe, ancora oggi, lo­calizzare questa guarnigione sul Castello
d’Ischia, venuto alla ribalta storica solo nel periodo medievale. Purtroppo
Jerone dominò per breve tempo sull’isola di Pithecussaj, occupata subito dai
Napoletani, i quali mal vedevano la presenza dei Siculi nel Golfo miranti ad
assoggettare alla dittatura di Jerone tutte le colonie greche.
Strabone si limita a dire che i Siracusani abbandonarono l’isola per
una spaventosa eruzione vulcanica.
Purtroppo in quel periodo di tempo
ad Ischia non si verificarono manifestazioni di quel genere.
Sulla piana di San Montano, sotto
il lieve rialzo di tepida arena, dormono da millenni vestigia di civiltà
lontane, le quali risalendo il Tirreno
sulle triremi dalle vele di porpora approdarono all’isola di Pithecussaj. Ed
accanto alla sto­ria, ad Ischia si sente
la poesia greca: squarci di poemi
omerici cantati o dipinti dai ceramisti
pithecusani.
Su un vaso di fattura locale da­tabile
alla fine dell’VIII sec. a.C. è dipinta la
scena di un naufragio, che certamente
rievoca una scena del viaggio di Ulisse al pas­saggio tra Scilla e Cariddi.
C’è poi la Coppa di Nestore del
730 a.C. con la sua iscrizione sinistrograda, ormai chiara, che mi permetto far ricantare a qualche erotico
moderno nella seguente euritmia:
Alla Coppa di Nestor ber valea la
pena, / Ma chi alla mia sorseggia,
dal desio / della bionda Afrodite sarà
tosto preso.
Un sigillo geometrico della fine del
secolo VIII a.C. racchiude un canto
riferito agli avvenimenti succedutisi
dopo la distruzione di Troia: si vede la
figura di un uomo che ha sulle spalle
il corpo morto di un compagno di
guerra; esso rappresenta Aiace che
tra­sporta il corpo di Achille da sotto
le mura di Troia alle navi greche. Il
sigillo trovato su Monte Vico è il più
antico documento riferentesi agli
avvenimenti postumi alla distruzione
di Troia.
Cosi la storia d’Ischia s’illu­mina
della poesia omerica. Ischia non ha
bisogno di mito né di es­sere tuffata
nella luce commer­ciale di altre località turistiche: Ischia possiede una
storia tutta sua, un fascino che non
cerca confronti.
Pietro Monti
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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Itinerario e descrizione
delle isole di Procida, Ischia e Capri
II *
Epomeo e ritorno a Celso
Lasciata Foria, il viaggiatore comincia a salire per questa montagna, e ne
vedrà la punta occidentale piantata di
vigne. La coltivazione, portata a tanta
altura, dimostra l’industrioso ardimento degli Ischiotti in fatto di agricoltura,
e veramente l’Isola tutta par che meriti
dì essere annoverata fra le terre meglio
coltivate del mondo.
Inoltrandosi poi verso Panza osserverà il viaggiatore al di sotto della via
una spiaggia che va a congiungersi al
Capo Imperatore: ivi sono delle stufe,
la di cui efficacia viene anteposta dagli
abitanti di Foria a quella delle stufe di
Casamiccia, e si chiamano le stufe di
Cetara.
Panza è un Comunello quasi tutto
composto di case contadinesche sparse sopra di un’alta piattaforma che
sporge dall’Epomeo. L’aria quivi dee
essere straordinariamente salubre:
passandovi noi nell’estate del 1824 ci
venne assicurato che de­gli 800 abitanti
del villaggio, niuno era ammalato.
Oltrepassata Panza, la strada diventa
sempre più alpestre e stretta, ma il
fastidio che vi si può provare per tal
motivo vien grandemente compensato
dalle deliziose prospettive che al viaggiatore si affacciano da vari punti della
strada medesima; la parte occidentale
dell’Isola è quella donde si godono
le vedute più graziose e una magnifica poi se ne presenta al viaggiatore
quand’egli più si avvicina a Serraro; è
* La prima parte è stata pubblicata nel n. 2
Marzo/Aprile 2008.
** Nuova Guida di Napoli, dei contorni,
di Procida, Ischia e Capri, compilata su la
Guida del Vasi ed altre opere più recenti, e
dietro una visita personale del Compilatore
alle Chiese, Monumenti, Antichità, ecc. ecc. di
G. B. De Ferrari professore di Lingue - I edizione Napoli 1826, Tipografia di Porcelli.
6
La Rassegna d’Ischia 3/2008
quella della baja di Napoli, combinata
colla porzione tuttora visibile, e più di
ogni altra piacevole d’Ischia. Serraro
contie­ne da 2500 anime. Fontana, che
dopo questo è il più prossimo villaggio,
ne ha solamente 600, ma ha l’onore di
essere il più alto borgo dell’Isola.
Per una salita agevole si va da questo
luogo alla cima della montagna, ch’è
alta 1800 piedi sul livello del mare.
Quivi è un convento incavato nella viva
rupe ed una chiesetta dedicata a S. Ni­
cola. Sotterrata in una cappella di questa chiesa giace la spoglia di Giuseppe
d’Arguth, tedesco, la di cui storia vien
riferita come segue in un libro anonimo
stampato tre anni fa (Tableau topographique et historique des isles d’Ischia,
de Ponza et de Vendotena, de Procida et
de Nisida, du Cap de Misène et du Mont
Pausilipe - Par un ultramontain - Naples
1822).
» Il Sig. Giuseppe d’Arguth tedesco
di nascita, e comandante del Castello
d’Ischia volle personalmente inseguire
due disertori della sua guarnigione,
che erano andati a nascondersi in una
foresta verso la cima del Monte Epomeo. Li sorprese in un luogo dei più
solitarj ma, in quel punto in cui questo
valoroso militare era per piombare su
di essi, il suo cavallo sdrucciolò e cadde
egli supino. Tosto quei scelerati armati
dei loro fucili, gli presero la mira. Il
Castellano in tal frangente invocò il
suo protettore S. Nicola, facendo voto
di dedicarsi al servigio di lui, se si
degnasse salvarlo da così imminente
pericolo. La sua preghiera fu esaudita:
forato gli fu dalle palle il cappello ed
il mantello, ma nella persona non ebbe
alcuna ferita; salva­to cosi miracolosamente, si divestì egli della sua carica, e
si ritirò all’Ermitaggio di S. Nicola, situato sulla cresta dell’Epomeo. Vi fece
ingrandire la cappella, e scavare nella
rupe stessa una quantità di cellette ed
altre stanze. Congregò una dozzina di
Da:
«Nuova Guida
di Napoli,
dei contorni,
di Procida,
Ischia
e Capri»
1826 **
di G.
B. De Ferrari
cenobiti coi quali menò poi vita monastica provvedendo con ricche dotazioni
alla loro sussistenza, non meno che al
mantenimento della cappella, che adornò di altari, di reliquie, di vasi sacri, e
di una facciata esterna cui sovrasta un
piccolo campanile. Fece pure molto
bene ai poveri, e la sua vita fu una
serie, non interrotta, di buoni esempj.
Fra gli ornamenti scolpiti in legno, che
veggonsi tuttora nel Santuario di S. Nicola, molti sono opera delle sue proprie
mani. Morì in odore di santità dopo
di aver passati in questo luogo sedici
anni: una tavola di pietra indica il luogo
della sua sepoltura nella cappella. Per
umiltà cristiana egli aveva proibito che
si facesse cosa alcuna onde conservare
la sua memoria, cosicché quanto si sa
di lui è tradizione verbale«.
Oltre a questo venerando penitente,
che visse sotto il regno di Carlo III,
altri eremiti hanno un dopo l’altro abitata la punta dell’Epomeo; uno di essi
(il Padre Michele) è tuttora vivo nella
memoria degl’Isolani; era egli pure
tedesco, na­to nel Palatinato: lasciò a
bella posta le sponde del Reno per ve-
nire ad abitare sulla rupe del S. Nicola,
e dopo esser ivi rimasto fino all’età di
centocinque anni, si trasferì al piccolo
eremitaggio di S. Francesco di Paola
nel piano di Foria: ivi morì nell’anno
1811, e vi si vede il suo ritratto non che
la tomba che ne contiene le ce­neri.
I presenti abitatori dell’Eremo sono
un anacoreta ed un laico, i quali cortesissimamente sogliono accogliere il
forestiere, dargli tutte le informazioni
che desidera, e far quanto da loro
dipende per rendere la sua visita soddisfacente: per le loro cure è mantenuta la
cappella, che una volta go­deva bastanti
redditi procedenti dai pii legati del
Padre Giuseppe, ma ora sono ridotti a
cosi po­co, che il povero Eremita non
potrebbe decen­temente tenere la Chiesa
e le sue dipendenze, se non fossero le
elemosine degl’Isolani e dei fo­restieri
che vanno a visitarla.
Per quanto alto sia il convento, non
è il più alto punto della montagna; sovra di esso evvi un terrazzo sul quale
il viaggiatore è invitato a salire, se
voglia godere la più ampia prospettiva
del mon­do. Verso Ponente vedrà egli
in mezzo all’acque Santo Stefano,
Ventotene, Ponza, e altre Isolette,
appartenenti tutte al Regno di Napoli.
Santo Stefano, che è la più piccola,
contiene un erga­stolo. Ventotene ha
due miglia di lunghezza, ed un miglio
di larghezza; nei tempi moderni i suoi
primi abitanti furono: coloni ivi mandati dal Re Ferdinando nel 1769; vi
sono adesso da 700 ani­me. Ponza che
ne contiene all’incirca 1000, è la più
grande Isola di quel gruppo, avendo 13
mi­glia di circonferenza: è assai stretta,
ed ha tre miglia e mezzo di lunghezza:
ivi si veggono alcune antichità, e fra
le altre non poche grotte e nicchie antiche chiamate i bagni di Pilato. I due
isolotti intorno a Ponza sono nominati
Palmeruola e Zannone: non hanno
abitanti né importanza al­cuna fuorché
nella storia naturale del globo, sotto
il quale aspetto hanno, come Ponza,
attratta l’at­tenzione ed esercitata la
penna di molti celebri naturalisti, come
Dolomieu, Spallanzani ecc.
Ritorniamo al terrazzo dell’Epomeo,
ove Vir­gilio, Enea, e la sua nutrice
(Cajeta), Omero, e Circe, Capua ed
Annibale, i campi Elisi ed il Tartaro,
la prima eruzione del Vesuvio, Pom­pei
e Plinio, Capri e Tiberio si riaffacciano in parte allo sguardo, e tutti alla
rimembranza dell’osservatore di quel
grandioso panorama.
Lasciata poi 1’altura, bisogna che
il viaggiatore riscenda a Fontana, e
quindi s’inoltri, per incli­nati e stretti
sentieri, a Monopane e Barano. Un
altro borgo si osserva dalla strada che
mena a quest’ultimo luogo: chiamasi
Testaccio, e non contiene più di 1500
anime; a Barano ve ne so­no all’incirca
4000 e qui ha caro il viaggiatore di rincontrare quel moto di attività ch’erasi
dileguato d’intorno a lui da Foria in
poi. Barano è il luogo ove più che in
ogni altro si fabbricano quei cappelli di
paglia da uomo cosi comuni a Napoli,
e nei contorni durante l’estate.
Oltrepassato Barano, la via riesce
tuttavia anzi che no incomoda, fintanto
che il viaggiatore sia di­sceso in una
valle che è a livello della Città di Celso.
Quivi l’agricoltura è condotta in quel
mo­do stesso che osservasi fra Capua
e Napoli, la vigna essendovi graziosamente maritata all’alto piop­po fino alla
di cui sommità si solleva, mentre che
nelle altre partì dell’Isola, è lasciata
sciolta e bassa. Questa valle decorre
fra l’Epomeo e Mon­te Vergine, sulla
di cui cima esiste una chiesa de­dicata
alla Vergine Santissima. Colassù pure
abita un eremita, e sul fianco di questa
montagna me­desima giace un villaggio, il solo dell’isola che sfugga alla
vista del viaggiatore che ne fa il giro:
si chiama Campagnano, e per vederlo
bisogna scostarsi alquanto dalla strada
maestra. Vicino a Celso s’incontra gran
porzione di un acquedotto notabile
assai per l’elevatezza dei suoi archi:
scor­rono questi al di sopra del terreno
per lo spa­zio di un miglio e mezzo, e
comunicano a con­dotti sotterranei, per
mezzo dei quali l’acqua vien portata
dalla montagna a Celso in una lunghezza di sei miglia.
Osservazioni generali intorno all’isola e agli abitanti
Dopo di aver veduti i punti più interessanti dell’Isola, il viaggiatore è per avventura bramoso di trovare nel nostro libro qualche cenno che risguardi in generale il
paese, non che gli abitanti, la qual sua curiosità noi siamo per appagare in quanto
cel permettono i limiti dell’opera.
Il suolo d’Ischia è quasi tutto volcanico; e fuorché in quelle parti, come il Campo
dell’Ar­so, ove non è stato possibile il coltivarlo, la mano industre degli abitanti
ha saputo ovunque introdurre la vite, cosicché l’isola tutta è propriamente un gran
vigneto, quindi per quantità non meno che per isquisitezza, fra i prodotti suoi
primeggia il vino. Il benessere del paese vor­rebbe di questa derrata uno smercio
maggiore; per ora riducasi a quello che vien mandato al mercato di Napoli, ove
tanti altri buoni vini concorrono. Produce eziandio una quantità ragguardevole
di fichi che, disseccati, nella fredda stagione costituiscono l’alimento principale
dei poveri: vi si semina grano, e granone, ma non in dose che basti al consumo
dell’Isola.
Gli abitanti sono generalmente ben fatti, di bella statura, briosi, e più inclinati
al vivere attivo di quei che sogljano essere gli uomini dei paesi meridionali; la
qual disposizione vien loro probabilmente comunicata dall’ambiente scoperto,
continuamente scosso dai venti, e pregno altron­de di atomi nitrosi, e solfurei;
il loro numero in tutta l’Isola è di 24.000 dei quali quattro mila, come abbiamo
già detto, occupano la Città. Buon numero di costoro e di Foriani, e di quei di
Casamiccia son marinari, o pescatori; gli altri si possono dividere in tre classi
e cioè proprietarj, manifatturieri e campagnuoli, i quali ultimi sogliono sempre
portare appesa al fianco una fal­ciuola: noi abbiamo inteso persone rispettabili cui
dispiaceva un tal costume, perché quello stru­mento, ogni qualvolta insorgono
dispute fra lo­ro, diviene un’arma pericolosa.
Non è piccolo il numero dei forestieri, e dei Signori Napolitani che concorrono
ad Ischia per prendere i bagni, o le stufe; altri vi si recano per la semplice curiosità di osservare i luoghi dell’Isola più notabili, e la spesa degli uni e de­gli altri
La Rassegna d’Ischia 3/2008
7
contribuisce alquanto alla prosperità
degl’Isolani, singolarmente a Casamiccia ove sono i bagni e le stufe più frequentate. Del rimanente e stufe e bagni
s’incontrano in quasi ogni angolo delli
Isola, e la loro diversa temperatura ed
efficacia offre altrettanti mezzi di cura
per un numero eguale d’infermità.
Il governo dell’Isola, per ciò che
spetta all’Ecclesiastico, è affidato ad un
Vescovo che risiede a Celso; il giudiziario vi si esercita da due Giu­dici, uno
de quali soggiorna al Celso, e l’altro a
Foria; l’amministrativo finalmente è
nei rispet­tivi Sindaci delle Comuni, i
quali dipendono dalla Sottintendenza
di Pozzuoli.
Capri
L’Isola di Capri giace quasi sotto il medesimo meridiano di Napoli, e sorge alta
in forma di bipartita rupe all’ingresso della sua baja; considerata come punto marittimo, offre coi venti di Mezzodì e Libeccio un ancoraggio di quattro, o cinque
braccia dirimpetto alla sua piccola spiaggia che guarda a Gregale; ma i bastimenti
debbono ancorarsi ad un breve tiro di cannone dalla spiaggia medesima, essendovi
più da vicino ad essa un fondo di quindici in venticinque braccia. Quantunque
intorno all’isola vi sieno diversi scogli tanto sopra quanto sottacqua, un bastimento
può con sicurezza farne il giro a breve distanza, fuor­ché dalla punta di Libeccio
ove è un banco di sabbia che si estende molto nel mare verso Mezzogiorno.
La circonferenza dell’Isola non eccede nove miglia: è lunga tre miglia ed ha
tre quarti di miglio di larghezza. Il nome di Capri procede dal latino Caprae, ma
fu anche chiamata Senaria, Telantea ed insula Telonis. Questo Telone, secondo
Virgilio, era Re dell’Isola prima che Enea venisse in Italia.
Da Virgilio pure, e da Stazio e da Tacito sappiamo che i suoi più antichi abitanti
furono i Teleboi, popolo procedente dall’Acarnania in Epiro. Strabone poi dice che
ai Teleboi successero nel possesso di Capri i Napoletani, i quali la diedero quindi
ad Augusto in iscambio d’Ischia, al qual proposito si narra che quest’Im­peratore
s’innamorò di Capri per aver veduto, o, come è più probabile, creduto di vedere
al suo sbarcarvi una vecchia elce rinvigorire nei suoi rami. Egli eresse nell’isola
degli edifizj magnifici, e vi passò alcuni giorni prima che venisse a morte in Nola;
ma toccava a Tiberio il render quest’Iso­la molto più famosa di quel che si fosse,
colla sua lunga, e più che lunga, ignominiosa dimora. Ta­cito riferisce la ragione
per cui questo Monarca scegliesse Capri a preferenza di Roma, e di tante nobili
Città del Romano Impero. Cesare, dic’egli, dopo di aver dedicati tempj per la
Campania, quantunque con un editto avesse ordinato che niuno disturbasse la sua
quiete e per la conveniente dis­posizione delle sue guardie rimosso fosse l’affolla­
mento dei campagnoli, pure odiando egli i muni­cipi, le colonie, e qualsiasi cosa
sul continente, andò a nascondersi nell’Isola di Capri che è di­visa per uno stretto
di tre miglia dal promontorio sorrentino. Credo che a lui piacesse sommamente
la solitudine di quell’isola, e perché non ha porto, cosicché pochi sussidj vi si
possan portare, e que­sti in piccoli navigli. Il clima, durante l’inverno, viene mitigato dall’opposto monte. che rispinge i venti impetuosi, e l’estate trasformasi
ivi in Pri­mavera perché l’Isola è circondata da un mare aperto, e piacevolissimo;
guardava essa un bellis­simo golfo prima che il Vesuvio, montagna igni­voma,
sconvolgesse la faccia del luogo.
Tiberio, condotto a Capri dalla sua diffidenza, portò ivi il suo smodato lusso,
e tutto il fasto di un Imperatore Romano, eresse edifizj sovra edifizj, tutti sontuosi, magnifici, e sfoggianti di mar­mi; quindi Stazio non senza ragione chiamò
quest’Isola dites Caprae (la ricca Capri), ricca davvero di pompa Tiberiana.
Dopo la morte di quel Cesare, Capri cadde nuovamente nell’obblio del volgo: gli
scrittori mo­derni ne hanno parlato per dimostrare che nei secoli di mezzo aveva
appartenuto agli Amalfitani la di cui Repubblica, ancorché nel suo nascere, fece
tanti acquisti. Quest’asserzione non passò sen­za controversia, ma, comunque
8
La Rassegna d’Ischia 3/2008
sia, l’Isola venne poi sotto l’immediato
dominio dei Re di Napoli, e fa ora parte
della Provincia di questo nome.
In quanto alla sua formazione, supposto fu da­gli Antichi, che si dovesse
ascrivere a qualche naturale evento
per cui divenuta fosse un’isola dopo
di aver fatta parte del vicino Promontorio chiamato allora Ateneo, la qual
conghiettura ha perduto assai del suo
credito dacché il celebre mineralogista
Breislak ha emesso opinione che non
fosse fondata; pare per altro ch’egli abbia sol­tanto impugnata l’idea dell’aver
Capri subito un cambiamento di posizione; giacché anch’egli è convenuto
nel parere che fosse una volta connessa
alla Terra ferma. Credo dunque, così si
esprime Breislak, che l’Isola di Capri
sia stata sempre in quel luogo dov’è al
presente, e che la di lei comunicazione
colla terra ferma sia stata tolta o da
qualche terremoto che ne abbia fatte
crollare le parti intermedie, o dalla
irruzione dell’Oceano, allorché questo,
rotto lo stretto di Gibilterra, riempì colle sue acque molte valli e trasformò in
isole le montagne più alte intorno alle
quali si poté diffondere. Lui stesso, mineralogista, soggiunge però che poteva
essere anche stata come uno scoglio
sepolto nel mare, e di cui comparve la
parte superiore, allorché avendo i due
mari preso uno stesso livello, le acque
del Medi­terraneo si dovettero di molto
abbassare.
La mole generale dell’Isola è una
massa di pie­tra calcarea uniforme e non
stratificata, consimile in tutto a quella
dei nostri Appennini; per altro si trovano qua e là nel terreno dell’isola fram­
menti di corpi marini ed altre sostanze
non repe­ribili in queste montagne.
Capri è divisa in due borgate, una delle quali, che ha lo stesso nome dell’isola, ne occupa la parte bassa; l’altra in
vece è situata sul piano del più alto
monte, e chiamasi Anacapri. L’Isola
tut­ta produce vino in dose eccedente il
consumo degli abitanti, per lo che molto se ne trasporta a Napoli ove si vende
insieme ai migliori vini del Regno; le
altre produzioni dell’isola sono oglio,
vino, e la migliore erba ruggine che si
conosca. Nei tempi decorsi abbondava
di capre, ma vi sono scemate assai dac-
ché molti terreni che quindici, o venti
anni fa erano incolti, sono stati messi
a lavo­ro; questa circostanza per altro
ha fatto in parte sparire molti ruderi
antichi dei quali appena più si scorge
la situazione. Erano dessi gli avanzi di
dodici palazzi, o ville erette da Tiberio,
o ch’egli almeno abbellì ed ampliò
ancor più, giacché pri­ma di lui Capri
era stata adorna di magnifici edifizj da
Augusto. Questi palazzi erano dedicati
ai dodici dei maggiori.
All’avvicinarsi del viaggiatore gli
comparisce l’Isola come un’altissima
terra che si dilunga da ponente a levante con due sommità torreggianti
verso questi due punti: sull’orientale
scorgonsi gli ingenti avanzi di un antico
palagio: è quello il luogo denominato
S. Maria del Soccorso. Due altri colli
si veggono fra quella montagna e l’oc­
cidentale, e chiamansi S. Michele, e
Castiglione, o Castellone; il borgo, o
Città di Capri è quel cumulo di case
situate nello spazio intermedio fra belle
due colline; la sommità poi all’occiden-
te dell’Isola vien detta Monte Solaro,
ed una scala notabilissima, per essere
intagliata nella viva rupe, aggiunge
non poco alla singolarità della sua
apparenza: questa scala non ha meno
di 535 gra­dini, e forma la sola via per
andare da Capri ad Anacapri.
I forestieri, sbarcando, sogliono essere invitati a presentarsi dinanzi al magistrato di Capri, e senza voler suggerire
ciò come precauzione richie­sta dalle
leggi, li consigliamo a prender con sé
i loro passaporti. Una sola locanda è
nella Città, appartiene ad una cortesissima persona di nome Donna Rachele
Tedeschi, che colle sue pulite ma­niere
vi rende il soggiorno piacevole: due
Cice­roni si trovano nell’Isola, uno dei
quali è figlio di lei.
Anacapri - L’alta rupe che sorge
al di sopra del Palazzo della marina
offre la sola via per cui si possa an­dare
ad Anacapri, via, come abbiamo detto,
con­sistente in una singolarissima scala:
bisogna salirla a piedi, o in portantina.
Prima dell’anno 1809 questa scala
non avea nulla che potesse alleggerire
la fatica della salita. Un muro laterale
vi è stato poi costrutto, il quale serve
almeno ad impedir le vertigini.
Piacevole sorpresa fa al forestiere il
vasto piano che gli si affaccia sull’alto
del monte: colassù la sua respirazione
si dilata, e può spaziare lo sguar­do
fino ad un’immensa distanza. Sovra
di quella pianura è un Castello detto
di Barbarossa forse perché fabbricato
sotto il regno di Federico II che aveva
questo soprannome. Una chiesa del
villaggio aveva una volta un pavimento
dipinto dal Solimene, rappresentante
Adamo ed Eva con molti animali nel
Paradiso terrestre: noi non sappiamo se
quest’ornamento sia o no tuttora nella
stessa Chiesa, che è adesso chiusa come
appartenente ad un con­vento soppresso,
del resto il viaggiatore sarà lie­tissimo
della sua gita a questo villaggio per la
singolare sua situazione sul più alto
punto abita­bile di tutta la baja di Napoli.
***
“Il rifiuto del rifiuto” - Il rapporto tra giornalismo e ambiente al centro
della XIV edizione del «Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi»
La sostenibilità ambientale, l’emergenza rifiuti, il riscaldamento globale, temi che riempiono le pagine di giornali
e i servizi televisivi in un continuo oscillare tra allarmismi
e negazionismi, annunci disastrosi e appelli tranquillizzanti.
Eppure le rubriche dedicate all’ambiente si limitano a raccontare della tutela di flora e fauna o a servizi di promozione
turistica.
Pare dunque che manchi un approccio più ampio, che
consideri l’ambiente quale luogo ove si realizza lo sviluppo
antropologico, sociale ed economico.
È questo il focus di “Il Rifiuto del Rifiuto”, dibattito al centro
della XIV edizione del Premio Giornalistico Televisivo Ilaria
Alpi al Palazzo del Turismo di Riccione dal 5 al 7 giugno.
Alla tavola rotonda che si svolgerà venerdì 6 e realizzata in
collaborazione con Edizioni Ambiente, interverranno: Carlo
Lucarelli, giornalista, autore televisivo e scrittore, Mariano
Maugeri, giornalista de Il sole 24 ore e Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania. Conduce Giorgio
Zanchini (Radio anch’io). Sono stati inoltre invitati Alan
Weisman, giornalista e scrittore statunitense, autore di innumerevoli articoli pubblicati su note riviste come Harper’s,
The New York Time Magazine e del recente libro “Il mondo
senza noi” e Chris Mooney, scrittore e giornalista freelance
americano specializzato sulla scienza e la politica, fondatore
del blog “the intersection”.
Anche quest’anno il Premio che, da quattordici nel ricordo
degli inviati Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin assassinati in
Somalia nel 1994 promuove un giornalismo attento ai temi
sociali, si offre come palcoscenico di confronto di importanti
temi d’attualità. Dall’ambiente all’immigrazione, dalla mafia
alla libertà d’informazione in Cina, senza ovviamente dimenticare lo stato del giornalismo d’inchiesta.
Il Premio Ilaria Alpi sarà anticipato dalla rassegna documentaria IA Doc che si svolgerà sempre al Palazzo del Turismo
di Riccione da domenica 1 a mercoledi 4 giugno.
Fra i titoli, in anteprima nazionale, il documentario War on
Democracy di J. Pilger. La proiezione si svolgerà alle 21 di
mercoledì 4 giugno, giornata interamente dedicata al giornalista e documentarista australiano in collaborazione con BFF
e Fandango. In programma una rassegna di suoi lavori.
War on Democracy sarà proiettato anche il 5 giugno nell’ambito del Bellaria Film Festival.
Il Premio Ilaria Alpi è promosso da Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini, Comune di Riccione e Associazione
Ilaria Alpi Comunità Aperta.
***
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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Napoli / Capodimonte (18 aprile – 29 giugno 2008)
Salvator Rosa
tra mito e magia
Al Museo di Capodimonte di Napoli è in corso e si
prolungherà sino al 29 giugno 2008 la mostra monografica Salvator Rosa tra mito e magia, che si svolge
nell’ambito delle celebrazioni del cinquantenario
dell’apertura al pubblico del Museo di Capodimonte e
che si inserisce nel programma culturale della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli, volto
ad approfondire, tramite esposizioni monografiche,
la conoscenza di alcuni dei protagonisti della pittura
napoletana del Seicento. Salvator Rosa, pittore, poeta e
musicista, è indubbiamente uno di questi, attivo non solo
a Napoli, ma anche a Firenze e a Roma, collocandosi in
quel particolare ambiente culturale che vede intrecciate
scienza, magia, alchimia, filosofia e arte.
Sono esposti circa 60 dipinti provenienti da musei
italiani, europei e americani, come la Galleria d’Arte
Antica di Roma, la Galleria Pitti di Firenze, la National Gallery di Londra, il Museo del Louvre di Parigi, il
Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Metropolitan
Museum di New York e opere provenienti da importanti
collezioni private. L’esposizione è, inoltre, arricchita e
completata da una selezione di disegni e incisioni presenti nelle collezioni della Soprintendenza per il Polo
Museale di Napoli.
Le opere sono state selezionate da un comitato scientifico internazionale, composto da Nicola Spinosa - presidente -, Marco Chiarini, Brigitte Daprà, Helen Langdon,
Wolfgang Prohaska, Aurora Spinosa e Caterina Volpi.
Sono previsti, anche, molteplici eventi che avranno
l’intento di mettere in luce la produzione poetica, oltre
che musicale, di Salvator Rosa, sempre strettamente
connessa a quella pittorica. Il visitatore avrà dunque
l’occasione di ascoltare la lettura di passi tratti dalle sue
Satire e da altri suoi componimenti poetici e di assistere
all’esecuzione di brani appartenenti al panorama musicale del Seicento napoletano, di cui lo stesso Salvator
Rosa fu esecutore.
L’artista - nato a Napoli nel 1615 e morto nel 1673 a
Roma – esprime, attraverso le varie forme artistiche,
quel “dissenso” che contraddistingue tutta una gene-
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Leggete e diffondete
La Rassegna d’Ischia 3/2008
Salvator Rosa - Autoritrato
razione di pittori e scrittori, che si pongono in maniera
fortemente critica nei confronti del potere politico e
religioso.
