La Rassegna d`Ischia 5/2014

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La Rassegna d`Ischia 5/2014
Anno XXXV
N. 5
Ottobre - Novembre 2014
Euro 2,00
Personaggi
Luigi Mazzella
(1829-1886)
Ischia
nell'Odissea
Ex libris
Rassegna
Stampa
Il porto d'Ischia : 160 anni
Rassegna Libri
Il monastero delle Clarisse sul Castello (II)
Torre Guevara : nuove risposte
Pittori russi a Capri : Michele Ogranovitsch
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia
Periodico di ricerche e di temi
turistici, culturali, politici e sportivi
Anno XXXV - n. 5
Ottobre/Novembre 2014
Euro 2,00
Editore e Direttore responsabile
Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia
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In questo numero
3 Motivi
4 Il Convento delle Clarisse
sul Castello d'Ischia (II)
9 La Torre di Guevara
Nuove risposte e qualche sorpresa
15 Personaggi
Il dott. Luigi Mazzella
18 Forio
Sensazioni e sentimenti
19 Da San Pietroburgo a Capri
Il pittore Michele Ogranovitsch
22 Ex libris
- Viaggio pittoresco a Napoli e in Sicilia
- Geografia medica dell'Italia: acque minerali
26 Il porto d'Ischia
Il lago-porto ha compiuto 160 anni
29 Rassegna Libri
- Filippo Strofaldi il vescovo con la chitarra
- L'ubriaca penna che scorre
- La nave gigante inabissa nelle temebre
31 Fonti archivistiche
Il Convento e la Chiesa di S. Domenico
35 Regione Campania
Portale dei Musei locali
39 Ischia nell'Odissea
36 Rassegna Stampa
- Il problema turistico in Campania
- Archeo : I Greci in Italia
In copertina : Cartolina del porto d'Ischia
Chiuso in redazione il 6 ottobre 2014
MOTIVI
Si va concludendo la “stagione
estivo-turistica” 2014, quella che
comunemente comprende i mesi
da aprile ad ottobre, e si spera (si
è sempre sperato) di continuarla in
qualche modo con quella, meno appariscente, invernale, con un turismo diverso che dia più importanza
al fattore termale, di cui una volta
eravamo fieri e sul quale poggiava il fatto di avere una periodicità
molto lunga sul piano del richiamo
verso la nostra isola e di possibilità
di lavoro per tutti. Allora un posto
predominante avevano (e ci contavamo) il termalismo e il climatismo;
si diceva di un’isola, preferibilmente, per anziani, in quanto mancavano
attrattive giovanili. Il prof. Massimo
Mancioli scriveva che «l’isola, in
rapporto con la sua complessa origine vulcanica, ha un patrimonio idrotermale fra i più ricchi e interessanti
del mondo, sì da costituire con i fattori climatico-ambientali un mosaico curativo naturale».
Poi il declino, per cause sia esterne (crisi dappertutto), sia interne.
D’altra parte è stato scritto ovunque
e sempre che per molto tempo l’isola ha circoscritto soltanto intorno al
nucleo delle sue attrattive originarie
(fattori di efficacia curativa, bellezza dei suoi luoghi, mare, spiagge) la
suggestione diretta ad orientare ed a
determinare le reazioni individuali e
collettive, facendo affluire in queste
contrade gente, sempre più gente,
per vacanze prolungate e non unicamente per i weekend. Di anno in
anno crescevano i dati di arrivo e di
permanenza dei turisti.
Peraltro si viveva il turismo come
un bisogno essenziale della personalità umana. Favorivano i viaggi e il
soggiorno in località diverse dall’abituale residenza non solo il miglioramento del tenore di vita, ma anche
la ricerca di svago nella uniforme cadenza del lavoro, l’esigenza, spesso
dettata da motivi di salute, di uscire
dal proprio ambiente, la propensio-
Raffaele Castagna
ne a conoscere direttamente luoghi e
storia nell’ambito nazionale ed internazionale. Si è sempre discusso sul
turismo d’élite, che ha costituito le
basi di lancio dell’isola, e turismo di
massa, che ha creato a volte tendenze e posizioni contrastanti: chi preferiva salvaguardare essenzialmente
il primo, chi voleva (come poteva
sembrare giusto) aprirsi a tutti e tutti
accogliere per riempire gli alberghi
e le case private; si è discusso di turismo per cura e turismo da diporto,
dando però la preferenza alla circostanza di non fare mai scelte e di non
dare all’isola un suo volto specifico
e proprio, significando quella che si
voleva esprimere. Questo avrebbe
comportato anche qualche rinuncia
che forse poteva risultare vantaggiosa per altri aspetti.
Di problemi in tale tempo si è parlato poco, specialmente sul piano
operativo, tendendo più a distruggere che a preservare quanto c’era
o poteva esserci, secondo gli appassionati dell’isola, preferendo vivere,
come si dice comunemente, sugli
allori, e così mare, spiagge, paesaggi
sono stati trascurati nelle esigenze
che sempre si ponevano ed aumentavano, nonostante tutto. Anche i
servizi non hanno mai convinto gli
amministratori che bisognava intervenire in fatto di rinnovamento
e di realizzazione. O forse bisogna
parlare di interventi sbagliati? Tutti
hanno dato, per esempio, la preferenza ai porti, facendo in modo che
ciascun comune ne avesse uno, ma
sono venute meno alcune spiagge,
anche quelle che erano maggiormente frequentate; in tanti anni non
si è riusciti a creare adeguati impianti di depurazione delle acque, e ogni
volta si deve leggere sulla stampa di
mare inquinato.
L’isola vive oggi molti problemi che non si riescono a risolvere,
nell’indifferenza generale, con amministratori che cambiano bandiera continuamente e passano ora da
una parte, ora dall’altra, adducendo
come causa l'interesse (sempre!) del
paese, del popolo, ma invero di questi ultimi non si preoccupano affatto.
Foglie autunnali che il leggere zefiro
porta in giro, fino al loro definitivo
destino di cadere al suolo e coprire
brulle e sporche zolle!
Fare di Ischia un centro di cultura non è mai stato un obiettivo da
perseguire, nonostante che i nostri
luoghi siano espressione di notevoli
prerogative spirituali ed intellettuali;
le ricerche e gli studi di archeologia
hanno posto le condizioni fondamentali per sviluppare questa nuova
possibilità di un turismo prevalentemente culturale. Ma come si vorrebbe raggiungere e conquistare lo
sfruttamento (che brutta parola!) di
tale caratteristica? Pensiamo al fatto
che si ha il coraggio di tenere chiuso
il Museo di S. Restituta da mesi, alla
difficoltà del Comune d’Ischia di
creare delle condizioni giuste per la
vita della Biblioteca Antoniana, della Torre di Guevara o di Michelangelo, che dir si voglia, all’indifferenza
che circonda quella grande istituzione che è il Museo Archeologico di
Pithecusae a Villa Arbusto, ai tanti
problemi che investono gli istituti
scolastici di ciascun ordine, ad ogni
inizio di anno scolastico, compresi
i problemi dei trasporti marittimi e
terrestri! Stupisce che si dica a volte
di voler fare turismo culturale con
questa o quella manifestazione, fatto
momentaneo ed occasionale che ben
presto viene dimenticato, e fa meraviglia soprattutto la circostanza che
ciò lo si dica con piena convinzione,
credendo che tutti plaudano finalmente ad amministratori efficienti.
Enzo Migliaccio, con la sua improvvisa scomparsa, lascia un grande vuoto
nell'isola d'Ischia, lui che è stato libraio sempre aggiornato, ma soprattutto un editore che ha ridato valore a
tanta parte della cultura isolana, con
la pubblicazione delle sue preziose
collane di libri.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
3
Un falso storico o solo confusione di conventi e di date
l’iniziale insediamento sull’Epomeo?
Il Monastero delle Clarisse o Cappuccinelle
sul Castello d’Ischia
II
Nel numero precedente (n. 4/2014) di questo periodico abbiamo pubblicato un primo servizio sul Diario
del Convento delle Clarisse Isclane, riguardante una
prima parte di una istituzione durata sull’isola dal 1575
al 1911. Detto diario risulta essere , come si legge sul
frontespizio, copia di atti “nuovamente in unum et miglior metodo uniti per industria ed ordine della Signora
Maria Battista Linfreschi, badessa del convento in data
del primo di febbraio 1715”. Leggendo l’istrumento di fondazione e il breve
pontificio di papa Gregorio XIII per la realizzazione
del monastero, ubicato sul Castello d’Ischia, da parte
di Beatrice della Quadra, oltre alcune considerazioni
di Onofrio Buonocore inserite tra le varie pagine, si
ProfessioneMonache
1575
1575
1575
1575
1575
1576
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1576
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1581
1582
è considerato strano il fatto che molti storici abbiano
sempre riferito di queste monache come si fossero insediate primamente sul monte Epomeo e poi trasferitesi sul Castello per l’impossibilità di sopportare il freddo del monte. Un interrogativo allora si è posto circa
un possibile falso storico, nel tempo ripreso e da tutti
riportato, o dell’esistenza di conventi e di fatti non ancora ritrovati e non ancora conosciuti sul piano storico.
In questa sede si annotano generalmente per ordine
tutte le moniche dalle prime che entrarono nel tempo
della fondatrice sin alle presenti con il giorno mese et
anno in cui fecero la santa professione al mar­gine sinistro e al margine destro i giorni, mesi et anni della loro
morte, secondo le indicazioni proprie del Diario.
Provenienza
Beatrice della Quadra fondatrice
Francesca Tricarico
Elena Albano
Elisabetta Bono
Caterina Cervera
Chiara Galliziana
Eugenia Borrello
Maria della Quadra
Vittoria Rancione
Maria Fortunata Girolamo
Angela de Barberis
Cornelia Martinez
Vittoria Griffo
Margarita Albano
1603 (14 settembre) Chiara Basso
1603 (14 settembre) Cecilia Basso
1608 (25 novembre) Dorodea Albano
1608 25 dicembre)
Agata Scotto
1608 (16 maggio)
Agnese Russo
1608 (15 dicembre)
Veronica Melloso
1608 (settembre)
Orsola Grimaldi
1613 (25 febbraio)
Cristina Ferraro
1616 Felice Palmiero
di Napoli
4 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Morte
Giugno 1632
Marzo 1617
17 Luglio 1626
Aprile 1627
10 Dicembre 1595
10 Luglio 1599
7 Settembre 1611
20 Luglio 1628
Aprile 1655
Marzo 1645
10 Luglio 1599
10 Luglio 1599
10 Febbraio 1615
18 Marzo 1649
19 Novembre 1642
1679
1665
26 Settembre 1660
13 Maggio 1648
16 Agosto 1648
23 Dicembre 1682
8 Dicembre 1665
ProfessioneMonache
1619 (25 giugno)
1619 (25 giugno)
1624 (12 agosto)
1658 (27 luglio)
1658 (27 luglio)
1612 (10 maggio)
1628 (12 ottobre)
1628 (12 ottobre)
1632 (6 settembre)
1634 (10 settembre)
1643 (8 ottobre)
1645 (10 giugno)
1646 (10 luglio) 1649 (1 maggio)
1649 (1 maggio)
1650 (6 giugno)
1651 (11 novembre)
1655 (10 giugno)
1655 (dicembre)
1659 (27 marzo)
1659 (27 marzo)
1669 (giugno)
1669 (10 agosto)
1669 (10 agosto)
1670 (28 dicembre)
1678 (21 dicembre)
1699 (3 ottobre)
1681 (23 aprile)
1681 (27 luglio)
1685 (27 febbraio)
1685 (1 maggio)
1685 (7 novembre)
1680 professò a luglio Provenienza
Vincenza Fiorillo
di Napoli
Anna Fiorillo
di Napoli
Giovanna Pesce
Elena Santillo
Colomba Santillo
Eugenia Imparò
di Napoli
Serafina Pagano
di Napoli
Maria Maddalena de Linfrischi
Lucia Miele
Cherubina Scherillo
di Napoli
Caterina Scherillo
di Napoli
Beatrice Melloso
Antonia Ferracuto
Livia Scotto
Antonia Amalfitano
Costanza Filiberto
di Milano
Maddalena Filiberto
di Milano
Paola Antonia Albano
Francesca Melloso
Maria Girolama d’Avalos
Vittoria de Franco
di Napoli
Elena Vitale
Paola Antonia Vitale
Cecilia Melloso
Teresa Esuperanzia Scherillo
Veronica Mele
Costanza Agnese
Eugenia D’Alessandro di Napoli
Chiara Melloso
Candida Scherillo
di Napoli
Serafina Gentile
di Serracapriola
Giacinta Salzano di Luna
Angelica Salzano di Luna
Teresa Mengo
Tommasa D'Estrada Castiglia
Angela Mele
Battista Di Linfreschi
Agata Mancuso
Cherubina d'Aveta
Francesca Canetti
Rosa Punzo
Maria Malfitano
1687 professò Giovanna Canetti
1689 professò Ludovica Bentovelli.
1694 professò 13 giugno Maddalena Linfreschi.
1704 professò Gabriela Linfreschi.
1706 professò 15 aprile Celeste Mengo.
1707 professò15 dicembre Girolama Linfreschi.
1707 morìai 16 di agostoGaetana Orta di Napoli.
1709 professò Veronica Calosirto.
1712 professarono
Candida e Esuperanzia
Gargiulo sorelle
Morte
1668
23 Dicembre 1682
18 Settembre 1659
1668
1668
5 Febbraio 1659
18 novembre 1666
15 agosto 1685
15 novembre 1689
19 giugno 1676
27 febbraio 1694
12 aprile 1700
5 marzo 1694
11 maggio 1633
1631
12 agosto 1632
1638
21 agosto 1642
2 maggio 1680
12 febbraio 1706
8 aprile 1700
2 febbraio 1706
21 dicembre 1713
25 maggio 1716
12 maggio 1703
12 aprile 1690
27 maggio 1691
5ottobre 1704
25 aprile 1728
1690
13 settembre 1733
2 febbraio 1720
22 agosto 1730
17 febbraio 1711
4 aprile 1750
28 dicembre 1733
11 giugno 1749
12 dicembre 1734
4 novembre 1751
19 novembre 1752
7 novembr1748
1715 professò
Teresa Menga,
passata di vita il 26 dicembre 1733 in odore di santità.
1716 professò Vittoria Bassi.
1717 professò Angelica Mancuso.
1717professò
Colomba Menga.
1722 professò Emanuela Canetti.
1728 professarono Nicoletta e Carmela
Linfreschi sorelle.
1730 professò Saveria Pinar.
1731 professò Angelica Pinar.
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5
1733 professò Diletta Gargiulo.
1734 professò Felice del Palazzo.
