i gradi della comunita

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i gradi della comunita
Emmanuel MOUNIER
I GRADI DELLA COMUNITÀ: dalla massa anonima alla comunità personalista, attraverso il ‘tirocinio del
tu’1
La massa
La depersonalizzazione del mondo moderno e la decadenza dell’idea comunitaria sono per noi la stessa ed
unica disgregazione.
Esse conducono allo stesso sottoprodotto di umanità: la società senza volto fatta da uomini senza volto, il
mondo del si (impersonale), in cui fluttuano tra gli individui senza carattere le idee generali e le opinioni
vaghe, il mondo delle posizioni neutre e della conoscenza obbiettiva. È da questo mondo, dal regno del “si
dice” e del “si fa”, che dipendono le masse, agglomerati umani, scossi a volte da moti violenti, ma senza
responsabilità differenziata. […] Le masse sono dei cascami, non dei principi. Depersonalizzata in ciascuno
dei suoi membri, e per conseguenza depersonalizzata come totalità, la massa si caratterizza per un mèlange
singolare di anarchia e di tirannia, la tirannia dell’anonimato, la più vessatoria, tanto più che essa maschera
tutte le forze, quelle autenticamente denominabili, che si coprono della sua impersonalità […].
È verso la massa che scivola una democrazia liberale e parlamentare, dimentica che la democrazia era in
origine una rivendicazione della persona. Le “società” possono moltiplicarsi, le “comunicazioni” possono
“ravvicinarne” i membri, ma non è possibile comunità alcuna in un mondo in cui non c’è più un prossimo e
dove non rimangono che dei simili, che non si guardano. Ciascuno vive in una solitudine, che si ignora
anche come solitudine e che ignora la presenza dell’altro: al più si tiene conto dei “propri amici” come
duplicato di se stesso, con i quali potersi sentire soddisfatto e rassicurato.
Il primo atto della mia iniziazione alla vita personale è la presa di coscienza della mia vita anonima. Il primo
passo, ad esso corrispondente, della mia iniziazione alla vita comunitaria è la presa di coscienza della mia
vita indifferente: indifferente agli altri perché è indifferenziata dagli altri. Siamo qui ancora al di qua della
soglia dove comincia la vita solidale della persona e della comunità.
Il noi altri
Le masse sono qualche volta prese da una forte esigenza di autoaffermazione e si trasformano in quelle che
abbiamo chiamato società in noi altri. Un esempio sono un “pubblico”, una società fascista, una classe
militante, un partito, un “blocco” o un fronte di battaglia. Noi abbiamo qui il primo grado della comunità. Il
mondo del “si” era senza un disegno: ora il mondo del “noi altri” si assicura referenze, abitudini e
determinati entusiasmi. Il mondo del “si” era senza volontà comune: il mondo del “noi altri” ha delle
frontiere e vio dirige con rigore tutte le energie. Il mondo del “si” è il mondo del “lasciar andare” e della
indifferenza: il mondo del “noi altri” si immerge con un’abnegazione piena di consenso e spesso eroica alla
causa comune. Ma questo “noi” violentemente affermato non è per ciascuno dei membri che lo professa
un pronome personale, un impegno della sua libertà responsabile. Troppo spesso gli serve per sfuggire
all’angoscia della scelta e della decisione nelle comodità di un conformismo collettivo. Attribuisce a sé le
vittorie dell’insieme e rigetta su di esso gli errori. Questa forma elementare di comunità per essere ardente
e portare ciascun individuo ad un alto grado di esaltazione, si costituisce dunque, se non ci si difende da
essa, contro la persona. Tende all’ipnosi, come la massa tende al sonno.[…]
1
Liberamente tratto da: E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica editrice, Bari
1975, pagg. 83-89.
Le società vitali
Inferiori senza dubbio in spiritualità, ma superiori in organizzazione sono le società vitali. Qui il legame è
costituito dal fatto di condurre una vita in comune e di organizzarsi per viverla nel modo migliore. Esso è
dunque biologico in senso largo. I valori che ispirano le società vitali sono la tranquillità, l’onesto vivere, la
felicità, cioè l’utile, più o meno lontanamente volto al piacevole. Per esempio: una piccola patria, una
economia, una famiglia che non mantiene altro legame spirituale che una specie di letto tutto fatto di
abitudini e una divisione, divenuta automatica, dei lavori domestici. Sono distribuite delle funzioni, ma esse
non personalizzano coloro che le compiono: a rigore esse sono intercambiabili. Là, ancora, ciascuno vive in
una sorta di ipnosi diffusa; se egli pensa, pensa le idee che esprimono gli interessi dell’associazione o i suoi
interessi nell’associazione. Egli pensa quelle idee sotto la forma di un’affermazione aggressiva, senza
cercare di liberarne i valori obbiettivi cui potrebbero giovare o il dramma proprio di ciascuno dei membri.