«Salvator Rosa, dopo Caravaggio», - afferma Nicola
Spinosa - «è certamente una di quelle personalità che più
hanno segnato, non solo le vicende dell’arte in Italia tra
naturalismo e barocco, quanto anche la fantasia di noi
contemporanei. Poeta e pittore, letterato e uomo d’armi,
uomo di teatro e pratico di alchimia, condensa in sé tutti
gli aspetti più diversi e contrastanti di un partenopeo, che
pur essendo stato costretto a lavorare altrove - a Roma e
Firenze in particolare - conservò, comunque, dentro di sé
l’animo di un uomo nato e cresciuto a Napoli, all’ombra
del Vesuvio. La sua pittura, con temi biblici ed evangelici, alchemici e filosofici, magici e di stregoneria, ma
anche fatta di straordinari ritratti di uomini e donne del
suo tempo e autoritratti di coinvolgente comunicatività,
è, infatti, attraversata, come tutta la realtà napoletana di
ieri e di oggi, da luci e ombre, fatti e misfatti, miseria e
nobiltà, profonda religiosità e irreversibile superstizione».
Il sito del museo: www.museo-capodimonte.it
La Rassegna d’Ischia
Il giornalista e scrittore tedesco incantato dai paesaggi e dai colori d’Ischia
Fritz Wolf
L’arte della caricatura
di Giuseppe Silvestri
Fritz Wolf
Come si legge sulla locandina la città natale di Osnabrück ha
organizzato una mostra in onore di Fritz Wlof che si terrà dall‘8
maggio al 13 giugno 2008.
È noto che l’isola d’Ischia è stata nel tempo, ed in particolare negli ultimi tre secoli, visitata ed amata da moltissimi
artisti: scrittori, pittori, poeti, dei quali si è spesso parlato
e che si ricordano in articoli e libri. Essi costituiscono un
motivo di prestigio e di vanto per l’isola che, grazie anche
alle loro opere, ha acquisito risonanza internazionale.
Ebbene, ritengo opportuno oggi ricordare Fritz Wolf
(1918-2001), giornalista tedesco, scrittore, autore delle
pagine satiriche di importanti giornali, tra cui Stern e
Brigitte.
Venne a Ischia nel 1972 e si stabilì in un appartamento
di Citara a Forio.
Nel giorno stesso del suo arrivo si presentò già in divisa
tennistica, pantaloncino scuro e maglietta bianca, al circolo
di tennis del Gattopardo, aveva una racchetta particolare
dalla forma strana che ci meravigliò molto. Aveva da poco
scoperto il tennis e se n’era appassionato. In campo fu immediatamente spettacolo: lui, molto alto, con quella strana
racchetta, occhi scuri, con le sue lunghissime sopracciglie,
eseguiva i tipici movimenti di scuola tennistica, con una
lentezza che nasceva dall’intento di attenersi scrupolosamente agli insegnamenti ricevuti.
Nacque subito un rapporto di amicizia con me e con gli
amici che quotidianamente frequentavano il circolo: Nicola Luongo, Raffaele Castagna, Sergio Cigliano, Pierino
Verde, Salvatore Calise, Pierino Calise, Salvatore Castaldi.
Si organizzavano partite di doppio accanite e divertenti e le
conversazioni, che seguivano ad ogni incontro, contribuirono ad approfondire la conoscenza con Fritz Wolf ovvero
con “Lupo Furioso” come gli piaceva essere chiamato.
Aveva studiato un poco l’italiano, ma con quelle discussioni certamente ne migliorò la conoscenza e la capacità di
esprimersi. Si parlava di tennis, della Germania, di politica
e soprattutto di Ischia della quale era rimasto incantato per
i suoi paesaggi ed in particolare per i colori del suo mare
e del suo cielo che trovava straordinari.
Capimmo subito di ritrovarci con una personalità straordinaria che si poneva di fronte agli altri ed alle cose con
l’intento di cogliere sempre quanto potesse esserci di bello
e di interessante tale che, filtrato dalla sua intelligenza, dalla
sua ispirazione e dal suo umorismo, potesse poi trovare
espressione nei suoi disegni, vignette e pagine satiriche.
Si trovò ad Ischia in occasione di un evento straordinario: il colera di Napoli del 1973. Ricordo che, mentre tanti
lasciarono l’isola, lui non s’impressionò per niente. Continuammo a giocare a tennis ed insieme andammo presso il
Municipio di Forio per praticare la vaccinazione, quando
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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fu estesa a tutti. Girò per l’isola alla scoperta dei luoghi più
belli e caratteristici, dimostrò interesse per la sua storia e
le sue tradizioni e, amante della buona cucina, frequentò i
migliori ristoranti tra Lacco, Forio e Sant’Angelo.
Una sera mi invitò a cena al “Padrone del mare”, un noto
ristorante di Lacco Ameno, sul mare. C’erano con lui come
sempre la sua gentilissima signora ed un giovane scrittore
tedesco che si era indirizzato verso l’arte satirica ed umoristica ed era evidente che aveva in Wolf il suo modello e
maestro.
Io mi presentai con un album da disegno, di quelli che
si usano alla scuola media, e chiesi a Wolf di lasciarmi un
ricordo. Wolf prese l’album e mi disse: «ci devo pensare,
te lo darò domani». Ricordo bene che il giovane scrittore,
meravigliato, gli chiese: «tu fai questo per lui?» E Lupo
Furioso rispose: «Giuseppe è un amico».
L’indomani al tennis mi riportò l’album. Otto fogli,
altrettanti disegni che rappresentavano un’accanita partita
di tennis con un acceso litigio su una palla che si conclu-
de alla fine con il prepotente che soccombe ed il modo è
veramente divertente.
Ci scrivemmo per diverso tempo e le sue lettere erano
sempre caratterizzate dall’emblematico disegno di Lupo
Furioso con la immancabile pipa. Mi inviò con dedica un
suo libro di vignette satiriche.
Ci incontrammo l’ultima volta nel settembre del 1997.
Venne a Lacco Ameno, a casa mia, rimanemmo a lungo a
chiacchierare seduti sotto un pergolato di viti, assaggiammo qualche fico e bevemmo un bicchiere di vino. Aveva
compiuto ottanta anni e mi raccontò degli onori e dei tanti
festeggiamenti che la sua città di Osnabrück aveva organizzato per lui. Era a Ischia come al solito per riposare, per
giocare a tennis e per gustare la cucina ischitana, a base di
pesce e di spaghetti. Ma credo, anche per navigare con la
sua fantasia nei colori del cielo d’Ischia soprattutto quando
è nuvoloso.
***
Product Placement & Location Festival
Questa prima edizione del “Product Placement & Location Festival” è solo il “trailer” di quello che, già dalle
prossime edizioni, raccoglierà tutte le modalità d’espressione audiovisive, valutate e premiate da commissioni e
giurie composte dai più autorevoli esponenti delle diverse
categorie.
In programma proiezioni, convegni e workshop per fare
il punto, a tre anni dalla “Legge Urbani”, sulla riforma del
cinema e valutare, con gli operatori, le migliori strategie
per assicurare un futuro proficuo e di qualità per Cinema,
Aziende e Istituzioni.
Carlo Bassi, presidente del “Product Placement & Location Festival”, presenterà uno studio sul mercato maggiormente in crescita per quanto riguarda gli investimenti
pubblicitari nel settore cinematografico, soprattutto dopo
l’entrata in vigore del decreto legislativo 28/2004 che
disciplina anche nel nostro Paese l’utilizzo del Product
Placement.
Un mercato che cresce del 27% l’anno, un dato che ha
portato le agenzie di comunicazione a strutturarsi anche
per affrontare con competenza quello che viene definito
“brand entertainment”, l’importante momento in cui il
marchio diventa protagonista della sceneggiatura. Le
ricerche affermano che un prodotto/brand ogni qualvolta viene percepito in modo positivo all’interno della
storia rappresentata nei film ha un ritorno in termini di
vendite esponenziale e riferibile al gradimento della
pellicola. E’ quindi necessario fare cultura e chiarezza
perchè il Product Placement trovi spazio nelle strategie
di éarketing e Comunicazione delle aziende.“Ischia Film
Festival International Location Market “è l’intuizione del
direttore artistico Michelangelo Messina che da cinque
12
La Rassegna d’Ischia 3/2008
anni concentra una particolare attenzione ai “Luoghi“
dove il cinema si compie; l’incontro con Carlo Bassi,
già amministratore delegato di AIP-Filmitalia, società
per la promozione del cinema italiano, ha dato vita al
nuovo, ambizioso progetto del “Product Placement &
Location Festival”, che in sintesi si prefigge di creare
un appuntamento annuale capace di favorire l’incontro
e l’integrazione tra l’“Opera intellettuale audiovisiva”,
nella sua accezione più ampia, e la Comunicazione d’Impresa. Un momento di scambio e condivisione, ma anche
un’occasione per premiare i lavori che meglio esprimono
la giusta unione tra l’ opera audiovisiva e il “marchio”
del prodotto.
Per la prima edizione del Product Placement & Location Festival sono state scelte due locations eccezionali
la cinquecentesca Torre Guevara detta di Michelangelo
e il Castello Aragonese d’Ischia, entrambe da anni locations storiche dell’Ischia Film Festival, che si svolgerà
quest’anno dal 22 al 29 giugno.
Rassegna
LIBRI
Isola di Procida
Interno
di Toniet Grassi
Testi (in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco)
e foto. 160 pagine in formato 30/21, con prefazione di Francesco Noviello, 2008
Toniet Grassi di origine italiana, nata in Belgio, è
autrice ed editrice di questo libro che fa vivere intensamente l’isola di Procida attraverso una ampia serie
di fotografie che ne riproducono tutti i suoi angoli
paesaggistici ed umani. Lei ricorda, quasi vagamente, l’amore che la madre provava per Napoli e la sua
baia; ed oggi quelle impressioni appena percepite sono
riapparse forti e vive, quando ha scoperto l’isola di
Procida: «imbarcandomi da Napoli» - lei dice – «ero
lontana da immaginare che meravigliosa avventura mi
sarebbe capitata». Ed ora è lei a portare al suo fianco
la madre e condividerne le emozioni e la passione per
l’isola: «Prendendoti la mano, ti porto con me / e passo
a passo ti farò scoprire Procida... ».
Leggiamo la prefazione di Francesco Noviello:
- Per farsi raccontare, Procida ha sempre trovato vie
misteriose e tortuose. La sua indole scontrosa l’ha portata ad aprirsi a scrittori ed artisti scomodi ed irriguardosi, come ad esempio la Morante. Ed in questo solco
si colloca Interno, cahier de voyage, che raccoglie foto,
ricordi e poesie di Toniet Grassi, personaggio eclettico
ed inafferrabile della scena artistica belga che approda
sull’isola per caso. Un naufragio inconscio, sulle orme
dell’amatissima madre scomparsa che frequentava la
baia di Napoli.
a cura di Raffaele Castagna
Come l’Arturo morantiano, Toniet si spinge in solitudine nelle sue strade spinta da ricordi personali che
spesso velano lo sguardo fino ad arrivare ad un’indicibile nostalgia che traspare dalla sua poesia. Reporter d’eccezione, dispiega al meglio la sua vocazione
di grande osservatrice e da accanita fotografa si sintonizza sul paesaggio sino ad afferrare il segreto del suo
equilibrio precario tra il mare ed il cielo. Nei suoi scatti,
infatti, non esiste una collocazione temporale. La terra
è quella che videro ammirati per la prima volta i greci
dalle loro navi, solo graffiata dai guasti architettonici
degli ultimi anni. Un paesaggio a tratti metafisico, che
rifugge da qualsiasi interpretazione storico-culturale.
La viaggiatrice è solo interessata all’attrazione della
luminiscenza che riluce al tramonto sul porto o alle
onde di pietra porosa di tufo che disegnano leggere la
costa.
Sopraffacendo la diffidenza, raccoglie voci dai suoi
abitanti, entra nelle loro botteghe e si fa raccontare
procedimenti antichi, cogliendo i significati magici di
gesti che si tramandano da secoli.
La forza di questo libro è proprio nella semplicità
con cui l’autrice si accosta ad un territorio che ha visto nascere dall’ “interno” una sua tensione morale e
la custodisce gelosamente. Un diario per celebrare la
madre, ma anche un atto d’amore verso quest’isola
“paradossale” e per certi versi ancora inesplorata. -
Racconto sul come
scrivere i racconti
***
di Borís Pil’nják
Imagaenaria Edizioni Ischia. In copertina illustrazione tratta da Art Journal, London 1877. Postfazione di
Gianfranco Marelli, marzo 2008.
Tre racconti di Borís Pil’nják, pseudonimo di Borís
Andréevič Vogau (1894-1938). Nel primo, che dà il titolo al volume, l’autore descrive la vita di una giovane
compatriota russa, il cui marito (un ufficiale giapponese conosciuto ai tempi in cui l’estremità orientale
dell’immenso territorio sovietico era stato occupato
dall’esercito nipponico) divenne in seguito un famoso ed affermato scrittore per avere narrato in un libro
- a sua insaputa - il loro intimo e passionale ménage.
La giovane donna, venuta casualmente a conoscenza
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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di come - con astuzia e tradimento
- l’amato si era preso gioco del suo
amore, decide pertanto di lasciarlo e
di far rientro in patria. Nel presentar
la richiesta, scriverà la propria biografia, oggetto di ricerca e studio da
parte dell’autore del racconto.
Scrive Gianfranco Marelli nella
posfazione: «L’intreccio narrativo
muove da un lui e da una lei che
agiscono dentro e fuori il racconto,
consentendo all’autore di cogliere
l’insorgere di una patogenesi letteraria attraverso la sovrapposizione del
piano della finzione sul piano della
realtà, al fine di osservare quanto
l’amore dello scrivere per sé cancella, distrugge l’amore per l’altro; una
sorta di cannibalismo estetico in cui
- come efficacemente l’autore rimarca - il marito non esita a preferire la
fama, la notorietà, per aver scritto di
lei, al vivere con lei. Nel suo minimalismo essenziale, dunque, il Racconto sul come scrivere i racconti
esplora in profondità la tecnica dello
scrivere, osservando quanto il racconto distrugga la realtà, poiché la
realtà - una volta divenuta racconto non può più sopravvivere a se stessa:
vive riflessa nell’opera dell’autore,
traendone nuova linfa. Ma allora il
racconto, se si dovesse paragonarlo ad uno specchio, della realtà cosa
riflette? La forma del contenuto, o
14
La Rassegna d’Ischia 3/2008
il pensiero contenuto nella forma?
L’autore non si esprime a proposito,
si limita a riproporre al lettore una
vicenda a lui capitatagli, quando
nello studiare gli incartamenti per
la domanda d’espatrio della moglie
di un famoso scrittore giapponese
s’imbatté nell’autobiografia scritta
dalla giovane donna russa. “Ecco
tutto - scrive nel finale del racconto
Pil’njàk -. Lei visse la sua autobiografia sino in fondo; io scrissi la sua
biografia, scrivendo che passare attraverso la morte è più difficile che
uccidere un uomo. Lui scrisse un romanzo bellissimo”».
Negli altri due racconti si assiste
all’accentuazione degli aspetti emotivi, psicologici della trama narrati-
va, consentendo all’autore di esprimere il proprio stile silente, privo di
dialoghi, poetico più che prosastico.
In Tutta la vita due grandi uccelli – un maschio e una femmina – in
un oscillare di emozioni, incarnano
l’animale uomo nella sua energia
primordiale legata alla sopravvivenza della specie: il cibo e il sesso. In
Greco-tramontana l’oscuro turbamento di una donna è all’origine di
una calunnia che acquista tale potere
sulle coscienze da rendere inessenziale la verità, «come se i fatti potessero essere inverosimili come la
menzogna, e la menzogna potesse
essere un fatto».
***
Un irresistibile soffio di luce
Artisti a Ischia da Böcklin agli anni del Bar Internazionale
di Massimo Ielasi
Imagaenaria Edizioni Ischia. Grafica e impaginazione di Enzo Migliaccio.
In copertina: Herbert List (?), Margery e Carlyle Brown nella casa di Via
Cesotta a Forio d’Ischia (collezione
Józek Cardas). Fotografie dall’archivio di Józek Cardas. Con scritti
di Tonino Della Vecchia e di Pietro
Paolo Zivelli.
Massimo Ielasi narra la vicenda
dell’arte a Ischia tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Una vicenda che ci si augura «possa
riprenderla un giorno un critico o uno
storico e finalmente trovarle nella storia dell’arte un posto, forse piccolo,
ma che sicuramente le compete».
Essa si incentra nella lunga serie di
artisti e di personaggi del mondo letterario e cinematografico, italiano ed
estero, che crearono nell’isola quasi
un secondo cenacolo, dopo quello
che si formò nel Cinquecento sul Castello Aragonese intorno a Costanza
d’Avalos e a Vittoria Colonna: si va
da Böcklin agli anni del Bar Internazionale di Forio. Narrazione non
astratta e indiretta, ma concreta e diretta, di eventi almeno in parte vissuti
vivamente e comunque non troppo
lontani; vicende e presenze inoltre
non avulse dalla realtà quotidiana e
locale, ma con essa intrecciate in un
coinvolgimento costante. Si scopre
così che l’isola era già essa stessa
una terra di artisti pronti ad uscire dai
ristretti confini insulari e ad essere
valorizzati opportunamente. Si legga
ad esempio l’incontro tra Luigi De
Angelis e il pittore Hans Purrmann.
Massimo Ielasi, gallerista in Ischia
Ponte, aveva già scritto nel 1982 un
libro dedicato ai pittori dell’isola
d’Ischia, in cui ciascuno trova la sua
collocazione artistica. Il nuovo testo
dà quasi l’impressione di un racconto nostalgico rispetto ad un’epoca
passata, della quale il ricordo (e
non soltanto questo) non dovrebbe
mai smarrirsi nell’oblio. Ma in tale
prospettiva occorrerebbe che fosse
l’isola a smarrire la sua nuova identità
mirata a tutto distruggere nella ricerca
di valori consumistici ed edonistici.
Inizialmente fu Porto d’Ischia ad
essere scoperta ed attratta da questi
nuovi ospiti; non era certo il filone
dei personaggi del
Grand Tour che già
avevano frequentato e percorso in
lungo e in largo
i luoghi dell’isola. Altri i motivi
del richiamo verso
i nostri lidi, non
esclusi fatti politici del tempo. A
mano a mano che
i primi segni di
sviluppo cominciano a palesarsi a
Ischia e intorno al
suo porto, diventano Sant’Angelo
e Forio i centri di
richiamo e di raccolta, soprattutto
Forio con il Bar
Internazionale e il
suo caratteristico
personaggio, Maria. Scrive Tonino
Della Vecchia: «Infine Maria. Era
lei, più che il suo locale come luogo
di ritrovo, ad essere il vero centro di
Forio. Era lei quella che comandava,
che dirigeva, confermando la dedica
che uno scenografo (americano o
francese che fosse), le lasciò su di una
foto: “Maria, sans toi Forio n’aurait
pas été ce qu’il est”. E lo poté essere perché priva di atteggiamenti o
presunzioni verso i suoi ospiti, ma
come una cosa naturale. È lei stessa
a parlarne: “Mi trovavano simpatica,
cordiale, in certi momenti, di sera
tardi dovevo chiudere e andare via
con loro a cena fuori”».
Elsa Morante scrisse: «... E alla cara
Maria, la caffettiera fra tutte bella e
amata, ospitale e galante».
***
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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Il mio primo
amore
di Vincenzo Padula
Imagaenaria Edizioni Ischia. Postfazione di Patrizia Di Meglio, marzo
2008
Come in un gioco di specchi, al
vagheggiamento romantico e sensuale di un giovanissimo seminarista si oppone il delirio di una madre.
Vincenzo Padula (Acri 1819-1893)
ha ispirato questo racconto, apparso
la prima volta nel 1841, ai luoghi e
La Scuola Media Santa Caterina da Siena
di Forio - Storia di un archivio
Questo lavoro ripercorre la storia della Scuola Media
Statale di Forio attraverso più di un cinquantennio ed ha
coinvolto un gruppo di alunni e gli insegnanti del Laboratorio di ricerca di storia locale in un impegno irto di
difficoltà1.
Come scrive il dirigente prof. Mario Sironi, «la Scuola
Media Statale Santa Caterina da Siena ha una storia lunga
e antica che si intreccia con quella della comunità di Forio
ed in parte dell’intera isola». Una storia lunga e antica ma,
potremmo dire, anche travagliata, se si pensa soprattutto
all’odissea delle varie sedi e dei vari plessi, spesso angusti e
impropri, in cui è stata di volta in volta allogata con alcune
classi, e che per qualche aspetto continua ancora oggi, considerando questioni di recente impatto e la persistente mancanza di una palestra. A meno che non si voglia assimilare
letteralmente quella riflessione di Leo Watters, riportata
nelle prime pagine del libro: «La scuola è un edificio che ha
quattro pareti con dentro il domani». Proprio i frequenti traslochi hanno impoverito la conservazione di testimonianze
e di documentazione. Se «la scuola è la carta d’identità di
un paese» - come scrive Ortensia Castaldi nella postfazione – e che deve essere «curata, tenuta in considerazione,
sostenuta nelle sue necessità da autorità e cittadini», non
1 Alunni: Angelica Buonanno, Marilena Buonanno, Giuseppina Calise, Roberta Calise, Francesco Castaldi, Gennaro Cirillo,
Carmen Colella, Giusy Cucinotta, Federica Cuomo, Giuseppe
D’Ambra, Simona D’Antonio, Giulia D’Ascia, Annalisa Impagliazzo, Valentina Impagliazzo, Giulio Lala, Fabio Maresca, Ivan
Maresca, Vincenzo Marotta, Fabio Minichini, Domenico Onorato, Sara Patalano, Giuseppe Petrone, Claudio Proietti, Federica
Restituto, Teresa Savignoni. Insegnanti coordinatori: Ortensia
Castaldi, Maria Rosaria Di Costanzo. Ha collaborato Felicia Lamonaca, specializzata in ricerca storica.
16
La Rassegna d’Ischia 3/2008
all’ambiente della sua adolescenza.
Avviato al sacerdozio, studia prima
in seminario e riceve gli ordini minori. Già in questi anni si dedica alla
poesia. Poi sopraggiunge la crisi:
innamoratosi di una ragazza di buona famiglia, egli vorrebbe sposarla,
ma i genitori si oppongono e glielo
impediscono, sicché è costretto a riprendere la carriera sacerdotale.
Tra le sue opere, la novella in versi
Il monastero di Sambucina, il poema Il Valentino, il dramma Antonello capobrigante calabresee, il poemetto incompiuto L’Orco. In Prose
giornalistiche (1878) sono raccolti i
suoi studi meridionalistici.
***
si può dire che il
problema scuola sia stato vivamente presente
nelle attenzioni
e nell’attività
delle varie amministrazioni
comunali.
«Il materiale
conservato ha
permesso di ricostruire la storia della Scuola
di Avviamento
“Casa Giuseppina”, poi denominata “S.
Luisa di Marillac”, in seguito “S. Caterina da Siena”, dal 1936 al 1954,
quella della Scuola Media Parificata “Casa Giuseppina”
dal 1951 al 1962 ed infine la nascita della Scuola Media
Unificata nel 1963 e il percorso compiuto fino ad oggi. La
parte più consistente della storia “ricucita” riguarda proprio
la Scuola di Avviamento per la quantità cospicua delle fonti
reperite, per il notevole interesse che quel periodo storico,
quello del regime fascista, ha suscitato negli alunni oltre
che nei docenti».
Di valido supporto è stato, nei tre anni in cui è articolato
il lavoro, anche il contributo di insegnanti e personale
scolastico, come Elena Schiano (dirigente amministrativa
che è stata testimone del passaggio dalla Scuola Media
Parificata a quella Unificata), Rosa Mattera, Viola Battaglia, Suor Anna, Rosa Genovino, Anna Maria Capodanno,
Francesco Trofa, Nino d’Ambra.
***
A proposito di Barry B. Powell, Homer and the origin of the Greek alphabet *
Omero e l’origine dell’alfabeto greco
di Nunzio Speciale
In questo studio l’autore si propone di esaminare i
particolari contesti e le motivazioni storiche che determinarono il passaggio dal­la scrittura semitica (fenicia)
consonantico-sillabica all’alfabeto in Grecia («Although
many have praised alphabetic writing and noted its
profound influence on culture, no one has ever inquired
systematically into the historical causes that underlay
the radical shift from earlier and less efficient writings
to alphabetic writing. Such is my purpose in this book»,
p. 3).
Nella fattispecie, si tenta di stabilire che cosa può aver
causato l’invenzione dell’alfabeto, chi lo ha potuto o
voluto inventare e per quale ragione è scaturita questa
straordinaria invenzione. Per questi quesiti viene proposta un’interessante soluzione.
Per Powell si potrebbe pure ammettere che l’alfabeto
sia stato creato anche per soddisfare determinati scopi
o necessità non lette­rarie (annotazioni, trascrizioni,
registrazioni di calcoli e conti commer­ciali); tuttavia,
indubbi presupposti storici e culturali indurrebbero
l’au­tore a supporre, per l’origine dell’alfabeto, finalità
più letterarie che pratiche e, quindi, ad immaginare che
l’alfabeto sarebbe stato inven­tato da un individuo, forse
dell’Eubea, esclusivamente per registrare la primissima
poesia in versi, l’epos di Omero, l’Iliade e l’Odissea
(«It is conceivable that Greek alphabetic writing was
invented to record business accounts... but evidence
and reason reject these suppositions», pp. 236-237
passim).
È questa l’ipotesi prospettata da Powell. Passiamo,
dunque, ad esaminare più da vicino il saggio e a valutarne, in seguito, il contenu­to.
La trattazione si articola in cinque capitoli, è preceduta
da una breve prefazione e conclusa da due appendici.
È presente una sezio­ne dedicata alla definizione dei
termini e dei concetti qua e là ricor­renti, talora poco noti
o usati solo in ambito glottologico. Da rilevare, infine,
la bibliografia, ricca e puntuale.
Il primo capitolo («Review of criticism: What we know
* Cambridge University Press, Cambridge-New York, 1991, pp.
XXV+280; 2 grafici; 4 carte geografiche; 11 figure; 6 tavole.
** Articolo tratto dalla rivista PAN (n. 21/2003 pp. 33-41) dell’Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Civiltà EuroMediterranee e di Studi Classici Cristiani, Bzantini, Medievali,
Umanistici. Ringraziamo il direttore prof.ssa Giovanna Petrone
per avercene permesso la ripubblicazione.
**
about the origin of the Greek alphabet», pp. 5-67) viene
dedicato all’analisi critica della questio­ne dell’alfabeto
e della sua origine, argomento, in verità, non nuovo e
ampiamente dibattuto. Anche Powell si propone, come
altri studiosi, di collegare l’alfabeto greco con quello
fenicio, di stabilirne l’epoca e il luogo dell’adattamento
linguistico, di esaminare i nomi, i suoni, le for­me delle
lettere, di determinare le prime attestazioni e le più tarde
espressioni del sistema fonetico e alfabetico.
È particolare, tuttavia, l’approccio metodologico di
Powell a si­mili questioni. Anzi, proprio fin da questo
capitolo si sottintende, sia pure in modo velato, la
soluzione a quel quesito che pare scorrere e snodarsi
dall’inizio alla fine del libro: «Why should the Greek
alphabet have been invented at all?» («...scholars have
concentrated on where and when the adaptation might
have taken place ... while avoiding the question, “Why
should the Greek alphabet have been invented at all?”»
pp. 3-4 passim).
Il capitolo prosegue con la discussione delle origini
dell’alfabeto greco (Erodoto V 58-61) con la storia di
Cadmo e dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, (1)
Crizia e i grammat’ alexiéloga (per cui cfr. D.-K. 88,
B 2. 10), etc. con due tavole fonetiche greche e fenicie. Subito dopo, Powell sostiene che, nel processo di
adattamento dal fenicio, l’alfabeto greco sarebbe stato
creato in un determinato tempo e in un preciso luogo
da un individuo, probabilmente verso l’800 a.C.
Del resto, continua Powell, le varietà locali della
scrittura alfa­betica greca, le cosiddette varietà epicoriche, dimostrerebbero, già, di per sé, l’esistenza di un
originario modello alfabetico, appunto quello fenicio,
e ne attesterebbero, quindi, le successive modificazioni
o adattamenti (si consideri, ad esempio, la ricorrenza
della lettera f = [ph] in tutte le parlate locali ma non
nel modello fenicio). In sostanza, viene proposta una
1 Cfr. soprattutto Herodot. V 58, 1: oi| deè Foiénikev ou&toi
oi| suè n Kaé d mw a\ p ikoé m enoi, tw% n h& s an oi| Gefurai% o i,
a$lla te pollaé oi\khésantev tauèthn thèn cwérhn e\shgagon
didaskaé l ia e\ v touè v ìEllhnav kaiè dh kaiè graé m mata,
ou\ k e\ o é n ta priè n ìEllhsi w| v e\ m oiè dokeé e in, prwé t a meè n
toi%si kaiè a£pantev creéwntai Foiénikev: metaè deè croénou
probaiénontov a£ma t°% fwn°% meteébalon kaiè toèn r|uqmoèn tw%n
grammaétwn (Questi Fenici venuti con Cadmo, di cui facevano
parte i Gefiei, abitando questa terra, introdussero fra i Greci molte
cognizioni, e fra l'altre anche l'alfabeto - che prima i Greci, a quanto
credo, non avevano - in un primo tempo quello di cui si servono
anche tutti i Fenici, poi, col passar del tempo, con la lingua i Cadmei
mutarono anche la forma delle lettere).
La Rassegna d’Ischia 3/2008
17
teoria “monogenetica” dell’alfabeto greco, una teoria,
del resto, ormai ampiamente diffusa ed accettata, in
maniera pressoché unanime, dai linguisti moderni. (2)
L’alfabeto sarebbe stato inventato, per Powell, da
un ignoto in­dividuo, da un genio, da un benefattore
dell’umanità, che avrebbe, così, forgiato o adattato
l’alfabeto dal preesistente sillabario fenicio.