1736 professò
Chiara Manzi.
1742 professarono Serafina e Ludovica
Rotondi sorelle.
1745 professò Teresa Canetti.
1750 professò
Evangelista Gargiulo.
1750 professarono Giuseppa e Gaudiosa Coscinà.
1758 professò Raffaela Menga.
1758 professò
Teresa Menga e poi Rosa.
1773 professò 6 giugno Francesca Canetti.
1797 professò 19 settembre Angelica Agnese
1818 entrò 20 dicembre Clementina Branni e professò il 4 agosto 1822 col nome di Francesca.
1822 entrò 29 giugno Maddalena Brann. Professò
l’8 maggio 1826 col nome di Raffaela.
1827 entrò 10 giugno Anna Maria Rinaldi, professò
il 2 marzo del 1828 col nome di Maria Giuseppa
1829 entrò nel dì 4 febbraio Antonia Rinaldi; professò il 4 novembre del 1838 col nome di Michela.
1834 entrò il 4 settembre Carmela Scotti di Tonno;
professò con lo stesso nome Carmela il 3 aprile
1842.
1835 entrò ai 25 novembre Custoda Manzi di Casamicciola per conversa.
1839 entrò ai 26 di maggio per educanda Clorinda
Morioni.
1839 entrò ai 3 di marzo per educanda Giuseppa
Scotti di Tonno.
1839 entrò Luisa Monti della Comune di Casamicciola, alli 25 di settembre, si indossò l’abito ai 14 di
giugno 1840, professò alli 24 giugno del 1841 col
nome Maddalena.
1841 entrò il 27 maggio Raffaela D’Auria e professò col nome di Maria Crocifissa ai 27 novembre nel
1842.
1842 entròa 3 ottobre Antonia Rinaldi ; professò col
nome di Rosa il 9 giugno 1844.
1836 entrò il 3 giugno Francesca Patalano, professò
il 9 giugno del 1844 col nome di Filomena.
1839 entrò il 3 marzo Maria Giuseppa Scotti di Tonno, professò col nome di Teresa il 6 febbraio 1845
(morì l’ultima il giorno 21 giugno 1911)
1857 entrò il 10 agoaro Lucia Patalano. Si vestì religiosa col nome di Chiara il 3 febbraio 1873, professò il primo giugno 1874.
1859 entrò il 26 luglio Emilia Tirabella. La stessa
Tirabella se ne uscì dal Monastero il 20 luglio 1872.
1860 entrò il primo di giugno Maria Anna Sersale
Monica di casa Teresiana. La suddetta Sersale se ne
uscì dal Monistero il 23 maggio 1864.
Marianna Cenatiempo entrò in Monistero il dì 11
giugno 1679 e se ne uscì il dì 10 agosto 1686.
Nelle storie e nelle guide relative al Castello d’Ischia
si fa sempre riferimento al cosiddetto cimitero delle
monache con relative fotografie, formato da locali con
sedili di pietra addossati alle pareti. Qui erano posti in
posizione seduta i cadaveri delle suore (seggi-scolatoi); i prodotti della decomposizione venivano scaricati
mediante un colatoio con foro di scolo alla base.
Detta pratica era in genere variamente diffusa in varie regioni. Si legge sul sito di wikipedia1:
Il putridarium è un ambiente funerario “provvisorio”, in genere sotterraneo (tipicamente, una cripta sotto il pavimento delle chiese), in cui i cadaveri dei frati
(o delle monache) defunti venivano collocati entro nicchie lungo le pareti, seduti su appositi sedili-colatoio
in muratura, ciascuno munito di un ampio foro centrale
e di un vaso sottostante per il deflusso e la raccolta dei
liquidi cadaverici e dei resti in via di decomposizione. Una volta terminato il processo di putrefazione dei
corpi, le ossa venivano raccolte, lavate e trasferite nella sepoltura definitiva dell’ossario. In alcuni casi sono
presenti delle mensole su cui venivano esposti i teschi
dei defunti.
Nel putridarium, il continuo modificarsi dell’aspet-
to esteriore del cadavere, che cedendo progressivamente le carni in disfacimento (l’elemento contaminante) si
avvicinava sempre più alla completa liberazione delle
ossa (simbolo della purezza), intendeva rappresentare
visivamente i vari stadi di dolorosa “purificazione” affrontati dall’anima del defunto nel suo viaggio verso
l’eternità, accompagnata dalle costanti preghiere di
confratelli o consorelle.
Ricollegabile per certi aspetti all’antica credenza
della “doppia morte” e alla pratica della “doppia sepoltura”, in Italia l’usanza dei putridaria si diffuse
principalmente nel meridione (sostanzialmente nel territorio del Regno delle Due Sicilie), dove questi luoghi
sono noti anche con il termine generico di “camere di
mummificazione”o, più nello specifico, come “colatoi
a seduta” (per distinguerli dai colatoi orizzontali) e, soprattutto nel napoletano, con il nome di “cantarelle”.
Ne esistono tuttavia esempi anche in altre regioni.
La pratica religiosa cominciò ad essere osteggiata
dalle autorità cattoliche ufficiali dopo il Concilio di
Trento (1563). Tuttavia, ancora nel Settecento e Ottocento, mentre l’inumazione andava sempre più diffondendosi tra le classi povere, per le élite privilegiate
laiche ed ecclesiastiche rimasero in uso, accanto alla
mummificazione, i colatoi per la decomposizione e
1 Sito wikipedia: it.wikipedia.org/wiki/Putridarium
6 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
scheletrizzazione dei cadaveri. Essi scomparvero solo
all’inizio del XX secolo, in seguito a una più rigorosa
applicazione delle norme igieniche e sanitarie.
dei morti, nel quale potrà essere ricordato, pregato, e
così via. Ma finché il morto resta in bilico fra i due
mondi, è visto come pericoloso.
Sul sito bizzarrobazar.com/tag/scolatoi abbiamo
trovato l’articolo che qui riportiamo in merito all’argomento di questi putridaria / cantarelle / o scolatoi
Così, per tracciare in maniera definitiva questo limite, nel Sud Italia e più specificamente a Napoli era in
uso (ed è in uso ancora, quando non si fa la cremazione, nde) fino a pochi decenni fa la cosiddetta doppia
sepoltura: il cadavere veniva seppellito per un periodo
di tempo (da sei mesi a ben più di un anno) e in seguito
riesumato.
“Dopo la riesumazione, la bara viene aperta
dagli addetti e si controlla che le ossa siano completamente disseccate. In questo caso lo scheletro viene
deposto su un tavolo apposito e i parenti, se vogliono,
danno una mano a liberarlo dai brandelli di abiti e da
eventuali residui della putrefazione; viene lavato prima con acqua e sapone e poi “disinfettato” con stracci
imbevuti di alcool che i parenti, “per essere sicuri che
la pulizia venga fatta accuratamente”, hanno pensato a
procurare assieme alla naftalina con cui si cosparge il
cadavere e al lenzuolo che verrà periodicamente cambiato e che fa da involucro al corpo del morto nella
sua nuova condizione. Quando lo scheletro è pulito lo
si può più facilmente trattare come un oggetto sacro
e può quindi essere avviato alla sua nuova casa – che
in genere si trova in un luogo lontano da quello della
prima sepoltura – con un rito di passaggio che in scala
ridotta […] riproduce quello del corteo funebre che accompagnò il morto alla tomba2”.
Facendo riferimento al nostro articolo sulla meditazione orientale asubha, un lettore di Bizzarro Bazar ci
ha segnalato un luogo particolarmente interessante: il
cosiddetto cimitero delle Monache a Napoli, nella
cripta del Castello Aragonese ad Ischia. In questo
ipogeo fin dal 1575 le suore dell’ordine delle Clarisse
deponevano le consorelle defunte su alcuni appositi sedili ricavati nella pietra, e dotati di un vaso. I cadaveri
venivano quindi fatti “scolare” su questi seggioloni, e
gli umori della decomposizione raccolti nel vaso sottostante. Lo scopo di questi sedili-scolatoi (chiamati
anche cantarelle in area campana) era proprio quello
di liberare ed essiccare le ossa tramite il deflusso dei
liquidi cadaverici e talvolta raggiungere una parziale
mummificazione, prima che i resti venissero effettivamente sepolti o conservati in un ossario; ma durante
il disgustoso e macabro processo le monache spesso
si recavano in meditazione e in preghiera proprio in
quella cripta, per esperire da vicino in modo inequivocabile la caducità della carne e la vanità dell’esistenza
terrena. Nonostante si trattasse comunque di un’epoca
in cui il contatto con la morte era molto più quotidiano
ed ordinario di quanto non lo sia oggi, ciò non toglie
che essere rinchiuse in un sotterraneo ad “ammirare”
la decadenza e i liquami mefitici della putrefazione per
ore non dev’essere stato facile per le monache.
Questa pratica della scolatura, per quanto possa sembrare strana, era diffusa un tempo in tutto il Mezzogiorno, e si ricollega alla peculiare tradizione della doppia
sepoltura.
L’elaborazione del lutto, si sa, è uno dei
momenti più codificati e importanti del vivere sociale.
Noi tutti sappiamo cosa significhi perdere una persona
cara, a livello personale, ma spesso dimentichiamo che
le esequie sono un fatto eminentemente sociale, prima
che individuale: si tratta di quello che in antropologia
viene definito “rito di passaggio”, così come le nascite,
le iniziazioni (che fanno uscire il ragazzo dall’infanzia
per essere accettato nella comunità degli adulti) e i matrimoni. La morte è intesa come una rottura nello status
sociale – un passaggio da una categoria ad un’altra. È
l’assegnazione dell’ultima denominazione, il nostro
cartellino identificativo finale, il “fu”.
Tra il momento della morte e quello della sepoltura
c’è un periodo in cui il defunto è ancora in uno stato
di passaggio; il funerale deve sancire la sua uscita dal
mondo dei vivi e la sua nuova appartenenza a quello
Le doppie esequie servivano a sancire definitivamente il passaggio all’aldilà, e a porre fine al periodo di
lutto. Con la seconda sepoltura il morto smetteva di
restare in una pericolosa posizione liminale, era morto
veramente, il suo passaggio era completo.
Scrive Francesco Pezzini: “la riesumazione dei resti
e la loro definitiva collocazione sono in stretta relazione metaforica con il cammino dell’anima: la realtà fisica del cadavere è specchio significante della natura
immateriale dell’anima; per questo motivo la salma
deve presentarsi completamente scheletrizzata, asciutta, ripulita dalle parte molli. Quando la metamorfosi
cadaverica, con il potere contaminante della morte significato dalle carni in disfacimento, si sarà risolta nella completa liberazione delle ossa, simbolo di purezza e durata, allora l’anima potrà dirsi definitivamente
approdata nell’aldilà: solo allora l’impurità del cadavere prenderà la forma del ‹‹caro estinto›› e un morto
pericoloso e contaminante i vivi si sarà trasformato in
un’anima pacificata da pregare in altarini domestici.
Viceversa, di defunti che riesumati presentassero ancora ampie porzioni di tessuti molli o ossa giudicate non
2 Robert Hertz, Contributo alla rappresentazione collettiva della
morte, 1907
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
7
Ischia - Castello Aragonese: Cimitero delle Clarisse, seggi-scolatoi
sufficientemente nette, di questi si dovrà rimandare il
rito di aggregazione al regno dei morti e presumere che
si tratti di ‹‹male morti››, anime che ancora vagano inquiete su questo mondo e per la cui liberazione si può
sperare reiterando il lavoro rituale che ne accompagni
il transito. La riesumazione-ricognizione delle ossa è
la fase conclusiva del lungo periodo di transizione del
defunto: i suoi esiti non sono scontati e l’atmosfera è
carica di ‹‹significati angoscianti››; ora si decide – in
relazione allo stato in cui si presentano i suoi resti – se
il morto è divenuto un’anima vicina a Dio, nella cui intercessione sarà possibile sperare e che accanto ai santi
troverà spazio nell’universo sacro popolare”.
Gli scolatoi (non soltanto in forma di sedili, ma anche orizzontali o molto spesso verticali) sono inoltre
collegati ad un’altra antica tradizione del meridione,
ossia quella delle terresante. Situate comunemente
sotto alcune chiese e talvolta negli stessi ipogei dove si
trovavano gli scolatoi, erano delle vasche o delle stanze senza pavimentazione in cui venivano seppelliti i
cadaveri, ricoperti di pochi centimetri di terra lasciata
smossa. Era d’uso, fino al ‘700, officiare anche particolari messe nei luoghi che ospitavano le terresante,
e non di rado i fedeli passavano le mani sulla terra in
segno di contatto con il defunto.
Anche in questo caso
le ossa venivano recuperate dopo un certo periodo di
8 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
tempo: se una qualche mummificazione aveva avuto
luogo, e le parti molli erano tutte o in parte incorrotte, le spoglie erano ritenute in un certo senso sacre o
miracolose. Le terresante, nonostante si trovassero nei
sotterranei all’interno delle chiese, erano comunemente gestite dalle confraternite laiche.
La cosa curiosa è che la doppia sepoltura non è appannaggio esclusivo del Sud Italia, ma si ritrova diffusa (con qualche ovvia variazione) ai quattro angoli
del pianeta: in gran parte del Sud Est asiatico, nell’antico Messico (come dimostrano recenti ritrovamenti)
e soprattutto in Oceania, dove è praticata tutt’oggi. Le
modalità sono pressoché le medesime delle doppie
esequie campane – sono i parenti stretti che hanno il
compito di ripulire le ossa del caro estinto, e la seconda
sepoltura avviene in luogo differente da quello della
prima, proprio per marcare il carattere definitivo di
questa inumazione.
Se volete approfondire ecco un eccellente studio di
Francesco Pezzini sulle doppie esequie e la scolatura
nell’Italia meridionale; un altro studio di A. Fornaciari,
V. Giuffra e F. Pezzini si concentra più in particolare
sui processi di tanametamorfosi e mummificazione in
Sicilia.
*
Nuove risposte e qualche sorpresa
La Torre di Guevara
IV
di Rosario de Laurentiis
Siamo giunti al quarto appuntamento relativo ai disegni
trovati alla Torre Guevara nel corso della campagna di restauri di quest’anno. Restano ancora molti interrogativi (e
forse il primo è “quando finirò di rompere le scatole con
questo argomento?”). Iniziano anche ad emergere alcune
risposte (ma non quella al quesito appena proposto...)
Volendo fare una lista delle cose di cui parlare oggi,
possiamo compilare scherzosamente il seguente elenco:
- è spuntato fuori Guidone
- altro che Corleone o Casaldiprincipe
- il figlio di una cooperativa
- prolifici dopo morti
- follow the money
- per fatto personale
Tornando seri, vediamo di presentare il risultato delle
nostre ricerche senza forzare troppo la pazienza del lettore, ma prima consentitemi una piccola e pedante correzione. Sul numero precedente, per un refuso prodottosi
in sede di correzione di bozze, è stato indicato Pirro del
Balzo come duca di Verona invece che di Venosa: me ne
scuso con i lettori più attenti.