La persona non guadagna niente ancora da questa forma di associazione. Ogni società vitale inclina verso
una società chiusa ed egoista se essa non è animata dall’interno da un’altra comunità spirituale sulla quale
si innesti. La vita non tende alla universalità e al dono, ma solo all’affermazione e alla espansione. Si coglie
qui l’illusione e il rischio di ogni risveglio comunitario che sia fondato solo sull’esaltazione del potere vitale
o su una organizzazione scientifica del quartiere. […]
La comunità personalista
Così si mostra definitivamente l’impossibilità di fondare la comunità schivando la persona, fosse anche sulla
base di pretesi valori umani, disumanizzati in quanto spersonalizzati. Noi riserveremo allora il nome di
comunità alla sola comunità valida e solida, la comunità personalista, che è, più che simbolicamente, una
persona di persone.
Se occorresse disegnare l’utopia, noi descriveremmo una comunità in cui ciascuna persona si
completerebbe nella totalità di una vocazione continuamente feconda, e la comunione dell’insieme
sarebbe una risultante vivente di quelle realizzazioni singolari. Il posto di ciascuno sarebbe in essa
insostituibile, nello stesso tempo che in armonia con il tutto. […]
Sarebbe assai pericoloso supporre che questo schema sia storicamente realizzabile. Ma sia che lo si
consideri un mito indicativo di una direzione, sia che si creda, come il cristiano, che realizzandosi
compiutamente oltre la storia esso, pure, offra alla storia una direzione fondamentale, è tale schema che
deve orientare l’ideale comunitario di un regime personalista.
Il tirocinio del noi
Il tirocinio del noi non può fare a meno dell’apprendistato dell’io. Esso lo accompagna e ne segue le
vicissitudini: l’anonimato delle masse deriva dalla dissoluzione degli individui, la contrazione delle società in
“noi-altri” corrisponde a quello stadio in cui la personalità mira all’affermazione di sé o si chiude nella sua
tensione eroica. Ma quando io comincio ad interessarmi della presenza reale degli uomini, a riconoscere
questa presenza di fronte a me, a conoscere la persona che essa mi rivela, il tu che essa mi propone, a non
vedere più in essa una “terza persona”, uno qualsiasi, una cosa vivente ed estranea, ma un altro me stesso,
allora io ho posto il primo atto della comunità senza la quale nessuna istituzione avrebbe solidità.
L’apertura all’altro, che conduce alla realtà comunitaria si dispiega in una gradualità progressiva, che va
dall’indifferenza dell’impersonalità alla comunione personale. Sulla base della qualità dei rapporti
interpersonali si realizzano differenti forme sociali.
Mounier pone il mondo moderno esattamente alla base di questa scala qualitativa: la società capitalista è
la società senza volto, in cui la collettività assume la forma della massa anonima, mero agglomerato di
individui numerati e indistinti, «depersonalizzata in ciascuno dei suoi membri, e per conseguenza
depersonalizzata come totalità». Essa è caratterizzata dall’indifferenza, dall’omologazione,
dall’irresponsabilità e dal dominio del si impersonale. Una collettività di questo genere si basa su rapporti
interpersonali vuoti: gli individui, svuotati di sé, sono semplicemente accostati e totalmente
deresponsabilizzati, privi di iniziativa e critica personale. L’altro è semplicemente un simile e non un
prossimo. «Quale comunione potrebbe mai prendere corpo in una simile confusione?»2.
Il mondo della persona, e, con esso, quella rivoluzione auspicata dal personalismo, cominciano con il
riconoscimento e la presa di coscienza di questa vita anonima e di questa indifferenza all’interno della
società.
Immediatamente ad un livello successivo vi sono le società del noi altri. In esse si presenta già una coscienza
del noi, motivo per il quale Mounier vi riconosce un primo stadio della reale comunità. Tuttavia il noi resta
sempre un noi-altri, in cui gli altri restano altri. Nella descrizione di questo livello della comunità, l’autore ha
in mente alcune forme di associazionismo del suo tempo: una società fascista, una classe militante, un
partito, un “blocco”, piuttosto che un “pubblico” o un gruppo di giovani. Alcune di queste associazioni sono
lontane dalla nostra esperienza odierna, eppure esse fanno riferimento ad una modalità del ‘noi’ che
possiamo riscontrare anche in forme di aggregazione a noi note. Si tratta di raggruppamenti che si danno
degli ideali, che si radunano attorno a modi, abitudini, riferimenti ed entusiasmi comuni. Non più la
passività e la mancanza di volontà collettiva delle masse: «il mondo del noialtri si immerge in
un’abnegazione consenziente e spesso eroica per la causa comune»3. Tuttavia a questo ‘noi’ potentemente
affermato vengono delegate la responsabilità e l’ iniziativa critica personale, lo spirito di gruppo serve a
sfuggire le angosce e le scelte difficili proposte alla libertà dei singoli. Per questo tende all’ipnosi, al
conformismo collettivo e dunque rischia di costituirsi contro l’autentica vita personale.