Non a caso, proprio per questa opera di adattamento
Powell lo chiama «the adapter» (p. 12) e lo identifica in
Palamede, figlio di Nauplio, inventore, anche secondo
la tradizione, della stessa scrittura al­fabetica. Si azzarda,
pure, un’ipotesi sul possibile «place of adaptation», cioè
l’Eubea. Così, certe scoperte epigrafiche, quali la Coppa
di Nestore, più o meno del 740 a.C., proveniente da Pithekoussai, o il gruppo di graffiti su cocci da Lefkandi in
Eubea del 775-750 a.C., primissimi esempi di scrittura
nella Grecia arcaica, dimostrerebbero, insieme con
altri ritrovamenti, che, già, allora l’Eubea manteneva,
storicamen­te, effettive relazioni con l’Oriente (Al Mina
in Siria, Fenicia, Egitto) e con l’Occidente (Pitecusa e
Cuma) del mondo greco e che, quindi, per il carattere
alfabetico di queste prime iscrizioni, poteva divenire la
patria dell’inventore dell’alfabeto, dell’adapter (cfr. pp.
11-15).
L’adattamento sarebbe comparso, per la prima volta,
in Eubea proprio perché «the adapter may himself have
been a Euboian» (p. 60) e Pala­mede, il mitico eu|rethév
2 Powell propone più o meno le stesse argomentazioni in un suo
precedente articolo (The origin of the puzzling supplementals, in
TAPA 117 (1987), pp. 1-20, soprattutto p. 2).
La Coppa di Nestore e la sua iscrizione graffita in versi.
Dalla necropoli nella Valle di San Montano (Lacco Ameno), tomba 168. Scavi condotti da Giorgio Buchner.
18
La Rassegna d’Ischia 3/2008
dell’alfabeto, viene considerato nativo della stessa
Eubea anche dalle fonti antiche. Quindi, per Powell,
gli Eubei sarebbero stati, più o meno, nell’800 a.C.,
dominatori incontrastati dei commerci e delle relazioni
di quasi tutto il Mediterraneo ma, anche, i primi inventori
o adattatori dell’alfabeto.
Segue, quindi, la descrizione del sistema fonetico
semitico-greco e, in tale contesto, risulta rilevante la
trattazione del cosiddetto «problem of the supplementals
f c y»(pp. 48-63). (3)
Ancora per questo capitolo, ci pare opportuno ricordare due ex­cursus, l’uno dedicato al cosiddetto “principio
acrofonico” («the so-called acrophonic principle»),
l’altro alle «matres lectiones». Un breve accenno al
problema delle sibilanti chiude, infine, il capitolo.
Nel secondo capitolo («Argument from the history of
writing: How writing worked before the Greek alphabet», pp. 68-118) Powell si propone di analiz­zare la
posizione dell’alfabeto greco nella storia della scrittura.
A tal fine, l’esame di tre specimina delle prime forme
prealfabetiche o alfabe­tiche (i geroglifici egizi, il sillabario cipriota, il fenicio) consente di in­tuire quali cambiamenti dai precedenti modelli di scrittura si possono
cogliere nell’alfabeto greco.
Per Powell, una simile analisi non può riguardare le
lettere e le loro forme, i loro nomi o i loro suoni, ma solo
deve determinare in che modo queste lettere furono usate
3 Anche Powell, come tanti altri, per visualizzare tale distribuzione
di questi suoni, si avvale della mappa “colorata” di A. Kirchhoff
(Studien zur Geschichte des griechischen Alphabets, Berlin 1887)
che propone una suddivisione epicorica di f c y in quattro gruppi
“colorati”, «dark blue», «light blue», «red», «green».
in reciproca combinazione o in che modo la sintassi
poté esprimere concretamente, cioè fisicamente, idee o
solo parole: «Important to our inquiry will no longer be
shapes, names, and sounds, but how signs were used in
combination, their syntax in transforming speech, fact,
idea, into a physical record» (p. 68).
Infine, al termine del capitolo (pp. 109-118) Powell
accenna a H.T. Wade-Gery, che, già, nel 1952 (The Poet
of the Iliad, Cambridge 1952, pp. 11-14) aveva sostenuto che l’alfabeto sarebbe stato inven­tato in Grecia per
registrare versi esametrici.
Due osservazioni avrebbero corroborato una simile
ipotesi: - le nostre primissime iscrizioni alfabetiche sono
in versi; - i Greci utilizzarono la scrittura alfabetica
esclusivamente per registrare versi eroici, una necessità,
questa, che non si può riscon­trare in altri tipi di scrittura,
soprattutto quella logo-sillabica o sillabica (sillabario
cipriota).
Del resto, le attestazioni epigrafiche collimerebbero
per­fettamente con la tesi di Wade-Gery: «the epigrafic
evidence is consonant with Wade-Gery’s thesis that the
Greek alphabet was designed specifically in order to
record hexametric poetry» (Barry B. Powell, Why was
the Greek alphabet invented? The epigraphical evidence, in Classical Antiquity 8/2, 1989, p. 350).
Nel terzo capitolo («Argument from the material
remains: Greek inscriptions from the beginning to c.
650 B. C.», pp. 119-186) si procede all’esame delle
iscrizioni alfabetiche dal 750 circa fino, più o meno, al
650 a.C. Qui Powell riprende alcune osservazioni già
espresse in un suo precedente articolo (cfr. Powell, art.
cit., in Classical Antiquity 8/2, 1989, pp. 321-350), e, in
particolare, si propone di analizzare alcune iscrizioni,
restituendole sul piano testuale e definendole nel loro
contesto stori­co-letterario, e soprattutto di stabilirne un
legame con la nascita del­l’alfabeto. Così, proprio queste
iscrizioni dovrebbero dimostrare che, già, all’inizio, la
nuova scrittura alfabetica greca fu intimamente lega­ta,
nella forma e nella sostanza, con la poesia in versi.
Dapprima, vengono presentate (pp. 123-158) cinquantasette brevi iscrizioni e vari corpora di abecedari; di
seguito (pp. 158-180), vengono passate in rassegna undici iscrizioni più lunghe, alcune già note e ampiamente
studiate altrove (ad esempio quelle della oinochoe del
Dipylon o della Coppa di Nestore). Powell è indotto
a supporre che gli autori delle nostre prime iscrizioni
fossero uomini dei circoli conviviali che usarono la
scrittura esclusivamente per personalissime espres­sioni,
quali burle, scherzi o dichiarazioni d’amore, e non,
quindi, come mezzo per trascrivere o registrare dati o
conti commerciali (cfr. pp. 182-183).
Proprio da ciò si deve, allora, concludere che la scrittura alfabe­tica greca venne usata, sin dai primordi, per
esprimere poesia e, quindi, per esprimersi in versi. Anzi,
queste stesse testimonianze epigrafiche attesterebbero
una probabile coincidenza cronologica tra la redazione
omerica e la nascita dell’alfabeto tra l’ 800 e il 750 a. C.
Del resto, continua Powell, la natura poetica sarebbe evidente in queste prime iscrizioni e, così, è lecito supporre
che nei primi stadi del loro alfabetismo i Greci fossero
già capaci di intendere, apprezza­re, scrivere esametri
(«we can be certain that one thing the Greek wrote
down on the lost perishable medium in the earliest days
of Greek literacy was hexameter verse», p. 184). Così,
la tesi di Wade-Gery non può che essere integralmente
ripresa e condivisa.
Nel quarto capitolo («Argument from coincidence:
Dating Greece’s earliest poet», pp. 187-220) proprio con
l’ausilio degli indizi epigrafici Powell tenta di collocare
nel tempo colui (scilicet Omero) che ispirò lo stesso
adattatore nella sua mirabile invenzione («...about 800
B. C. the adapter was inspired by an individual poet to
make his invention...», p. 187). Non si nega l’importanza della lingua quale possibile discrimen temporale
e letterario. Non vengono neppure trascurati i contesti
culturali relativi all’epos ome­rico, più o meno contemporanei: quindi, oggetti, pratiche e realtà so­ciali qua e
là menzionati in Omero rappresentano, certo, indubbi
pre­supposti di analisi e di discussione. Powell assume
quale elemento di riferimento e di confronto la Coppa
di Nestore, ascrivibile più o meno al 740-720 a.C. circa:
l’analisi dell’iscrizione ivi contenuta indurrebbe Powell
a collocare Omero poco prima della datazione della
stessa iscrizione. L’alfabeto sarebbe stato inventato o
introdotto in Grecia nell’800 a. C. e, così, è probabile che
proprio Omero abbia compo­sto l’Iliade e l’Odissea più
o meno tra l’800 e il 750 a. C. («sometime between 800
and 750 B. C.», p. 219): si perviene, in questo modo, ad
una collocazione cronologica dell’alfabeto, di Omero e
dei suoi poemi.
Nel capitolo finale («Conclusions from probability:
how the Iliad and Odyssey were written down», pp. 221237), poi, si tenta di rispondere a quella que­stione che
pare sottintendersi in ogni parte del libro e, cioè, quale
evento o quale individuo abbia mai potuto determinare
la nascita del­l’alfabeto in Grecia. Occorre, del resto,
verificare, per Powell, l’effetti­vo legame tra la prima
redazione omerica e l’origine dell’alfabeto stesso. Già
nel quarto capitolo si è discusso di Omero e di una pro­
babile datazione ed, ora, nel quinto, è opportuno che si
prosegua lun­go questa scia e che, quindi, si determinino,
sul piano letterario, le condizioni e le modalità della
prima diffusione scritta, non orale, dell’e­pos.
Così, Powell inizia ad esaminare attentamente la
tradizione aedica, quale Omero riferisce e descrive,
soprattutto nell’Odissea. È im­pensabile, per Powell,
che Omero abbia mai potuto progettare, addi­rittura, di
trascrivere o registrare i suoi stessi poemi («modern
La Rassegna d’Ischia 3/2008
19
research into oral poetry seems to force the conclusion
that the notion of writing down his songs could not have
come from the poet himself», p. 229).
Semmai, è giusto supporre che, forse, Omero sia stato
indotto a comporre la sua poesia proprio da quella straordinaria personalità, l’adapter, che avrebbe inventato
l’alfabeto proprio per registrare l’Iliade e l’Odissea
(«His recorder, with whom Homer worked intimately,
may for his own reasons have encouraged a full effort
... but the Iliad and the Odyssey were a joint venture, a
cooperat­ive effort between the poet and the man who
wrote down the poet’s words», p. 230 passim). Quindi,
per Powell, la registrazione della prima poesia esametrica, strettamente legata all’invenzione dell’alfabeto,
non può essere di­sgiunta dalla composizione dei poemi
omerici («We cannot separate the invention of the alphabet from the recording of early hexametric poetry.
We cannot separate the recording of early hexametric
poetry from Homer ... Homer sang his song and the
adapter took him down», p. 237 passim).
In origine, poi, vi sarebbe stato un unico testo dei
poemi, quello letto dall’adapter, testo che, in seguito,
forse anche parzialmente, sa­rebbe circolato in Eubea e,
con gli Eubei, perfino in Italia («there was originally a
single text of the Iliad and the Odyssey’s, the adapter’s.
At first only he could read them. Copies of the poems,
or parts of the poems, first circulated among Euboians,
who may have carried them even to Italy. With the poems
were disseminated the rules of alphabetic writing», pp.
232-233).
Per Powell, questo straordinario adapter deve essere
identificato con Palamede, nativo dell’Eubea, e l’Eubea,
quindi, sarebbe stato il luogo di nascita dello stesso
alfabetismo greco.
Da notare, infine, due appendici: la prima («Gelb’s
theory of the syllabic nature of West Semitic writing»,
pp. 238-245) è dedicata alla scrittura fe­nicia e proprio
qui Powell, anche sulla scorta della teoria di I. J. Gelb
(A Study of Writing, Chicago 1963; New evidence in
favor of the syllabic character of West Semitic writing,
in Bibliotheca Orientalis 15, pp. 2-7), è propenso a soste­
nere il carattere sillabico di questa scrittura, riprendendo,
quindi, quanto aveva già espresso, sia pur velatamente,
nel secondo capito­lo; la seconda («Homeric references
in poets of the seventh century», pp. 245-248) si lascia
apprezzare, pur nella sua concisione, per l’utilità dei
tanti ci­tati riferimenti letterari omerici.
Ora, come deve essere giudicata la teoria di Powell?
È, certo, legittimo chiedersi se questa ipotesi dell’alfabetismo greco può essere considerata plausibile. Da
parte nostra, è lecito esprimere dubbi e perplessità sulla
teoria monogenetica, prospettata nel I capitolo. Non si
può essere del tutto convinti che l’alfabeto possa es­sere
stato creato da un individuo, in un determinato tempo e
20
La Rassegna d’Ischia 3/2008
in un determinato luogo, l’Eubea. Powell sembra, poi,
escludere altre possibili ipotesi sul luogo e sul tempo
della trasmissione, anche attraverso l’adapter, del modello fenicio.
Non si può, peraltro, accettare che l’adapter, presunto
creatore o inventore dell’alfabeto, possedesse, nell’VIII
secolo, tali competenze alfabetiche da adattare o applicare tout court al greco il sillabario fenicio o da registrare
la primissima poesia epica.
Peraltro, si ha pure l’impressione che Powell ridimensioni il ca­rattere non strettamente letterario delle prime
iscrizioni eubee o la natura prevalentemente pratica delle
attività commerciali degli Eubei dell’VIII secolo.
Nel II capitolo alcune sezioni forniscono contributi
originali e nuovi. In particolare, si deve ammettere che
Powell riserva al sillaba­rio cipriota una trattazione,
particolarmente interessante.
È, poi, evidente che Powell stesso non avrebbe potuto
mai non citare, a sostegno delle sue argomentazioni, le
conclusioni espresse da Wade-Gery. Ci pare opportuno
sottolineare che la teoria di que­st’ultimo venga riferita,
analizzata e discussa da Powell con una no­tevole chiarezza espositiva, anche se utilizza (cfr. pp. 110-113),
qua­le esempio epigrafico, la stessa iscrizione (iscrizione
cipriota di Golgoi = Inscriptions Cypriote Syllabique
264) già ampiamente menzionata e di­battuta dallo stesso
Wade-Gery. Però, è pur vero che questa iscrizio­ne gli
sarà parsa la più adatta ad esprimere concretamente il
concet­to qui marcato, che, cioè, l’alfabeto sarebbe sorto
tra i Greci proprio perché mai nessuna scrittura sillabica
sarebbe servita ad indicare o a registrare vera poesia («...
that this script communicates for the script ever to have
served as a practical vehicle for recording ambitious
poetic compositions», p. 113).
Nel III capitolo, Powell fornisce vari casi di restituzione testuale o di semplice lettura epigrafica, già, del
resto, censurati da non pochi recensori. (4)
Si può, sì, accettare che queste prime epigrafi siano
contraddi­stinte, per la loro natura esametrica, da un
tono o da un livello lettera­rio vagamente omerico, ma,
certo, non si può convenire con Powell che già allora,
fra l’800 e il 750 o 650 a.C., si fosse imposta, tra i pri­mi
Greci alfabetizzati, la necessità di scrivere soltanto in
metro esametrico («...the early alphabetic Greeks act as
if they know only how to write hexameters», p. 184 ss.).
Forse, sarebbe stato più opportuno non enfatizzare troppo l’aspetto metrico e approfondire, piuttosto, l’analisi
in un più ampio contesto letterario. Eppure, è proprio
sull’aspetto metrico che deve poggiare, secondo Powell,
la teoria dell’alfabeto e della sua ori­gine.
4 R. Schmitt, nella sua recensione (Kratylos, XXXVII, 1992, p.
71) esprime non poche critiche alla interpretazione o anche alla
traduzione dei testi epigrafici restituiti da Powell.
Non si può, poi, sostenere che il IV capitolo presenti
o propon­ga novità riguardo la probabile cronologia di
Omero e dei suoi poemi.
Anzi, è indubbio che tutta la letteratura critica specializzata sulla que­stione serva a Powell solo per corroborare ulteriormente la sua tesi.
L’ultimo capitolo non si distingue, certo, dal quarto per
una dif­ferente modalità di descrizione o argomentazione.
Non apprendiamo nulla di nuovo o di inedito sulle nostre
già note conoscenze della per­formance omerica o del
ruolo dell’aoidòs.
Poi, sembra che tutta la tradizione letteraria venga
volutamente utilizzata dallo stesso Powell per formulare
la sua teoria alfabetica. È, sì, incontestabile che le prime attestazioni epigrafiche sono distinte da una natura
esametrica, ma è improbabile che un alfabeto venga inventato o solo introdotto esclusivamente per registrare i
poemi in esametro. Non si capisce, poi, perchè l’adapter
debba essere identifi­cato necessariamente col presunto
creatore o inventore dell’alfabeto. Dovremmo, piuttosto,
chiederci se Palamede possa essere effettiva­mente vissuto tra l’ 800 e il 750 a. C., come supposto da Powell.
Pro­viamo, quindi, ad esaminarne la linea genealogica.
Basti, al riguardo, la testimonianza di Apollodoro.
Apollod., Bibl., III, 2, 2 (15) Wagner: >Aeroéphn
deè kaiè Klumeénhn Katreuèv Nauplié§ diédwsin
ei\v a\llodapaèv h\peiérouv a\pempolh%sai. Touétwn
>Aeroéphn meèn e$ghme Pleisqeénhv kaiè pai%dav
>Agameémnona kaè Meneélaon e\teéknwse, Klumeénhn deè
gamei% Nauépliov , kaiè teéknwn pathèr giénetai Oi$akov
kaiè Palamhédouv. (Catreo concede a Nauplio di
portar via in terra straniera Erope e Climene. Di queste
Pleistene sposa Erope e ne nascono i figli Agamennone
e Menelao; Nauplio sposa Climene da cui nascono Eace
e Palamede).
Palamede sarebbe stato, così, figlio di Nauplio e di
Climene e Climene, a sua volta, sarebbe stata sorella di
Erope, madre di Aga­mennone e Menelao: la sua genealogia si legherebbe, quindi, a quel­la degli Atridi e, di
conseguenza, alla cronologia della guerra di Troia. Ora,
secondo la tradizione cronografica, la fine della guerra
di Troia sarebbe avvenuta non prima del 1344-1334
(Duride, 76 J. fr. 41; Ti­meo, 566 J. fr. 80, 146 b) e non
oltre il 1160-1150 (Artemone, 443 J. fr. 2; Democrito in
DL, IX 41) e, comunque, convenzionalmente, in­torno
al 1184, quindi 80 anni prima dell’invasione dorica del
Peloponneso. (5) Dunque, se dobbiamo considerare la
ricostruzione delle fonti storiografiche, Palamede non
può essere vissuto tra l’800 e il 750 a.C., come sostiene
Powell.
Si può, comunque, ammettere che proprio nel suddetto arco di tempo abbia assunto un ruolo fondamentale
l’Eubea appunto per i suoi vividi rapporti commerciali
con l’Est e l’Ovest del mondo greco, allora noto. Non si
può pretendere, però, di collegare la nascita dell’alfabeto
con la redazione omerica, né, tantomeno, di postulare
una possibile contemporaneità di due distinti eventi
letterari. Nondimeno, non può che suscitare un certo
fascino l’ipotesi di Powell, anche se costruita solo su
«arguments from probability».
Poi, è inaccettabile che l’alfabeto sia stato inventato,
magari per adattamento dell’adapter, solo per registrare
Omero e la sua poe­sia: anche prima di Omero si possono
rinvenire tracce dell’alfabeto e del suo uso in Grecia per
ragioni non strettamente letterarie.
Del resto, i Fenici, inventori, per Erodoto, della scrittura sillabi­ca, trasmettitori dell’alfabeto in Grecia – senza
il necessario filtro di un presunto adapter – eccellevano
nel commercio e, dunque, è molto probabile che l’alfabeto, non a caso, servì, in prima istanza, per trat­tare,
per commerciare, non soltanto per scrivere versi.
Anche Aristotele rileva l’utilità della scrittura, la sua
primaria funzione nell’oi\konomiéa e, soprattutto, nel
crhmatismoèv, (6) vale a dire in quei campi di attività
sociali, ove la scrittura, in qualsiasi età, in qual­siasi civiltà o cultura, trova la sua prima, naturale applicazione,
la re­gistrazione, cioè, di dati, conti, calcoli. (7)
Non si può, quindi, condividere, da parte nostra, la
teoria di Powell, anche se non priva, in effetti, di un certo
fascino: a lui va, in ef­fetti, il merito di aver proposto,
in maniera singolare, un’interpretazio­ne della scrittura,
dell’alfabeto, della letteratura.
Nunzio Speciale
5 Cfr. Apoll. FGHist. 244 Ff 61-62. Cfr. pure la serie della cronologia della guerra di Troia, fornita da F. Cassola, La Ionia nel
mondo miceneo, Napoli 1957, p. 24 ss., e ripresa da D. Musti,
Storia greca, vol. I, Roma-Bari 1990, p. 69.
6 Sulla nozione della crematistica cfr. M. Venturi Ferriolo, Aristotele e la crematistica, Fi­renze 1983; C. Ampolo, Oikonomìa.
Tre osservazioni sui rapporti tra la finanza e l’economia greca, in
AION, sez. arch. e st. antica I (1979), p. 119 ss.; P. Spahn, Die
Anfänge der antiken Ökonomie, in Chiron 14 (1984), p. 301 ss.
7 Cfr. il saggio di M. Lombardo, Mercanti, transazioni economiche,
scrittura, in Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne di M. Detienne, Lille 1988, pp. 159-187 (trad. it. Roma-Bari 1989, pp. 85-108).
Per questo valore della scrittura legata alla crematistica Lombardo
riprende la nozione sociolinguistica di «dominio scrittorio delle
transazioni economiche» usata da G.R. Cardona nel terzo capitolo
(Sociologia della scrittura, pp. 89-131) del suo saggio Antropologia
della scrittura, Torino 1981.
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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Rappresentazione del martirio di S. Restituta e dell’arrivo del suo corpo
su una fragile barca, a Lacco Ameno nella baia di San Montano
Quadri di Ferdinando Mastriani (fine sec. XIX) nel Santuario di S. Restituta
1 - Restituta davanti ai giudici - Lo spazio centrale
è dominato dalla giovane Restituta, vestita di tunica
bianca e con una piccola croce sul petto; è scortata da
due legionari, perché professa la religione di Cristo.
Il prefetto togato, sul seggio curule, la interroga. Ai
lati due scrivani stilano su tavoletta cerata le risposte
di Restituta. A sinistra due donne fanno da testimoni.
Sotto, fuori della tela, si legge: A divozione di Diego
Buonocore.
2 - Flagellazione di Restituta - Sullo sfondo (un
angolo della prigione) è attaccato al muro un anello
di ferro, da cui pende una fune. Nel centro la bianca figura di Restituta, serenamente bella, docile
all’imminente castigo. A destra, fra due assistenti il
Giudice in piedi, l’indice della mano destra puntato
contro di lei, sentenzia: “Sia flagellata”. A sinistra,
altri due carnefici con i flagelli nel pugno si accingono alla flagellazione. Sotto il quadro, si legge: A
div. di Domenico De Filippo.
3 - Restituta in prigione - Sullo sfondo interno di
un’oscura cella si apre una finestra con reticolo di
ferro, attraverso la quale entra un fascio di luce che
illumina la scena. A sinistra un Angelo irrompe nella
prigione per dare coraggio alla giovane martire che,
a quella visione celeste, si piega in ginocchio. Sotto
il quadro la leggenda: A div. di Silvestro Piro.
22
La Rassegna d’Ischia 3/2008
4 – Restituta è distesa sull’eculeo - Il
dipinto è dominato da un lungo cavalletto
di legno, che all’estremità è munito di
ruote, attraverso le quali scorre una fune
per disarticolare le membra di Restituta
che è raffigurata distesa sul cavalletto;
legata alla chioma e ai piedi, con funi
che corrono sulle ruote. A sinistra due
carnefici: uno tira la fune sotto il cavalletto. A destra altri due carnefici tirano
dal loro verso l’altra fune legata ai piedi
di Restituta. Sotto il quadro la leggenda:
A div. di Luigi cav. Nesbitt.
5 – Restituta sospesa per i capelli - In un
cortile s’innalza un palo dal quale pende
una corda legata alla chioma di Restituta
che s’aderge bianco-vestita tra due soldati
romani. A destra due carnefici nell’atto di
tirare la fune per sollevare il corpo della
martire. A sinistra altri carnefici si affrettano a trapassarle i piedi con un lungo
chiodo per fissarli sul lastricato. Sotto il
quadro: A div. di Giovanni Di Meglio.
6 – Restituta condannata ad essere
bruciata in mare - Sullo sfondo della
marina di Cartagine si staglia la bianca
e radiosa figura di Restituta, scortata dai
carnefici; sul petto, accanto al Crocifisso,
reca una tavoletta su cui dovrebbe essere
inciso il motivo della condanna. Il giudice togato la invita a salire sulla barca.
A destra donne addolorate e piangenti.
A sinistra una nave carica di materiale
infiammabile con gli uomini dell’equipaggio. La scritta: A div. di Giovanni
Climaco.
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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7 – Restituta salva dall’incendio - Due
barche e due scene del tutto diverse: a destra un veliero avviluppato dalle fiamme,
con gli uomini con mani elevate, avviliti,
sconfitti; a sinistra la barca su cui giace
Restituta con il capo radiato dalla gloria
e sorretta da un Angelo. A prua un altro
Angelo guida verso lidi lontani la barca.
La scritta: A div. di Giuseppe Pascale.
8 – Il sogno di Lucina - Interno di una
stanza con giaciglio oltre la quale si
scopre una marina piena di luce. Nel
centro un Angelo cinto di nastro azzurro
appare improvviso per annunziare il
lieto messaggio. A sinistra Lucina resta
attonita all’invito di recarsi alla spiaggia
per accogliere la Vergine martirizzata
in Africa. In alto, sullo sfondo marino
appare la barchetta sulla riva, vegliata
dagli Angeli. La scritta: A div. di Calise
C. e Patalano F. Sirabella.
9 – La spiaggia di San Montano con
la barca - Su una barca priva di remi
e di vele è disteso il corpo di Restituta.
Un Angelo le sorregge il capo reclinato
nel gaudio del Signore. Sull’orlo della
spiaggia ricoperta di bianchi gigli, appare Lucina: si ferma estatica e ammira
il prodigio. Ai lati, sullo sfondo, le linee
rocciose di Monte di Vico e di Zaro; intorno tanta, tanta pace! La scritta: A div.
di Domenico Castagna.
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La Rassegna d’Ischia 3/2008
10 – Il corteo verso il paese - A sinistra, lungo
la strada, tre donne in ginocchio spandono,
commosse, petali e corolle di fiori. A destra
un sacerdote in paramenti rossi porta la Croce astile. Segue il Clero con pianeta rossa e
candela accesa in mano. Segue su un drappo
dorato il corpo di Restituta, portato da quattro
accoliti in cotta bianca. Dietro i fedeli... Un
gruppo di donne sul ciglio della strada saluta
la Vergine augusta. La scritta: A div. di Pietro
Paolo Castagna
I Santi dell’Algeria *
Santa Restituta
(Dal breviario della diocesi di Algeri) - Restituta, vergine
e martire, originaria della seconda Hyppona, soprannominata
Diarrhite, oggi Biserta, situata nella Proconsolare, in riva al
mare, soffrì diversi tormenti sotto il giudice Procolo, in Africa, al tempo dell’imperatore Valeriano. Posta su una barca
riempita di pece e di stoppa, affinché fosse bruciata in mare,
rese lo spirito pregando Dio, quando si mise fuoco a queste
materie e la fiamma faceva di lei stessa come il focolaio di
un incendio. La mano di Dio spinse la barca con i suoi resti
fino all’isola Enaria (Ischia, vicino a Napoli), dove furono
ricevuti dai Cristiani con una grande venerazione. Più tardi,
l’imperatore Costantino fece costruire a Napoli una basilica
in suo onore.
Lei non fu famosa solamente a Napoli, ma anche a Cartagine, dove ha sofferto nell’anno 256. Si pensa che questa
grande basilica, dove furono celebrati parecchi concili e dove
Sant’Agostino predicò spesso, si chiamasse Restituta a causa
di lei. L’isola di Ischia ha dovuto la sua fama alle sante reliquie
di Restituta e la sua memoria è conservata tutt’oggi coi più
grandi onori.
Riflessioni
La pazienza è l’ultimo sforzo della carità; diventa, agli
occhi di Dio, un olocausto così prezioso che si affretta a darle
una ricompensa gloriosa fin da quaggiù, dove l’umanità non
può esimersi da un tenero sentimento di rispetto per chi ha
saputo soffrire nobilmente. Sì, il martirio è la più bella delle
glorie agli occhi di tutti, anche di quelli che sanno ammirare
solamente le vanità, perché trovano pure delle lacrime per le
grandi celebrità. Più il supplizio immaginato dal persecutore
fu atroce ed inaudito, più la vittima è soggetta alla pietosa
* Victor Bérard, Les Saints de l’Algérie présentés à la veneration des fidèles par la traduction des textes liturgiques, Valence,
1857.
commozione della posterità; vari paesi si onorano delle sue
spoglie e santi pontefici onoreranno la memoria di Santa Restituta. Senza nutrirsi del pensiero di ottenere mai tanti grandi
omaggi, il Cristiano arriverà all’edificazione dei suoi fratelli,
se soffre senza lamentarsi, umiliandosi sotto la mano di Dio
che colpisce ed abbatte solamente per rialzare e per guarire.
Restituta, vierge et martyre, originaire de la deuxième Hippone,
surnommée Diarrhite (aujourd’hui Bizerte), située dans la Proconsulaire, au bord de la mer, souffrit divers tourments sous le juge
Proculus, en Afrique, du temps de l’empereur Valerien. Placée sur
une barque remplie de poix et d’étoupes, pour qu’elle y fût brûlée
en mer, elle rendit l’esprit en priant Dieu, lorsqu’on eût mis le feu a
ces matières et que la flamme faisait d’elle-même comme le foyer
d’un incendie. Le doigt de Dieu poussa la barque où étaient ses restes jusqu’à l’île Enaria (Ischia, près de Naples), où ils furent reçus
par les Chrétiens avec une grande vénération. Plus tard, l’empereur
Constantin fit bâtir à Naples une basilique en son honneur.