Guidone
La scena trovata al primo piano della Torre con il
“duce” di Bretagna che abbraccia suo figlio ha colpito
da subito la nostra curiosità, anche perché non vedevamo
alcun collegamento tra una famiglia spagnola ed una regione francese. Segnalai con il primo articolo che un proverbio medioevale spagnolo parlava dei Guevara come di
nobili venuti dalla Bretagna, e ricordai come nessun Guido fosse presente nella genealogia della casata. In Spagna
gli storici, sulla base di un manoscritto del 1671 e perciò
sconosciuto agli autori napoletani consultati dai Bovino,
parlavano di un leggendario cavaliere chiamato Sancho
Guillermo, parente dei duchi di Bretagna, che venne in
Navarra a combattere contro i mori.
Con la “prima puntata” di questo nostro ciclo avevo
detto che il nome “Sancho”, così tipicamente spagnolo,
doveva essere stato aggiunto dopo l’insediamento in Navarra, probabilmente per indicare una parentela che si era
venuta a formare con i Re di Pamplona. Ma Guillermo
era certamente la traduzione di un nome tipico di quei
Paesi che oggi chiamiamo Gran Bretagna o Francia.
Lo storico spagnolo Josè Luis Martìn (Reynos y con-
tados del norte) ricorda che, da Carlo Martello in poi,
i re franchi avevano cercato di proteggere i loro confini meridionali dal pericolo delle invasioni arabe. Carlo
Magno aveva collocato suoi fedeli nei feudi spagnoli che
andava conquistando: si trattava di fuoriusciti che si erano rifugiati nei territori franchi (come il basco Velasco,
appartenente alla famiglia Vela dalla quale provenivano
i Guevara) o conti franchi delle contee di confine (e tra
questi Guillermo di Tolosa). Questo Guillermo, che tanto
ci ricorda il Sancho Guillermo che in Spagna indicano
come mitico capostipite dei Guevara, dopo aver combattuto i mori si fece frate e fu fatto santo nel 1066. Perché
allora nella Torre di Ischia - invece che di questo Guillermo - si parla di un Guido, precisando che venne accolto
in Spagna con molti onori e diventò Conte di Ognate e
Signore di Alava?
Nel successivo articolo su La Rassegna d’Ischia avevo
azzardato una ipotesi molto ardita, che avrà fatto alzare gli occhi al cielo a qualche specialista della materia:
partendo dal fatto che “Guido” - in latino - era in italiano
Guidone, avevo ricordato che il nome Guy - tipicamente
franco - era nel medioevo tradotto in Wido o in Guidone.
E fin qui non c’erano obiezioni. Ricordavo che quel nome
era portato da un Guy de Nantes, signore della marca di
Bretagna in qualità di successore (figlio?) del paladino
Orlando (quello di Roncisvalle). Da questo Guy discendeva la famiglia dei Guidoni, e qualche generazione dopo
un membro di quella casata divenne re d’Italia ed imperatore del Sacro Romano Impero.
Insomma avevo detto che i Guevara vantavano parentele con Carlo Magno! Potrete capire la garbata diffidenza
di uno studioso spagnolo che ai Guevara aveva dedicato
molti saggi, che mi ha consigliato di cercare documenti a
sostegno di quanto dicevo. Ovviamente stiamo parlando
qui, non del fatto di ricercare conferme storiche di questa fantasiosa parentela (cosa del resto impossibile, anche
perché le discendenze illustri di molte famiglie venivano spesso create da genealogisti in vena di ossequiare il
ricco mecenate), bensì di cercare le prove del fatto che
il nome Guidone fosse stato annotato da qualche autore
qualificato e non fosse invece una invenzione di chi aveva
decorato la nostra torre.
E qualche cosa è emerso. Autori seicenteschi hanno citato la parentela con la casa reale di Francia ma a Malta,
dove un ramo dei Guevara si stabilì acquisendo anche
lì feudi e titoli - e ce ne fu anche uno di sovrano, Gran
Maestro dei Cavalieri di Malta -, troviamo un dettagliato
albero genealogico della famiglia. In un sito maltese - ripreso poi da altri siti anglosassoni - troviamo un affermaLa Rassegna d’Ischia n. 5/2014
9
zione molto impegnativa: “The De Guevara or Deguara
of spanish descent and nobility, descendants of Navarre,
Aragon and Castille Kings, ancestry can be trace to Charlemagne”.
Gli autori napoletani - che scrivevano a due secoli dalla venuta in Italia della famiglia - fanno anche loro riferimento ad un capostipite venuto dalla Bretagna. Carlo
De Lellis, che può essere considerato il più documentato
studioso della storia della nobiltà napoletana dell’epoca,
scriveva, nella prima metà del '600: “I Guevara, nella comune opinione (Mazzella e Contarino) vennero in Spagna
con un figlio di quei duchi (di Bretagna) nomato GUIDONE, detto il Gran Guerriero”. E troviamo un Guidon
Selvaggio tra i protagonisti dell’Orlando Furioso.
Ed ecco spiegato perché nella torre di Ischia si parla di
un Guido invece che di un Guillermo. De Lellis precisa
che la prova di questa provenienza è data dallo stemma
della famiglia che, nelle bande trasversali, ha delle piccole code di ermellino che sono proprie dei duchi di Bretagna (ancora oggi le code di ermellino sono nello stemma
della citta di Nantes). Guidone - dice De Lellis - venne
contro i mori e li cacciò da Ognate ai tempi del Conte
Fernando Gonzales di Castiglia (morto nell’anno 970).
Come molti altri autori, De Lellis considera i Guevara ed i D’Avalos come appartenenti alla stessa famiglia,
ed infatti nel capitolo dedicato ai primi inizia dai secondi
(anche la genealogia maltese inizia con gli antenati dei
D’Avalos e solo dal 1400 continua con i Guevara...).
Per De Lellis, i D’Avalos discendono da un Guillermo
(un altro!) Avalon della casa reale inglese, venuto in Spagna nell’anno 901. Per capirci: stiamo parlando di Avalon,
l’isola leggendaria dove c’era re Artù e la tavola rotonda.
Se questo non bastasse, ricorda anche che un altro autore (Filiberto Contarino) sostiene invece che discendano
dal console romano Attilio Regolo, mentre il procidano
Scipione Mazzella si limitava a riferire che l’imperatore
bizantino Alessio Comneno nel 1081 acconsentì al matrimonio di sua sorella con un D’Avalos perché questa
famiglia discendeva dal Pelide Achille. “Ma mi faccia il
piacere!” avrebbe a tal punto esclamato Totò, che vantava la parentela con quello stesso imperatore Comneno.
Gli stemmi testimoniano stragi feroci
Lo stemma dei Guevara ci fornisce una serie di indicazioni interessanti, che fanno riferimento anche a lotte
selvagge che insanguinarono i Paesi Baschi con ferocia
paragonabile agli odierni delitti di mafia o camorra. Ma
andiamo per ordine e partiamo dall’antico.
Lo stemma originario dei Guevara era costituito da
“bande d’argento filettate di nero” con le piccole code di
ermellino che, come abbiamo detto sopra, testimoniavano
la provenienza dalla Bretagna. Questo stemma è riprodotto sugli stendardi dei cavalieri che attendono Guidone per
andare in Spagna (nel disegno relativo al Dux Britanniae
e a Guido, ducis filius).
10 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Successivamente lo stemma fu modificato, come vediamo all’ingresso della sala del primo piano. I colori
originari rimasero nel primo e quarto quarto dello scudo,
mentre il secondo ed il terzo contenevano cinque foglie di
pioppo.
Il sito della nobiltà napoletana riporta che queste foglie
sono il simbolo dei Suardo. E non è vero, perché lo stemma è diverso e perché la famiglia Suardo si congiunse alla
famiglia Guevara solo nel ‘700. Il genealogista seicentesco Mazzella sostiene che quelli sono i colori dei Mendoza. Ma nemmeno questo è vero ed i Mendoza hanno uno
scudo differente.
I Guevara hanno “inquartato” - intorno al 1050 - i colori dei Gamboa, caratterizzati dalle foglie d’albero. Questa è un’ulteriore conferma del fatto che lo stendardo di
Guidone si riferiva a un periodo precedente, anche se i
personaggi indossavano vestiti rinascimentali.
Gamboa ci ricorda un episodio che scatenò tre secoli di
lotte feroci in quel paese, anche se a noi fa venire da ridere. La storia - raccontata nel quindicesimo secolo da Lope
Garcia de Salazar - è questa: il primo di maggio le confraternite religiose portavano enormi ceri (come i “gigli”
di Nola) ad una chiesa di Alava. Come ci ha insegnato il
recente episodio dell’inchino della Madonna davanti alla
casa del boss calabrese, questi portatori non erano mansueti devoti ma dei bravacci attaccabrighe. Davanti stavano coloro che sarebbero stati chiamati Ognacini, dietro
i futuri Gamboini. All’inizio di una discesa, coloro che
stavano davanti - sui quali veniva a cadere il peso maggiore - chiesero a gran voce a quelli di dietro di abbassare
le braccia per riequilibrare il cero; gli altri insistettero a
portarle in alto. I primi gridavano in basco “Ognaz” (abbassa) e gli altri urlavano “Gamboa” (in alto). Iniziarono
violentissimi scontri con incendi ed attacchi alle case degli avversari. Essendo la regione contesa tra Castiglia e
Navarra, gli scontri proseguirono tra i diversi partiti: gli
Ognacini - tra i quali i Mendoza - per la Castiglia ed i
Gamboini per la Navarra, con i Guevara in prima fila.
I massacri durarono - nonostante le punizioni e gli esili
comminati dai vari tribunali - e si videro episodi di particolare crudeltà. Si racconta di un Guevara che uccise un
Mendoza e ne portò la testa nella piazza del mercato. Il
figlio del morto si recò da solo sotto il castello dei Guevara insultando a gran voce l’uccisore; questi - pazzo di
rabbia - montò a cavallo e si diresse a tutta velocità verso
l’avversario. Per la rabbia - o forse per uno scarto del cavallo - andò a sbattere con violenza contro la porta della
sua proprietà e rimase esanime a terra. Il Mendoza accorse e gli staccò la testa, che portò anche lui al mercato.
La cosa si calmò solo nel ‘400, ma i sovrani della Spagna unita lasciarono la regione sotto la diretta sovranità
dello stato, senza inquadrarla nella Castiglia o la Navarra,
fino al 1845.
Quando i Guevara vennero in Italia, il loro stemma,
come in Spagna, aveva i due quarti con le foglie di Gamboa ed è questo lo scudo che troviamo nella sala del primo
piano, che - non portando ancora lo scudetto di Bovino - è
databile a prima del 1575.
Passando a stemmi meno cruenti, ricordiamo che per
le scale della Torre abbiamo uno scudo che affianca alle
insegne dei Guevara (sulla sinistra, quindi per la famiglia
paterna) quelle che dovrebbero essere dei Tomacelli, per
la parte materna. Salvo errori, quindi, dovrebbe essere lo
stemma di Guevara de Guevara, figlio di Giovanni e di
Lucia Tomacelli; il che ci consente di datare quell’immagine - molto sbiadita - al secondo quarto del millecinquecento, cioè al periodo in cui questo cavaliere, morto nel
1550, era a capo della famiglia dei proprietari della torre.
Lo stemma che figura sotto la scena della battaglia di
Las Navas de Tolosa, come quello poi rubato che sovrastava l’ingresso della torre, ha uno scudetto sovrapposto
alle insegne di famiglia, a testimoniare l’avvenuta ratifica
imperiale (1575) dell’acquisto del ducato di Bovino, effettuato da Giovanni, marito di Isabella Frangipane della
Tolfa.
Sempre in tema di araldica va ricordato che il quarto
duca di Bovino, Carlo Antonio, sposa nel 1635 Placidia
Cybo Malaspina (discendente di Lucrezia Borgia). Il nonno di Placidia - Alberigo, principe di Massa e Marchese
di Carrara - aveva ottenuto dall’imperatore austriaco Rodolfo II il privilegio di inserire nel proprio scudo l’aquila
bicipite d’Asburgo. Poichè nella seconda sala della Torre
troviamo ai quattro angoli della volta delle aquile coronate a due teste - che non c’erano nei disegni di Vredeman
de Vries usati come modelli dai decoratori della torre possiamo pensare che siano state inserite per ricordare la
famiglia di Placidia, nuova duchessa di Bovino. Va però
riferito che il responsabile dei restauri della Torre prof.
Danzl, dell’Università di Dresda, ha presentato - il 24
luglio - le foto di affreschi del tutto analoghi a quelli di
Ischia, trovati in un castello della Sassonia. Su questo ci
riserviamo di proporre qualche osservazione con la prossima “puntata”.
Di chi era figlio il Marchese del Vasto?
Mentre le notizie sui Guevara ed i Dàvalos sono abbastanza chiare per quanto riguarda i secoli precedenti,
quando si arriva al quindicesimo secolo, che è quello che
più ci interessa perché è il momento in cui dalla Spagna
si passa all’Italia, tutto diventa molto complicato e le evidenze spagnole, quelle italiane e quelle maltesi diventano
assolutamente inconciliabili, tanto da farci dire scherzosamente che forse il primo marchese del Vasto era figlio
“di una cooperativa”.
Nella “puntata precedente” avevo ricordato i 4 cavalieri
che vennero in Italia con re Alfonso d’Aragona.
I quattro si chiamavano D’Avalos e Guevara ma appartenevano alla stessa famiglia: Pedro Velez de Guevara si
era sposato - in seconde nozze - con Costanza di Tovar.
Questa, dopo la morte del Guevara, si era risposata con il
“buon conestabile di Castiglia” Ruy Lopez Dàvalos, che
era anche suo cognato, perché in seconde nozze aveva
sposato Elvira Guevara. Tutti quanti avevano fatto figli
e probabilmente c’erano anche giovanotti generati al di
fuori dei matrimoni.
Di chi era figlio Ignigo Guevara, conte di Ariano, Apici,
Potenza, Marchese del Vasto, Gran Siniscalco del regno
di Napoli, Cavaliere dell’Ermellino e del Toson d’Oro?
Non lo sappiamo con precisione. Confrontando le fonti
antiche (Garibay, Lopez de Haro, De Lellis, Mazzella) e
quelle moderne (Kvirkveliya, Aguinagalde, Belli) troviamo risposte differenti. Poteva essere figlio di un Guevara
(Pedro, Pero o Beltran) o di un Dàvalos (Ruy o Beltran).