Un grado maggiore di organizzazione è riscontrabile nelle società vitali, dove il legame è costituito dal fatto
di condurre una vita in comune e di organizzarsi per viverla nel modo migliore. È il caso possibile di una
famiglia in cui manchi l’autentica comunione, o di un’impresa: in queste realtà «sono distribuite delle
funzioni, ma esse non personalizzano coloro che le compiono: a rigore esse sono intercambiabili»4. Per
questo, se i membri sono individualizzati dai loro compiti e dal loro ruolo, tuttavia essi sono ridotti ad
impersonali ingranaggi del sistema: il loro valore sta nella funzione che assolvono e che li rende
perfettamente sostituibili.
In altri luoghi Mounier parla anche delle società giuridiche contrattuali, teorizzate dai giuristi e dai filosofi
del Settecento, fondate sulla convenzione e l’associazione. In esse un contratto che guarda alla
2
E. MOUNIER, Révolution personaliste et communautaire (1934), in Oeuvres, vol. I, Editions du Seuil, Paris, 1961; tr. it.:
Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica editrice, Bari 1984, pag. 87.
3
Ibid., pag. 90.
4
E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., pag. 86.
formalizzazione dei rapporti e non al loro contenuto personale, «non crea la comunione di due uomini, ma
promuove due egoismi, due interessi, due diffidenze, due astuzie, e li unisce in una pace armata»5.
Tutte queste esperienze comunitarie, ad avviso dell’autore, conducono allo stesso punto:« è impossibile dar
vita ad una comunità evitando la persona e poggiare la comunità su un qualcosa che non sia composto da
persone solidamente costituite.»6
La vera comunità ha inizio «il giorno in cui ognuno dei suoi membri scopre in ogni altro una Persona e inizia
a trattarla come tale e, come tale, a conoscerla»7.
Accanto al “tirocinio della comunità” che si delinea in questa progressione tracciata dall’autore, si realizza
più profondamente un “tirocinio del tu” - espressione di G. Marcel - ossia un’esperienza sempre più
autentica dell’altro.
Nello stadio finale il noi non è più un “noi altri”, etichetta collettiva di una società fondata su un rapporto
tra individui in cui l’altro resta sempre una terza persona, un lui, simile ad un oggetto qualsiasi,
intercambiabile e senza valore proprio. Nella comunità «non esiste la terza persona. c’è una prima persona,
una seconda persona e l’impersonale.»8
L’altro comincia ad essere un elemento di comunità solo nel momento in cui diventa per qualche altra
persona una seconda persona, e cioè nel giorno in cui è voluto da quella come prima persona in rapporto
con lei. Scopro un uomo quando improvvisamente mi si erge davanti come un tu.9
Fondata su relazioni di questo tipo, la comunità risulta essere una persona di persone, una collettività dai
caratteri personali, nella quale il sociale non è un valore impersonale oggettivato ed estrinseco, bensì la
modalità fondamentale di vita dei suoi membri. Nel noi dell’autentica comunità, ciascun individuo si
riconosce senza rinunciare alla sua singolarità e parimenti riconosce l’importanza dell’altro che ha di fronte.
Tuttavia, come nella persona ha luogo una dinamica che alterna due poli, così anche la comunità si realizza
sempre in un processo e in uno sforzo continuo che tende al personale, ma ricade spesso e inevitabilmente
nelle forme degradate del sociale anonimo , da cui si ritrova a ripartire, in un cammino mai concluso. Anche
nella dimensione collettiva Mounier pone dunque due tendenze coesistenti: l’una alla comunità come
“persona di persone”, l’altra alla società come agglomerato di individui, riconoscendo come nella storia la
prima forma si dia solo in rari e limitati casi, ma resti nonostante questo l’obiettivo cui finalizzare il proprio
impegno.
5
E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., pag. 109.
Ibid., pag. 92.
7
Ibid., pag. 94.
8
Ibid., pag. 95.
9
Ibid., pag. 96.
6