Elle ne fut pas seulement illustre à Naples, mais aussi à Carthage,
ou elle a souffert l’an 256. On pense que cette grande basilique,
où furent célébrés plusieurs Conciles et où Saint Augustin prêcha
souvent, se nommait Restitute à cause d’elle. L’île d’Ischia a dû
sa renommée aux saintes reliques de Restituta et sa mémoire y est
conservée jusqu’à ce jour avec les plus grands honneurs.
Réflexions
La patience est le dernier effort de la charité ; elle devient, aux
yeux de Dieu, un holocauste si précieux qu’il se hâte de lui donner
une récompense glorieuse dès ici-bas, où l’humanité ne peut se défendre d’un tendre sentiment de respect pour celui qui a su noblement
souffrir. Oui, le martyre est la plus belle des gloires aux yeux de tous,
même de ceux qui ne savent admirer que les vanités, car ils trouvent
aussi des larmes pour des célébrités touchantes. Plus le supplice
imaginé par le persécuteur fut atroce et inouï, plus la victime en est
recommandée au pieux attendrissement de la postérité; des contrées
diverses s’honorent de ses restes, et de saints pontifes préconiseront
la mémoire de Sainte Restituta.
Sans se nourrir de la pensée d’obtenir jamais d’aussi grands hommages, le Chrétien arrivera à l’édification de ses frères, s’il souffre
sans se plaindre, en s’humiliant sous la main de Dieu qui ne frappe
et n’abaisse que pour relever et pour guérir.
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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«The London Magazine» - January to June 1821, vol. III
A legend of Ischia 1
Una leggenda di Ischia 1
There is a dreamy softness, as day fades,
Gathering along the ether; it pervades
The sea and earth, and o’er the wakeful soul
A deepening hue of meditation flings,
Whilst the advancing shadows thinly roll
O’er the bright waters; from their obscure wings
Shedding oblivion on all mundane things.
In the pale clearness of the delicate sky
Yon mountain rears its ever-during head,
O’er which the ocean’s habitant once sped,
Now echoing to the sea-gull’s wailing cry;
Lonely it stands, lifting to heaven its brow,
Scath’d with the levin-flash, where clouds repose
Their dreary forms, when the sirocco blows
Its baleful breath on withering man; but now
Its rugged lineaments are pictured fair
On evening’s wan expanse; and on the height
The convent tenants breathe a taintless air,
On whose pellucid wings their vesper prayer,
Unmix’d with aught of earth, springs in its upward flight.
The breezes, winnowing round each fairy hill,
So mildly blow, that scarce the clustering vine
Waves with their gentle fanning, as they still
Among its odours playfully entwine.
And now the moon brightens her crescent pale,
With one sole star, streaming celestial light;
And, from the dusky hill and shadowy vale,
With her fair beam scatters the gloom of night.
See! Meteor-like, beneath the tendril bower,
The wheeling fire-fly shoots his flame serene,
Kindling with living flash the twilight hour,
And glancing on the vine-leafs tender green;
Whilst the last bird of even, which all night long
Pours to the listening wood his plaintive note,
In fitful sweetness tunes his liquid song,
Anon, in melody’s mil tide to float,
On the enraptur’d ear: - no other sound
Breaks the deep seeming thoughtfulness around.
C’è una dolcezza trasognata, come dissolvenze diurne,
che si spande nell’etere e pervade
il mare e la terra, e sull’anima insonne
getta un colore cupo di meditazione,
mentre le avanzanti ombre lievi rotolano
sulle brillanti acque; dalle loro ali oscure
scende l’oblio su tutte le cose del mondo.
Nella pallida chiarezza del cielo delicato
quella montagna innalza sempre la sua vetta,
sulla quale l’abitante dell’oceano una volta prosperò,
ora fa eco all’alcione che geme e stride;
solitario s’eleva, volgendo al cielo la sua cima,
fulminata dal bagliore, dove le nubi posano
le loro forme cupe, quando lo scirocco soffia
il suo alito funesto sull’uomo che inaridisce; ma ora
i suoi lineamenti accidentati sono chiaramente dipinti
sulla smorta distesa della sera; e sulla vetta
gli inquilini dell’eremo respirano un’aria pura,
sulle cui ali trasparenti la loro preghiera del vespro,
non mista con alcunché di terreno, vola verso l’alto.
Le brezze, spirando intorno ad ogni magica collina,
così lievemente soffiano, che di rado i grappoli della vite
ondulano al loro leggero soffio, mentre tra loro
sempre intrecciano i loro piacevoli odori.
Ed ora la luna illumina la sua chiara falce,
con un unico astro, fluente luce celestiale;
e dalla fosca collina e dalla valle ombrosa,
con i suoi raggi disperde l’oscurità della notte.
Vedi! Come meteora, sotto la pergola di viticci,
la volteggiante lucciola lancia la sua fiamma serena,
accendendo con il suo vivo bagliore l’ora del crepuscolo,
e luccicando sul verde delicato dei pampini della vite;
mentre l’ultimo uccello del vespro, che tutta la notte
effonde al bosco in ascolto le sue note lamentose,
in motivi di mutevole dolcezza sintonizza il suo canto,
presto, per fluttuare nel pieno flusso della melodia,
nell’estasi dell’ascolto: - nessun altro suono
rompe l’apparente profondo raccoglimento circostante.
It was in such a night, when storms were o’er,
When the rent cloud had sail’d in blackness by,
Leaving in lovelier blue the vernal sky :
When the bright wave soft rippled to the shore,
And winds were hush’d: - it was in such a night,
Upon the silent swelling of the tide,
A boat was seen, in solitary plight,
Drifting to Ischia’s coast, with none to guide
Tale era la notte, quando cessò la bufera,
quando la nube squarciata spazzò via il buio,
lasciando nel più bel blu il cielo primaverile:
quando la brillante molle onda si increspò sulla spiaggia,
ed i venti s’acquietarono: - tale era la notte,
sopra il moto silenzioso della marea,
una barca fu vista, in solitario sforzo,
andare alla deriva lungo la costa d’Ischia, e nessuno
1 Ischia is a small romantic island, of volcanic origin, in the
vicinity of the Bay of Naples. A church is erected in the Vale of
Lacco, in honour of Santa Restituta, a patroness of the island,
whose festival annually attracts, not only rhe islanders, attired in
their best garb, but also the more devout Catholics form Naples.
1 Ischia è una piccola romantica isola, di origine vulcanica, del
Golfo di Napoli. La chiesa è eretta nella valle di Lacco, in onore
di S. Restituta, la patrona dell’isola, i cui annuali festeggiamenti
attirano nel borgo non solo gli isolani, ma anche i più devoti cattolici di Napoli, i quali vengono ad implorare e a chiedere grazie
alla Santa.
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La Rassegna d’Ischia 3/2008
Its reckless course; but on the risings sheen
Of that calm sea, near ever, and more near,
It came, as if a spirit’s hand unseen
Had led it gently from the realm of fear.
“Some boat, perchance, torn by the sweeping gale
And bounding surge, from a neglectful bark;
Or the sole relic of some hapless sail,
Wreck’d on Italia’s shore, when tempests dark
Scowl’d in the sounding heavens, - whose luckless crew,
With unclosed eyes, fix’d in eternal sleep,
Cold and unshrowded in the weltering deep,
To home, to light, and life, have bid adieu.
Within yon little bay, whose gentle wave,
Claspt by those arms, feels no disturbing gale,
Whose playful ripplings idly love to lave,
The yellow sands that skirt the sloplag vale, There, where the glimmering air its doubtful gleam
Sheds soft upon the waters, like the play
Of wilder’d fancy in a matin dream,
The alien boat in peaceful haven lay.
And other boats around the stranger press,
And with experienced looks the seaman eyes
The shapely contour of his easy prise,
Whilst vaguely circulates the erring guess
Of port and destiny. Why do they stand
With one consent in still and silent gaze,
As if the touch of an enchanter’s wand
Had frozen then to shapes of mute amaze ?
What is’t they look on ? - Wrapt in slumber deep,
And shadowed by the evening’s falling gloom,
A female form reclin’d; quiet her sleep;
Her face dropp’d on an arm, polish’d and fair;
The fluttering wind had strewn her silken hair
Of black o’er a pale cheek; most calm and holy
Was her repose ; yet trace of melancholy
Had sunken these, of meek distress to tell.
Her breathing was as still as the odorous smell
Exhal’d from pulseless flowers; nor could be seen
Motion of lips, or the fair bosom’s swell –
So huah’d she lay, so fearfully serene.
The dark and silken lashes overshade
An eye half open, glaz’d, and strangely still –
And then her touch – ah heavens! – how deatly chill! –
Alas! The young, the beauteous maid is dead!
guida il suo corso imprudente; ma nel nuovo splendore
di quel calmo mare, vicino e sempre più vicino,
essa veniva, come se l’invisibile mano di uno spirito
l’avesse condotta dolcemente dal regno del pericolo.
Un’imbarcazione, forse, lacerata dalla burrasca
e dai flutti rimbalzanti su trasandato burchiello;
ossia il solo relitto di una vela sfortunata
naufragò su una spiaggia d’Italia, quando la tetra tempesta
infuriava sonora nel cielo, - e l’equipaggio sfortunato,
con gli occhi schiusi, fissi nel sonno eterno,
freddo e non celato nel ribollente mare,
ha detto addio alla casa, alla luce, e alla vita. –
In quella piccola baia, la cui onda mite,
chiusa da quei bracci, non avverte vento ostile,
la cui dolce crespa ama pigramente dilavare
le dorate sabbie che costeggiano il versante della valle là, dove l’aria baluginante il suo incerto barlume
sparge molle sull’acqua, come la vana fantasia
di un sogno mattutino, lo straniero
legno stava nel sicuro porto.
E le altre barche s’accalcano intorno ad esso,
e con lo sguardo esperto i marinai osservano
l’armonioso contorno di questo facile trofeo,
mentre vagamente circola l’errata congettura
del porto e del destino. Perché essi stanno in unanime
consenso con lo sguardo assorto e silente,
come se il tocco di una bacchetta d’incantatore
li avesse congelati in figure di muto stupore?
Cosa è che vedono? Avvolta in un sonno profondo,
e oscurata dalle tenebre della cadente sera,
una figura femminile è reclinata; calmo il suo sonno;
il volto è poggiato su un braccio, fiero e sereno.
Il vento fluttuante ha sciolto i suoi neri serici
capelli sulle pallide guance; più calmo e santo
il suo riposo; ma tracce di melancolia
l’avevano segnato, per dire di mite angoscia.
La sua respirazione era come il fragrante odore
esalato da fiori privi di vita; né poteva essere visto
moto di labbra, o il battito regolare del petto.
Così ha soffocato il lamento, così paurosamente serena.
Le brune e delicate ciglia adombrano
un occhio semichiuso, vitreo, e stranamente sereno;
e poi il suo senso - Ah cielo! Come mortalmente freddo!
Ahimé! La giovane, la bella fanciulla è morta!
Oh! Bear her gently in your manly arms,
And sing a requiem to her parted soul,
Even as gaze on her dissolving charms,
Let the slow strain to heaven’s bright portals roll:
And when the stranger asks in future time,
Who rests the inmate of her sainted tomb?
Tell him, a virgin of a foreign clime,
Who, faithful to her creed, ne’er bent the knee
To any god of mortal mould; that He
Who kens the latent impulse of the heart,
Amidst ordeals of infernal birth,
Did, in her hour of need, his strength impart,
And turn to marvelling fear the demon mirth
Of Painims’ frenzy, at they saw the flame,
Oh! Portatela dolcemente nelle vostre braccia virili,
e recitate un requiem per la sua anima dipartita,
mentre lo sguardo è fisso sul suo fascino che svanisce,
lasciate che il lento sforzo la porti alla luminosa porta
del cielo; e quando lo straniero nei tempi futuri chiede:
Chi è chiuso nella sua tomba santa?
ditegli, una vergine di una regione straniera,
che, fedele al suo credo, non volle piegare le ginocchia
davanti ad alcun dio di natura mortale; ella,
che conobbe l’impulso latente del cuore,
tra prove durissime di origine infernale,
nella sua ora del bisogno, ricevette la sua forza,
e volse in stupefacente paura la demone allegria
e la frenesia dei carnefici, i quali videro le fiamme,
La Rassegna d’Ischia 3/2008
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Prepared to desolate that beauteous clay,
Round her soft limbs innocuously play,
And frustrate thus their ineffectual aim:
That, harden’d still in heart, in a lone boat
At length they plac’d her unresisting form,
With things deflagrable, thus left to float
And perish on the tide by fire or storm.
But neither fire nor flood had power to harm
One precious limb; the fire hath shot in air,
And the strong surge hath curl’d in vain alarm,
And hath not hurt one solitary hair:
But God, who saw the sorrows of the maid,
Lull’d her in peaceful sleep; and as the breath
Of dreams most holy on her faint lips play’d,
He took her to himself: - thus gentle was her death! –
Firenze / Mostre
Il Volto di Michelangelo
Fondazione Casa Buonarroti / Firenze (6 maggio - 30 luglio 2008) a cura
di Pina Ragionieri L’interesse per l’argomento è naturale
per chi, lavorando all’interno del museo
della Casa Buonarroti, per così dire
all’ombra di Michelangelo, di ritratti
dal vero del Maestro ne può vedere in
originale ben quattro (che saranno tutti
esposti in questa mostra); e sono i dipinti
di Giuliano Bugiardini e di Jacopino del
Conte, la medaglia di Leone Leoni e quel
vero, emozionante ritratto dell’anima
che è il busto in bronzo di Daniele da
Volterra.
Ma nella bibliografia michelangiolesca
sono tutt’altro che numerose le voci che
interessano il nostro discorso; ed è con
ogni probabilità da confermare l’opinione secondo la quale alla base della
situazione sta l’avversione dell’artista a
ritrarsi e ad essere ritratto, come testimoniano gli antichi biografi.
L’argomento affrontato dalla mostra
presenta dunque un indiscutibile carattere
di novità. Ma l’immagine di Michelangelo ci è tramandata anche da un altro
genere di ritratto: come per altri grandi,
e non solo della storia dell’arte, la sua
fisionomia fu infatti riprodotta da artisti a
lui contemporanei, conferendone le caratteristiche a personaggi effigiati in scene
d’insieme; e qui soccorrono molti esempi, tra i quali basterà ricordare il Raffaello
della Stanza della Segnatura in Vaticano
o il Vasari del Salone dei Cinquecento
in Palazzo Vecchio a Firenze: opere
non trasportabili che in mostra saranno
28
La Rassegna d’Ischia 3/2008
preparate per bruciare quel bel corpo umano,
aleggiare innocuamente attorno alle sue delicate membra,
e frustrare così il loro inefficace proposito:
esse, alimentate nel loro nucleo, verso una sola barca
a lungo si rivolsero in modo irresistibile,
con materie combustibili, così finì di stare a galla
e colò a fondo pel fuoco e la tempesta.
Ma né il fuoco né la marea poterono recar danno
ad una delle preziose membra; il fuoco divampò in aria,
e i forti marosi si levarono in vano allarme,
senza toccare neppure uno solo dei suoi capelli.
Ma Dio che vide le sofferenze della fanciulla,
la cullò in un sonno pacato; e mentre l’alito
di sogni più santi aleggiava sulle sua languide labbra,
Lui la condusse a sé: - così placida fu la sua morte!
evocate attraverso elaborazioni digitali.
Sono presenti in mostra alcune immagini
contemporanee al Maestro, che si collocano tra l’aneddoto e la fantasia: proviene
dal British Museum una rarissima e bella
incisione che ritrae, in meditazione, il Michelangelo ventitreenne del primo soggiorno romano e della Pietà di San Pietro;
una pagina di una preziosa cinquecentina
mostra “Michael Fiorentino” che scolpisce, seminudo e con gran foga, una statua
femminile nella quale si volle riconoscere
l’Aurora della Sagrestia Nuova. Dopo la
scomparsa dell’artista, alla soglia degli
anni ottanta del secolo, in un piacevole
quadretto della Galleria Nazionale d’Arte
Antica di Palazzo Barberini, anch’esso
presente in mostra, Federico Zuccari
ritrae il fratello Taddeo mentre dipinge
la facciata di palazzo Mattei, intanto
che Michelangelo, nel corso di una delle
sue consuete passeggiate per Roma, si
sofferma a osservarlo.
È noto che Michelangelo raffigurò se
stesso assai raramente. Citiamo qui l’autoritratto inserito nella pelle scorticata
del San Bartolomeo del Giudizio finale
sistino, e il volto sereno, al di là di ogni
dolore, del Nicodemo della Pietà del
Museo dell’Opera del Duomo a Firenze.
Sono situazioni abbastanza sporadiche
ed eccezionali che ci permettono di
comprendere come mai è divenuta nei
secoli proverbiale la ritrosia dell’artista
a effigiare gli altri e se stesso: lo dice il
Vasari, e non bastano a contraddirlo i due
esempi di autoritratto or ora citati, né la
distrutta statua bronzea di Giulio II, né il
ritratto perduto del bellissimo Tommaso
Cavalieri, né le effigi di Pietro Aretino e
di Biagio da Cesena che si riconoscono
in quello spietato affresco di eterna salva-
zione e condanna che è il Giudizio finale.
E, infatti, i due antichi biografi preferirono ritrarre il Buonarroti tramandandone
le fattezze per iscritto, il Condivi (1553)
mischiando caratteristiche fisiche con
tendenze, abitudini e pensieri; il Vasari,
nell’edizione giuntina del 1568, copiando
senza remora alcuna la descrizione del
collega, fin nei particolari di certe pagliuzze fra l’oro e l’azzurro negli occhi
del Maestro.
Il nostro discorso non si ferma però ai
contemporanei del Maestro, anche perché
visitando la mostra all’interno della Casa
Buonarroti si potrà ammirare la sala al
primo piano del museo detta “Galleria”,
nella quale il pronipote di Michelangelo
organizzò un omaggio al grande avo,
a circa cinquant’anni dalla sua morte,
ricordandone virtù pubbliche e private
in una serie di opere affidate agli artisti
di maggior rilievo operanti nella prima
parte del Seicento a Firenze.
Giungeranno in Casa Buonarroti rari
esempi di ritratti secenteschi e settecenteschi, e non mancheranno immagini
del mito di Michelangelo, piacevole e
immaginifico, creato dal romanticismo
storico. Proprio da qui partirà il percorso
espositivo: disegni, sculture, medaglie e
dipinti, in un viaggio a ritroso nel tempo
che comincerà dall’Ottocento per giungere alla fine della mostra alle immagini
eseguite quando il Maestro era ancora
in vita.
Ci sarà infine, a conclusione della
mostra, un ritratto “interiore” dell’artista,
attraverso una presentazione non solo dei
ritratti “scritti” che di lui vennero fatti, ma
anche delle sue Rime.
Ufficio stampa Susanna Holm
www.casabuonarroti.it
Al parco botanico GIARDINI RAVINO di Forio
Mostra - Convegno sulle piante
grasse rare e da collezione
Si è tenuta a Forio nel mese di aprile
scorso una esposizione internazionale
di piante grasse rare e da collezione,
alla quale hanno fatto da supporto
seminari di approfondimento, dibattiti
e percorsi didattici sul tema della biodiversità, con la partecipazione di esperti
e docenti specifici. Il tutto è avvenuto
nella verde ed accogliente cornice del
parco botanico tropical mediterraneo
Giardini Ravino creati, di recente, da
Giuseppe D’Ambra ed inseriti in un
ambiente che ha nello sfondo il monte
Epomeo, mentre si affaccia sulla baia
di Citara ed il suo mare: uno spazio
dedicato alla conservazione di specie
erbacee, arbustive e arboree di grande interesse, soprattutto esotiche, e
distinto non solo per rarità botaniche
ed esemplari cactacei maestosi, m
anche per la cura nella coltivazione e
l’originalità nell’allestimento. Vi hanno collaborato l’Orto Botanico delle
Succulente di Zurigo, Uni-Botanica,
Forum Biodiversità elvetico, Biomaps
Working Group e Institut für Biodiversität der Pflanzen dell’Università di
Bonn.
Il sogno divenuto realtà di Giuseppe D’Ambra
Giuseppe D’Ambra, marittimo di lungo corso e grande appassionato
di piante grasse (cactacee, succulente) e palme, ritornava dai suoi
viaggi intorno al mondo con borse piene di talee e semi di piante particolari, uniche in Italia ed Europa. Il clima mite dell’isola d’Ischia e
l’esposizione ad ovest di Villa Ravino hanno reso possibile la crescita
e la riproduzione di queste piante, uniche per genere e dimensione.
Un capitale enorme che, con grande dedizione e sacrificio, la famiglia
D’Ambra ha voluto rendere fruibile a tutti. Con la regia del padre,
anche la nuova generazione, forte di una passione quasi ‘genetica’,
ha creato un giardino botanico aperto al pubblico; una iniziativa
che per molti versi può sembrare inusuale, ma che proprio per la
sua particolarità è sembrata vincente.
Elemento conduttore della mostraconvegno è stata la biodiversità, ossia
la complessità e multiformità della
vita: un termine sino a pochi anni fa
sconosciuto ai più. Esistono molteplici
ragioni per considerare la biodiversità,
intesa come diversità genetica e molteplicità di specie ed ecosistemi, la
principale risorsa naturale per l’uomo:
le nostre possibilità di alimentazione,
ma anche di cura medica, infatti, sono
strettamente correlate alla biodiversità,
che ci garantisce l’esistenza di materie
prime, di fonti energetiche e, perché
no, delle fibre con cui sono fatti i nostri
abiti. Essa ci rende servizi immensi:
specie ed ecosistemi diversi rendono
possibile l’impollinazione e una naturale disinfestazione antiparassitaria
degli alberi da frutto, preservano l’integrità del ciclo idrologico e di quello
alimentare, favoriscono il degrado di
sostanze nocive e sono utili per scongiurare catastrofi ambientali, come
alluvioni e frane. Da un punto di vista
economico, dunque, appare fondamentale salvaguardare e promuovere
la biodiversità. Ma le questioni economiche non mettono in secondo piano un
altro aspetto, altrettanto importante: la
bellezza delle diverse specie naturali.
Una bellezza che si caratterizza per
l’estrema multiformità e variegatura,
fattori questi che, inoltre, consentono
agli organismi viventi di colonizzare
quasi ogni angolo del pianeta. Le piante
succulente, ad esempio, hanno conquistato anche ecosistemi particolarmente
poveri d’acqua, dando vita a risultati
adattativi straordinariamente diversi:
ne esistono specie dal fusto ingrossato,
La Rassegna d’Ischia 3/2008
29
altre con foglie carnose; ci sono affarini striscianti e giganti
alti svariati metri; mostriciattoli spinosi e tenere piantine
dall’epidermide delicata. E poi i loro fiori!
L’argomento “giardino” e “piante succulente” è stato
sviluppato sotto diversi aspetti, come “monumento vivente
- pedagogia dei giardini d’Europa” (Aline Rutily, ricercatrice del Centro d’arte visiva della Sorbona di Parigi, e
Mariella Morbidelli, educatrice); “le piante succulente:
un laboratorio didattico per la tutela della biodiversità”
(Elena Gaudio, consigliere nazionale di Italia Nostra);
“impiego delle piante succulente nella progettazione del
verde” (Bruno Filippo Lapadula, architetto, esperto di studi
di impatto ambientale, docente di storia del giardino e del
paesaggio all’Università La Sapienza di Roma); “piante
succulente al rischio di estinzione” (Andrea Cattabriga, botanico, presidente dell’Associazione per la biodiversità e la
sua conservazione); “influsso del cambiamento climatico
sull’estensione delle piante cioè la biodiversità” (Detley
Metzing dell’Univ. di Oldeburg/Botanischer Garten).
Nelle foto vari momenti dei tre giorni della mostra-convegno e
aspetti dei Giardini Ravino
30
La Rassegna d’Ischia 3/2008
Angelica Sollino ha trattato della “flora dei fondali
marini ischitani”, con particolare riguardo alla Posidonia.
Intorno all’isola d’Ischia le praterie di Posidonia oceanica
formano una “cintura verde” pressoché continua, ricoprendo circa 17 kmq di fondale marino. I prati più estesi
sono situati sulla sommità della Secca d’Ischia o Banco
d’Ischia e sul fondo del canale d’Ischia che si congiunge
con le praterie delle isole di Vivara e Procida.
La prateria di Lacco Ameno è situata nel settore nord
dell’isola nella baia delimitata da Monte Vico. Si estende
con continuità a profondità tra 0,5 e 32 m. Molto studiata.
Moderatamente esposta al moto ondoso. È impiantata su
sabbie da molto fini a frazioni medie.
La prateria della Scarrupata di Barano si estende nel
versante sud-est dell’isola da 10 a 35 m di profondità.
Esposta ai venti meridionali. Impiantata su matte. Tra
10 e 35 m di profondità ha una distribuzione continua.
Discontinuità di pendenza tra 15 e 20 m e tra 25 e 30 m.
Sedimenti da sabbie grossolane a sabbie fangose. Molto
lontana dai centri urbani, per cui è una prateria con ridotto
disturbo antropico.
La prateria della Nave è situata in prossimità dello
scoglio emerso denominato “La Nave”, è posizionata a
sud-ovest dell’isola, tra 20 e 30 m di profondità. Esposta
alle correnti e ai venti occidentali. Insediata su roccia nella
porzione più superficiale a 15 m. Insediata su sedimento
detritico biogenico e matte sul limite inferiore 28-30 m.
Ha una distribuzione a macchie.
La prateria del Castello Aragonese è situata intorno al
castello ma anche nella baia di Cartaromana. Molto riparata
dal moto ondoso. Impiantata su matte molto alta. A 5-6m
di profondità è molto estesa
Attualmente con l’istituzione dell’Area Marina Protetta
del Regno di Nettuno le praterie dell’isola avranno la possibilità di essere preservate per il futuro ponendo l’accento
su un’attenzione consapevole.
Maria Cristina Buia, biologa marina presso la Stazione
Zoologica A. Dohrn di Napoli, ha parlato della “biodiversità dei sistemi vegetali marini” ed ha, tra l’altro, sviluppato
i seguenti punti:
Caratteristiche delle piante marine: vivono nell’ambiente marino e non altrove; hanno un’impollinazione idrofila
sommersa; la dispersione dei semi avviene grazie ad agenti
biotici e abiotici; le foglie hanno una cuticola molto ridotta
ed una epidermide priva di stomi; hanno rizomi che ne
garantiscono l’ancoraggio; hanno radici che svolgono un
importante ruolo nel processo di trasferimento dei nutrienti
ma che dipendono dalle foglie e dai rizomi per il trasporto
dell’O2.
Cause di regressione antropica: Eutrofizzazione (dal
1975 si assiste ad una diminuzione della trasparenza
dell’acqua di 0.1 m /anno); condizioni di anossia livelli
tossici di nutrienti; acquacoltura (la sedimentazione di
materiale organico comporta una riduzione della qualità
dell’acqua ed un aumentato carico organico nei sedimenti
- Posidonia e Cymodocea); cause meccaniche (pesca a
strascico, ancoraggi e ripascimenti); introduzione specie
alloctone; cambiamenti climatici (innalzamento livello
del mare di 0.6 cm/anno con regressione linea di costa ed
erosione di 6m/anno).
Come prevenire la regressione delle praterie: Controllo
e trattamento delle acque urbane e industriali per ridurre
il carico di nutrienti, di materia organica e di prodotti
chimici; magggiore regolamentazione dell’uso del territorio per ridurre l’erosione del suolo; regolamentazione
dell’acquacultura, pesca e prelievo sabbie sulle praterie o in
zone ad esse adiacenti; regolamentazione degli ancoraggi;
enfatizzazione dell’importanza delle praterie a fanerogame
e aumento delle penali per chi provoca disturbi su piccola
scala.
Altri interventi - Il geologo Aniello Di Iorio: “Il suolo, supporto della biodiversità; origine ed evoluzione
geografica dei suoli sull’isola d’Ischia”. - Pasquale De
Toro (docente alla Facoltà di Architettura dell’Università
Federico II di Napoli): “Conservazione della biodiversità
e salvaguardia del Creato: dalla riflessione etica sull’ambiente alla conversione ecologica”: «Uno dei campi, nei
quali appare urgente operare, è senz’altro quello della
salvaguardia del creato. Alle nuove generazioni è affidato
il futuro del pianeta, in cui sono evidenti i segni di uno sviluppo che non sempre ha saputo tutelare i delicati equilibri
della natura. Prima che sia troppo tardi, occorre adottare
scelte coraggiose, che sappiano ricreare una forte alleanza
tra l’uomo e la terra. Serve un sì deciso alla tutela del creato e un impegno forte per invertire quelle tendenze che
rischiano di portare a situazioni di degrado irreversibile»
(visita pastorale del Papa a Loreto il 2 settembre 2007).
Secondo Giuseppe Sollino, docente di scienze naturali
e responsabile del C.A.T. dei Giardini Ravino, la riduzione delle entità floristiche presenti e l’attuale costituzione
della flora di Ischia sono fortemente influenzate dalle varie
forme di pressione antropica cui l’isola è stata sottoposta in
tempi storici e in tempi più recenti dalla variazione d’uso
del territori (industrializzazione turistica). Se è vero che
l’isola contiene ancora dei veri e propri tesori botanici,
sono altresì importanti la loro protezione e la loro tutela. Le
cause che determinano la regressione o la scomparsa di una
specie sono da ricercarsi nell’esasperata antropizzazione
che altera o distrugge gli ambienti spesso molto ridotti
e particolarmente sensibili. Bisogna prendere coscienza
a tutti i livelli che la flora dell’isola d’Ischia è ancora
eccezionale per rarità ed endemismi ed è indispensabile
conservarla e proteggerla per trasmetterla arricchita alle
popolazioni future.