La madre poteva essere la prima moglie di Pedro, Isabella di Castiglia, o la seconda moglie di Ruy, Elvira de
Guevara, o ancora - ed è l’opinione prevalente - la moglie
di entrambi, Costanza de Tovar. Se era figlio di quest’ultima, è possibile (ma è una mia malignità) che nemmeno
la madre sapesse esattamente chi fosse il padre, visto che
Costanza sposò suo cognato Ruy Lòpez Dàvalos pochi
giorni dopo la morte del primo marito.
Anche se l’ipotesi più accreditata è quella della coppia Guevara-Tovar, non mancano altri che lo ritengono
figlio di Ruy Lopez e di Elvira Guevara, sorella di Pedro.
Questa ipotesi è sostenuta dal miglior genealogista napoletano del ‘600 (Carlo De Lellis) che così spiega perché
il figlio di un Dàvalos portasse il cognome di Guevara:
i cavalieri “che - all’uso di Spagna - lasciato il proprio
cognome, e cognominati assolutamente dal quarto averno di Guevara, vennero col Re Alfonso e Ignigo fu fatto
marchese del Vasto...”
Gioca a favore di questa tesi anche l’opinione di Lopez
de Haro, che parla di figli di un sol padre e due madri, ed
il fatto che Ignigo si comportasse come il maggiore dei
suoi fratelli, acquisendo per primo i vari titoli ed in parte
poi cedendoli ai suoi congiunti. Sembra però strano che
- sia pure da madri diverse - Ruy Lopez avesse due figli
chiamati entrambi Ignigo, Guevara il primo, Dàvalos il
secondo.
La ricerca di onori e ricchezze da parte di Ignigo Guevara (che ricordava la miseria che aveva patito nella casa
di Ruy Lopez e Costanza di Tovar quando “il buon conestabile” cadde in disgrazia e fu esiliato) è documentata
dalla velocità con la quale la famiglia si è arricchita dopo
la venuta in Italia, tanto da generare malumori nei nobili
napoletani ed in particolare nella famiglia Caldora, che si
vide sottrarre feudi e proventi da parte di quello che definivano “un barbaro sconosciuto” (Treccani, dizionario
biografico)
Con Ignigo Guevara partecipò alla spedizione del 1432
del re Alfonso “il Magnanimo” anche - giovanissimo:
“ancora paggio” - Ignigo D’Avalos (si noti il cambio di
grafia rispetto all’originario Dàvalos) che il re beneficiò
poi facendolo sposare ad Antonella d’Aquino marchesa
di Pescara e dandogli numerosi altri titoli. La famiglia
d’Avalos ha avuto un ruolo importante nella storia, oscurando i consanguinei Guevara.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
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Abbiamo in una precedente occasione ricordato che
Ignigo Guevara (da cui discendono i Conti di Potenza)
non risulta avere collegamenti diretti con i Guevara che
risiedettero sulla nostra isola, pur avendola probabilmente visitata al seguito di Re Alfonso, che per le nostre terre
ebbe una particolare attenzione. Come ricorda - con indignazione - Giuseppe d’Ascia nella sua “Storia dell’isola
d’Ischia”- Re Alfonso insediò sul castello una guarnigione di 300 soldati (catalani ed aragonesi) e li fece sposare
con le donne di cui aveva esiliato i mariti ed i padri; nominò poi la sua amante Lucrezia d’Alagno governatrice
di Ischia.
Spuntano sempre nuovi figli
Ma torniamo ai 4 cavalieri. Con i due Ignigo dovrebbero essere arrivati anche Ferrante e Alfonso. De Lellis specifica che si trattava di “fratelli carnali” di Ignigo Guevara. Per Croce - invece - erano Ignigo e Ferrante Guevara
e Ignigo e Alfonso d’Avalos.
Poichè nelle cronache del Muratori si trovano fonti del
1467 che parlano di Ferrante e Alfonso de Giovara (e la
famiglia Giovara è peraltro ancora esistente) rispettivamente conti di Belcastro e di Archi, dobbiamo pensare
che o c’erano - oltre ai due Ignigo- anche due Alfonso
o - ed è più probabile - che la stessa persona venisse indicata a volte con il cognome del padre (D’Avalos) ed altre
con quello della madre (Guevara). Certo è che di Alfonso
Guevara e Alfonso d’Avalos si sa pochissimo e non ci
sono figli.
Più notizie si hanno invece di Ferrante, definito dai
contemporanei come giovane dai vestiti strani, di animo
inquieto, introverso e turbolento. Non si sposò nè ebbe
figli. Benedetto Croce dice: “Ferrante Guevara, dopo
aver girato il mondo in cerca di avventure, e dopo aver
combattuto in Germania, divenne conte di Belcastro...
passò il resto della sua vita in Napoli, dove morì in tarda età”. Delle sue avventure come “cavaliere errante “ si
parla addirittura nel Don Chisciotte di Cervantes. Amante
degli studi, gran poeta, è ricordato dal Gareth come il “bel
Ferrando, ai re non ineguale in majestate”. La contea di
Belcastro tornò alla corona alla morte del conte.
I Maltesi
Dobbiamo ora occuparci dei maltesi: la “descrizione di
Malta del commendatore Abela” del 1647 riporta che i
Guevara di Malta discendono dai conti di Ariano, perché
re Alfonso cedette dei feudi in quelle isole ad un Diego
Guevara, conte di Ariano, morto poi intorno al 1461. Si
specifica però che quel Diego potrebbe essere anche letto come “Ineco” (Ignigo); il che collocherebbe questa
vendita tra il 1440, anno in cui Ignigo Guevara diventò
conte di Ariano, ed il 1444, che è il momento in cui Ignigo doveva essere chiamato Marchese del Vasto. Questo
però complica un po’ le cose: se si trattava veramente di
quell’Ignigo, bisogna dire che della fiorentissima discen12 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
denza maltese non vi sono tracce nelle genealogie italiane
e men che meno in quelle spagnole; se invece il nome era
proprio Diego, allora sarebbe sbagliata l’indicazione di
conte di Ariano e resterebbe il problema di sapere di chi
era figlio questo Diego.
A Malta, e più in generale negli scritti anglosassoni,
si risolve il problema considerandolo un figlio di Ruy
Dàvalos e Costanza de Tovar. Poichè questa operazione
viene fatta ogni volta che non si sa esattamente chi fosse
un Guevara o un Dàvalos, dobbiamo dedurre che questa
coppia è stata molto prolifica, soprattutto post mortem!
Ci sono altri Guevara venuti a Napoli? Certamente, ma
non sono parenti stretti dei Guevara italiani. Si tratta del
cardinale Pedro Pacheco Làdron de Guevara (vicerè dal
1553 al 1555), del vescovo di Badajoz don Juan Beltran
Guevara (presidente del consiglio di stato dal 1613 al
1615, poi promosso arcivescovo di Santiago), e di don
Ignigo Vèlez de Guevara y Taxis, ottavo conte di Ognate
(vicerè dal 1648 al 1653) che combattè contro i francesi
riconquistando Ischia e Nisida; combattè anche contro
una congiura di nobili facendo arrestare e condannare
Andrea D’Avalos che si era schierato con i ribelli capeggiati dai Pignatelli. Il fratello di questo Ignigo – don Beltran - fu a sua volta vicerè in Sardegna.
Avendo accennato ad un Guevara (sia pure di Spagna)
che fa arrestare un D’Avalos possiamo ricordare un episodio - più grave - che riguarda due diretti discendenti dei
due Ignigo venuti dalla Spagna: si tratta di un D’Avalos
marchese di Pescara che uccide un Guevara, figlio del
Conte di Potenza e Gran Siniscalco del Regno di Napoli. Dovette intervenire l’Imperatore Carlo V per mettere
pace ed imporre un matrimonio tra le due casate (ma Beatrice D’Avalos, divenuta contessa di Potenza, morì subito
di parto...)
A questo punto però, visto che andiamo cercando gli
antenati dei signori della Torre di Ischia ed avendo precisato che essi non discendono dai 4 cavalieri venuti nel
1432, dobbiamo allargare le nostre indagini.
De Lellis - citando questi quattro - aggiunge: “e poco
dopo li raggiunse Guevara de Guevara, fratello (perché
figlio di Pietro) o nipote (perché figlio di uno rimasto in
Spagna) dei quattro e da questo discendono i marchesi di
Arpaia e i duchi di Bovino”.
Il Mazzella ricorda che Pedro (primo figlio di Ignigo
Guevara marchese del Vasto) fu cavaliere dell’ermellino “insieme agli zii Ferrante conte di Belcastro, Alfonso
conte d’Archi e (!) a Guevara de Guevara, signore di
Arpaia”.
Esteban de Garibay sostiene che questo Guevara de
Guevara è figlio o nipote di Ruy Dàvalos ed Elvira Guevara. Sarebbero loro quindi gli antenati dei duchi di Bovino e - per altra linea - dei nobili di Malta.
Seguiamo la storia dei feudi
Per capirci qualcosa, abbandoniamo le complicazioni
genealogiche e - per individuare i proprietari della torre
Giovanni ed Apici al figlio Ignigo (questa ultima linea si
estingue e la contea di Apici passa probabilmente a successori di altro cognome).
Giovanni conte di Potenza e Gran Siniscalco sposa Altobella da Capua ed il suo primo figlio viene ucciso da Alfonso d’Avalos marchese del Vasto. La contea di Potenza
passa al figlio Carlo e poi al nipote Alfonso (che Carlo
V fa sposare con Beatrice d’Avalos per pacificare le due
famiglie; morta questa, sposa Beatrice di Lannoi che gli
dà l’erede, chiamato anche lui Alfonso).
Alfonso, sesto conte di Potenza, sposa Isabella Gesualdo (parente di San Carlo Borromeo, fratello di sua
nonna). Hanno solo figlie femmine e quindi la contea di
Potenza passa ad eredi di altra famiglia. In conclusione,
i duchi di Bovino non discendono da Ignigo Guevara primo marchese del Vasto.
3) Ma questo marchese aveva altre proprietà: Abbiamo
parlato delle proprietà maltesi, che vanno ad un Giovanni
(figlio di quel Diego che forse era lo stesso Ignigo; in ogni
caso non conosciamo la madre) capostipite della linea
maltese. Anche questa discendenza non riguarda i nostri
duchi.
Ischia - Torre Guevara
altrimenti detta anche o di S. Anna o di Michelangelo
- facciamo una ricerca sui feudi, visto che le proprietà
sono più facilmente rintracciabili e ci aiutano a capire le
complesse parentele che emergono dalle fonti storiche;
per dirla alla americana: let’s follow the money.
Abbiamo già detto che non ci sono eredi o successori
di Ferrante e Alfonso de Guevara. Vediamo ora di seguire
le proprietà di Ignigo che, durante la prigionia con il re
Alfonso, riceve la promessa di tutti i beni di proprietà di
Francesco Sforza e Michelotto Attendolo. Al momento
questa donazione - fatta da un prigioniero ad un altro prigioniero e riguardante i feudi dei loro nemici - sembrava
un po’ velleitaria, eppure venne realizzata: nel 1440 Ignigo ricevette le contee di Ariano ed Apici - tolte allo Sforza
- nel 1442 gli fu data la contea di Potenza (tolta all’Attendolo) e nel 1444 diventò Gran Siniscalco e Marchese del
Vasto; non bastandogli tutto ciò, l’anno dopo comprò i
feudi di Greci, Savignano e Buonalbergo. Vediamo allora
a chi passano tutti questi beni:
1) La carica di Gran Siniscalco, il Marchesato del Vasto e la contea di Ariano spettano al primo figlio Pietro.
Come abbiamo ricordato in altra occasione, Pietro partecipa alla congiura dei baroni e perde tutte le sue proprietà,
che tornano alla corona. Dalla moglie Isotta del Balzo ha
solo figlie femmine e quindi possiamo abbandonare questa discendenza.
2) Ignigo lascia all’altro figlio Antonio le contee di Potenza e di Apici. Antonio sarà vicerè di Napoli e marito di
Caterina d’Aragona. A sua volta lascia Potenza al figlio
4) Tra le proprietà di Ignigo avevamo elencato anche i
feudi di Greci, Savignano, Buonalbergo. Che fine hanno
fatto? Sono stati donati a quel Guevara de Guevara di cui
non sappiamo assolutamente la paternità. Sia De Lellis
che Scipione Mazzella si limitano a dire che arrivò successivamente ai quattro cavalieri che accompagnavano re
Alfonso e pensano che sia un fratello del marchese Ignigo
oppure il figlio di un suo fratello rimasto in Spagna. Certo
è che, quando Ignigo era Gran Siniscalco, lo fece nominare Cavaliere dell’ermellino come lo era lui stesso ed i
suoi fratelli conti di Belcastro e di Archi. Non vi pare un
po’ troppo per un nipote?
De Lellis e Mazzella scrivevano in un periodo in cui
la famiglia era potentissima, e si dovevano guardare la
pelle. Ma possiamo immaginare di tutto, anche che questo Guevara sia - come può esser stato anche nel caso
del maltese - un figlio naturale dello stesso Ignigo, che
gli avrebbe dato non solo il cognome ma anche il nome
della sua casata. Da questo cavaliere discendono i duchi
di Bovino. E vediamo come.
Guevara de Guevara sposa Margherita di Lagonessa (o
anche Leonessa) che gli porta in dote il feudo di Arpaia ed
ha due figli: Ignigo e Giovanni.
4a) Seguiamo prima la linea di Giovanni, signore di Savignano, che sposa Lucia (o Luciana) Tomacelli ed ha tre
maschi: del terzo, Tommaso, non risultano discendenti; il
secondo - Paolo - sposa Livia Carbone di Padula, nipote del Papa Paolo IV, ed ha una lunga discendenza, che
però non riguarda la nostra ricerca. Ci interessa invece
la linea del primogenito di Giovanni, che porta il nome
del nonno: Guevara di Guevara. È lui quello che mette il
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
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suo stemma (padre Guevara, madre Tomacelli) nelle scale della torre.
Guevara sposa Delfina Loffredo ed ha nove maschi ed
una femmina. Dei maschi - a parte il primo - non si conoscono discendenze salvo quella di Ferrante (padre di
Hieronimo) e Pietro, che ha nove figli ma nessun nipote.
Il primogenito di questo secondo Guevara de Guevara si
chiama Giovanni, come il nonno, ed è lui che diventa il
primo duca di Bovino.
Il Duca Giovanni sposa Isabella della Tolfa ed ha tre maschi e tre femmine. Di due di queste sorelle ci occuperemo nel paragrafo successivo. Dei maschi uno (Alfonso)
si fa prete, un altro (Ferrante) ha solo un figlio ma senza
eredi, ma il ducato spetta al primogenito Ignigo, secondo
duca di Bovino e Gran Siniscalco.
Ignigo, che sposa Porzia Carrafa figlia del duca d’Andria, dopo aver avuto ben undici figli prende i voti (e
meno male!) e diventa gesuita. Gli succede Giovanni,
terzo duca ed anche lui gran siniscalco, che prende in moglie Giulia Buoncompagno, figlia del duca di Sora. Ha
quattro figli e poi muore in Lombardia per le ferite riportate in combattimento.
Il suo primogenito Carlo Antonio, quarto duca di Bovino e gran siniscalco, diventa conte del suo feudo di Savignano ed in più compra Ariano, che era stato feudo del
primo marchese del Vasto e che era stato confiscato al di
lui figlio dopo la congiura dei Baroni. La moglie di questo
quarto duca è quella Placidia Cybo che ha nello stemma
l’aquila bicipite d’Asburgo che troviamo nella volta di
una stanza della torre.
La linea dei duchi di Bovino prosegue ed arriva fino al
momento in cui i titoli vengono aboliti per l’avvento della
Repubblica Italiana.
Per “fatto personale”
Sul precedente numero de La Rassegna d’Ischia avevo
ricordato che molti siti ischitani riportavano una frase del
tutto sbagliata: e cioè che un Francesco duca di Bovino
sarebbe stato nominato - alla fine del ‘400 - governatore
a vita di Ischia dall’imperatore Carlo V. Ciò è completamente sbagliato, perché nessun duca di Bovino si chiamava Francesco, il ducato era stato ottenuto solo nel 1575
e Carlo V alla fine del ‘400 non era ancora nato. Avrei
scritto anche che non era mai esistito un Francesco Guevara governatore a vita di Ischia, ma all’ultimo momento
ho cancellato questa frase.
E questo perché, stufo di occuparmi dei Guevara, mi
ero messo a fare qualche ricerca sulla famiglia di mia
madre. Avevo sempre saputo che i Palagano erano pugliesi, ma oltre questo non sapevo assolutamente niente.
Semmai avevo guardato un po’ la famiglia di mio padre,
perché conserviamo ancora un quaderno in cui tutti i capifamiglia, dal 1702, annotavano nascita e morte dei de
Laurentiis.
Leggendo Chevalley de Rivaz avevo trovato però un
14 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
accenno alle famiglie “nobili” di Ischia e avevo visto
elencato anche i Palagano, che pensavo avessero appreso
dell’esistenza della nostra isola solo quando mia madre
aveva conosciuto mio padre. E quello che emergeva andava solleticando la mia vanità (antichi nobili normanni,
signori di Trani nell’anno mille, etc.). Tra l’altro un Pietro
Palagano signore di Trani -consigliere della regina Giovanna II- era stato uno dei nobili che uccisero SerGianni
Caracciolo, favorendo così la successione di re Alfonso
d’Aragona al trono di Napoli; per quello stesso re era
stato anche comandante delle truppe che combatterono
contro gli Angioini, che lo presero prigioniero insieme
con il Principe di Taranto costringendolo a cedere il suo
feudo per aver salva la vita. Nel corso di queste ricerche
trovavo anche vari matrimoni di cavalieri Palagano con
dame dell’alta nobilità (tra i quali una Este e due sorelle
Guevara).
Ippolita e Costanza Guevara, figlie del primo duca di
Bovino, avevano sposato rispettivamente Goffredo (signore di San Vito dei Normanni) ed Ignigo Palagano.
Racconto questa storia perché Ippolita Guevara Palagano aveva avuto in dote il feudo d’Arpaia, che aveva poi
venduto a suo zio Francesco Guevara.
Abbiamo rintracciato dunque questo Francesco Guevara, marito di Aurelia Caracciolo, che nel 1577 acquistava la signoria di Arpaia. Suo figlio Giovanni sarebbe poi
diventato primo marchese di Arpaia. Ma da dove veniva
questo Francesco, governatore a vita di Ischia?
Torniamo al Guevara de Guevara venuto dalla Spagna
e sposato con Margherita Leonessa. Come abbiamo detto,
i suoi figli erano Giovanni signore di Savignano (di cui ci
siamo occupati - sub 4a - perché è il capostipite dei duchi
di Bovino) e Ignigo, signore di Buonalbergo e di Arpaia.
4b) Ignigo sposò Caterina Gesualdo, gli succedettero
nell'ordine: un altro Giovanni, poi ancora un Ignigo,
ed infine un Alfonso. Questo Alfonso, signore di
Buonalbergo e di Arpaia, è padre di nove figli e tra questi
c'è il Francesco, Governatore a vita di Ischia. Direi che
per il momento possiamo fermarci
Rosario de Laurentiis
Angelo Di Costanzo: Historia del Regno di Napoli
Esteban de Garibay: De los linajes vasconados contenidos en las Grandezas de Espana
Scipione Mazzella: Trattato dell'origine e divisamento
delle corone
Carlo De Lellis: Discorsi delle famiglie nobili del Regno
di Napoli
Giuseppe d'Ascia: Storia dell'isola d'Ischia
Benedetto Croce: La Spagna nella vita italiana del rinascimento
Olga Kvirkveliya: Bovino e Guevara in letteratura
Vincenzo Belli: La torre di Sant'Anna
F. Borja Aguinagalde: varie pubblicazioni su Archivio
Storico di Bilbao.
Note di don Camillo D'Ambra
Personaggi ischitani
Il dott. Luigi Mazzella
medico e, per 15 anni, sindaco d'Ischia
“La mia diletta città potrebbe benissimo fare a meno
di me, ma sono io che non posso fare a meno di essa,
perché l’amo”.
Questa frase del filosofo cinquecentesco Bernardino Telesio da Cosenza ben potrebbe porsi sulle labbra
dell’illustre medico, sindaco e politic ischitano, il Dott.
Luigi Mazzella. Egli infatti dedicò l’intera sua vita, e
mise a disposizione tutte le sue energie e il suo gran
cuore, perché i suoi concittadini fossero tutelati nei
sacrosanti diritti umani e fossero gratificati nelle loro
legittime aspirazioni alla promozione civile, culturale
ed economica del paese. La strada principale del centro
storico d’Ischia è a lui dedicata, ma non tutti si rendono
conto dell’importanza del personaggio, che è unico e
non facilmente ripetibile, anche se reca un nome e un
cognome molto diffusi a Ischia.
Luigi Mazzella era figlio di Bonaventura e di Angela
Maria Califano e venne alla luce in Ischia nel giorno
di San Silvestro, cioè nell’ultimo giorno del 1829; al
battesimo gli furono imposti i nomi di Luigi, Enrico e
Silvestro.
Crebbe sotto l’amorevole cura dei suoi genitori in
una casa sita in Via dei Pescatori nel Borgo di Ischia.
La sua fu una famiglia modello. Dai suoi genitori ricevette la prima educazione e per tutta la vita si ispirò
a quei sani principi etici che vide concretizzati nella
condotta dei genitori. Gli anni dell’infanzia non furono
facili perché contrassegnati da non pochi momenti angosciosi. Basta ricordare l’epidemia di vaiolo del 1831
e quella ancora più nefasta del colera del 1837, per non
parlare delle turbolenze paventate dagli aderenti alle
associazioni settarie che allora erano in gran voga anche a Ischia.
Fin dagli anni delle scuole elementari, Luigi Mazzella rivelò una intelligenza spiccata e una saviezza
superiori alla sua età. Il maestro, che aveva una scolaresca numerosissima e che percepiva dal Comune (le
elementari allora non erano ancora statali) appena 80
ducati all’anno, si congratulava col signor Bonaventura Mazzella e lo esortava a far proseguire gli studi al
figlio Luigi, prevedendo che egli avrebbe fatto molta
strada. Erano ben pochi quelli che continuavano gli
studi dopo le elementari perché nell’isola non esisteva
nessun istituto superiore ad eccezione del Seminario.
Bonaventura Mazzella fu d’accordo con il maestro,
Il dott. Luigi Mazzella medico e, per 15 anni, sindaco d'Ischia (foto
tratta dal periodico "Ischia Mondo" n. 137 / Marzo 1988).
non si intimidì per il fatto che allora il Seminario d’Ischia non era a disposizione, in quanto ancora requisito
dal Governo, e non esitò a scrivere Luigi al Seminario
di Pozzuoli che allora godeva tanta buona stima per
il prestigio recatogli dal vescovo Carlo M. Rosini.
Quando nel 1844 fu riaperto il nostro Seminario, Luigi
optò per esso per gli studi liceali. Sia nel Seminario di
Pozzuoli che nel nostro, Luigi Mazzella si distinse per
gli ottimi voti riportati e per il suo primeggiare nelle
accademie filosofiche, pratiche e letterarie che allora
si tenevano in particolari occasioni ed ebbe modo di
accumulare medaglie al merito e ambiti attestati di benemerenza. Benché avesse grande stima per i sacerdoti, Mazzella non si sentiva la vocazione. Il suo ideale,
non meno nobile di quello sacerdotale, era quello di
alleviare le sofferenze, sanare le infermità, confortare i
malati, alleviandoli nel morale e affrettandone con appropriate cure la guarigione.
Lasciato il Seminario, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina di Napoli e si trasferì in questa città, per frequentare i corsi accademici, brillantemente coronati dalla
laurea e successivamente con la specializzazione in
ostetricia .
Negli anni dei suoi studi universitari il Mazzella visse tutte le vicissitudini politiche che determinarono la
fine del reame borbonico e l’annessione del Meridione
d’Italia al Regno di Savoia. Il Mazzella rimase ancora
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
15
a Napoli per qualche tempo dopo la laurea in chirurgia
e ostetricia come medico ordinario dell’istituto per malattie sifilitiche, poi tornò definitivamente in patria, ove
si dedicò all’esercizio della sua professione, riscuotendo tanta stima per la sua affabilità e il suo disinteresse
nonché per la sua non comune perizia nella scienza
medica. Non si pentì d’aver seguito la vocazione di
medico quando nel 1879 sperimentò sulla sua pelle il
contagio contratto al capezzale dei suoi assistiti. Durante le varie epidemie che afflissero il paese non si
risparmiò, sfidando il contagio. Sempre esercitò la professione come un dovere di coscienza.
Luigi Mazzella non si limitò all’esercizio della sua
professione, ma volle cimentarsi anche in politica ed
anche in questo campo, benché arduo ed infido, incontrò successo tanto che il 25 luglio 1865 entrò nel consesso dei consiglieri comunali, ed in quello stesso anno,
il 26 ottobre, assunse la carica di sindaco d’Ischia che
coprì con disinteresse ed equità per ben quindici anni.
Dal 1870 fece anche parte del Consiglio Provinciale
di Napoli. Nella sua doppia veste di sindaco del capoluogo isolano e di consigliere provinciale, Mazzella
porse il benvenuto al nuovo Vescovo d’Ischia Mons.
Francesco Di Nicola l’undici febbraio 1872, appena
sbarcato nel piazzale del Ponte d’Ischia dal piroscafo
“La Goletta”.
Esempio di onestà civica, Mazzella pose al servizio
del suo paese tutto il suo ingegno nell’intento di elevarne il tono, allora ancora alquanto scadente. Egli giustamente può considerarsi come il pioniere di quel salto
16 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
di qualità che l’isola avrebbe fatto negli anni successivi
grazie alla lungimiranza e alla sagacia di tanti isolani
impegnati nello sfruttamento delle ricchezze naturali
locali. Come sindaco di Ischia inaugurò con orgoglio
nel 1876 la Stazione balneo-climatico-militare che fu
allestita negli ambienti del palazzo reale e nel 1877
accolse insieme al vescovo Di Nicola le figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli che posero dimora nel
Palazzo Reale, e vi rimasero per circa 80 anni alimentando nella popolazione di Porto d’Ischia il senso di
solidarietà verso i meno fortunati. Realizzò non poche
opere pubbliche, come il tratto della strada che costeggia i cosiddetti pilastri, la strada detta di Ca’ Mormile a
Campagnano, l’arteria che unisce il centro storico con
Villa dei bagni, gettando le basi di quel meraviglioso
sviluppo che avrebbe poi avuto il territorio che va oggi
sotto il nome di Porto d’Ischia. Il primo tratto di questa strada, allargato e pavimentato con lastroni di pietra
vesuviana, cioè dal ponte aragonese alla piazza d’Ischia dominata dalla Croce. Un’altra opera meritoria
di risanamento per il centro storico fu la demolizione di
vecchie casupole, ormai fatiscenti e malsane esistenti
tra due vicoletti luridi e senza sole, creando così una
strada spaziosa ch’egli volle intitolare al Santo Patrono
d’Ischia, strada che per la sua ampiezza fu popolarmente denominata “piazza”.
Si deve ancora a questo benemerito primo cittadino
la costruzione dello Stabilimento termale del Comune, costruito su progetto e direzione dell’ing. Giuseppe Florio, proprio sulla sponda del porto, sfruttando,
a beneficio della popolazione e dei
forestieri, le acque medicamentose
delle sorgenti e dei fanghi di Fornello e Fontana.
Si collega al nome del sindaco Luigi Mazzella anche la realizzazione
del Cimitero comunale. Per lunghi
anni si era discusso sulla costruzione del cimitero, ma mai si era
raggiunto un accordo circa il luogo
dove avrebbe dovuto sorgere. Chi
lo voleva presso la Torre di S. Anna,
chi nella zona di Soronzano, chi
nello spazio allora esistente presso
la chiesa del Purgatorio, detta di S.
Pietro a Villa dei Bagni. Finalmente
fu deciso di costruirlo dove adesso
sta, nella Via Cartaromana, nei pressi della chiesa di S. Domenico.
La bontà e la sollecitudine nel soccorrere chi soffriva rifulse soprattutto in occasione dei terremoti del
1881 e 1883. Quel 4 marzo 1881,
quando avvenne il terremoto a Casamicciola, Luigi Mazzella si trovava
a Barano, dove si era recato per la
visita di alcuni suoi pazienti. Non
tornò neppure a casa per il pranzo,
ma corse subito a Casamicciola per
cercare di strappare alla morte chi
era rimasto sotto le macerie.
La stessa cosa fece all’alba del 29
luglio 1883, dopo il disastroso terremoto della sera precedente, insieme
con altri medici ischitani, tra i quali i
dottori Carlo e Giuseppe Calosirto e
nei giorni successivi si incontrò con
il Re Umberto I, con l’Arcivescovo
di Napoli Mons. Guglielmo Sanfelice, con l’onorevole Francesco
Genala, allora ministro dei Lavori
Pubblici, con l’onorevole Rocco de
Zerbi e con il Marchese Pasquale
Adinolfi. Presidente del Comitato
che subito fu formato per soccorrere
i sopravvissuti. In quella occasione
tutti i sindaci dell’isola furono solidai nell’aiutare le popolazioni colpite in modo più grave nella fascia
Casamicciola-Lacco-Forio.