Nella flora dell’isola d’Ischia un posto di rilievo occupa
la “macchia mediterranea” formata da piante xerofile, sempreverdi e ricche di fioriture brillanti. L’alloro, le querce,
l’olivo e il carrubo sono gli elementi arborei che insieme
ai tipici arbusti come le ginestre, il mirto, le filliree e i cisti
conferiscono le inimitabili variazioni cromatiche mediterranee dell’isola. Particolarmente verdi sono, poi, le parti
collinari soprattutto in primavera, quando le pendici delle
zone alte dell’isola evidenziano il verde diffuso dei castagni, dei lecci e delle acacie. Il sottobosco è, poi, ricchissimo
di piante aromatiche ed officinali come la nepente, la salvia,
il rosmarino, l’origano ecc. Infine fioriture continue sono
quelle dei cisti, delle valeriane, dei ciclamini e delle orchidee selvatiche. Si trovano così ecosistemi molto diversi
tra loro che, seppur limitati nella estensione, risultano di
grande valenza ecologica. Più di 700 specie diverse nei
La Rassegna d’Ischia 3/2008
31
46,5 kmq con alcuni endemismi e rarità come il papiro
delle fumarole (Cyperus polistachius Rottb.) e la felce
dell’Epomeo (Woodwardia radicans L.). Tra le piante rare
scomparse dal territorio isolano vanno annoverate l’Ipomea
Imperati (Vahl) Grisebach (specie legata alle dune sabbiose
litorali, rarissima nel bacino mediterraneo occidentale.
Segnalata per la prima volta sull’isola da Michele Tenore
nel 1802, fu ritrovata anche da Giovanni Gussone nel 1854.
La sua presenza ad Ischia è segnalata fino al 1980, quando
una frana che coinvolse la spiaggia dei Maronti, presso
Cava Scura, la cancellò definitivamente dal territorio.
Recentemente è stata reintrodotta nel litorale della Baia
di San Montano); la Kochia saxicola Guss. (descritta da
Giovanni Gussone nel 1854, che la rinvenne sugli Scogli
di S. Anna nella Baia di Cartaromana. Estinta sugli scogli
di Ischia, la specie è ancora presente sugli scogli dell’isola
di Capri e a Strombolicchio. Recentemente (luglio 2004) la
specie è stata reintrodotta sullo scoglio citato dal Gussone);
il Limonium (Statice) inarimensis Guss. (pianta studiata e
descritta da G. Gussone nel 1854, che non è stata ritrovata
in nessun’altra parte del mondo).
La manifestazione si è conclusca con la celebrazione
della Santa Messa da parte del vescovo d’Ischia mons.
Filippo Strofaldi.
***
Le piante succulente nei giardini storici
di Bruno Filippo Lapadula (1)
Per giardino si intende, in qualunque paese ed in qualunque epoca, un luogo chiuso con colture erbacee, arbustive
ed arboree di tipo utilitaristico ed ornamentale. Questa
interpretazione non è di uso generalizzato e non è affatto
scontata, anche se esprime dei concetti che risalgono almeno al IV millennio a. C. È invece facilmente dimostrabile
quanto sia esatta, oltre che attraverso i fatti (un giardino
non recintato sopravvive per poco tempo), dall’etimologia
dei termini usati per indicare un giardino che, in quasi
tutte le lingue del mondo, si può far risalire a parole che
significano recinto. Quindi all’idea di giardino possiamo
associare l’immagine di una zona protetta ed esclusiva
dove raccogliere, coltivare, studiare ed ammirare quanto
di più straordinario offre la natura.
Per giardino storico non trovo nulla che possa superare
la definizione del filosofo siciliano Rosario Assunto (19151994): «luogo destinato a vivere la contemplazione e a contemplare la vita nell’atto stesso di viverla. Il giardino, diciamo, come
opera d’arte il cui godimento si identifica con il vivere in essa:
un vivere nel quale il momento della contemplazione (e quindi
del godimento estetico, che non è passività ricettiva, ma è un fare
avente, nella contemplazione, il proprio movente ed il proprio
fine) non sia, come nell’architettura a qualunque uso assegnata,
correlativo alla destinazione pratica del luogo, ma sia lo scopo per
il quale il luogo-giardino è stato ideato e realizzato»2. Quindi è il
luogo per eccellenza dove dedicarsi a quello che i romani
avrebbero definito otium.
1 Architetto esperto in valutazione d’impatto ambientale, professore a.c. di Storia del giardino e del paesaggio all’Università
di Roma.
2 R. Assunto, Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e
associati ed., Milano, 1988.
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La Rassegna d’Ischia 3/2008
Giardini pre-colombiani
Tra le piante che conserviamo nei nostri giardini, che
sono oggetto di cure e che facciamo materia di studio e
contemplazione, le succulente occupano oggi un posto
molto importante. Piante che mancavano invece nei giardini storici più antichi. Quelli, per intendersi, realizzati
nell’area culturale che gravitava sul Mediterraneo sino al
sec. XVIII.
In Europa il rapporto tra giardino e piante grasse si è
manifestato in modo significativo solo in tempi recenti. Ma
se teniamo conto delle precedenti definizioni di giardino
e di giardino storico, non potrebbe essere (almeno potenzialmente) più stretto. Infatti non riesco ad immaginare
qualcos’altro che assomigli di più ad una scultura o ad un
gioiello, da custodire ed ammirare, di una succulenta.
La coltivazione di queste piante si è diffusa (soprattutto
a scopo ornamentale) solo due secoli dopo i viaggi degli
esploratori europei che le avevano scoperte approdando, a partire dalla fine del sec. XV, nelle regioni tropicali
dell’America e dell’Africa.
Invece tale presenza certamente già c’era ed era molto
intensa presso civiltà, come quelle pre-colombiane, delle
quali però conosciamo purtroppo assai poco. Perché l’avidità e l’ignoranza degli stessi esploratori le hanno quasi
cancellate del tutto dalla storia. Lo storico statunitense
William H. Prescott (1796-1859) ha riunito in uno dei suoi
libri le descrizioni, riferite dai conquistadores spagnoli,
delle città e dei giardini aztechi che si trovavano nell’area
del Messico attuale:
«L’orgoglio di Iztapalapan, al quale il suo signore aveva
prodigato le sue cure e le sue rendite, erano i famosi giardini.
Occupavano un’immensa distesa di terreno ed erano tracciati
a riquadri regolari; i sentieri che li contornavano erano bordati
da tralicci che sostenevano rampicanti ed arbusti aromatici,
che riempivan l’aria dei loro profumi. I giardini erano colmi
di alberi da frutto, importati da località remote, e della festosa
famiglia dei fiori appartenenti alla flora messicana, che, disposti
scientificamente, crescono lussureggianti nella mite temperatura
dell’altipiano» 3.
Gli spagnoli (soprattutto per vantare l’entità della loro
conquista) avevano registrato l’esistenza di splendidi
giardini nelle città azteche 4, confermata poi dagli scavi archeologici 5, ma non li hanno conservati. Quindi sappiamo
molto poco dell’aspetto che avevano e delle piante che vi
venivano coltivate, perché tutto venne meticolosamente
distrutto. Non è però difficile immaginare che vi fossero
importanti collezioni di piante grasse.
Vi sono molti indizi a dimostrarlo. Ad esempio una
nochtli (Opunzia) era l’emblema della capitale Tenochtitlan
(l’attuale Città del Messico) e compariva nello stesso nome
della città.
È provato anche che gli aztechi conoscevano in modo approfondito e sistematico le proprietà alimentari (sono molti
e vari per forma, dimensione, colore e sapore i frutti delle
Cactacee come il Myrtillocactus geometrizans o il Ferocactus
pilosus, delle Opunzie come l’Opuntia ficus-indica e di tante
altre come la Mammillaria heyderi o lo Stenocereus thuberi)
e medicinali delle piante che crescevano nell’America
centrale. Gli studi di antropologia ed etno-botanica hanno
stabilito che i nativi americani avevano sperimentato gli
effetti di almeno un centinaio di piante psico-attive e che
ne facevano uso già a partire dal IV millennio a. C. Tra
queste avevano un ruolo prevalente le succulente.
All’epoca della conquista spagnola la botanica era molto
sviluppata presso gli Aztechi, non solo tra i “curanderos”
e coloro che direttamente traevano da quelle conoscenze
beneficio, ma anche tra i sacerdoti e i regnanti» 6.
Il grande interesse scientifico degli Aztechi, per le piante
e soprattutto per gli effetti curativi e allucinogeni degli
estratti vegetali, conferma il livello di civiltà raggiunto,
prima dell’arrivo degli europei, dai popoli dell’America
centrale e meridionale. Purtroppo quando gli spagnoli
bruciarono la maggior parte dei manoscritti aztechi 7, non
risparmiarono quelli che descrivevano le piante e le loro
proprietà, perché sottovalutati da un’ignoranza arrogante
ed accusati dalla chiesa di contenere formule utilizzate in
riti magici e diabolici.
Invece gli aztechi avevano raggiunto un elevato livello
di conoscenza delle possibilità curative delle succulente
e conoscevano molto bene gli effetti sul corpo umano di
sostanze come: lo jiculi o peyote (polpa del cactus Lophophora
williamsii) con funzioni sia allucinogene che medicinali (con
cui curavano molte malattie: polmonite, tubercolosi, scarlattina, reumatismi, diabete, emorragie, dolori intestinali,
crampi, punture, ecc.) ed energetiche (che assumevano
per compensare gli effetti della stanchezza, della fame e
della sete); l’oclti o pulque (la bevanda fermentata ricavata
dall’Agave salmiana o dall’Agave tequilana) con funzioni
sia nutritive che medicinali e rituali; e tante altre 8.
È dunque accertato che una parte rilevante degli antichi
8 Qualche notizia si può trovare in: E. Riva, L’universo delle
piante medicinali. Trattato storico, botanico e farmacologico di
400 piante di tutto il mondo, Tassotti ed., Bassano, 1995.
3 W. H. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi ed., Torino, 1970.
4 Si veda: E. Cerulli, Civiltà etnologiche e America precolombiana, in Aa.Vv., Enciclopedia Universale dell’arte, Volume VI,
op. cit.
5 Si veda: T. W. Killion, The Archaeology of Settlement Agriculture, in Gardens of Prehistory, The University of Alabama
Press, 1992.
6 C. Zanovello, Alla scoperta di Cartus Preziosi, F. Muzzio ed.,
Padova, 1992.
7 Della botanica e della medicina azteche sono rimaste notizie:
nel Codex Badianus compilato nel 1542 dal medico di origine
azteca Manuel de la Cruz, che riporta i nomi locali delle piante,
le riproduzioni, le descrizioni e gli usi che ne facevano i guaritori
indigeni; ed nel Rerum Medicarum Nuovae Hispaniae Thesaurus,
seu Plantarum, Animalium, Mineralium Mexicanorium Historia,
scritto dal medico spagnolo Francisco Hernandez (1514-1578)
tra il 1572 ed il 1577 (ma pubblicato solo nel 1651), che descrive
le piante sia dal punto di vista botanico che farmacologico.
La Rassegna d’Ischia 3/2008
33
saperi siano andati perduti (per esempio esisteva una
seconda pianta con effetti simili al peyote della quale
si è perduta la notizia). Ciò si è tradotto in danni per la
salute, perché non conosciamo più molte sostanze attive,
e nello stesso tempo per l’ambiente. Infatti l’ignoranza
non favorisce certamente l’equilibrio degli ecosistemi e
la conservazione della biodiversità, perché è più facile
trascurare e quindi distruggere o far scomparire ciò che
non si conosce.
Oggi invece vi è sicuramente un maggiore senso di
responsabilità (diffuso almeno in una parte della popolazione mondiale) e sappiamo anche che non deve essere
solo l’interesse (anche se di tipo scientifico) a motivare la
conservazione dell’ambiente e lo studio di ciò che non si
conosce. La natura va rispettata sempre e comunque. Anche in questo campo le culture, così dette primitive, hanno
dimostrato di aver avuto una sensibilità ambientale molto
superiore alla nostra.
Malgrado le distruzioni ed i massacri, qualcosa dei
meravigliosi giardini aztechi e dei loro interessi botanici,
almeno indirettamente, è rimasto ed influenza, a nostra
insaputa, gli orti botanici:
«Una delle cose che più colpirono i conquistadores al loro
arrivo a Tenochtitlan, ora Città del Messico, fu la bellezza
e la ricchezza di alcuni giardini, veri e propri orti botanici,
organizzati razionalmente e con criteri sistematici. Sembra
in proposito che i giardini botanici europei, tutti costituiti
dopo la Conquista, siano stati ispirati appunto da quanto
visto in Messico» 9.
Questa mania di raccogliere piante dai luoghi più
lontani (che oggi contraddistingue tutti gli appassionati
di giardinaggio, compresi ovviamente i collezionisti di
piante grasse) ha dunque origini remote e diffuse. Già i re
assiri ed i faraoni egiziani si vantavano nelle loro iscrizioni
(rispettivamente cuneiformi o geroglifiche) di aver fatto
arrivare per i loro giardini piante dai luoghi più lontani.
In misura minore che in America centrale e meridionale,
anche in Africa ed in Europa erano note le proprietà delle
piante grasse. Gli egiziani, ad esempio, conoscevano l’uso
di alcune specie di Aloe (che si pensa potessero essere impiegate nei processi di mummificazione) già a partire dal
sec. XVI a. C. Molte altre specie erano utilizzate, almeno dal
I millennio a. C., in tutta l’Africa (soprattutto nella medicina
tradizionale delle popolazioni sudafricane come ad esempio l’Euphorbia candelabrum usatoa come emetico e o l’Aloe
secundiflora adoperata come disinfettante e antimalarico)
e nell’Europa meridionale dove alcune Crassulacee (come
il Sedum ed il Sempervivum) erano utilizzate anche a scopo
alimentare oltre che medicinale.
Orti botanici
Le grandi varietà di succulente sono state viste in America
ed in Africa alla fine del sec. XV e sono state portate in Occidente nel corso del sec. XVI a partire cioè dal periodo in
cui l’Europa, decadute le tradizionali vie commerciali verso
Oriente, aprì nuovi mercati con l’Africa e l’America. Ma si
dovrà attendere il sec. XVIII ed esploratori-scienziati come
l’inglese James Cook (1728-1779), il francese Luis Antoine
de Bouganville (1789-1811) ed il tedesco Alexander von
Humbolt (1769-1859), perché venissero descritte e colle9 C. Zanovello, op. cit.
34
La Rassegna d’Ischia 3/2008
zionate, ed il naturalista svedese Carl von Linné (Linneo,
1707-1778), perché cominciassero ad essere classificate.
Quando in Europa arrivarono le succulente, l’Italia aveva oramai perso l’importanza economica che aveva nei
secoli precedenti ed insieme il suo ruolo culturale. Tutto
stava accadendo altrove (in Gran Bretagna, Francia, Stati
Tedeschi, Paesi Bassi e Scandinavia) dove facevano capo
i flussi commerciali, provenienti da Ovest e da Sud, ma
dove le condizioni ambientali non erano certo favorevoli ad
acclimatare le succulente e le altre specie esotiche. Quindi,
soprattutto all’inizio (le piante grasse dimostrarono poi una
maggiore adattabilità rispetto alle altre specie esotiche),
le prime raccolte di queste piante venivano conservate
quasi esclusivamente al chiuso. Ma, proprio per garantire
le indispensabili condizioni di temperatura, umidità ed
insolazione, avvenne qualcosa di assolutamente nuovo.
I giardini classici (italiani e francesi) dal sec. XV al XVII
avevano utilizzato piante anche non autoctone (giunte
soprattutto dall’Oriente), ordinandole e potandole secondo rigidi schemi architettonici, ed i giardini paesaggistici
(inglesi) dal sec. XVIII le avevano importate ed acclimatate
dalle colonie, disponendole con maggiore libertà compositiva e lasciandole crescere senza impedimenti a formare
paesaggi idilliaci. Non si era ancora tentato di ricostruire
con criteri scientifici dei veri e propri ambienti integralmente e volutamente esotici, come avvenne nelle grandi
serre. Il grande interesse per queste novità produsse il
moltiplicarsi degli Orti Botanici10.
I primi erano stati quelli italiani. Come al solito vantiamo
le nostre primogeniture e (se escludiamo le vaghe notizie di
antichissimi orti botanici greci ed ellenistici) possiamo partire da quello del sec. I voluto dall’imperatore Vespasiano
(9-79) nel Forum Pacis a Roma, per continuare con quello
del sec. XIV creato dal magister Matteo Silvatico (?-1340)
a Salerno, per arrivare a quello della metà del sec. XVI di
Padova e poi a tutti quelli che arricchirono le università
e gli ospedali a partire dal Rinascimento, prima in Italia
e poi in Europa. Nessuno di questi aveva però, all’epoca
della sua apertura, delle collezioni di piante grasse.
Per incontrare invece orti botanici 11 con serre per piante
tropicali dobbiamo arrivare al sec. XVII e solo nell’Europa del Nord, come quelli di Copenhagen in Danimarca;
Amsterdam (creato per accogliere le collezioni delle piante importate dalla Compagnia delle Indie Orientali) in
Olanda; Parigi (Jardin des Plantes) in Francia; Kew in Gran
Bretagna. Gli ampliamenti si succedettero e straordinarie
collezioni con migliaia di esemplari vennero aggiunte nei
secoli. A partire da questi, ne sorsero tanti altri come l’orto
botanico del sec. XVIII a Shönbrun in Austria o quello del
sec. XIX a Laeken in Belgio (creato per le piante provenienti
dal Congo)..
Bruno Filippo Lapadula
10 Per una storia degli orti botanici cfr.: P. Meda, Guida agli Orti
e ai Giardini botanici, Mondadori ed., Milano, 1996; F. Consolino, E, Banfi, Orti botanici nel mondo, Zanichelli ed., Bologna,
1997; A. Piva, P. Galliani, Nuovi paesaggi. Storia e rinnovamento degli orti botanici in Italia, Marsilio ed., Padova, 2002.
11 Per una rassegna sia storica che tecnica si vedano: J. Hix, The
Glass House, Phaidon ed., London, 1974; S. Saudan-Skira, M.
Saudan, Orangeries: Palaces of glass. Their history and development, Evergreen ed., Köln 1998; F. Pautz, Serres des jardins
botaniques d’Europe, Aubanel ed., Genève, 2007.
Un giardino e una biblioteca per la felicità completa!
Basta possedere un giardino e una biblioteca per conoscere la felicità completa: un saggio l’ha detto e forse
sentito direttamente (il saggio non afferma niente che non abbia vissuto).
Ma che cosa si deve intendere con l’espressione “felicità completa”? La massima non precisa, giustamente,
questo significato, perché il suo contenuto è soggettivo. È l’individuo che giustifica, apprezza e fa proprie le tesi
proposte, secondo la sua disponibilità spirituale, le sue convinzioni, la sua sensibilità.
In assoluto, e quale premessa evidente, risulta chiaro che la causa efficace non consiste affatto nel semplice
possesso di un giardino e di una biblioteca.
Se si riconosce che tutti desiderano una vera felicità, occorre ammettere che i due elementi devono rispondere
ad una reale utilità che contribuirà a rendere felici. Poiché si tratta del piacere dell’anima, i due elementi rappresentano i luoghi materiali che permettono di entrare in comunicazione con il mondo spirituale.
Ogni giardino, il più semplice come il più lussureggiante, è così vasto, più vasto della sua stessa estensione, e
accanto agli esempi di vita che ci offre, agli spettacoli rinnovellati di anno in anno, si vive un’esistenza solida
e corroborante. Bellezza, grandezza, fedeltà del giardino! Quanto dobbiamo ad esso delle nostre estasi e della
nostra bontà!
I libri sono il veicolo che trasmette i tesori dell’umanità; la biblioteca è lo scrigno che conserva ciò che l’uomo,
di generazione in generazione, ha saputo trarre da quella visione.
Il modello resta lo stesso: la natura nella sua magnificenza; ma vediamo sempre qualcosa di nuovo che arricchisce la sua conoscenza.
Il giardino, espressione del mondo sensibile, colpisce soltanto perché è presente ai nostri sensi e visibile quotidianamente nello spazio. I libri suscitano l’ispirazione della vita interiore e il legame d’amore tra gli spiriti: il
loro dominio nel tempo. La letteratura e le opere che ne sono l’espressione, in ciascuna epoca, generano profonde impressioni; sola, la parola dell’anima giunge all’anima.
Una casa senza giardino e biblioteca è una casa senza solide fondamenta e senza vita, esposta ai rischi, alla
miseria, alle atrocità dei tempi.
La riproduzione e il rinnovamento che si verificano negli alberi e nei fiori con la loro facoltà di adattarsi
all’ambiente, presuppongono la presenza di una forza interiore che invade il campo delle nostre meditazioni. Ma
è solo uno degli aspetti più complessi della vita.
L’uomo, il “sapiens”, si innalza al di sopra di tutti gli esseri che lo circondano e scopre la sua dignità nella capacità di pensare; sebbene sia la canna più fragile della natura, come diceva Pascal, l’uomo è una canna
pensante. Di conseguenza egli sente la necessità di spiegare e risolvere tutti i problemi suoi, per penetrare la sua
essenza. Con l’intelligenza, i sentimenti, la volontà, cioè con ciascun potere dell’anima, egli cerca di realizzare
la virtù propria del suo essere umano, di comprendere nell’unità della coscienza la vastità del tempo. L’uomo
ama dunque la cura del passato, il culto della tradizione.
Il giardino e la biblioteca diventano così un insieme che non può essere diviso: l’uno è complementare dell’altro.
Il contatto con l’antichità e con le relative conquiste ha bisogno di riflettersi nella realtà di tutti i giorni e comporta la necessità di considerare gli sforzi e i sacrifici che ci sono imposti.
Per un certo aspetto la vita appare come una ricerca di questi valori eterni che sono stati vivi ieri e che hanno
impresso la loro impronta nei vari momenti, la cui somma forma i secoli. Ma si avverte ancora un passato profondamente differente dal presente. Il mondo ricomincia per ciascun individuo. E quell’ultimo non è mai eguale
a se stesso: la vita ricomincia in ciascun momento.
Nelle ragioni che tendono a giustificare la vita, sia come continuità (il legame con il passato), sia come divenire, l’uomo si sforza di definire la sua spiritualità e di cogliere l’equilibrio e l’armonia nel fondo della sua anima.
Nella misura in cui si concretizza questo risultato resta circoscritta la possibilità di accettare quanto afferma il
saggio: basta possedere un giardino e una biblioteca per essere felici.
Entrambi sono egualmente insostituibili nella loro funzione. Il giardino e la biblioteca costituiscono un’esigenza unica per coloro che desiderano, almeno, un po’ di fede, ma soprattutto sono in grado di trovarne i presupposti.
Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia 3/2008
35
Colligite fragmenta, ne pereant
Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia (XI)
A cura di Agostino Di Lustro
Le Capitolazioni delle Confratenite della Città d’Ischia
conservate nell’Archivio di Stato di Napoli
III
5) Confraternita di Santa Maria
dell’Ortodonico
Nella zona Nord-Est del Castello d’Ischia sorge la chiesa
detta di Santa Maria dell’Ortodonico. Quando sia stata fondata, non si evince da alcun documento in nostro possesso.
Il Notamento di tutti i Beneficii cioè Vescovato, Abbatie,
Parrocchie, Dignità, Canonicati….. presentato dal vescovo
Innico d’Avalos come relazione ad limina nel 1598, pur descrivendo minuziosamente tutte le chiese, cappelle, benefici e
altari esistenti in cattedrale e nella città d’Ischia, non fa alcun
cenno a questa chiesa.
L’anno successivo 1599, nei Decreta et Constitutiones
Sinodales Dioecesanae Isclanae dello stesso vescovo, troviamo un brevissimo accenno a questa chiesa alla pagina 13
nel capitolo dedicato alle processioni. Trattando infatti delle
confraternite e della precedenza nelle processioni, dopo aver
detto che la precedenza assoluta spetta alla confraternita del
Santissimo Sacramento che aveva sede nella chiesa cattedrale,
aggiunge che il secondo posto spetta Confraternitati Beatae
Mariae de Orthodinico. Dobbiamo notare però che i decreti
sinodali del d’Avalos parlano della confraternita e non della
chiesa di Santa Maria dell’Ortodonico. È necessario tuttavia
aggiungere subito che su questa confraternita non si hanno
ulteriori notizie dopo questa data per cui non riusciamo a sapere altro di essa, segno che deve essere scomparsa presto.
In un anno non precisato, nella chiesa dell’Ortodonico
venne traslata la parrocchia di Santa Barbara, come ci attesta il Notamento degli atti beneficiali della città e diocesi
d’Ischia nel quale è citato questo documento: Status et nota
reddituum Parochialis Ecclesie Sancte Barbare traslate in
Ecclesia Sancte Marie dell’Orto d’Onico intus civitatem de
libera collatione folia scripta n. 39 (1).
Il vescovo Nicola Antonio Schiaffinati, nella relazione ad
limina presentata il 20 giugno 1739, non cita esplicitamente
la chiesa dell’Ortodonico, né tampoco la confraternita, ma ne
fa cenno indirettamente quando scrive: Altera vero parecia
sub titulo Sancte Barbare, et Conceptionis Beate Virginis cui
preest unus ex Canonicis Cathedralis Ecclesie, mediocriter
instructe reperitur Sacra suppellectile, et concinniorem habet
formam, sed neque sacra Eucaristia, neque Sacra olea, sive
Fons Baptismalis in ea adsunt; Necessitate tamen urgente
Parochus ea desumit a Cattedrali. Parochianos habet qua1) L’annotazione non indica alcuna data.
36
La Rassegna d’Ischia 3/2008
draginta tres cum onere dispensandi pauperibus carolenos
vigenti quinque panis quotannis.
Allo stesso parroco di Santa Barbara era affidata anche
la chiesa di Sancto Nicolao Barensi; seu Sancta Maria de
Libera dicata, asseritur esse Parochialis, et est sub cura eiusdem Parochi Sancte Barbare. La Nota dei luoghi pii laicali
del 1777 dell’Archivio Diocesano d’Ischia ci fa sapere che:
nel circuito di detto castello vi è la cappella, o sia chiesa di
Santa Maria della Concezione detta dell’Ortodonico senza
aggiungere altro.
All’inizio del secolo XIX le chiese del Castello furono chiuse e le loro poche suppellettili furono portate in altre chiese.
In tale occasione il quadro della Madonna fu portato nella
nuova cattedrale e sistemato nella sacrestia dove è rimasto
fino a pochi anni fa. Oggi è conservato nel Museo Diocesano
d’Ischia. Si tratta di una tela della Madonna delle Grazie e,
dall’atteggiamento della Madonna, si ha l’impressione che
debba trattarsi della parte superstite di una tela più grande
successivamente tagliata e supportata da una tavola.
L’antica chiesa è stata restaurata da pochi anni e inserita
nell’itinerario di visita del Castello. In essa è stato sistemato
anche un piccolo organo positivo proveniente dall’ormai
cadente cappella dei Baldino di Fiaiano.
6) Confraternita o cappella di Santa Maria della Presenza nella chiesa di Santa Maria della Scala di Celsa
Un’annotazione del volume 87 del convento di Santa Maria
della Scala di Celsa conservato nel fondo Corporazioni Religiose Soppresse dell’Archivio di Stato di Napoli, riportata al
foglio 545, ci informa che nel 1494 Bartolomeo Genovese, dimorante nella città d’Ischia nella parrocchia di San Biase, con
testamento sottoscritto da ben nove testimoni, dispone che,
alla sua morte, venga seppellito nella chiesa di Santa Maria
della Scala alla cappella intitolata Santa Maria della Presenza
volgarmente detta la Cappella della Fratellanza; item vuole
messe trentuno per una sol volta alla detta Cappella ed alla
medesima lascia un’onza di carlini d’argento appresso i beni
….sopra una selva, dove si dice… (il vuoto è nel documento)
di Colella Canetta, di Galatio Taliecio. Qualche anno dopo,
nel 1505, Lucia Barbara d’Ischia, con suo testamento, dispone
di essere sepolta nella cappella di San Nicola da Tolentino
nella chiesa degli Agostiniani di Celsa e che in detta cappella
si celebrino, per una sola volta, messe quaranta. Inoltre dona
un terreno ubicato a Cufa appo de beni di Sebastiano Barbosa,
degli eredi del fu Magnifico Gaspare, di Giacomo de Implica,
alla cappella della Fratellanza posta in Santa Maria della Scala,
con obligo d’una messa cantata nel giorno di tutti i Santi, e se
detta cappella andasse in altre mani, vuole che detti confrati
percepischino i frutti di detta terra e faccino dire detta messa
cantata ( vol. 87 ff. 546-547).
Da queste due testimonianze siamo informati che questa
cappella, della quale non conosciamo neppure l’ubicazione
esatta nell’ambito della chiesa del convento agostiniano di
Celsa, fosse sede già nel 1494 di una confraternita della quale
però non ci viene dato il nome.
Mancano altri riferimenti documentari che riguardino la
cappella o confraternita, se di vera e propria confraternita si
tratta. Se così fosse, questi sarebbero i documenti più antichi
in nostro possesso che ci parlano di una confraternita, visto
che di altre, anche se la tradizione dice che risalirebbero ad
un’epoca anteriore, non vi sono testimonianze documentarie
coeve anteriori a queste date.
7) Confraternita di Santa Maria della Pietà
nella chiesa di Santa Maria della Scala
La prima testimonianza esplicita dell’esistenza di questa
confraternita ci viene offerta da alcuni documenti citati nel
volume 87 del fondo Corporazioni Religiose Soppresse
dell’Archivio di Strato di Napoli. Il 16 settembre 1539 Ursolina Manna di Napoli vidua del fu Antonio Marino, madre
e tutrice testamentaria di Panitia Manna, assegna per le doti
di detta figlia, moglie di Alfonso Russo, docati trecento su
un tenimento, posto nelle pertinenze d’Ischia dove si dice lo
Monte di Campagnano, appresso i beni di Marino de Lanfreschi, del Convento di S. Domenico, di Domenico Buono,
della chiesa di S. Bartolomeo (sic!), del convento di S. Maria
della Scala, via publica per franca eccetto dal peso di tomola
tre di grano dovuti alla Confraternita di Santa Maria della
Pietà come questo appare da detto istromento.
Ma già qualche anno prima nel 1536 ( ibidem f. 34 ) per
mano del not. Polidoro Albano del 1536 Margherita di Arzes
vidua del fu Damiano de Angelis vende a Marco Antonio
Malfitano una casa posta nella città d’Ischa, con orto nella
parrocchia di S. Nicola ad esso Damiano venduta da Melchiorre Calcinello, mediante istromento del Notare Giovan
Battista Funereo franca eccetto il peso d’annui docati tre
dovuti al Convento di Santa Maria Scala, appo i beni dotali di
Fraustina Caralce redditizii alla Confraternita di Santa Maria
della Pietà. Di Giovanni Prende de Arzes, e via pubblica da
due parti per docati ottanta come questo e più chiaramente
appare dal detto istromento al quale.