Era ancora nella sua piena attività
il Mazzella, quando nell’anno seguente ci fu il dilagare dell’epidemia
colerica in tutto il napoletano; allora
invero egli manifestò ai suoi collaboratori la sua intenzione di lasciare
la vita pubblica. A chi lo esortava
a continuare egli rispose di sentirsi
stanco e di aver bisogno di riposo. Il
suo aspetto e l’età facevano sembrare assurda quella sua decisione; gli
amici insistettero perché desistesse
da quel proposito. Fu irremovibile.
Da buon clinico aveva diagnosticato
in sé un morbo incurabile che non rivelò a nessuno. Solo, si ritirò in casa,
dove lo assistette la sorella nubile M.
Antonietta, che aveva 35 anni ed era
ignara del male che il fratello volle
nascondere sino alla fine.
Dire che il Mazzella era un credente è dir poco. Egli era un cristiano convinto. L’educazione ricevuta
in famiglia e in seminario gli aveva
plasmato una coscienza così retta e
un cuore così traboccante di amore fraterno da far della sua vita una
testimonianza ammirevole di fede e
di carità e di tenera devozione alla
Madonna, in ossequio alla quale si
astenne ogni mercoledì e ogni sabato dalla carne, dal vino e dalla frutta.
Fu lungo e doloroso il suo calvario
ma, seppe mimetizzare la sua sofferenza che non lo si credeva malato,
tanto più che non fu costretto a stare a letto se non negli ultimi giorni
di vita. Si spense il 4 marzo 1886.
Grande fu il cordoglio per la scomparsa a soli 43 anni di un uomo sì
grande. Le esequie, che si svolsero
nella cattedrale il 5 marzo, il giorno
della festa del Santo Patrono, furono
imponenti e si riversò in Ischia una
folla strabocchevole venuta da più
parti dell’isola.
Camillo D’Ambra
Del medico Luigi Mazzella, divenuto sindaco nel 1869, Paolo Buchner nel
suo opuscolo “Storia degli stabilimenti termali di Porto d’Ischia” (1959),
scrive: «Uomo attivo e di larghe vedute, al quale il Comune deve la sua riconoscenza per molti riguardi. Non fa meraviglia che egli, persuaso anche come
medico dell’importanza delle due sorgenti di Fontana e Fornello, si adoperò
con tutto il suo impegno per un rimodernamento delle Terme, il cui progetto
fu curato dall’ing. Giuseppe Florio ed esso fu realizzato con una rapidità fino
allora insolita; dopo due anni, il nuovo stabilimento fu solennemente inaugurato il 26 giugno 1881; tenne il discorso inaugurale Eugenio Fazio, nuovo
direttore sanitario, il quale poi darà alle stampe l’opuscolo “Terme di Porto
d’Ischia”. Già alcune settimane prima, il 21 maggio, Luigi Mazzella aveva
emesso un proclama in cui rivolgeva alla popolazione esortazioni che oggi
sono non meno, anzi forse ancora più valide».
Il titolo del citato opuscolo di E. Fazio porta, per la prima volta,
secondo P. Buchner, il nome di “Porto d’Ischia” che poi è prevalso
su quello antico di “Villa de’ Bagni”, senza essere stato tuttavia mai
confermato da un decreto ufficiale.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
17
Forio
culla sacrale nella quale ho lasciato da sempre
la mia anima, il mio cuore e i miei pensieri!!
Spesso oggi, dopo il tramonto
scorgo nell’azzurro terso del cielo,
qui a Grugliasco dove io vivo, numerosi maestosi bianchi gabbiani,
volare da nord a sud, con ali distese, silenziosi ed in gruppo. Li scorgo e colgo in loro, nel loro sguardo
tanta mestizia e malinconia, poiché
sorvolano non le azzurro-cupoverdeggianti immense e maestose
distese marine ma le enormi distese
di montagne di discariche di rifiuti,
alla ricerca affannosa di un po’ di
maleodorante e nauseabondo cibo:
che squallore, quale atroce triste
nuova realtà!!! Nonostante tutto ciò
(squallore e tristezza) io sono e mi
sento orgoglioso di amare e rispettare la ‘mia’ Isola Verde, la ‘mia’
ancestrale Forio, culla sacrale nella
quale ho lasciato da sempre la mia
anima, il mio cuore e i miei pensieri!!! Non posso e non riuscirò mai a
dimenticare la "sua" (della mia Pithecusa) e la "mia" giovinezza, allorquando spensierati e speranzosi
di un mondo, il nostro mondo, migliore, ci trastullavamo con semplici
giochi, in simbiosi armoniosa con
tutta la sua, la nostra incontaminata,
naturale bellezza, formata da maestose pinete e colture verdeggianti:
flora multivariegata con multicolori
e fascinosi fiori pregni di profumi e
aromi, piccoli, graziosi e sorridenti
arenili, alcuni situati tra pendii verdeggianti e rocce calcaree di tufo,
scoscese a picco nel ‘mio’ azzurrocupoverdeggiante mare che avvolge tutto in un abbraccio ancestrale,
tutto avvinghiato con la nostra ingenua giovinezza di ‘amanti’ l’una
dell’altro. Tutto ciò non dimentichi
dell’intenso avvolgente profumo di
salsedine misto a quello di alghe che
ci dona, instancabilmente ed ininter18 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Forio - Veduta da P. Caruso
rottamente, il Dio Nettuno con la sua
multivariegata maestosa e avvolgente distesa marina, mirabilmente
incantevole con tutta la sua variegata flora e fauna, tutto adornato con
spumeggianti onde, createsi come
d’incanto dal mitico Eolo, con il suo
alito e sbuffo spesso inebrianti e ammalianti, tutto ciò contornato, adornato e attraversato dal volo di bianchi maestosi gabbiani che paiono
tessere nell’aere melodiosi e ritmici
voli, che oggi per noi giovanetti, colmano i nostri cuori di magnificenti
e perenni sconvolgenti sensazioni
ed emozioni che oggi, in una nuova,
ahimè negletta realtà, riaffiorano dal
nostro animo e dalla nostra mente,
prepotentemente, rivitalizzandoci,
con la memoria nostalgica (sic!) del
passato. Essi, i gabbiani, hanno oggi
lasciato, abbandonato, almeno in
parte, le ancestrali distese marine e
forse per carenza di cibo o per qualche arcaica misteriosa ragione si dirigono ad elemosinare un po’ di cibo,
in zone metropolitane, su discariche
maleodoranti, tra rifiuti di ogni tipo:
quale squallore (sic-ahimè)!!! Anche i mari e gli oceani, nella loro
immane vastità, si sono purtroppo,
gradatamente inquinati deteriorandosi, infatti non sono più come un
tempo blucupoverdeggianti, ed è
stata la causa della variazione degli
itinerari migratori, alla ricerca del
loro migliore habitat dei pesci, quindi di tutta la fauna non solo acquea
ma anche terrestre e il lento deterioramento pur della flora terracquea.
Oggi assistiamo purtroppo, impotenti ai mutamenti geofisici, che
coinvolgono direttamente non solo
l’atmosfera, nonché l’intero territorio mondiale, compresi il polo nord
ed il polo sud con i relativi ghiacciai,
ma anche l’intero sistema floristico
e faunistico, con la vita dell’uomo
colpevole in prima persona, da molti
decenni di tali sconvolgimenti.
Meditando su tutto ciò, giunge
spontaneo un auspicio, di un nuovo
costante impegno, fermo e deciso,
non solo da parte mia, per rinverdire gli ameni e dolci ricordi della
‘mia’ amatissima isola Aenaria con
il suo mitico monte che sovrasta Tifeo, ma di tutte le nazioni del globo,
per sigillare quel protocollo universale sull’ecosistema che ci impegna
a porre un freno al continuo decadimento ecologico, posizionando,
finalmente, quelle basi necessarie
ed indispensabili al conseguimento
di una ripresa universale, affinché
i ricordi nostalgici delle ancestrali
bellezze di un tempo, possano ridiventare realtà, e con l'impegno di
tutti (limitazione degli armamenti
nucleari, contenimento delle emissioni e formazioni di anidride carbonica, rispetto del territorio nella sua
globalità etc.), esaltare l’intera umanità!!..spero alfine rinsavita e risorta
a nuovi più rosei obiettivi e confini.
Con questo auspicio, intendo augurare a tutti, tesaurizzando le ‘rimembranze emozionali e riflessioni’
nuovi impegni e nuovi propositi nel
rispetto e a tutela dell’intera natura
terracquea.
Gaetano Ponzano
Da San Pietroburgo a Capri
il pittore Michele Ogranovitsch
Michele Ogranovitsch1 nacque il 5
luglio 1878 a San Pietroburgo, capitale dell’Impero Russo di allora, da
famiglia nobile discendente dai cavalieri di Lituania. Il padre, anche
egli Michele (Michail), uomo intransigente e valido medico, gli trasmise
il titolo di barone2. Sappiamo che
suo padre fu tra i primi medici che
fondarono stabilimenti di benessere
(sanatorij) nella splendida e calda
Crimea. La madre del futuro pittore
si chiamava Alevtina Jakovleva.
Ogranovitsch presto manifestò le
sue qualità nella città natale, alla
rinomata Scuola d’arte del barone
Stiglitz. Questa scuola insegnava
le cosiddette ‘arti applicate’, vale a
dire arti decorative. La ricerca negli
archivi della Scuola purtroppo non
ha portato alla luce alcun dossier del
giovane Ogranovitsch, però abbiamo trovato un album stampato con i
disegni dei migliori studenti e fra essi
del Nostro: l’artista presentò la bozza di una tavola e quella di una sedia
per la Direzione della Scuola, fatte
nello stile “neorinascimentale”3.
In un elenco dei laureati della
Scuola nel 1901 sotto il numero 102
è indicato il nome del Nostro con
la seguente frase: “al termine degli
studi nella classe di composizione è
stato insignito con il titolo di dise1 Secondo le regole slavistiche il suo nome
va scritto come Michail Ogranovič, ma noi
ci adattiamo all’autoscrittura del pittore.
2 Da notare però che nelle fonti russe il titolo
baronesco non risulta; non da escludere
che il pittore, emigrando dalla Russia,
si sia espropriato del titolo aristocratico
come succedeva nelle molte case dei russi
fuoriusciti.
3 Sbornik klassnych rabot učenikov
central’nogo
učiliša
techničeskogo
risovanija barona Štiglica za 1901 god
[Raccolta delle opere scolastiche della
Scuola centrale del disegno tecnico del
barone Stiglitz del 1901], Sankt-Peterburg
1904.
gnatore educato”. Le sue bozze per
i mobili della Scuola ebbero successo ed egli ricevette una borsa per un
“viaggio educativo” come premio.
Così l’esprit d’artista si evidenziò
nell’ambiente scolastico e non sfuggì al classico tour per l’Europa; fu il
Museo d’arte di Kiev (con il quale
ebbe rapporti a causa dei suoi frequenti viaggi in Crimea), ad invitarlo nel maggio del 1902 nelle capitali
d’arte: Praga, Vienna, Parigi, Venezia, Firenze, Roma. A Napoli fu
ospitato nel Palazzo Reale di Portici
e si applicò alla pittura di paesaggio
per alcuni mesi.
Attratto dalla fama di Capri, giunse sull’isola per una gita turistica e
prese alloggio in una stanza che affacciava sul porticciolo di Marina
Grande, dove si lasciava ispirare per
le sue pitture dai soggetti di marine.
L’albergo Belvedere & Tre Re diventò presto il suo atelier.
La passione della sua vita per la
pittura s’intrecciò con una nuova
passione: Laura Petagna, bella caprese dai capelli neri e figlia degli
albergatori. L’amore dei due venne
salutato con piacere anche dal parroco caprese De Nardis, ma dalla
madre Russia i nobili genitori protestarono sulle origini dell’amata Laura, coinvolgendo anche l’ambasciatore russo per il rimpatrio del figlio:
quest’ultimo, rivendicando la sua
maggiore età, si sposò il 17 maggio
1903.
La frattura con la famiglia sarà colmata con l’arrivo dei figli, Giuseppe,
nato nel 1905, e Gelsomina, nata nel
1910.
Proprio in questi anni, al seguito
dello sbarco sull’isola di Massimo
Gorkij, a Capri si era formata una
folta colonia di artisti russi, ma non
si verificarono contatti fra loro e
Ogranovitsch, che apparteneva agli
strati sociali assai diversi e certamente non condivideva con il circolo di Gorkij l’idee rivoluzionarie.
La passione per la pittura era sempre viva in lui, ma Ogranovitsch si
prodigava anche in altri impegni artistici per conto di musei russi ed iniziò a collaborare come scenografo
per il famosissimo Teatro Bolscioj.
A causa della Rivoluzione russa del
1917 venneroo a mancare questi
contatti, e si rivolse come scenografo al Teatro San Carlo di Napoli.
A Capri l’artista lavorò e dipinse per molti anni. Al Caffè Morgano, da donna Lucia, s’intratteneva
a volte con i connazionali presenti
sull’isola: a Capri ci furono dopo la
Rivoluzione diversi esuli che appartenevano alle famose casate russe
imperiali – i conti Sayn Vittgenstein,
i baroni von Uexküll, i baroni von
Rahden ecc. Come costoro, Ogranovitsch ebbe lo stesso destino, cioè
la vita abbastanza agevole prima del
1917 e poi, con le confische bolsceviche, la perdita dei beni e dei possedimenti. Ma a differenza di molti
esuli all’estero, cosi detti ‘russi bianchi’, Michele Ogranovitsch ebbe in
Italia una sua famiglia e un suo mestiere.
Operoso come litografo, Michele
Ogranovitsch ebbe buon successo
nella vendita dei suoi quadri nella
bottega d’arte di Emiddio Trama, e
nel 1929 la ‘Bottega di Decorazione’ ospitò una sua mostra personale4.
Per quest’ultima occasione furono
esposte l’opere: “Ulivi sul Castiglione”, “Monte Solaro”, “Il Porto
dall’alto”, “Paesaggio autunnale”,
“Vecchio Castello”, “La famiglia”;
4 Cfr. A. Schettino, Il pittore Michele
Ogranovitch alla ‘Bottega di decorazione’,
in “Mezzogiorno”, 21.11.1929
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
19
Capri - Quadri del pittore Ogranovitsch
Ogranovitsch è dunque un pittore
russo che vive da molti anni in Europa, ed è un pittore naturalmente... di
Capri, che riesce a dare grande forza ai suoi paesaggi e soggetti tipici
grazie ad una tavolozza inconsueta
ed una pennellata impressionista,
in cui emergeva la sua formazione neoclassica pietroburghese e la
sua cultura visiva svincolata dalle
scuole paesaggistiche napoletane. I
cadmi giallo e rosso, che un pittore
20 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
meno equilibrato potrebbe adoperare in senso pazzesco, in lui riescono
addirittura ad essere dinamici. Il suo
senso cromatico tendente al primitivismo, la sua caoticità di masse colorate e di materia pittorica si iscrivono di diritto in una visione del tutto particolare di un artista russo che
a Capri ha trovato il luogo ideale per
la sua arte e la sua felicità.
Il costante dialogo con il tessuto
cromatico durante i lavori di restau-
ro sulle opere di Michail Ogranovitsch5 ha favorito uno studio della
materia pittorica variamente stratificata e dosata tra le pennellate e le
spatolate dell’artista. Il momento
della scoperta dei tessuti cromatici,
grazie agli interventi di restauro nelle operazioni di pulitura ed eliminazione delle vernici ingiallite, regala
nei dipinti di Ogranovitsch varchi
luminosi che magnetizzano l’osservatore e lo trasportano con la mente
alla vita popolare della Capri di un
tempo6. Ogranovitsch ci attrae con
la sua espressione gestuale, ci coinvolge nello spessore materico modellato dal taglio della spatola e poi
strutturato in sconnesse piastrellature. Ci richiama ad una sintonia con
l’andamento delle forme costruite
per sovrapposizione, delineate con
tratti veloci. È una tavolozza multicolore dove, attraverso l’uso del
pennello e della spatola, si lavora
per aggiunte: una stesura che si frantuma su altri spessori di colore. I volumi, i chiaroscuri vengono quindi
trasformati dall’uso di colorimetrie
differenti: lì, dove c’è un rosso, c’è
sopra un guizzo di blu, poi un verde e così via, fino a quando l’autore
non trova la sua espressione. Queste
soluzioni pittoriche adottate notano
una certa novità nel campo consueto
del vedutismo a Capri.
Di fatto la pittura legata principalmente al rispetto ed alla valorizzazione della stesura pittorica sembra
non interessare più tanto il nostro
Ogranovitsch, attirato invece in un
percorso diverso arricchendo ed
impreziosendo l’aspetto materico e
quindi aumentando la plasticità delle
opere7.
5 Il lavori del restauro sono stati condotti da
Nabil Pulita con Bruno e Mario Tatafiore.
6 R. Guerrizio, Il barone Michele
Ogranovitsch amò e dipinse Capri, in
“Restauro. La Gazzetta dell’Antiquariato”,
1999, pp. 30-31.
7 Vedi anche A. Basilico Pisaturo, Pittori
a Capri, 1850-1950. Immagini, personaggi,
documenti. Capri, La Conchiglia 1997, pp.
213, 241.
La sua biografia non ha avuto episodi drammatici
a parte la mancanza della patria. In seguito, dopo la
Rivoluzione, Michele Ogranovitsch divenne, usando
la terminologia sovietica, un nevozrašenec (“uno che
non ritorna”), rifiutandosi di tornare tra i bolscevichi,
che avevano nazionalizzato il sanatorij di suo padre
in Crimea. Nella Russia sovietica la città natale di San
Pietroburgo diveniva Leningrado, il governo di Stalin
costruiva “il paradiso degli operai”, incluso il Gulag,
sterminava i rappresentanti dell’ancien régime, affrontava l’invasione hitleriana. Il pittore Ogranovitsch non
partecipava a tutti questi eventi epocali, come non partecipava all’opposizione al regime sovietico dalla parte
degli esuli. A lui era sufficiente trovare una sua nuova
piccola patria, l’isola di Capri, insieme con una felice
vita famigliare e una soddisfazione professionale. Il
secolo repressivo passò non toccando la sua tavolozza
dedicata ai paesaggi del Golfo e ai ritratti delle persone
care a lui.
Nella seconda guerra mondiale, durante il periodo
dell’occupazione alleata, Capri fu dichiarata un Rest
Camp per i reduci di guerra: Ogranovitsch non disdegnerà di disegnare sui giubbotti degli aviatori inglesi e
americani ritratti di volti di donne.
Muore a Capri l’11 ottobre 1945 e viene sepolto al
cimitero comunale. Proprio in quest’anno in Europa si
stabilisce un nuovo equilibrio fra l’Oriente e l’Occidente e il pittore riceve una formidabile consolidazione
in patria. Ma ormai Michele Ogranovitsch è diventato
non un russo ma un caprese.
Recentemente l’interesse per il patrimonio dell’artista è cresciuto. Sua figlia ha donato all’Associazione
Culturale “Achille Ciccaglione” (Centro Archivistico
Documentale) un quadro importantissimo del padre,
una veduta della Marina Grande. Dopo uno scrupoloso restauro di Bruno e Mario Tatafiore, con Nabil
Pulita, il quadro è diventato molto noto fra gli isolani.
La maggior parte delle opere sono conservate dai suoi
eredi presso l’albergo Belvedere & Tre Re. Sulla base
di questa collezione sono state organizzate due mostre
retrospettive personali del pittore, una nel 1989 a cura
dell’Associazione “Achille Ciccaglione” nella chiesa
del SS. Salvatore a Capri, e l'altra dall’Associazione
“Massimo Gorkij” presso la sua sede a Napoli nel
maggio di 2005.
Nabil Pulita, Michail Talalay
Di prossima pubblicazione un libro dello scrittore
napoletano Raffaele Bussi sul pittore russo Michele
Ogranovisch.
Capri - Quadri del pittore Ogranovitsch
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
21
EX-LIBRIS
Viaggio pittoresco a Napoli ed in Sicilia
di Jean Claude Richard di Sant-Non
Nuova edizione, tomo II, Parigi, 1829
Il nostro progetto che intende occuparsi, in questo capitolo, dei luoghi più celebri dei dintorni di Napoli, non può passare sotto silenzio
parecchie isole situate all’entrata del
golfo di questa città, le quali senza
dubbio hanno fatto una volta parte
della Campania. La loro posizione
molto vicina alla terra, la loro forma vulcanica, i loro bagni di acque
calde, tutto fa capire che queste isole sono state tutte altrettanti vulcani
attivi e che in epoche molto remote
sono state separate dalla Campania
a causa di qualche terremoto o di
qualcuno dei grandi sconvolgimenti
cui questo bel paese è stato esposto
da sempre.
Ischia - La più grande e la più
considerevole di queste isole è situata alla destra ed all’entrata del golfo
di Napoli, di fronte al promontorio
di Miseno, Ischia, l’Inarime o Pythecusa degli antichi, poiché essa
ha avuto diversi nomi nell’antichità;
soprattutto quello di Pythecusa che,
in greco, vuole dire scimmia, sembra
avere qualche rapporto con un vecchio culto che sarà potuto esistere in
quest’isola, sotto il simbolo di tale
animale, così come in Egitto, dove
era chiamato Cercopiteco.
Omero e Pindaro, nelle descrizioni
che hanno lasciato di questa isola,
dei suoi vulcani e delle sue frequenti
eruzioni, la chiamano Inarime. Altri
antichi autori hanno preteso, ma con
minore verosimiglianza, che sia stata la quantità di scimmie una volta
molto abbondanti, e che in lingua
etrusca si chiamavano arimi, a farle
dare siffatto nome. Infine, secondo
Voyage pittoresque à Naples et en Sicile
par Jean Claude Richard de Saint-Non
Nouvelle édition, tome II, Paris 1829
Notre projet étant de nous occuper, dans ce chapitre des
lieux les plus célèbres des environs de Naples, nous pouvons
d’autant moins passer sous silence plusieurs îles situées à
l’entrée du golfe de cette ville, qu’on ne saurait douter
qu’elles n’aient fait autrefois partie de la Campanie. Leur
situation très voisine des terres, leur forme volcanique, leurs
bains d’eaux chaudes, tout annonce que ces îles ont toutes
été autant de volcans allumés, et qu’à des époques très reculées, elles ont été séparées de la Campanie par quelque
tremblement de terre ou quelques unes de ces révolutions
formidables auxquelles ce beau pays a été exposé de tout
temps.
Ischia - La plus grande et la plus considérable de ces îles,
située à la droite et à l’entrée du golfe de Naples, du côté du
promontoire de Misène, Ischia, l’Inarime ou Pythecuse des
anciens, car elle a porté différens noms dans l’antiquité; celui de Pythecuse surtout, qui, en grec, veut dire singe, semble avoir quelque rapport avec un ancien culte qui aura pu
exister dans cette île, sous le symbole de cet animal, ainsi
qu’en Egypte, où il était appelé Cercopjtheque.
22 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
altri, portò ancora il nome di Enaria,
perché Enea, arrivando in Italia, vi
condusse la sua flotta e vi soggiornò
qualche tempo.
Il nome e l’origine dei primi abitanti dell’isola di Ischia non sono
certi. Strabone ci dice che furono gli
Éretriesi che, per primi, si stabilirono nell’isola, ma che i suoi vulcani
sempre attivi e le sue terribili eruzioni li costrinsero ad abbandonarla,
sicché l’isola restò deserta fin verso
l’anno 3540, quattrocentocinquant’
anni a. C., epoca in cui Gerone, re di
Siracusa, vi mandò inutilmente degli
operai per costruire e formarvi degli
insediamenti. Infine i Romani più
arditi se ne impossessarono, vi mandarono una colonia e la conservarono fino ad Augusto, che, essendosi
innamorato di Capri, la scambiò coi
Napoletani ai quali cedette l’isola di
Ischia.
Il suo circuito è di diciotto miglia;
nel mezzo dell’isola s’eleva una notevole montagna, un antico vulcano
chiamato Monte Epomeo, da molto
Homère et Pindare, dans les descriptions qu’ils ont laissées
de cette île, de ses volcans, et de ses fréquentes éruptions,
l’appellent Inarime. D’autres anciens auteurs ont prétendu,
mais avec moins de vraisemblance, que c’était la quantité de
singes, qui y étaient autrefois très abondants, et qu’en langue
étrusque on nommait arimi, qui lui avait fait donner ce nom.
Enfin, suivant d’autres, elle porta encore le nom d’Enaria,
parce qu’Enée, arrivant en Italie, y conduisit sa flotte, et y
séjourna quelque temps.
Le nom et l’origine des premiers habitants de l’île d’Ischia
ne sont pas plus certains. Strabon nous dit que ce furent les
Érétriens qui, les premiers, s’établirent dans cette île, mais
que ses volcans toujours allumés, et leurs terribles éruptions,
les ayant obligés d’en sortir, l’île resta déserte jusque vers
l’an 3540, quatre cent cinquante ans avant J.C, époque où
Hiéron, roi de Syracuse, y envoya aussi inutilement des
ouvriers pour y bâtir et y former des établissemens. Enfin
les Romains plus hardis s’en emparèrent, y envoyèrent une
colonie, et la conservèrent jusqu’à Auguste, qui, s’étant plu
à Caprée, en fit l’échange avec les Napolitains, auxquels il
céda l’île d’Ischia.
Son circuit est de dix-huit milles; au milieu de l’île s’élève
une montagne considérable, ancien volcan autrefois nommé
Mons Epomeus. Depuis long-temps ses feux sont éteints et
tempo spento ed inattivo, sebbene
non si possa dubitare che nell’interno dell’isola sia esistito il fuoco, a
giudicare almeno dai frequenti terremoti ai quali è soggetta, così come
dal calore delle sue sorgenti e dei
suoi bagni. Vi sono ad Ischia molti
borghi abbastanza considerevoli, ed
una città episcopale della fortezza
anticamente separata, ma oggi comunicante per mezzo di un ponte
molto lungo.
Per il resto, questa isola è cinta a
mo’ di anfiteatro da promontori, da
piccoli porti e da numerose rocce,
per cui il sito selvaggio ed austero
forma un quadro molto pittoresco.
Un’altra parte dell’isola presenta
invece un aspetto più ridente e più
piacevole per la sua fertilità e l’eccellenza dei suoi vari prodotti. I suoi
boschi sono ricchi di selvaggina,
di fagiani, e soprattutto di un tipo
di gallinella d’acqua che si trova in
prodigiosa abbondanza.
Ma ciò che ha reso più celebre in
tutti i tempi l’isola di Ischia, sono le
sue sorgenti di acque minerali ed i
suoi bagni caldi ai quali si attribuiscono, a ragione, le doti più meravigliose per la salute. Tra il gran
numero delle sue acque termali, più
famose sono quelle che provengono
dai bagni chiamati Fornelli e Castiglio di Scroffa 8 (sic). Indipendentemente dai suoi bagni di acque calde,
c’è ancora una specie di stufe di sabbia che è particolare a questa isola.
Queste stufe naturali sono riscaldate
forse dai vapori sotterranei e solforosi di cui il suolo dell’isola è pieno,
ed il loro effetto è di un grande soccorso salutare per molte malattie.
Sembra che Ischia abbia subito
molto anticamente delle notevoli
devastazioni per i suoi vulcani; ma
che, da parecchi secoli, sono acquietati, come abbiamo detto. Una
delle ultime eruzioni, ed una delle
più terribili di cui si sia conservato
la memoria nel paese, è quella che
avvenne nel 1302. L’isola fu soggetta al fuoco per due mesi interi, e gli
abitanti ne furono sì spaventati che
inactifs, quoiqu’on ne puisse douter qu’ils ne soient toujours
existans dans l’intérieur de l’île, à en juger au moins par les
fréquens tremblemens de terre auxquels elle est sujette, ainsi
qu’à la chaleur de ses fontaines et de ses bains.
Il y a à Ischia plusieurs bourgs assez considérables, et une
ville épiscopale anciennement séparée de la forteresse, mais
qui, par le moyen d’un pont très long, y communique aujourd’hui.
Au reste, cette île est entourée de promontoires, de plusieurs petits ports et de nombre de rochers en amphithéâtre,
dont le site sauvage et austère forme un tableau des plus pittoresques.
Une autre partie de l’île présente au contraire l’aspect le
plus riant et le plus agréable par sa fertilité et l’excellence de
ses productions de toute espèce. Ses forêts sont remplies de
gibier, de faisans, et surtout d’une sorte de poule d’eau qu’on
y trouve dans une abondance prodigieuse.
Mais ce qui a rendu de tous les temps l’île d’Ischia plus
célèbre, ce sont ses sources d’eaux minérales et ses bains
chauds auxquels on attribue, avec raison, les qualités les plus
merveilleuses pour la santé. Parmi le nombre considérable
de ses eaux thermales, les plus renommées sont celles qui
viennent des bains appelés i Fornelli et Castiglio di Scroffa.