Un terzo documento di poco posteriore viene riportato in
transunto nel volume 113 dello stesso fondo archivistico sopra
più volte citato. Con atto del not. Polidoro Albano d’Ischia
dell’11 aprile 1548 con cui Bonaduce Caballo affranca carlini
15 dei 30 da lui dovuti sopra una casa ubicata nella città spettanti alla cappella della Pietà. Infatti Giovan Angelo de Massa
del Casale di Moropana d’Ischia vende annui carlini sedeci
di censo enphiteutico perpetuo cum protestate affrancandi a
Bonaduce Caballo della città d’Ischa per capitale di carlini 16
sopra una terra di capacità di mezzo tumolo in circa sita e posta
nel Casale di Morpane juxta li beni di Agostino Conte, li beni
di Marino di Massa, di Giulia Ungano, et altri confini, quale
Bonaduce detti carlini 16 li gira alli Mastri della Confraternita
di Santa Maria della Pietà, che sono il Padre fra Iacono Calise
priore del Convento di Santa Maria della Scala, Iacovo Bona,
Gaetano, e Marc’Antonio Malfitano mastri e procuratori di
detta Confrateria, in parte dell’annuo censo di carlini trenta
che detta Confrateria deve sopra una casa di detto Bonaduce,
dentro detta città, consistente in più membri nella parrocchia
di Santo Vincenzo (sic), juxta l’altri beni di detto Bonaduce,
la strada publica da due parte, in parte di detti carlini 30
cede a detta Confrateria per l’affranco di carlini quindici, de
quali si obliga pagarli ogn’anno il sodetto Vincenzo Angelo
sopra la sodetta terra, come per istromento rogato per mano
di Notare Polidoro Albano a 11 aprile 1548, quale ne fa fede
Notare Aniello Mancusi d’Ischia, conservatore delle scritture
di notar Polidoro.
I protocolli del notar Polidoro Albano, del quale abbiamo
notizie di atti rogati tra il 29 marzo 1525 (cfr. Corporazioni Religiose Soppresse vol. 87 f. 9) e il 24 dicembre 1566 (ibidem,
f. 43 ), e quelli del not. Aniello o, per meglio dire, Giovanni
Aniello Mancusi, del quale ho trovato citazioni di atti rogati
tra il 9 novembre 1568 ( ibidem, f. 49) e il 2 settembre 1607
(ibidem, f. 88) sono andati perduti. Queste notizie sono le più
antiche che possediamo non solo su questa confraternita, ma
anche sul culto a Santa Maria della Pietà, titolo mariano affine
a quello dell’Addolorata tanto diffuso sulla nostra Isola.
C’è da osservare ancora che tra il 1534 e il 1548 è stato
vescovo d’Ischia Agostino Pastineo, dell’Ordine dei Servi di
Maria, per cui possiamo supporre che abbia favorito lo sviluppo del culto all’Addolorata, tipico dell’ordine monastico
di cui faceva parte.
L’anno di fondazione della Confraternita della Pietà, che
non ha nulla a che vedere con quella omonima di Casamicciola, che sarà fondata all’inzio del secolo XVII, non ci è stato
tramandato. La Confraternita aveva sede in una cappella della
chiesa del convento di Santa Maria della Scala al quale pagava
ogni anno quattro ducati e mezzo per le messe che in essa
celebravano i frati agostiniani. Con atto del not. Polidoro Albano del 3 dicembre 1564 (ibidem vol. 119 ff. nn.). Il volume
85 dello stesso fondo, al f. 41 sostiene, invece, che il notaio è
Aniello di Francesco. E’ probabile che ci sia qualche errore
perché dalle fonti documentarie da me esaminate risulta che
del notaio Giovanni Aniello di (o de) Francesco di Napoli,
ma commorante in Ischia, ci sono notizie di atti rogati dall’11
agosto 1599 (ibidem vol. 87 f. 153) e il 27 gennaio 1637
(ibidem, f. 224). I protocolli del not. De Francesco nel sec.
XVIII erano conservati dagli eredi del not. Aniello Attanasio
d’Ischia. Oggi non esistono più). Vicienzo dell’Infrischi,
Nicolao Monsignore, et Giovanni Iacono de Fiorenza della
città d’Isca a quelli tempi Mastri et Economi della cappella, et
Confrateria de Santa Maria della Pietà costrutta dentro Santa
Maria della Scala s’obligano pagare allo nostro Convento altri
annui docati quattro per la celebrazione di altre due messe
la settimana videlicet lunedì, et venerdi in detta Cappella, et
pregarsi pro bene fattoribus, pro animabus fratrum et sororum,
et pro salute viventium, per quanto a loro potera, et piacera
altre l’altri annui docati quattro, e mezzo che li pagavano per
la celebrazione di due altre messe, videlicet una la domenica,
et una il sabato.
I beni della confraternita vennero concessi dalla Città
La Rassegna d’Ischia 3/2008
37
al costruendo monastero di monache di Santa Maria della
Consolazione per cui il documento continua a descriverci la
vicenda della confraternita.
E molti anni dall’hora incqua si celebrorno dette messe et
il convento doveva conseguire de piu de ducati cento per le
dette messe. Per la consequutione delli quali nell’anno 1615
Frate Agostino Recene all’hora collettore, et Procuratore di
detto Convento fece convenire nella corte vescovile d’Isca
li detti confrati et per essi le Reverende Monache d’Isca a
pagarli lo che dovevano che ascendeva alla summa de docati
cento per esserno le dette Signore Monache padrone di detta
confrateria, et dell’intrate d’esse, assegnatole per subsidio
loro, et per possernosi edificare il loro monisterio dentro la
città d’Ischa in virtù d’istromento quale si conserva in deposito
al numero 51 in carta pergamena; et in virtu de sentenza lata
da detta Corte Vescovile se conferma nell’originale processo
contro dette Reverende Monache nel nostro deposito numero
70 condennate a pagare tutti li censi decorsi, et in exequtione
d’essa furno exequiti due censi di ducati cento de capitale che
si dovevano a dette Reverende Monache dal Clerico Gioseppe
Agnese et poi furno conceduti ad extinctum candele, et furno
comprati da Marino pignatielli tanquam ultimo licitatore, et
plus offerente, et ad esso Marino fu estinta la candela quale
non avendo denari pro manibus li rinunciò al convento; et
cossì è restata detta lite senza farci altro.
Il 3 settembre 1575 la Città d‘Ischia concesse la chiesa con
la sepoltura e gli altari laterali della cappella della confraternita
di Santa Maria della Pietà agli Agostiniani di S. Maria della
Scala con tutti i beni che sarebbero stati donati in futuro agli
stessi altari, riservandosi solo i beni posseduti o che sarebbero
pervenuti in seguito all’altare maggiore.Tale donazione viene
fatta a nome dei cittadini e dell’Università.
Ci si potrebbe chiedere perché sia l’Università a disporre
tale donazione. C’è da presumere che la confraternita appartenesse alla Città d’Ischia, anche se non lo si legge esplicitamente in nessuna delle fonti documentarie a mia conoscenza. Le
entrate della confraternita erano state concesse alle Monache
dell’erigendo monastero di S. Maria della Consolazione per
cui si deve pensare che presto la confraternita scomparve
definitivamente.
Cessione dei beni a beneficio del convento
di Santa Maria della Scala
Archivio di Stato di Napoli
Corporazioni Religiose Soppresse
Fascio 119 - Quinterno non numerato
Primo foglio recto
A 13 settembre 1575 Nel Borgo di Celsa della Città d’Ischia
a detto di nella presenza di detti Illustrissimi constituti personalmente li Magnifici Giovanni Antonio Pesce Sindico et
Eletto della città di Ischia con li predetti collega per questo
presente anno il Magnifico Antonio Scotto similmente eletto
et ancora et Carlo Melluso, et Colella Canetta et sei consiglieri
et deputati ancora in detto predetto anno agenti et intervenienti
nell’infrascritti nomine per la causa nello soprascritto istromento contenuto da una parte et l’infrascritti nomine come
persona pubblica per ragione del suo officio interveniente
38
La Rassegna d’Ischia 3/2008
all’infrascripta omnia et singola in nome e parte del Padre
Priore e frati et loro successori del Venerabile Convento di
Santa Maria della Scala seu di Santo Agostino e per essi frati
imperpetuum et dal altra parte li prefati Magnifici Giovanni
Antonio Pesce, e li predetti Colella, et Carlo in nome ut supra
sponte asserirno avante di essi et esso nomine pubblico ut
supra nomine audiente et intelligente come li giorni passati
et proprio hieri 12 del detto mese di settembre in publico
testimonij Il Magnifico Antonio Scotto in nome ut supra de’
Magnifici Deputati, et consiglieri radunato et chiamato il Popolo, ed cittadini seu la maggior parte della Città d’Ischia, fra
l’altre proposte, proposero detti Magnifici eletti e consiglieri,
nella porta della Città predetta loco solito et consueto similmente proposero di donare e concedere a detto convento e frati
successori in esso in perpetuo la cappella l’altare et tumulo
seu sepoltura di Santa Maria della Pietà et Confraternita, nella
chiesa predetta, et ogni ragione in essi habendi, et detti Citatini
et Università competente, etiam di possere vendere alienare
locare disponere a loro arbitrio et volontà videlicet essi frati
per utilità di detto convento et di essi frati presenti e futuri,
con questa declaratione, che l’entrate et ligati o in qualsivoglia
modo per qualsivoglia altra donatione a devozione delli detti
altari e cappelle ut supra donate diano di detto Convento, et
frati, quello che fusse donato et lassato all’altare maggiore
della detta Confraternita de Santa Maria della Pietà sia di
detta Confraternità e non di detto convento e frati, et altre
cose contente nella proposizione fatta et apparente nel sopra
detto scritto in strumento et così fu pari voto concluso pro ut
donaverunt ditti magnifici eletti e deputati seu consiglieri et
altri citatini la presenti con nessuna altra clausola et patti, detto
convento e frati predetti pro ut questo et altro chiaramente
appare da detto publico istromento rogato per mano di detto
notare nella Città d’Ischa a detto di 12 del presente mese di
settembre 1575 al quale si habbia ragione in virtù del sudetto
Instromento di detti magnifici Eletti, e Consiglieri et deputati
promisero de rato per essi predetti Magnifici Giovanni Antonio Pesce Colella Canetta Carlo Melluso et Nicola Giovanni
Caldaia quale ratificorno il sopradetto instromento del sodetto
tenore d’esso quali personalmente si obligorno in nomine
di detta Università di osservare quanto si contiene in detto
instromento conforme nel sopra scritto instromento contiene
quibus sic assertis quali Magnifici Giovanni Antonio Pesce
Colella Canetta e Carlo Melluso in nomine ut supra cerziorati
et pienamente informati per essi, che dissero del sopra detto
scritto instromento, quanto si contiene in esso ad essi letto
propria vulgari rata per il sudetto nome il sopra detto scritto
instrumento parola per parola etiam informati per persone
dotte come dissero delle ragioni si come ad essi piace, in
nomine ut supra sponte detto giorno avante di detto nome et
testimonij non per forza, ma per ogni miglior via, volendo
la predetta promessione per li sodetti magnifici eletti et altri
deputati et citatini fatta et attendere adempire et osservare
quanto si contiene al sudetto scritto instromento di donatione
fatta a detto convento e quanto in esso instromento si contiene
ratificorno et accettorno et ratificorno detti Magnifici Colella
Carlo et Giovanni Antonio ut supra donorno cessero et donono
et cedeono ad essi frati et convento et loro successori in esso le
dette cappelle sepolture et altari ut supra scritto instromento si
contiene nomine predetti frati assenti e detto nomine publico
presente quali eletti e deputati seu consiglieri si obligorno
in nomine ut supra tutti li loro beni mobilia stabili presenti
e futuri in nome di detta citta promettendono la defensione
et avvittione generale et particolare et promettono non venir
meno a quanto si contiene nel sudetto instromento alla sopradetta pena scritta nel sodetto instromento rogato per mano di
notare felippo Casdia di Ischa a 12 di settembre 1575.
Foglio secondo recto
Nel anno 1575 a 12 di settembre nella Città d’Ischa e
proprio nella porta dove si dice il corpo di guardia per instromento rogato per mano di Notare Filippo Casdia di detta
Città di Isca appare come avante a presenza d’esso notare e
testimoni radunati et chiamati in unum per chiamata fatta per
Pietro Assante ordinario sergente della Corte del Magnifico
Capitanio di Ischa videlicet il Magnifico Antonio Scotto di
detta Città eletto et Sindico per il presente anno, tanto per
se quanto in nome e parte del magnifico Giovanni Antonio
Pesce della medesima città, Notare Gasparro de Ruggiero,
Prospero Melluso, Giovanni Geronimo Meglio, et ancora il
Magnifico Vincenzo di Infrischo in luogo e parte del Magnifico Colella Canetta Magnifico Vincenzo di Afflitto in luoco
e parte dei magnifici Carlo Melluso, et Magnifico Giovanni
Geronimo fonerio in loco e parte de Magnifico Giovanni
Baldaja similmente deputati in luogo et parte di Colella Carlo
et Nicola Giovanni absenti per li quali promisero ratificare
il presente contratto, et ogni cosa in esso contenuto, nel qual
luoco radunati per il reggimento e governo di detta Città et
delli infrascritti altri Cittadini nobili persone videlicet Berlingiero di Crescienzo magnifico Geronimo Malfitano, Mario
di Meglio, Giovanni Antonio Mele, Giovanni Berardino
ferrario, magnifico Giovanni Lombardo, Cacicco Mascolo,
Giovanni Giacomo di Fiorenza, Giovanni Michele Canetta,
fabritio, Giovanni Camillo franzese, Andrea di cioffa, Cola
Giovanni Iondo, Antonio Calabrese, Magnifico Marco de
meglio debono, Dato di Besogno, magnifico Geronimo Mazzella, lutio peruto, federico Albano, Francesco dello Ruzzo,
Annibale Guarino, Giovanni Matteo de Capece, Prospero di
Lorenzo, Cesare d’Infrischo, Geronimo Santo mano, Michele
Mascolo, Francesco loijsa, Giovanni Berardino di Meglio,
Giulio Cesare Melluso, Martino Bonino, Magnifico Gratiuso foglia di Gifuni, Cipriano di Ischa, Notare Giulio Cesare
Roncione, Cola Giovanni Gattola, fabritio Vitale, et Cesare
Basso, facendo la maggior e minor parte di detti cittadini di
detta Università in nome di tutta l’Università radunati et chiamati in unum ut supra, nel predetto luogo della porta, per gli
negozi publici, soliti et consueti dove si sogliono congregare
ad honore di Dio onnipotente, fedeltà e servitio della Regia
Maestà et fra l’altre signanter per l’infrascritto atto facendo
loro, et more solito et consueto per cautela, con autorità, et
beneplacito del Illustrissimo Signor Oratio Tutta villa Regio
Governatore di detta Città et Isola d’Ischa ibidem presente
et suo assenso consenso, autorita et beneplacito prestando,
il quale Magnifico Antonio Scotto eletto in nome ut supra
avante d’essi et tutti l’altri predetti consiglieri deputati et tutti
l’infrascritti Cittadini fra l’altra per essi proposte proposero,
narrorno in questo sudetto videlicet in vulgare parlando
Signori le signorie vostre sperando come la Cappella della
confraternita posta nel Borgo di Celsa sotto il titolo di Santa
Maria della Pietà in essa accomodata di fabrica e de miglior
modo, et ci sono alcuni luochi di possernosi edificare alcuni
altari in la detta cappella alli luochi dove erano primo per diroccarli alle cappelle, per che l’entrate che tiene detta Cappella
di detta Confraternita, sono girate de assignate per subsidio
delle Monache del Monistero, che se ha da costruire dentro
la Città et per evitar ogn’altra cosa che potesse succedere, et
acciò, che nesciuno se potesse appatronare li detti altari in la
ecclesia della Confraternita li per meglio lasciar li detti luochi
de altari e sepolture, et cappelle e donarle allo convento e
frati di Santo Augustino seu Santa Maria della Scala posta
nel borgo di Celsa, essendoci frati et figlioli di questa Città,
et per altri degni et giusti rispetti, che da mo se li debbano
donare, et assegnare e detti frati presenti et per li successori,
che siano in loro potestà, dare vendere et donar, et assegnare
a chi li rare fa per utilità del Convento e frati predetti dette
Cappelle, luochi et altari edificandi e conficiendi, et sepolture
predette con questa dichiarazione, che resta l’intrante lasciate,
et legati o qualsivoglia cosa che fosse donata ad devozione
delli altari predetti reffarando et edificarrando in detta cappella
della detta Confraternita
Verso
Siano dello detto convento e frati presenti e successori, et
che da hoggi avante siano in dominio et patrone dello detto
convento, et frati predetti li detti luochi, altari e sepolture, ogni
tempo futuro, avessero e tenessero e che detta Università, et
uomini futuri e successori in detta Citta, e Borgo confrati,
che in detta Confrataria sono et in futuro fossero, e sarando
non habbiano da fare ne debbiano attione alcuna ut supra di
luoghi, altari che se edificheranno, alle sepolture, all’intrate,
che in futurum tenessero et quomodocumque fossero lasciate,
et donate, ma penitus detti eletti et deputati, et altri cittadini
e confrati presenti e futuri, et justa detta Università ne siano
spoliati et privati di detti luochi, altari, entrate che tenessero
in futuro da oggi avanti, et sepolture da hoggi avante, con
questa declaratione ancora, che essendo lasciata o donata
alcuna entrata allo altare maggiore alla detta Cappella della
Confraternità e non di detto Convento, e frati, e che detti frati
di detto convento non se ce habbiano intromettere inpacciar
in cos’alcuna, così non se ne sono impacciati, ne intromessi
all’altre robbe, et entrate di detta cappella et confraternità per
lo tempo passato. Questo è il parer nostro et de Antonio Scotto
eletto ut supra et così propongono ogn’uno delle signorie
Vostre deputati, et altri nobili Cittadini e qua convocati et
coadunati habbiate da dir l’intentione et parer vostro come
meglio li parerà. Il quale Signor Governatore deputati, et
altri introscritti Cittadini hanno resposto e detto, che è bene
quanto s’è esposto a detto per lo Magnifico Antonio Scotto
in la preposta fatta per lo detto Magnifico Antonio Sindico et
eletto ut supra Replicano e dicono et se contentono relassar
allo detto Convento, e frati di Santa Maria della Scala presenti
e futuri li detti luochi di altari conficiendi e che si farando
edificarando e cappelle in la detta cappella della confraternita
predetta con le dette sepolture costrutte, con tutte l’intrate,
che fussero lasciate, et donati ad essi altari da hoggi avanti
eccetto e riservato quelle entrate, che fussero lasciate all’altare
maggiore della detta cappella e confraternita, sia della detta
cappella e confraternita, conforme alla proposta fatta per lo
detto magnifico Antonio Scotto et cossi volemo et ce contentamo, et sic omnes predicti eletti et deputati seu consiglieri,
La Rassegna d’Ischia 3/2008
39
et altri supradetti cittadini di paro voto nessuno discrepante
dissero e conclusero volgarmente parlando videlicet donandoli
li detti luochi de altari et sepolture, che se farando in detta
cappella de Confraternita et ogni Entrata, che li fusse lasciata
da hoggi avante, et quanto li fusse donato per la devozione
delli altari e cappelle predette infuturum sia delli frati e successori di detto convento et si e fatta conclusione predetta fra
detto Signor Governatore, eletti e consiglieri et altri cittadini
tutti convenienti avanti di detto Notare e Testimoni et nunc
pro tunc et e contra ogni futuro tempo moto proprio donorno
donatione titulo irrevocabile inter vivos per fustem assignaverunt li sodetti luochi conficiendi di detti altari conficiendi
da edificarsi e fabbricandosi le cappelle in detta cappella con
sepolture sistenti e conficiendi per detto convento et frati et
successori esso nomine publico come persona publica per
loro ragioni e suo officio ibidem consentiendi recipiendi et
stipulandi juxta la propria positione fatta ita quod detti luochi
d’altari e fabbrica edificandi ut supra con sepolture predette e
detti eletti deputati consiglieri e cittadini presenti prenominati
promisero non se intromettere ne fare intromettere, in nessun
modo nel altari predetti nelle cappelle di detta cappella; edificande ne le sepolture predette et entrate di esse in nessun
tempo ma sono esclusi e spogliati prout sponte non vi dolo
nomine proprio in nomine ut supra essi stessi si escludono si
spogliono, et pongono li sodetti frati e successori in detto con-
La
vento siano in possessione et dominio et proprietate di dette
cappelle altari e sepolture, ne posseno disponere conforme
l’entrate et beni di detto convento, con dette condittioni et declarattione e proposittione che essendo fatto lascito o legato o
donatione al altare maggiorre della detta confraternità sia dello
detto altare e confratarnità, e non del detto convento et frati
et promettono detti eletti e cittadini non venir meno a quanto
si contiene in nessun modo non revocare ne fare revocare et
non venir meno per qualsivoglia causa juxta vel injusta, et
tenere detta donatione sempre ferma et vera prometteno non
venir
Terzo foglio recto
meno per qualsivoglia causa et detta donatione esse fatte
con tutte le clausole necessarie in qualsivoglia modo et forma e detti eletti e consiglieri promettono in nomine di detta
Università non venir meno, et obbligano tutti li beni di detta
Università presenti e futuri in qualsivogliano luochi et entrate,
non servando nessuno jus raggione et prometteno non venir
meno alla pena di onze cinquanta la mettà alla Corte dove
serando convenuti, et l’altra in beneficio della parte lesa come
questo et altro appare dal instromento rogato per mano di detto
Filippo Casdia d’Ischia di et anno ut supra quale si conserva
in nostro archivio in carta di pecora folio n. 60 campione
vecchio folio 40 n. 50.
Primavera dell’Europa 2008
Agostino Di Lustro
aperta a tutte le scuole
La Primavera dell’Europa è un evento annuale che invita le scuole a dedicare uno o più giorni del loro calendario per organizzare eventi focalizzati sul dibattito, l’interazione e la riflessione su temi legati all’Europa. La
Primavera dell’Europa rappresenta per i giovani un’opportunità per esprimere i loro punti di vista e per rendere
manifeste le loro voci in Europa. L’edizione 2008 va dal 25 marzo al 30 giugno, con un particolare punto di
attenzione il 9 maggio, quando viene celebrata la Giornata dell’Europa. La campagna gira intorno al motto
“Unire le culture mediante il dialogo” e si unisce all’iniziativa dell’Anno Europeo del Dialogo Interculturale.
La campagna ha la finalità di accrescere la consapevolezza della diversità culturale tra i giovani, come risorsa
fondamentale nella nostra comune eredità culturale europea.
La manifestazione è aperta a tutte le scuole dell’infanzia, alle primarie e a quelle secondarie di primo e secondo grado, alle scuole professionali e a quelle per alunni con bisogni speciali, d’Europa e del resto del mondo.
È anche aperta a lezioni tenute da organizzazioni preposte ad attività extracurriculari le cui finalità siano lo
sviluppo e il potenziamento di abilità in linea con il curriculum scolastico.
La Commissione Europea e European Schoolnet invitano le scuole a registrarsi o a confermare le iscrizioni
passate sul portale web, che è disponibile in 23 lingue. Alle scuole iscritte verrà fornito un supporto per la
preparazione delle loro stesse attività e iniziative previste per una realizzazione a livello locale, nazionale ed
europeo.
Il team della Primavera dell’Europa incoraggerà e faciliterà, sia a livello centrale che nazionale, visite nelle
scuole da parte di figure pubbliche locali, nazionali ed europee. Tali visite costituiscono l’opportunità di discutere
sugli ultimi sviluppi dell’Unione Europea e sui temi correlati e di fare sentire le voci dei giovani europei ai rappresentanti degli organi decisionali. La campagna è sostenuta dai ministeri dell’educazione dei 27 stati membri.
È gestita da un team composto da un gruppo di esperti di European Schoolnet, da un gruppo che garantisce le
relazioni nazionali, nominato dai vari ministeri dell’educazione e da un gruppo di insegnanti consulenti.
La Primavera dell’Europa fu lanciata per la prima volta nel 2002 come campagna allo scopo di:
Accrescere la consapevolezza sull’Unione Europea, i suoi cittadini e le istituzioni correlate; promuovere a
scuola un’educazione alla cittadinanza europea attraverso attività curriculari tradizionali e legate all’utilizzo
delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
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La Rassegna d’Ischia 3/2008
Note linguistiche - La metafonia della “a” tonica
Isola d’Ischia - Procida - Torre del Greco
di Salvatore Argenziano
«… il villaggio di Fontana, il più alto dell’isola.
Esso, insieme con la vicina Serrara e con le frazioni
di Socchivo, Sant’Angelo, Ciglio, Calimera, forma un
comune di circa 2260 abitanti».
Così scrive la signorina Ilse Freund del suo soggiorno
a Ischia, durante l’autunno del 1929. Tre mesi trascorsi
nella ristretta comunità di quelle due frazioni, Serrara e
Fontana. Non il grand-tour del sud, a visitare règge favolose e antiche città dissepolte. Tre mesi in compagnia
della sessantottenne levatrice Brigida, «la mia affabulatrice», della undicenne Giuseppina «particolarmente
intelligente, esperta di fonetica», del parroco don Mario,
dell’insegnante Stefano e di tanti «cari amici di Serrara
Fontana».
La ventitreenne Ilse interroga, ascolta, annota tutto
con il rigore scientifico del ricercatore di stampo teutonico. Prepara la sua ricerca su un dialetto non ancora
contaminato dalla lingua napoletana, in un villaggio
arroccato sotto la cima dell’Epomeo, dove sono «bionde molte donne che potrebbero passare per contadine
tedesche o svizzere», dove da appena due anni c’è la
luce elettrica, dove «le donne anziane filano ancora…
ma le giovani… si comprano nella Napoli moderna la
biancheria».
In questo contesto sociale Ilse Freund riesce a estrarre
quanto di più antico c’è ancora nel linguaggio, nella
parlata, nella espressività morfologica, ormai in via di
estinzione. Nel novembre del 1932 Ilse Freund presenta
la sua tesi di dottorato all’Università di Tübingen “Beiträge zur Mundart von Ischia”/ “Contributo al dialetto di
Ischia”, pubblicata in versione italiana (curata dal prof.
Nicola Luongo) ultimamente da La Rassegna d’Ischia.
Relatore il professore Gerhard Rohlfs, già famoso per i
suoi studi su i dialetti dell’Italia meridionale.
Del lavoro di Ilse Freund non sono in grado di parlarne per chiara incompetenza linguistica. Nunn è arte
meia e nun me voglio mettere a fá u scenziato. Ma colgo
dalle prime pagine qualche cosa che mi interessa e che
mi riporta alle mie stroppole sul dialetto torrese (L’ottava vocale - v. riquadro a p. 43) e sul dialetto procidano
(Peggio pe lloro - v. riquadro a p. 42).
Vocalismo - Vocali accentate
a in ogni posizione davanti alle finali ī, ŭ > ę
La forma di scrittura del lavoro è estremamente sintetica e cerco di esplicitare alla mia maniera, anche per
chiarire (a me stesso) la simbologia fonetica. In sostanza
la Freund rileva che la vocale /a/, in sillaba tonica, quando nella sua derivazione etimologica è preceduta dalla
/i/ lunga o dalla /u/ breve, si muta in una /è/ dal suono
aperto.
Non si parla d’altro che di metafonia, fenomeno studiato con molto interesse ed estremo rigore dagli studiosi
della lingua italiana ed anche napoletana in presenza di
/ i / lunga e di / u / breve ma, per questi, limitatamente a
quanto attiene alle vocali toniche /e/ (lat. pèdi, it. pièdi,
nap. piéri) e /o/ (lat. bonu, it. buòno, nap. buóno).
Femminile cucchiàra cainàta cecàta fràte iànca pignàta tiàna Torre Procida1 cucchiáro caináto cainèto cántaro cecáto cechèto fráti iánco máfaro máno mántice márterì pignáto tiáno tumpágno Forme Verbali
Napoletano Torre Tu tràse Tu fàie Tu vàie Tu sàpe Vuie jàte tu trási tu fáie tu váie tu sápi vuie játe Serrara
cucchière
caienète
chèndere
cechète
frète
iènco
mèfere
mène
mèndece
mèrtelì
pignète
tiène
tumbègne
Serrara
tu trèse2
tu fèie
tu vèie
tu sèpe
vuie jète
Tra le anomalie messe in evidenza dall’autrice c’è la
pronuncia della parola capa3 > caput, testa. Ci si aspetterebbe chèpe ma la pronuncia resta con la /a/ tonica.
A questo proposito cita il dialetto di Monte di Procida
per il quale la pronuncia è chèpe 4.
1 Da Vefio di Vittorio Parascandolo.
2 Seconda persona singolare dell’indicativo dei verbi della prima
coniugazione.
3 In torrese la pronuncia di cápa è con la á chiusa. Non tragga in
inganno la desinenza /a/ e il fatto che il termine sia femminile. Per la
pronuncia della á tonica è determinante la discendenza da caput.
4 Ricordiamo che nel dialetto di Monte di Procida scrive il poeta
Michele Sovente, per il quale l’infinito in –are si pronuncia –ò, fare
> fò, il parlare > u pparlò.
La Rassegna d’Ischia 3/2008
41
- Pronto.
- Ciao, Antonio. Eri fuori?
- No, scusami. Stévo nt’u bágno.
(La /á/ di bágno ha suono chiuso).
Così mi rispose al telefono un carissimo amico torrese, uno
dei tanti iniziali sostenitori della insussistenza della pronuncia
chiusa della /a/, quel suono cupo che per alcuni diventa /o/.
Nun te preoccupò, diceva mio figlio bambino, facendo
affettuosamente il verso alla nonna.
Antonio diceva che solo quelli di “vasciammare” pronunciavano quella /a/ cupa, chiusa della quale io mi affannavo a
dimostrare l’esistenza nel dialetto torrese. Ma non era l’unico.
Aniello era di vasciammare e aveva negozio in piazza e quotidianamente parlava in torrese. Quando gli parlai di “pàzza”
e “pázzo”, di “màzza” e “mázzo”, mi disse, meravigliato, che
era vero ma lui prima non l’aveva mai notato.
I torresi veraci, però, non erano gli unici a non percepirne
la differenza grammaticale. Un illustre studioso della lingua
napoletana, che aveva esercitato la professione di medico della
mutua a Torre, mi disse che in tanti anni non aveva mai notato
questa differenza fonetica nei suoi assistiti di ceto popolare.
Lo stesso mi disse un noto linguista e divulgatore della lingua napoletana che a Torre aveva frequentato il liceo. L’elenco
potrebbe continuare, tra increduli e meravigliati. Credo che la
ragione sia da ricercare nella inesistenza di questa pronuncia
nell’alfabeto napoletano e anche italiano. Possibile che questa
trasformazione della /a/ si fosse avuta solo nella parlata torrese?
Ma ho qualche dubbio dato il valore morfologico di questa pronuncia. Il fatto di denotare il maschile dal femminile mi porta
a ipotizzare una origine più antica. Ma perché solo a Torre?
Questa ipotesi è totalmente gratuita o conseguenza della mia
ignoranza della linguistica meridionale?
Poi conobbi il poeta Michele Sovente che di linguistica
non vuole parlare. Questa /a/ che nella sua poesia diventa /o/
rievoca atmosfere ataviche. Suoni ritenuti popolari e sguaiati,
misconosciuti dai suoi concittadini di Cappella, fino a quando
la sua poesia non riceve gli alti riconoscimenti internazionali.
E Sovente mi racconta delle prime sue esperienze poetiche
con la lingua di Cappella.
“Mi dicevano - ma che vai scrivendo? -, quando all’inizio adottai questo linguaggio, quasi vergognandosi della
divulgazione di quello che ritenevano un paesano difetto di
pronuncia”.
Un altro prezioso contributo di confronto nell’analisi
della /á/ chiusa torrese mi giunge dalla lettura di un
documentato testo sul dialetto di Forio d’Ischia 5.
Da questo traggo altri esempi di trasformazione metafonetica della vocale tonica / a /, nella coniugazione
dei verbi, già messa in evidenza anche per il dialetto
torrese.
Le difficoltà incontrate a dimostrare questa particolare
pronuncia sono dovute alla inconsueta articolazione
fonetica della / á / chiusa. L’esistenza di questo suono,
però, non era completamente ignorato dai linguisti. Il
5 Il testo in esame è Guida Grammaticale del Dialetto Foriano Letterario di Giovanni Castagna, edizione La Rassegna d’Ischia, 1980.
42
La Rassegna d’Ischia 3/2008
Poi ancora un’amica di origine procidana mi regalò “Vefio”
di Vittorio Parascandolo. Mi fermo alle prime pagine.
Abbabbiéto, maschile. Abbabbiàta, femminile.
Abbaschéto, maschile. Abbascàta, femminile.
Abbunéto, maschile. Abbunàta, femminile.
Non occorre andare oltre. È così per tutte le trecento pagine
della bellissima raccolta di Parascandolo. Questa è una evidente
variazione morfologica tra maschile e femminile derivante
dalla trasformazione metafonetica della sillaba tonica. Una
trasformazione che a Torre porta alla /á/ chiusa e a Procida
alla /è/.
Certamente non è il caso di trarre conclusioni, data la limitata elencazione di esempi ma... e se questa fosse stata una
caratteristica antica delle lingue meridionali? E se anche il
napoletano avesse avuto in origine questa particolarità grammaticale?
Sostenerlo oggi, senza documenti sonori, è impossibile
come d’altra parte è difficile dimostrare il contrario. Forse i
parlanti stessi, in passato, come accade oggi, potrebbero non
aver percepito questa differenza di suono e non averne fatto
riferimento. Forse un osservatore esterno l’avrebbe potuto
notare.
Leggendo l’estratto su “La Lingua Napoletana” dal “Voyage
dans le royaume de Naples” del francese Jean-Jacques Bouchard (Parigi, 1606. Roma 1641), nella traduzione di Amedeo
Messina per l’Istituto Linguistico Campano, mi colpiscono
due osservazioni dello studioso francese, a proposito della
pronuncia del napoletano: “In primo luogo la gola, in fondo
alla quale fanno nascere e trattengono la voce soprattutto sulla
a, in modo che il parlare sembra un gargarismo. .... La loro a
è lunga, ma oscura, pronunciata com’essa è dalla gola...”.
Che cosa di particolare avrà sentito lo straniero in quella
pronuncia? Certo che, se la lingua napoletana, nel suo secolare processo di toscanizzazione, avesse perduto anche questa
particolarità morfologica, non potremmo che rammaricarci.
Se così fosse, i napoletani avrebbero abbandonato l’uso di una
ottava vocale cupa, un po’ cafona, guadagnandone in eleganza
musicale ma certamente perdendo qualche cosa in ricchezza
espressiva.
Peggio pe lloro.
Salvatore Argenziano
professore Nicola De Blasi ne mette in evidenza la particolarità: “esiste anche una / a / posteriore pronunciata
come un suono velarizzato che tende quasi a un suono
intermedio tra / à / e /ò /” 6.
Ad esempio della metafonia sulla tonica / a /, riporto
alcuni casi di forme verbali del dialetto torrese e di quello
di Forio d’Ischia.
continua a pagina 44
6 Nicola De Blasi – Luigi Imperatore: Il Napoletano parlato e Scritto.
Che questo suono velarizzato della / á / fosse poco noto, ne ebbi la
prova parlandone con Luigi Imperatore. Per alcuni anni Imperatore
era stato medico della mutua degli agricoltori a Torre del Greco e
mi disse di non avere mai notata quella pronuncia.
L’ottava vocale dell’alfabeto torrese - La scala fonetica
delle vocali della parlata torrese comprende otto suoni vocalici
e non sette come per la scala vocalica italiana e napoletana.
La fondamentale è la /à/, la vocale più aperta e centrale. La
progressione è la seguente:
i
é
è
à
á
ò
ó
u
-i-, -é-, -è-, -à-, -á-, -ò-, -ó-, -u Le vocali estreme, -i-, -u-, sono deboli. Le altre sono forti.
Nella scala fonetica delle vocali, la fondamentale è la /à/.
Attraverso crescenti interventi articolatori della bocca si
hanno le varietà “anteriori” (da /a/ verso /è/ /é/ e poi /i/), e
“posteriori” (da /à/ verso /á/ e poi /ò/ /ó/ e /u/), con successive
chiusure.
La pronuncia della vocale /a/ può essere: aperta come in a
càsa, a màmma, a sàcca; o chiusa: u sácco, u cárro.
Per la rappresentazione fonetica indichiamo questa variante
chiusa col simbolo /á/ quando la vocale appartiene ad una sillaba tonica. Negli altri casi la indicheremo con il simbolo /ä/.
Beninteso che questa doppia grafia è assolutamente da escludere nello scrivere al di fuori di un contesto esplicativo della
fonia delle parole. Nella simbologia dell’Associazione fonetica
internazionale, questo suono è simile a quello rappresentato
dal simbolo [ə]. In inglese corrisponde alla pronuncia di /ar/
di sugar, oppure /er/ di mother, ecc.
Questa particolare pronuncia chiusa della /á/ non si riscontra
nell’alfabeto italiano ed è poco comune anche nella lingua
napoletana, ma non nelle parlate della provincia. Si ottiene
impostando la bocca per la pronuncia di /a/ e chiudendola
leggermente, verso la pronuncia di /o/. Qualcuno arriva anche
a pronunciarla /o/ (vieni accà, pronunciato vieni accò). Questa
estrema pronuncia della /á/ chiusa si ritrova spesso nei versi
del poeta Michele Sovente di Cappella (NA).
Da notare che la /a/ nelle parole di genere femminile è normalmente aperta: a càsa, a sàcca, a scafaréa. È chiusa nelle
parole di genere maschile: u tárálláro, u márenáro.
La trasformazione da aperta a chiusa costituisce elemento
di distinzione tra femminile e maschile: a bancarèlla, u báncáriéllo, – a carósa, u cäruso; a pazza, u pázzo.
*Nel corpo della parola raramente la /a/ è muta.
*In fine di parola è muta, a cas(a) ma non quando è seguita
da consonante a casa nost(a).
La vocale -á-, pronuncia chiusa (tra la -a- e la -ò-), diversa
dalla –à- aperta, si ritrova nella lingua (o dialetto) torrese come
suono distintivo di variazioni grammaticali.
La variante fonica della -á- può avere valore sia nella distinzione di alcune parole di significato diverso, sia nella variazione
del genere femminile/maschile e singolare/plurale ed anche
nella coniugazione verbale. In sostanza la -á- chiusa o grave
non costituisce, come spesso ritenuto, una corruzione popolare
e paesano della pronuncia ma un vero e, proprio mezzo di
distinzione grammaticale. Per noi ragazzi di “vasciammare” a
Torre, i napoletani erano quelli che parlavano a bocca aperta.
Napulitaaa, mangiapataaa (razzismo strapaesano). Alcuni
esempi serviranno a illustrare il concetto.
I due vocaboli sacca e sacco (tasca e sacco) per la pronuncia
indistinta delle vocali -a- ed -o- finali, risulterebbero distinguibili solo se in presenza di articolo (u sacco, a sacca) oppure dal
contesto del discorso. Il torrese pronuncia diversamente la -a-,
per cui il sacco suona sácc(o) e la tasca suona sàcc(a). Lo stesso
discorso vale per mazza e mázzo (bastone e sedere); pacca e
pácco; bancarella, con tutte le -a- aperte, e bäncäriéllo, dove
la chiusura si estende a tutte le -a- della parola.
L’origine di questo fenomeno potrebbe ricercarsi nella
presenza dell’articolo -u-, anticamente -lu-, vocale chiusa, pronunciata a bocca anteriormente chiusa, il che condizionerebbe
la pronuncia chiusa della -á- successiva.
Così la presenza dell’articolo femminile -a-, vocale aperta
che richiede l’apertura della bocca, lasciandola aperta per la
pronuncia successiva. Queste sono illazioni da dimostrare,
anche perché il napoletano dice ‘o sacco ed anche nu sacco,
-a- aperta, nonostante la presenza della –u di nu.
La presenza della “u” quale determinante della “á” chiusa è
in contrasto con alcune parole maschili con pronuncia aperta:
u càne, u ppàne, u pàte, u fràte, u bàrr, u ccàfè ecc.
Pertanto possiamo ricondurre la variante /á/ ad un vero fenomeno di metafonia (alterazione di una vocale sotto l’influenza
di una vocale precedente, normalmente finale di parola), che
è presente quando la desinenza finale è la /o/ oppure la /i/ ed
assente con le desinenze /a/ ed /e/.
A questo proposito si noti che quelle parole che conservano
la “a” aperta al singolare, la richiedono chiusa al plurale. U
càne, i cáni; u pàte, i páti; u fràte, i fráti.
Questa trasformazione grammaticale metafonetica suggerisce, anzi pretende, la grafia storica del napoletano, con la “i”
finale, suono indistinto per il plurale, e anche nella coniugazione dei verbi, ove occorre. Spesso leggo “e” finale di parole,
quando il suono è indistinto, a prescindere dalla esatta derivazione grammaticale. Ancora noto differenza di pronuncia,
distintive di significati diversi per u bànco, il banco di scuola
e u bánco, quale banco di lavoro da cui báncone, Bánco ’i
Napule e bäncäriéllo.
Lo stesso fenomeno si riscontra nel passaggio femminile/
maschile. Bianco è jánco al maschile e jànca al femminile. E
così chiátto e chiàtta, pázzo e pàzza, ncäzzáto e ncazzàta.
Per quanto attiene alla coniugazione dei verbi, si noti che
per i verbi della prima coniugazione, desinenza -are- l’elisione
di -re- che comporta l’accentazione fonica (apostrofo) della
-a- finale, presenta già la pronuncia in -/á/-: truvá, mangiá,
parlá, ecc. Quando il verbo è sostantivato, anche le altre -adella parola si chiudono in -á-. U ppärlá, u mmängiá, per la
presenza (forse) dell’articolo -u-.
Prendiamo in esame la coniugazione del presente indicativo
del verbo parlare. Io pàrlo, -a- aperta. Tu párli, -á- chiusa.
Isso pàrla, ancora -a- aperta. Nuje parlàmmo, vuje pärláte,
loro pàrlano. La seconda persona singolare potrebbe essere
influenzata dalla presenza di -u- del pronome tu.
Non è chiaro perché la prima e la seconda plurale siano
diverse, dopo la presenza di nuje e vuje che hanno le stesse
vocali. Forse l’influenza è da ricercarsi solo nelle desinenze
verbali, come fenomeno di metafonia, come avviene nei verbi
in -ere- della seconda coniugazione (io cóso, tu cusi ecc.).
In conclusione ritengo che lo studio di questo fenomeno possa
avere un certo interesse, come evoluzione del parlare napoletano
e non quale retrocessione popolare e provinciale dello stesso.
Pertanto passo la palla a chi se ne intende.
Salvatore Argenziano
La Rassegna d’Ischia 3/2008
43
Napoletano Tu ràtte Vuie rattàte Tu sbàtte Torrese tu rátti vuie rattáte tu sbátti t
Foriano
tu rètte
vuie rattète
u sbètte
Formazione del maschile dal femminile
con tonica / a /.
Femminile Torrese Foriano
Nnammuràta Cumpàgna Marenàra nnammuráto nnammurète
cumpágno cumpègne
marenáro marenèro
In sostanza, quanto è risultato sempre evidente ai
linguisti a proposito della trasformazione fonetica della
/ a / 7 lì dove la trasformazione conduceva ad una chiara
pronuncia della / è /, non è mai stato messo in chiara
evidenza per l’area dialettale torrese, data la inusuale
pronuncia della / á / chiusa, quella / á / cafona che anche
i torresi fanno fatica a riconoscere e, qualche volta, ma
solo per qualcuno, ad ammetterne l’esistenza.
Salvatore Argenziano
7 Rosanna Sornicola - La variazione dialettale nell’area costiera
napoletana: il progetto di un Archivio di testi dialettali parlati. Alcuni fenomeni dialettali che caratterizzano l’area flegrea e relative
isole: Palatalizzazione di /a/ tonica, di natura metafonetica: rèccio
‘braccio’, mangièto ‘mangiato’. Questo fenomeno caratterizza
Procida e i comuni ischitani considerati, ma è documentato anche
per Pozzuoli da Rohlfs I, § 22/13.
ABANO TERME - Higan / L’altra Sponda del Fiume
Manifestazione Culturale sulle Arti e Tradizioni dell’estremo Oriente
Concluso con grande successo di pubblico e critica l’evento
Higan 2007, è pronto il progetto di Higan 2009, ampliato sia
in termini di offerta culturale che di spazi espositivi, che si
presenta ad Abano Terme con due appuntamenti di avvicinamento all’evento del prossimo anno, al fine di anticipare al
pubblico le grandi tematiche che verranno trattate.
Per creare una linea di continuità tra Higan 2007 e il grande
evento che sarà Higan 2009, gli organizzatori hanno deciso
di articolare un percorso di avvicinamento a tale data sostanziato in due appuntamenti che verranno realizzati tra maggio
e giugno nella città termale di Abano Terme:
10-11 maggio 2008 “Corpo e mente tra Oriente ed Occidente”. Il filo conduttore sarà il Respiro: l’importanza della
respirazione in Oriente verrà analizzata in particolari ambiti
quali la meditazione, le arti marziali, la salute.
31 maggio 1-2 giugno 2008 “La poesia della natura”
I grandi temi saranno l’estetica del verde, la poesia e la cerimonia del tè: tutti aspetti della dimensione Zen della cultura
giapponese.
Due grandi mostre esploreranno il profondo rapporto che la
cultura giapponese ha sviluppato con la natura e le modalità
con cui ha espresso tale rapporto. In particolare sarà presentata
al pubblico la prima mostra dedicata ai bonsai di azalea e rosa
in Italia a cura della Nippon Bonsai Sakka Kyookai Europe. 44
La Rassegna d’Ischia 3/2008
Nel pieno della loro fioritura, le azalee saranno anche
oggetto di una conferenza a cura del Prof. Francesco Merlo
docente di agronomia dell’Università di Torino che dispenserà
consigli per la loro cura, nonché di un workshop per avanzati
per la creazione ed il mantenimento di bonsai di azalea.
La seconda mostra vedrà protagonisti gli haiku, i brevissimi
componimenti poetici giapponesi, interpretati in una mostra
di opere di Basho a cura del Maestro di Shodoo Norio Nagayama, ed accompagnati da opere di ikebana realizzate dalla
Maestra Emiko Murayama in arrivo dal Giappone.
Corsi di cura dei bonsai e dimostrazioni di ikebana faranno
da cornice pratica al tema dell’estetica del verde. Gli haiku
verranno inoltre proposti e spiegati al pubblico tramite una
conferenza di approfondimento, un itinerario poetico a cura
del Prof. Bonaventura Ruperti dell’Università Ca’ Foscari di
Venezia.
Durante entrambi gli appuntamenti il pubblico potrà inoltre
visitare lo Hyakusen (le 100 scelte) con moltissime proposte
in arrivo direttamente dal Giappone: oggettistica, lacche,
complementi d’arredo e abiti tradizionali, nonché la libreria,
con titoli inerenti i temi trattati nei due week-end, e l’angolo
del tè con una selezione di pregiati tè cinesi e giapponesi. Per
i più golosi, dimostrazioni di preparazione del Sushi da Chef
in arrivo dal Giappone e degustazioni di sushi e di tè.
Per maggiori informazioni e programma completo:
www.higan.com
I pittori tedeschi a Ischia
Hans Purrmann
di Erhard Göpel *
Traduzione di Nicola Luongo
- «Signor Purrmann,
venga giù, lei oggi è in
bella evidenza sul Frankfurter Zeitung!», gridò
un giornalaio noto per la
sua stravaganza sulla via
principale di Speyer ad
un pittore che, un’assolata mattina, dipingeva su
un’alta impalcatura l’insegna commerciale di una
tabaccheria. Il noto critico
Julius Meier-Graefe aveva
Hans Purrmann
parlato di una mostra della
Secessione da poco aperta a Berlino ed aveva presentato il
ventitreenne artista come nuovo talento. Il commerciante
d’arte Paul Cassirer di Berlino, a cui Purrmann era stato
raccomandato durante il suo tempo di studio monacense
dall’esperto artistico Karl Voll, aveva colà mandato quattro quadri senza il consenso di Purrmann, ed erano stati
esposti. In un manoscritto, Max Liebermann gli aveva
comunicato la scelta dell’attivo membro della Secessione.
Ai curiosi sopraggiunti fu letta sulla pubblica via la critica
di Meier-Graefe, ed io (Hans Purrmann) divenni la persona
più felice». Questo è uno dei pochi episodi che il pittore Hans Purrmann ha riportato nei Ricordi del mio tempo di studio
dalla città natale di Speyer, dove nacque nel 1880. [ ... ]
Manet, Cézanne, Matisse furono i suoi grandi ispiratori.
Purrmann familiarizzò ben presto con Matisse e l’indusse
ad aprire un atelier didattico, in cui Purrmann fu scelto
come direttore. L’influsso di Matisse, che accompagnò
alcune volte d’estate sulla coste del Mediterraneo, divenne determinate per lui originario del Palatinato e lo portò
alla liberazione interna, non all’imitazione. Venne fuori il
talento coloristico, che nella scuola monacense e nella sua
pittura dei valori non era maturato pienamente. Purrmann
imparò ad usare puramente il colore, ad applicarlo in modo
sottile e chiaro, a smaterializzarlo. Nell’entourage di Matisse, trovò tutti quei motivi che nella sua vita non abbandonò
mai: le coste meridionali nella luce chiara, i porti, in cui si
svolge un’intensa vita lavorativa, la struttura di case cubiche, la selvaggia vegetazione su pendii collinari, la frutta
come nature morte, i fiori, l’azione, la rappresentazione di
uomini in ritratti caratterizzati acutamente e nell’esistenza
tranquillizzante di bambino, ragazza, donna giovane e
madre.
Le concezioni di Matisse gli insegnarono a riflettere sulle
opere d’arte; esse fornirono i loro frutti in quel saggio epocale scritto per una rivista svizzera dopo il 1945, “L’unità
dell’opera d’arte”, e resero il giudizio di Purrmann sull’arte
così sicuro, che poté aiutare molti artisti suoi amici, se un
loro quadro rimaneva bloccato nella sua composizione.
Hans Purrmann - Sommer auf Ischia, 1963
Von Erhard Göpel *
«Herr Purrmann, kommen Sie herunter, Sie stehen heute groß in der
Frankfurter Zeitung!» rief ein als
Original bekannter Zeitungsverkäufer
auf der Hauptstraße in Speyer dem
Tünchergesellen zu, der «an einem sonnigen Vormittag auf hohem Gerüst das
Firmenschild eines Tabakladens malte».
Der bekannte Kritiker Julius MeierGraefe hatte eine neu­eröffnete Berliner
Sezessionsausstellung besprochen und
den dreiundzwanzigjährigen Künstler
als ein neues Talent bezeichnet. Der
Berliner Kunsthändler Paul Cassirer, an
den Purrmann während seiner Münchner
Studienzeit von dem Kunstgelehrten Karl
Voll empfohlen worden war, hatte ohne
* Erhard Göpel: Hans Purrmann Sommer auf Ischia, 1963,
Purrmanns Zutun vier Bilder dorthin
geschickt, und sie waren ausgestellt worden. In einem Handschreiben hatte Max
Liebermann ihm die Wahl zum aktiven
Mitglied der «Sezession» mitgeteilt.
Hinzugekommenen Neugierigen wurde
auf offener Straße die Kritik MeierGraefes vorge­lesen, «und ich (Hans
Purrmann) war der glücklichste Mensch
geworden».
Dies ist eine der wenigen Episoden,
die der Maler Hans Purrmann in den Erinnerungen an meine Studienzeit aus der
Heimatstadt Speyer, wo er 1880 geboren
wurde, fest­gehalten hat. [ ... ]
Manet, Cézanne, Matisse waren die
großen Anreger. Purr­mann wurde bald
mit Matisse bekannt und veranlaßte ihn,
ein Lehratelier zu eröffnen, zu dessen
Obmann Purrmann gewählt wurde. Der
Einfluß von Matisse, den er einige Male
im Sommer an die Mittelmeerküste
begleitete, wurde ent­scheidend für den
Pfälzer und führte zu innerer Befreiung,
nicht zur Nachahmung. Die koloristische Begabung, die in der Münchner
Schule und deren Valeurmalerei nicht
voll zur Entfaltung gekommen war, trat
hervor. Purr­mann lernte, die Farbe rein
zu verwenden, dünn und durchsichtig
aufzutragen, sie zu entmaterialisieren. Im
Umkreis von Matisse fand er die Motivwelt, die ihn sein Leben lang nicht wieder
losließ: die südlichen Küsten im hellen
Licht, die Häfen, in denen sich reges
Arbeitsleben abspielt, die von kubischen
Häusern gegliederte wilde Vegetation auf
Hügel­hängen, das Früchtestilleben, das
Blumenstück, den Akt, die Darstellung
von Menschen im scharf charakterisierten Porträt und im beruhigten Dasein als
Kind, Mädchen, junge Frau und Mutter.
Die Einsichten von Matisse lehrten
ihn, über Kunstwerke nachzudenken;
sie trugen in dem nach 1945 für eine
La Rassegna d’Ischia 3/2008
45
Egli era ritenuto un grande medico dei quadri. La guerra
fece allontanare Purrmann da Parigi nel 1914. Restò qualche tempo a Württemberg e sul Lago di Costanza; ritornò
poi a Berlino e negli anni ‘20 sviluppò un proprio stile
coloristico.
Dal 1950, il golfo di Napoli con la sua chiara luce mediterranea, che fa ben risaltare i contorni sullo sfondo del
cielo, e con i suoi intensi colori fu la meta di lunghi soggiorni. A Porto d’Ischia si formò intorno a Hans Purrmann
ogni anno, dal 1953 al 1958, d’estate un circolo di pittori,
che durante il giorno dipingevano, e di sera s’incontravano
dal Calabrese, un piccolo negozio di generi misti sulla
banchina, bevevano e discutevano. Hans Purrmann ha
descritto questo circolo in una lettera de1 1956 al pittore
e intagliatore in legno Herbert Tucholski, che prima della
guerra aveva lavorato nella Villa Romana a Firenze, e
mantenne soprattutto un contatto con i suoi amici, non
importa dove vivessero:
«Ero a Ischia l’estate scorsa. L’avevo scelta essenzialmente a causa della mia salute come luogo di lavoro,
perché il gran caldo è per me un vero e proprio bisogno.
Ero molto soddisfatto di questo soggiorno, tanto più che
avevo costantemente la più gradevole compagnia. Non
solo, perché ho incontrato spesso il nostro amico Gilles
e abbiamo trascorso insieme le serate più belle. Abbiamo
parlato alcune volte anche di lei. Mi sono rallegrato molto,
come piacevolmente e benevolmente Gilles parlava di lei
e come le voleva bene. - Sa quale grande ammirazione
Schweizer Zeitschrift geschriebenen
epochemachenden Auf­satz «Die Einheit
des Kunstwerks» Frucht und machten
Purrmanns Kunsturteil so sicher, daß
er vielen seiner Künstlerfreunde helfen
konnte, wenn ein Bild stecken­geblieben
war. Er galt als großer Bilderarzt.
Der Krieg vertrieb Purrmann 1914 aus
Paris. Er blieb einige Zeit in Württemberg
und am Bodensee, ging dann wieder nach
Berlin und bildete dort in den zwanziger
Jahren einen eigenen koloristischen Stil
aus.
Seit 1950, wurde der Golf von Neapel
mit seinem südlich klaren Licht, das die
Konturen rein gegen den Himmel stellt,
und seinen intensiven Farben das Ziel
langer Aufenthalte. In Porto d‘Ischia bildete sich um Hans Purrmann jedes Jahr,
von 1953 bis 1958, im Sommer ein Kreis
von Malern, die tagsüber malten und
abends beim Kalabresen, einer kleinen
Gemischtwarenhandlung am Kai, zusammenkamen, tranken und diskutierten.
Hans Purrmann hat diese Runde in einem
Brief aus dem Jahre 1956 an den Maler
und Holzschneider Herbert Tucholski,
der vor dem Kriege einige Zeit in der
46 La Rassegna d’Ischia 3/2008
provi per Gilles come persona e come artista e quanto ciò
[la malattia di Gilles] mi tocchi nel profondo».
La lettera continua: «Mi rallegra molto il fatto che
conduce una vita così interessante e può fare così grandi
viaggi, finanche in Cina, e intanto per il suo lavoro ha
portato a casa “un grande raccolto”. Come volentieri mi
sarei intrattenuto ancora una volta a parlare con lui delle
sue esperienze».
In tutte queste estati a Ischia Purrmann si è accostato
di più alla sua visione del quadro tutto costruito sul colore, senza perdere in sensualità, in intensità, che scorre
immediatamente dalla natura alle immagini. E i dipinti
fatti in questi anni sono il punto culminante della pittura
tedesca.
Nel 1955 capitò l’occasione all’autore di questa presentazione unitamente a sua moglie di vivere per alcune
settimane la vita del circolo artistico di Hans Purrmann a
Ischia. Il gruppo era formato in questo anno da paesaggisti.
Siamo stati accettati gentilmente ed abbiamo soggiornato
prima per un paio di giorni nell’albergo al porto, in cui
Purrmann aveva preso in affitto alcune stanze al primo
piano con molteplici viste panoramiche. Quando la mattina prendevamo la colazione nel giardino, sentivamo che
Purrmann già aveva lavorato in questo tempo davanti al
suo soggetto e riposato. Alle sei o ancora più presto si
alzava, portava gli attrezzi e lo sgabello a tre gambe e si
cercava il suo posto. Qui era un soggetto con alberi d’olivi
Villa Romana in Florenz gearbeitet hatte,
geschildert, wie er überhaupt den Kontakt
zu seinen Freunden, gleichgültig, wo sie
leben, aufrecht­erhält:
«Letzten Sommer war ich auf Ischia.
Ich hatte es hauptsächlich meiner Gesundheit wegen als Arbeitsplatz gewählt,
denn mir wird die große Wärme geradezu
ein Bedürfnis. Ich war sehr zufrieden
mit diesem Aufenthalt, um so mehr, als
ich ständig die angenehmste Ansprache
hatte. Nicht allein, daß ich mit unserem
Freund Gilles oft zusammenkam und
wir die schönsten Abende miteinander
verlebten. Einige Male haben wir auch
von Ihnen gespro­chen. Ich habe mich
sehr gefreut, wie nett und reizend Gilles
von Ihnen sprach und wie gern er Sie
hatte. - Sie wissen, welch große Bewunderung ich für Gilles als Mensch und
als Künstler habe und wie nahe mir dies
[Gilles‘ Krankheit] geht».
Der Brief fährt fort: «Es freut mich
sehr, daß Sie ein so in­teressantes Leben
führen und so große Reisen - sogar bis
nach Chinamachen konnten und dabei
für Ihre Arbeit eine große Ernte mit nach
Hause brachten. Wie gern würde ich mich
wieder einmal über Ihre Erlebnisse mit
Ihnen unterhaltene».
In jedem dieser Sommer auf Ischia
kam Purrmann seiner Vision des ganz
auf Farbe gestellten Bildes näher, ohne
an Sinnlichkeit, an Fülle, die unmittelbar
aus der Natur in die Bilder strömt, zu
verlieren. Die in diesen Jahren entstande­
nen Bilder sind ein Höhepunkt deutscher
Malerei.
Im Jahre 1955 ergab sich für den Verfasser dieses Nachwortes zusammen mit
seiner Frau die Gelegenheit, einige Wochen lang das Leben des Künstlerkreises
um Hans Purrmann auf Ischia zu teilen.
Die Runde war in diesem Jahre von Land­
schaftern besetzt. Wir wurden freundlich
aufgenommen und wohnten zuerst ein
paar Tage in dem Albergo am Hafen,
in dem Purrmann einige Zimmer der
ersten Etage mit vielfältigen Ausblicken
gemietet hatte. Als wir am Morgen beim
Frühstück im Garten saßen, hörten wir,
daß Purrmann um diese Zeit schon vor
seinem Motiv gearbeitet hatte und sich
ausruhte. Um sechs Uhr oder noch früher
stand er auf, trug Malgerät und Dreibein
sulla collina, coi muri di pietra grigi, che delimitavano i
giardini. Il secondo soggetto di quei giorni era al lato del
porto, una via parallela al molo, che attraversava l’ombra
arborea e che liberava lo sguardo su un gruppo di case, che
dominava un edificio ad un piano. Il frontone triangolare
guardava sul porto.
Siamo riusciti a trovare questi soggetti soltanto più
tardi, quando abbiamo potuto vedere i quadri iniziati o
quasi pronti. Era ovviamente facile trovare la posizione
esatta da cui aveva dipinto Purrmann. Le punte di ferro
della sedia a tre gambe erano impresse profondamente nel
suolo marrone sul lato destro della strada, da un punto di
vista sempre diverso, il più possibile lontano dal gruppo
di case.
La mattina tarda, Purrmann appariva di nuovo nell’abito
di lino chiaro, andava a prendere la posta, a mezzogiorno
mangiava e trascorreva dormendo, come gli italiani, la
calura del primo pomeriggio. Verso le quattro, le quattro
e mezzo riprendeva la tavolozza dei giorni produttivi. Egli
non sopportava “macchie sulla tavolozza”. Un precetto inderogabile di artigiano, suggerito dal padre, l’utensile dopo
ogni fase di lavoro va pulito, ha ancora effetto. A questa ora,
sono stati apportati ai dipinti i cambiamenti decisivi. Con
pennello fine, lavorava qui all’animazione della materia
cromatica. «La pittura deve essere sensibile», come Purrmann dice. Altri giorni, quando lo scirocco debilitava con la
sua afa, sono discussi i dipinti. Purrmann sfida addirittura la
selbst, und suchte sich seinen Platz. Da
war ein Motiv mit Ölbäumen, den Hügel
hinauf, mit den grauen Steinmauern, die
die Gärten abgrenzen. Das zweite Motiv
dieser Tage lag an der Hafenseite, an
einem der Kaimauer parallelen Weg, den
Baumschatten durchschnitten und der
den Blick auf eine Häusergruppe freigab,
die ein einstöckiges Gebäude beherrschte. Der dreieckige Giebel blickte zum
Hafen.
Diese Motive machten wir allerdings
erst später ausfindig, als wir die angefangenen oder halbfertigen Bilder zu
sehen bekamen. Dann freiliech war es
leicht, den genauen Standort zu finden,
von dem aus Purrmann gemalt hatte. Die
Eisen-spitzen des dreibeinigen Sessels
waren tief in den braunen Boden auf der
rechten Straßenseite eingedrückt, bei
jeder Sitzung von neuem, in möglichst
großem Abstand von der Häusergruppe.
Am späten Vormittag tauchte Purrmann
im hellen Leinenan­zug wieder auf, holte
seine Post, aß zu Mittag und verschlief,
wie die Italiener, die Hitze des frühen
Nachmittags. Gegen vier, halb fünf
wurde an produktiven Tagen die Palette
critica. «Dica solo qualcosa, ciò mi stimola». Dapprima non
ci si fida. Poi però si vede, che qui ogni critica è accettata,
non ferisce e non tocca anche il processo creativo. Perché
l’autocritica di Purrmann è di un taglio così corrosivo che
quella dell’amico è invece innocente. Per lo più tiene in
conto i commenti professionali dei colleghi che lavorano
coi segni cromatici e lasciano cadere parole come giallo
di cadmio, lacca di alizarina, verde di ossido di cromo, e
si fanno capire col gesto.
Abbiamo appreso come hanno dipinto Cézanne e Renoir.
In pochissimi casi c’era una firma di piombo o di gesso. Si
cominciava subito con sottili, trasparenti linee ad acquerello, davanti alla natura. Trapelava la gradazione dei colori,
a cui in seguito soggiaceva tutto il dipinto. “Il quadro deve
essere un’unità in ogni stato”: lui usava la parola ”ensemble”. Purrmann tirò fuori un quadro che aveva composto
al mattino.
Erano alberi di olivo dietro la casa. I rami serpeggiavano
sul terreno. Questo aveva il fascino di un acquerello di Cézanne; il bianco della tela, toccata appena da qualche pennellata, era già una superficie approntata, era già uno spazio
per il dipinto. Tutto sembrava ancora possibile. Purrmann
lo sapeva, non si lasciava ingannare. Un quadro, diceva,
consta di tre stadi: il primo, che appare ben riuscito; il
secondo, in cui si scorge un ”caos”; il terzo lo raggiungono
solo pochi quadri; è la riacquisita prima condizione, ma ora
consapevole, riuscita in pieno. Trasformare il caos in ordine
gli riuscì anche a Ischia solo tra gravi depressioni, che non
wie­der aufgesetzt. «Palettenscheps»
duldete er nicht. Ein unab­änderliches
Handwerkergebot, vom Vater eingebleut,
das Werkzeug nach jedem Arbeitsgang
sauberzumachen, wirkt nach. Zu dieser
Stunde wurden kaum entscheidende Ver­
änderungen an den Bildern vorgenommen. Mit feinem Pinsel ging es hier eher
um Belebung der Farbmaterie. «Malerei
muß sensibel sein», wie Purrmann sagt.
An anderen Tagen, wenn der Schirokko
lähmend in der Luft liegt, werden die
Bilder diskutiert. Purrmann fordert dann
die Kritik geradezu heraus. «Sagen Sie
nur etwas, das regt mich an». Zuerst traut
man sich nicht. Dann aber sieht man, daß
hier jede Kritik angenommen wird, nicht
verletzt und auch den schöpferischen
Prozeß nicht berührt. Denn Purrmanns
Selbstkritik ist von einer so ätzenden
Schärfe, daß die der Vertrauten daneben
harmlos ist. Am meisten gibt er auf die
professionellen Bemerkungen der Kollegen, die mit Farbbezeichnungen arbeiten,
Worte wie Kadmium­gelb, Krapplack,
Chromoxydgrün fallen lassen, sich mit
einer Geste verständlich machen.
Man lernte hier, wie Cézanne, wie
Renoir gemalt hat. Eine Unterzeichnung
mit Blei oder Kreide gab es in den wenigsten Fällen. Es wurde sofort mit dünnen,
aquarell­haft durchsichtigen Pinsellinien
begonnen, vor der Natur. Die farbige
Tonleiter, auf die später das ganze Bild
gestimmt war, klang an. «Das Bild muß
in jedem Zustand eine Einheit sein» - er
gebrauchte das Wort «ensemble». Purrmann zog ein Bild hervor, das er am
Morgen angelegt hatte.
Es waren die Ölbäume hinter dem
Haus. Die Äste züngelten über die Fläche. Es hatte den Reiz eines Aquarells
von Cézanne; das Weiß der Leinwand
war, kaum von einigen Pinselstrichen
berührt, schon organisierte Fläche, schon
Bildraum. Alles schien noch möglich.
Purrmann kannte das, ließ sich nicht
täuschen. Ein Bild, sagte er, hat drei
Stadien: das erste, scheinbar gelungene;
das zweite,in dem es ein «Chaos» ist;
das dritte Stadium erreichen nur wenige
Bilder; es ist der wie­dergewonnene erste
Zustand, nun aber bewußt, geglückt.
Chaos in Ordnung zu verwandeln gelang auch auf Ischia nur unter schweren
La Rassegna d’Ischia 3/2008
47
lo facevano dormire di notte. Di pomeriggio giaceva sul
letto e scrutava a lungo il quadro appeso al muro. Come
per fustigare se stesso, citava una frase di Renoir: «Chi ha
riservato tre mesi per un quadro e non sa poi ancora dove
sia l’imperfezione, deve abbandonare la pittura».
Tra i quadri di quell’estate c’erano molte apprensioni,
specialmente un quadro con cielo temporalesco su un’alta
collina, dal cui verde spuntavano case quadrate gialle e
rosa. Davanti, il muro di pietra grigia. Il quadro era stato
iniziato a casa in un pomeriggio tempestoso. Sembra precipitare giù di schianto. Non può essere questo il motivo
ispiratore. Il rimedio, cioè il ritorno davanti al motivo,
davanti alla natura, è da escludere. Il quadro fu dipinto di
nuovo tre o quattro volte nel corso delle settimane seguenti.
Solo a Montagnola, lontano dall’atmosfera dell’isola, gli
riuscì di conferire la forma desiderata e il carattere unitario,
concentrando nella maniera giusta colori, superfici, linee
nel controverso quadro.
Ma se spuntava un motivo ispiratore, dopo aver meditato, Purrmann si fermava davanti al quadro, dando con
prudenza poche pennellate e segnando i punti critici. Il
mattino dopo, molto tempo prima che la calura scoppiasse
sull’isola, riconsiderava il motivo e cercava la tensione
tra le necessarie “correzioni”, la condizione del quadro
e il caos “natura”. Spesso erano necessarie molte sedute,
come mostravano le tracce del seggiolino pieghevole. Meditazioni di questo tipo venivano fuori dai colloqui nelle
stanze che servivano da atelier nell’albergo, frutti naturali
Depressionen, sie ließen ihn nachts nicht
schlafen. Nachmittags lag er auf dem
Bett und betrachtete lange das Bild, das
an der Wand lehnte. Wie um sich selbst
zu geißeln, zitierte er einen Satz von Renoir: «Wer ein Bild drei Monate beiseite
gestellt hat und dann noch nicht weiß,
wo der Fehler steckt, der soll das Malen
lassen».
Es gab unter den Bildern dieses Sommers wahre Sorgen­kinder, besonders
eines mit Gewitterhimmel über einem
ansteigenden Hügel, aus dessen Grün
Häuserkarrees gelb, rosa auftauchen.
Vorn die graue Steinmauer. Das Bild
wurde an einem gewittrigen Nachmittag
im Haus begonnen. Es fällt in sich zusammen. Das Motiv gibt es nicht so. Das Allheilmittel, Rückkehr vor das Motiv, vor
die Natur, ist ausgeschlossen. Das Bild
wurde im Laufe der kommenden Wochen
drei-, viermal neu gemalt. Erst in Montagnola, fern von der Atmosphäre der
Insel, gelang es, in der Kon­zentration auf
Farbe, Fläche, Linie das widerspenstige
Bild zur Form zu zwingen, die Einheit
herzustellen. Existierte jedoch ein Motiv,
so fuhr Purrmann nach der Meditation
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della visione artistica di Purrmann, che il pittore non solo
rappresentava, ma viveva.
Mentre gli altri osservavano i quadri, si poteva guardare
intorno indisturbati. Su un comodino c’era un volumetto
non appariscente in dodicesimo. Erano le poesie di Goethe
di cui Purrmann conosceva molte a memoria. Amava le
poesie più dei romanzi, probabilmente perché una strofa
è ben visibile come la superficie di un dipinto. Il ritmo
corrisponde al manoscritto del pittore, le vocali ai colori, le
consonanti al disegno, il contenuto al motivo e lo splendore
al coinvolgimento e all’essere coinvolti. Nell’un caso e
nell’altro è un sentimento di felicità.
Le alte fresche stanze, in cui si svolgevano le nostre
discussioni, hanno una tradizione nella vita di Purrmann.
Aveva preso in affitto entrambe le camere, le cui finestre
guardavano sul porto, perché il corridoio intermedio coperto con piastrelle era abbastanza ampio per collocarvi il
cavalletto. La finestra del corridoio offriva una vista composita sul bacino del porto. A sinistra la lingua di terra si
stende intorno al bacino e riceve il suo accento dallo snello
faro. A destra il bacino del porto sporge di più, navi e motopescherecci a vela di varia grandezza e numero, verniciati
secondo vecchie regole a tinte forti, sono ormeggiati alle
sue sponde, la cui oscillazione ricorda le verdi cime delle
colline. Il bianco profilo della Villa Dohrn fiancheggia
l’entrata.
Purrmann ha dipinto spesso questo soggetto, già all’inizio
degli anni ‘20, quando fu per la prima volta sull’isola con
vor dem Bild mit wenigen behutsamen
Pinsel­strichen über die Malerei hin und
markierte kritische Stellen. Am nächsten
Morgen ging er, lange bevor die Hitze
über der Insel ausbrach, vor das Motiv
und suchte die Spannung zwischen den
notwendigen «Verbesserungen», dem
Zustand des Bildes und dem Chaos «Natur». Oft waren viele Sitzun­gen nötig, wie
die Spuren des Feldstuhles zeigten. Überlegungen dieser Art wuchsen aus den
Gesprächen in den als Atelier dienenden
Räumen im Albergo, natürliche Früchte
der Kunstanschauungen Purrmanns, die
der Maler nicht nur vortrug, sondern
lebte.
Während die anderen die Bilder betrachteten, konnte man sich ungestört
umsehen. Auf dem Nachttisch lag ein un­
scheinbares Duodezbändchen. Es waren
Goethes Gedichte, von denen Purrmann
viele auswendig kann. Er liebt Ge­dichte
mehr als Romane, wahrscheinlich, weil
eine Strophe übersehbar wie die Fläche
eines Bildes ist. Der Rhythmus entspricht
der Handschrift des Malers, die Vokale
den Farben, die Konsonanten der Zeichnung, der Inhalt dem Motiv, und der
Glanz, das Ergreifen und Ergriffenwerden ist hier wie dort Glück.
Die hohen, kühlen Zimmer, in denen
unsere Diskussionen stattfanden, haben Tradition im Leben Purrmanns. Er
hatte beide Räume, deren Fenster zum
Hafen gehen, gemietet, denn der mit
Fliesen bedeckte Korridor dazwischen
war gerade breit genug, um die Staffelei
aufzustellen. Das Gangfenster gab einen
vorkomponierten Blick auf das Hafen­
becken frei. Links greift die Landzunge
um das Bassin und erhält ihren Akzent
von dem schlanken Leuchtturm. Rechts
lädt das Becken stärker aus, Schiffe und
Segelkutter in wechselnder Größe und
Zahl, nach alten Regeln starkfarbig gestrichen, liegen an der Ufermauer, deren
Schwingung der grüngesäumte Hügelkamm wiederholt. Der weiße Würfel der
Villa Dohrn flankiert die Einfahrt.
Dieses Motiv hat Purrmann oft gemalt,
schon Anfang der zwanziger Jahre, als
er mit seinem nur wenig älteren Freund
Konrad von Kardorff zum erstenmal auf
der Insel war. So wie er heute ein Bild vor
der Natur wieder angeht, hat er auch nach
Jahren immer wieder das schon bekannte
l’amico Konrad von Kardorff solo di poco più anziano.
Proprio come lui oggi comincia un nuovo quadro davanti
alla natura, ha per anni preparato il già noto soggetto.
Perché abituarsi ad apprezzare un nuovo paesaggio, costa
spesso al pittore un anno intero o mezzo, e un angolo della
natura, che ha dipinto una volta, è qualcosa di indomabile
e di indomito, che Cézanne temeva come il «terrible effet
de la nature».
Da qualsiasi finestra delle due ampie camere si guardasse,
gli squarci prospettavano un qualcosa di noto. Erano tutti
soggetti di Purrmann. Qui il formato verticale del lato portuale sinistro, dove ormeggiano yacht e barche a vela, le cui
cime degli alberi oscillavano leggermente e descrivevano
nel cielo ogni movimento dell’acqua. Similmente come
avveniva nel porto di Sanary, dove Purrmann nel 1930,
dopo una lunga malattia, ha dipinto una serie di quadri,
su cui ondeggiano i bianchi scafi.
La finestra della camera di destra guardava direttamente
sulla banchina sempre popolata di gente, carri ed animali.
La visione obliqua produce delle profondità che dovettero
ricomparire come spazio figurativo.
I cutter appena arrivati che portano o caricano sabbia,
pietre, legno, le larghe chiatte dai cui ampi boccaporti
splendono gialle zucche, rossi pomodori, meloni verdi
e annunciano le stagioni, le vele marrone scure o gialle,
già issate, e le loro forme così irregolarmente affascinanti
spronavano facilmente l’artista a sovraccaricare un dipinto. Spesso la prima impressione veniva ordinata soltanto
quando era stata fissata sulla tela e già aggiunti gli accenti
coloristici. Una volta si presentò sulla terrazza della casa
d’italiani, in cui abitavamo, a Porto d’Ischia.
Motiv vorgenommen. Denn das Einleben
in eine neue Land­schaft kostet einen Maler
oft ein halbes, ein ganzes Jahr, und dem
Stück Natur, das er einmal gemalt hat, ist
etwas von dem Ungebändigten, Ungezähmten genommen, das Cézanne als den
«terrible effet de la nature» fürchtete.
Aus welchem Fenster der beiden langgestreckten Räume man auch blickte, die
Ausschnitte kamen einem bekannt vor.
Es waren lauter Motive Purrmanns. Hier
das Hochformat der linken Hafen­seite, wo
die Jachten und Segelboote lagen, deren
Mastspitzen leise schwankten und jede
Bewegung des Wassers an den Himmel
schrieben. Ähnlich wie im Hafen von
Sanary, wo Purrmann 1930 nach langer
Krankheit die Reihe der Bilder gemalt
hat, auf denen die weißen Schiffsleiber
schwingen.
Das Fenster des rechten Raumes ging
unmittelbar auf den immer von Menschen,
Wagen und Tieren bevölkerten Kai. Die
schräge Aufsicht erzeugt Tiefe, die als
Bildraum wieder erstehen mußte.
Die anlaufenden Kutter, die Sand, Stei-
L’ampiezza della veduta, l’orizzonte alto, che avrebbe
stimolato Beckmann a forti dipinti marini, non l’attraevano. Egli concentrò in un piccolo formato la veduta sul
bacino del porto e sulle verdi alture che emergevano lì
dietro. Dipingeva tutto un pomeriggio con rapidi sguardi
sul paesaggio e con lunghe occhiate sulla tela. Finiva di
dipingere e lasciava a quel punto il quadro iniziato. Con
la coscienza sporca lo tiravamo fuori il mattino seguente
e andavamo al luogo, da cui aveva dipinto. La sorpresa
era grande. La realtà aveva soltanto fornito lo spunto
per la composizione. Egli aveva preso di mira una delle
case cubiche emergenti dal verde del declivio e riportata
sul quadro come semplice forma grande come l’unghia
del pollice, come puro colore, come giallo splendente.
Intorno a questa casa, a questa superficie, a questo giallo,
“organizza” il quadro. Il giorno seguente, molto di quello
che aveva già fatto, fu eliminato, soprattutto il verde della
collina venne trasformato in turchese. Ma restò la forma
quadrata della casa, parallela alla superficie figurativa: alla
macchia gialla alla Vermeer si riferiscono tutti i colori del
quadro che certamente in seguito nell’atelier di Montagnola
ha subito ancora tante trasformazioni.
I quadri, che si nutrono del colore, a differenza di quelli,
che vivono della composizione, dell’energia delle linee,
hanno un tratto paradisiaco, irradiano felicità. I pochi veri
coloristi come Tiziano, Veronese, Vermeer, Guardì, Tiepolo, Delacroix, Cézanne, Matisse sono amati più dei giganti
Michelangelo, Rembrandt, Picasso. Si potrebbe collocare
Purrmann a fianco dei Veneziani, vicino a Guardì, a cui
anche l’acqua, la laguna, le isole intorno a Venezia hanno
offerto ispirazione per quadri perfetti.
ne, Holz bringen oder laden, die breiten
Schuten, aus deren offenen Luken kürbis­
gelb, tomatenrot, melonengrün die Früchte leuchten und die Jahreszeiten anzeigen,
die gehißten dunkelbraunen oder gelben
Segel und ihre reizvoll unregelmäßigen
Formen führten leicht dazu, das Bild zu
überladen. Oft wurden die Eindrücke erst,
wenn sie schon auf der Leinwand standen,
geordnet und die koloristischen Akzente
gesetzt. Einmal kam er auf die Terrasse
des Hauses, in dem wir ober­halb von Porto
d‘Ischia bei Italienern wohnten.
Die Weit­r äumigkeit der Sicht, der
hochliegende Horizont, der Beck­mann
zu mächtigen Seebildern angeregt hätte, reizte ihn nicht. Er faßte in kleinem
Format den Blick auf das Hafen­becken
und auf die dahinter ansteigenden grünen
Höhen zusammen. Er malte einen ganzen
Nachmittag mit schnellen Blicken auf die
Landschaft und mit langen Blicken auf die
Leinwand. Malgerät und das angefangene
Bild ließ er da. Schlechten Gewissens
zogen wir es am nächsten Morgen hervor
und gingen an den Platz, von dem aus es
gemalt war. Die Überraschung war groß.
Die Wirklichkeit hatte für die Komposition nur als Anregung gedient. Eines der
aus dem Grün des Hanges auftauchenden
kubischen Häuser hatte er aufs Korn
genommen und als reine Fläche daumennagelgroß ins Bild gestellt, als pure Farbe,
als leuchtendes Gelb. Um dieses Haus,
diese Fläche, dieses Gelb, „organisierte“
er das Bild. Am nächsten Tag wurde vieles umgestülpt, namentlich das Grün der
Hügel zum Türkis hin gesteigert. Aber das
Quadrat des Hauses, parallel zur Bildfläche, blieb: auf den vermeergelben Fleck
bezogen sich alle Farben des Bildes. Es hat
sicherlich später im Atelier in Montagnola
noch viele Verwandlungen erlebt.
Bilder, die sich aus der Farbe nähren,
haben im Gegensatz zu denen, die aus der
Komposition, der Energie der Linie leben,
einen paradiesischen Zug, verströmen
Glück. Man liebt die wenigen wahren
Koloristen Tizian, Veronese, Vermeer,
Guardi, Tiepolo, Delacroix, Cézanne, Matisse mehr als die Giganten Michelangelo,
Rembrandt, Picasso. Purrmann möchte
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Sul far della sera, stanchi delle conversazioni e delle
intense vedute, scendevamo le fresche scale dell’albergo
e andavamo dal Calabrese, accostavamo i tavoli, su cui
tintinnavano i bicchieri, ordinavamo vino, pane, Gorgonzola, mangiavamo, bevevamo noi teste calde, finché la notte
avvolgeva l’isola feacia. L’anno seguente Purrmann andò
a Lacco Ameno. Le case adagiate nel verde delle colline
diventarono il leitmotiv dei paesaggi che colà apparivano.
Ma si sentiva solo; avvertiva la mancanza delle conversazioni serali dal Calabrese e tornò di nuovo a Porto d’Ischia
l’estate seguente. Si possono dedurre le annate dei quadri
dai motivi e dalla maniera di dipingere. Il movimento lineare diventa sempre più silenzioso, il pennello non disegna
più, neanche nei primi stadi; lui dipinge. L’equilibrio di un
quadro è ora tutto nel colore. Giallo puro, blu puro, rosso
profondo, un verde rilucente nel turchese. Ma il profondo
blu scuro è contemporaneamente mare e colore, l’azzurro
è cielo e colore, il rosso bruno del suolo è terra e tronco di
olivo, il grigio verde è macchia colorata e foglia, il verde
chiaro dei pini è al contempo pianta e pietra ornamentale
degli edifici. Il bianco intenso diventa nuvola e la parte
più chiara del quadro, un giallo, un violetto la parete di
una casa. Colore ed elemento - aria, nuvola, acqua, pianta
e terra – si fondono. Qui è la grandezza di questi piccoli
dipinti. Purrmann trascorse l’estate del 1959 ospite nella
Villa Massimo a Roma. Il suo stato di salute era preoccupante, il proseguimento del viaggio per Ischia impossibile.
Si faceva condurre nel giardino della Villa. I dipinti, fatti a
man in der Nähe der Venezianer ansiedeln,
in dei Nachbarschaft Guardis, dem auch
das Wasser, die Lagune, die Inseln um
Venedig vollkommene Bilder geschenkt
haben.
Im einfallenden Abend, von den Gesprächen, vom inten­siven Sehen müde,
stiegen wir die kühle Treppe des Albergos hinab und gingen zum Kalabresen,
rückten die Tische, auf denen die Gläser
klirrten, zusammen, bestellten Wein, Brot,
Gorgonzola, aßen, tranken und redeten
uns die Köpfe heiß, bis schließlich die
Nacht das phäakische Eiland einhüllte.
Im nächsten Jahr ging Purrmann nach
Lacco Ameno. Die in das Grün der Hügel
gebetteten Häuser wurden zum Leit­motiv
der dort entstandenen Landschaften. Doch
fühlte er sich einsam; er entbehrte die
Abendgespräche beim Kala­bresen und
zog die folgenden Sommer wieder nach
Porto d‘Ischia. Man kann die Jahrgänge
der Bilder an den Motiven und der Malweise ablesen. Die lineare Bewegung wird
immer stiller, der Pinsel zeichnet nicht
mehr, auch in den ersten Stadien nicht; er
malt. Das Gleichgewicht eines Bildes liegt
nun ganz in der Farbe. Reines Gelb, reines
Blau, tiefes Rot, nach Türkis hin schim50
La Rassegna d’Ischia 3/2008
Roma, sono alti appena due spanne, larghi due. Il motivo
conserva solo gradazioni di verde, il verde per i cipressi, il
verde per l’erba, per il fogliame, e il violetto delle ombre. Si
cerca di venire a capo con le sfumature giuste. Il marrone
luminoso dei tronchi offre poca struttura; come anche il
bianco di un muro, di una pallida nuvola, il blu delicato
del cielo romano. Questo basta ai quadri, che hanno molto
di Cézanne e molto dell’elegia goethiana di Marienbad.
Il rigoglio dell’isola d’Ischia è cambiato, si è limitato ad
una fila di alberi nel parco. La ricchezza del mondo per
l’ottantenne pittore è diventata dovunque a portata di mano.
A Montagnola, al confine tra montagna e pianura, tra Nord
e Sud, l’ottantenne pittore si è di nuovo ristabilito. Nel
1962, per la prima volta viaggiò in ambulanza, in posizione
orizzontale. Suo figlio gli aveva preso in affitto una villa
vicino a La Spezia, a Levanto dove abitava al pianoterra
e poteva essere portato facilmente su una sedia davanti
al suo quadro. Di nuovo ci sono meravigliosi paesaggi,
dagli intensi colori, che richiamano i colori dell’isola
d’Ischia. La natura stimolava l’ottantatreenne al faticoso
lavoro nell’atelier, che era spesso un rifacimento di quadri vecchi in forme nuove. Nel 1963, riprese a viaggiare
e si fermò nello stesso luogo. D’inverno, incontra i suoi
amici a Montagnola, dipinge giovani donne e fiori, elabora
schizzi estivi. Ci si rallegra già delle conversazioni davanti
ai quadri, di solito paesaggi, che ha portato con sé.
Erhard Göpel
merndes Grün. Doch ist das tiefdunkle
Blau zugleich Meer und Farbe, das Azurblau Himmel und Farbe, das Rotbraun
des Bodens Erde und Olivenstamm, das
Graugrün Farbfleck und Blattwerk, das
helle Grün der Pinien Pflanze und zugleich
Stein des Bild­baues. Das bauschige Weiß
wird zur Wolke und hellsten Bildstelle, ein
Gelb, ein Violett zur Hauswand. Farbe und
Element - Luft, Wolke, Wasser, Pflanze
und Erde - ver­schmelzen. Darin liegt die
Größe dieser kleinen Bilder. Den Sommer
des Jahres 1959 brachte Purrmann in der
Villa Massimo in Rom als Gast zu. Sein
Gesundheitszu­stand war gefährdet, die
Weiterreise nach Ischia unmöglich. Er ließ
sich in den Garten der Villa fahren. Die
Bilder, die in Rom entstanden, sind kaum
zwei Spannen hoch, zwei Spannen breit.
Das Motiv hält nur Stufen von Grün bereit,
Zypressen grün, Grasgrün, Laubgrün,
dazu nur das Violett der Schatten. Es geht
darum, mit den Nuancen auszukom­men.
Das lichte Braun der Stämme gibt wenig
Struktur; dazu das Weiß einer Mauer,
einer blassen Wolke, das dünne Blau des
römischen Himmels. Dies genügt zu Bildern, die viel von Cézanne und viel von
Goethes Marienbader Elegie haben. Die
Fülle der Insel Ischia ist verwandelt, hat
sich einer Baumreihe im Park mitgeteilt.
Der Reichtum der Welt ist dem achtzigjährigen Maler überall greifbar gewor­den.
In Montagnola, auf der Grenze zwischen
Gebirge und Ebene, zwischen Norden und
Süden, hat sich der achtzig­jährige Maler
wieder erholt. Im Jahre 1962 reiste er das
erste Mal wieder nach Italien, liegend,
im Krankenwagen. Sein Sohn hatte ihm
eine Villa bei La Spezia, in Levanto, gemietet, in der er zu ebener Erde wohnte
und zum Malen leicht im Stuhl vor das
Motiv gerollt werden konnte. Wieder
sind herrliche, tieffarbige Landschaften
entstanden, die an das Kolorit der Ischiabilder anknüpfen. Die Natur belebte den
heute Dreiundachtzigjährigen nach dem
mühsamen Arbeiten im Atelier, das oft
ein Überarbeiten älterer Bilder war, aufs
neue. 1963 wiederholte er die Reise und
hielt sich am gleichen Ort auf. Im Winter
empfängt er in Montagnola seine Freun­de,
malt junge Frauen und Blumen, arbeitet
Skizzen des Sommers aus. Man freut sich
schon auf das Gespräch vor den Bildern,
meist Landschaften, die er mitgebracht
hat.
Erhard Göpel
Hans Purrmann - Porto d’Ischia
Hans Purrmann - Porto d’Ischia
Hans Purrmann - Olivo e muro
Hans Purrmann - Via con palma
Hans Purrmann - Case a Porto d’Ischia
Hans Purrmann - Costa (Lacco Ameno)
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