Indépendamment de ses bains d’eaux chaudes, il y a encore
une espèce d’étuves de sable qui sont particulières à cette
île. Ces étuves naturelles sont sans doute échauffées par
les vapeurs souterraines et sulfureuses dont le foyer de l’île
est rempli, et leur effet est d’un grand secours et infiniment
la maggior parte prese la fuga e l’abbandonò1.
Procida. L’isola di Procida è localizzata tra quella di Ischia ed il
promontorio di Miseno, ad uguale
distanza dall’una e dall’altro, e può
avere da sette ad otto miglia di circuito. Secondo parecchi storici, faceva parte dell’isola di Ischia, e ne
fu staccata da un terremoto che inghiottì nel mare tutto lo spazio intermedio. Strabone e Plinio lo dicono
formalmente2.
1 «Anno 1302, la Solfaterra di Ischia, isola
vicina a Napoli, gittò fuora fuoco così
grande, talché le fiamme giunsero sino al
girone dell’isola, per la qual cosa molti
uomini ed animali dell’isola perirono, e
molti, li quali furono più presto accorti,
montati sopra una barchetta che loro
accorse, chi a Procida, chi a Capri, chi
a Baya, Pozzuolo e Napoli si ridussero,
lasciando l’isola diserta, in cui, per due
mesi continui, durò il fuoco» (Pandolfo).
2 Di fronte a Miseno si trova l’isola di
Procida, una volta staccatasi da Pitecusa,
secondo Strabone. Fu il monte d’Inarime
che a seguito di un terremoto creò un’altra
isola, detta Procida (Plinio).
salutaire pour beaucoup de maladies.Il paraît qu’Ischia a
éprouvé très anciennement des ravages considérables par ses
volcans; mais que, depuis plusieurs siècles, ils sont apaisés,
comme nous l’avons dit. Une des dernières éruptions, et une
des plus terribles dont on ait conservé la mémoire dans le
pays, est celle qui arriva en 1302. L’Ile fut en feu pendant
deux mois entiers, et les habitans en furent si effrayés, que le
plus grand nombre prit la fuite et l’abandonna1.
Procida. L’île de Procida est située entre celle d’Ischia et
le promontoire de Misène, à égale distance de l’un et de
l’autre, et peut avoir sept à huit milles de circuit. Suivant
plusieurs historiens, elle faisait partie de l’île d’Ischia, et en
fut détachée par un tremblement de terre qui engloutit dans
la mer tout l’espace qui est entre deux. Strabon et Pline le
disent formellement2.
Son site uni, couvert de verdure, de jardins et de maisons
1 «Anno 1302, la Solfaterra d’Ischia, isola vicina a Napoli, gittò
fuora fuoco si grande, talché giunsero le fiamme sino al girone
dell’isola, per la qual cosa molti uomini ed animali dell’isola
perirono, e molti, li quali furono più presto accorti, montati sopra
una barchetta che loro accorse, chi a Procida, chi a Capri, chi a
Baya, Pozzuolo e Napoli si ridussero, lasciando l’isola déserta, in
cui, per due mesi continui, durò il fuoco» (Pandolfo - it. nel testo).
2 Ante Misenum Procita jacet insula, a Pythecusis quandoque
divulsa. (Strab., Lib. VI.) Inarimeus mons fuit qui terraemotu
diffusas alteram insulam fecit, quae Procita ab effusione dicta est
(Plin.).
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
23
Il suo sito compatto, coperto di vegetazione, di giardini e di case di campagna, ne rende l’aspetto e l’accesso
infinitamente piacevoli; si distinguono soprattutto quelle che sono
state costruite dalle famiglie Vasto
e d’Avalos. Si raccoglie una quantità prodigiosa di uve e di fichi molto
delicati. Due delle sue coste sono
molto frequentate: una, ad est, che
si chiama San Catholico, è coperta
sempre di derrate che vi si portano
da tutta l’isola, e che attirano un gran
numero di commercianti: l’altra, ad
ovest, che si chiama Cornicella, è
coperta di abitazioni di pescatori che
fanno un vasto commercio. Dovunque si vedono sgorgare delle sorgenti di acqua dolce dalle sabbie e,
ciò che non si trova in nessun luogo
d’Italia tranne che a Procida, sulla
riva Anannello, c'è una sabbia piena
di particelle di piombo. I fagiani ed
i francolini sono in così grande abbondanza, che se ne vedono spesso
delle migliaia stendere il loro brillante e vario piumaggio ai raggi del
sole; il timore di farne diminuire il
numero ha fatto che si siano costruiti per loro nei boschi parecchi ripari.
Si trovano tutte le specie di selvaggina più comune, e soprattutto le lepri. La loro caccia è riservata al re
di Napoli, ma le cure che si avevano
un tempo, e soprattutto l’espresso
divieto per gli abitanti di avere dei
gatti, dato che questi animali, naturalmente cacciatori, distruggevano
la selvaggina, rischiarono di avere
un inconveniente veramente grave
per la tranquillità degli abitanti3.
Si dice che questa isola fornisca i
migliori marinai d’Italia. Si vedono
3 In seguito a questa difesa, i topi si moltiplicarono talmente nell’isola di Procida,
che formarono una terribile calamità; i
giardini, le case, le chiese, le sagrestie, gli
armadi, fino ai tubi di scarico, tutto era divorato dai topi. Le provviste della gente, i
cadaveri prima della sepoltura, i bimbi stessi nelle loro culle, erano in preda a questo
orribile razza; l’isola intera diventava inagibile. I contadini si gettarono ai piedi del
re; portarono da sei a settecento di questi
animali sul suo passaggio, e questo terribile
divieto fu revocato» (Lalande, Viaggio di
Italia, vol. VII, p. 75.).
de plaisance, en rend l’aspect et l’abord infiniment agréables; on y distingue surtout celles qui y ont été élevées par
les familles Wasti et Discari. On y recueille une quantité
prodigieuse de raisins et de figues très délicates. Deux de
ses côtes sont très fréquentées: l’une, à l’est, qu’on appelle San Catholico, est toujours couverte de denrées qu’on
y apporte de toute l’île, et qui y attirent un grand nombre
de marchands: l’autre, à l’ouest, qu’on appelle Cornicella,
est couverte d’habitations de pêcheurs qui font un assez un
grand commerce. Partout on voit des sources d’eau douce
jaillir du milieu des sables, et ce qu’on ne trouve dans aucun endroit de l’Italie qu’à Procida, sur le rivage Anannello,
c’est un sable rempli de parcelles de plomb. Les faisans et
les francolins y sont en si grande abondance, qu’on y en voit
souvent des milliers étaler leur brillant et varié plumage aux
rayons du soleil; la crainte d’en faire diminuer le nombre a
fait qu’on leur a construit dans la forêt plusieurs abris. Toutes les espèces de gibier y sont on ne peut plus communes,
et les lièvres surtout. On en conserve la chasse pour le roi
de Naples, mais les soins qu’on y apportait jadis, et surtout
la défense expresse faite aux habitans d’avoir des chats, attendu que ces animaux, naturellement chasseurs, détruisaien
le gibier, faillirent avoir un bien grand inconvénient pour la
tranquillité des habitans3.
3 Par suite de cette défense, les rats se multiplièrent tellement
dans l’Ile de Procida, qu’ils y formèrent une affreuse calamité;
les jardins, les maisons, les églises, les sacristies, les armoires,
24 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
moltissimi anziani che devono alla
mite temperatura ed alla salubrità dell’aria la possibilità di vivere,
senza tutti i comuni disagi della vecchiaia, fino ad un’età avanzata.
Ci sono a Procida parecchie chiese abbastanza belle, ed una, tra le
altre, che si chiama Monastile; era
una volta una importante casa di religiose; ma la comparsa e l’avvento
dei Barbareschi che venivano a fare
spesso delle scorrerie sulle coste,
spaventarono le religiose, al punto
che lasciarono l’isola, e si ritirarono
a Napoli, nel convento di San Patrizio. L’isola di Procida è appartenuta
in vari tempi a semplici privati che
la tenevano probabilmente come in
feudo. Si sa che Giovanni di Procida
che, nel 1282, ebbe un ruolo molto
importante in Sicilia nei famosi Vespri siciliani, ne era stato signore.
Fu venduta, nel 1339, da uno dei
discendenti di questo Procida, a Marino Cossa; dopo, questa isola ha
cambiato parecchie volte padrone:
infine è ritornata sotto il dominio del
Principe.
On prétend que cette île fournit les meilleurs marins de l’Italie. On y voit un grand nombre de vieillards, qui doivent à la
température heureuse et à la salubrité de l’air de vivre, sans
toutes les incommodités ordinaires de la vieillesse, jusqu’à
un âge très avancé.
Il y a à Procida plusieurs églises assez belles, et une, entre
autres, qu’on appelle Monastile; c’était autrefois une maison
considérable de religieuses; mais la vue et l’apparition des
Barbaresques, qui venaient souvent faire des descentes sur
les côtes, effrayèrent les religieuses, au point qu’elles ont
déserté l’Ile, et se sont retirées à Naples, dans le couvent de
Saint-Patrice.
L’île de Procida à appartenu en différens temps à de simples
particuliers, qui la tenaient probablement comme en fief. On
sait que Jean de Procida, qui, en 1282, joua un si grand rôle
en Sicile aux fameuses Vêpres siciliennes, en avait été seigneur. Elle fut vendue, en 1339, par un des descendais de ce
Procida, à Marino Cossa; depuis, cette île a changé plusieurs
fois de maître: enfin elle est rentrée sous la domination du
prince.
jusqu’aux tuyaux d’orgues, tout était dévoré par les rats. Les
provisions des particuliers, les cadavres avant la sépulture,
les enfans même dans leurs berceaux, étaient en proie à cette
horrible engeance; l’île entière devenait inhabitable. Les paysans
se jetèrent aux pieds du roi; ils semèrent six à sept cents de ces
animaux sur son passage, et cette terrible défense fut révoquée»
(Lalande, Voyage d’Italie, vol. VII, p. 75.).
Geografia Medica dell’Italia – Acque Minerali, notizie raccolte dal cav. dott. Luigi Marieni, Milano, s.d.
Ischia - Isola del mare Mediterraneo, situata a libeccio del promontorio che divide il golfo di Napoli da
quello di Gaeta. I Latini la chiamarono Enaria, Omero Inarime, ed i Greci Pitecusa. (Plin. lib. IlI, c. 6). - Ha
poco più di 21 miglia di circonferenza, 3 di larghezza da tramontana al
mezzodì, e 5 di lunghezza dalla punta Cornacchia alla punta San Pancrazio, o sia da maestro verso scirocco.
- Ed è discosta miglia 2 dall’isola di
Procida, 5 e mezzo dal Continente,
10 dalle ruine di Cuma, 17 da Napoli, 18 dall’isola di Capri, e 38 da
Gaeta. - Il monte Epomeo (oggi San
Nicola), elevato sopra il mare metri
768, torreggia nel suo mezzo, ed è
circondato da colline che declinano
più o meno lentamente alla marina.
Ischia è l’isola più bella, e la più
interessante dei dintorni di Napoli.
«L’isola d’Ischia, dice Chevalley
de Rivaz, vista dal Continente, o a
certa distanza in mare, rassembra
una piramide che sorge maestosa dall’azzurro piano delle onde,
ed alta elevando il doppio vertice
in cielo, compone il più grandioso
e fantastico prospetto che si possa
riguardare; ma varcato il canal di
Procida, ti si scopre nel pieno di sua
bellezza. A scirocco ed a levante, vestite della più rigogliosa vegetazione
gradatamente si estollono (colline)
ad anfiteatro fino all’eccelso Epomeo, che fra quei colli grandeggia.
Il quale, quasi a piombo stagliato in
cima verso settentrione, discende a
ponente in un piano declive, finché
termini in un piccol cono cosiddetto
di Vico. Qui verdi boschi e vigneti,
che ammantano i colli e serpono per
la montagna, là sterili rocce e bitumi, scemi di ogni splendore, e sopra
i due cocuzzoli dell’Epomeo in mirabil contrasto. E come ti avvicini
all’isola, qui promontorj, là baje,
poi colli, poi monti si aprono ad uno
ad uno allo sguardo, sempre nuovi,
dilettosi, sparsi qua e là di terre, di
casali e di ville, la cui bianchezza sì
ben campeggia su quella freschissima verdura. Cotanta varietà di siti,
cotale ricchezza di vedute, ti effondono per gli occhi al cuore una dolcezza, una emozione inesplicabile,
che al toccar del lido di quest'isola
fortunata cresce a mille doppi per la
salubrità dell'aere tuttor temperato
da soavissimo venticello, fin nei più
forti ardori dell'estate. Le quali cose
attentamente osservando, non è chi
subito non divisi non aver forse al
mondo un'altra Ischia, ove in lido sì
breve piacquesi la Provvidenza profondere a piena mano tante bellezze
ed incanti, che sopra quante contrade non vaglia a ricordare prima la
fanno e prediletta di natura».
I poeti antichi, per indicare che
quest'isola è vulcanica e soggetta
ai terremuoti ed ai turbini, dissero
che si trovava sepolto sotto di essa
il gigante Tifeo o Tifone (Pindaro,
Ode Olimpica IX e Pitia I.; Virgilio,
Eneid. lib. IX, v. 716)1. - Gli Eretriesi
ed i Calcidesi, che furono i primi a
popolarla, ed in progresso di tempo
anche coloro che vennero colà spediti da Jerone, tiranno di Siracusa,
furono costretti di abbandonarla dai
terremoti, dalle eruzioni di fuoco,
di mare e di acque calde. - Timeo
di Taormina scrisse, che poco prima dell’ età sua (cioè nel secolo IV
avanti l’E. V.) l’Epomeo, scosso dai
terremoti, gettò fuoco e spinse in alto
il terreno che si trovava fra esso e il
mare. Questo terreno ricadde poi a
modo di turbine, e il mare da prima
ritirossi per tre stadj, poscia inondò
l’isola. Gli abitanti del Continente,
1 Francesco Petrarca scriveva nel Trionfo
della Castità :
«Non freme così ‘l mar quando s’adira;
«Non Inarime allor che Tifeo piagne;
«Non Mongitbel ed Encelado sospira.
spaventati dal grande frastuono che
accompagnò questo turbine, fuggirono addentro nella Campania [Strabone, lib. V, c. 9). - Altri scrittori citano altre eruzioni di questo vulcano
avvenute sotto il consolato di Sesto
Giulio Cesare e di L. Marcio Filippo (l’anno 91 av. Cristo), ed ai tempi degli imperatori Tito, Antonino e
Diocleziano. - L’anno 1228, regnando Federico imperatore, l’Epomeo
talmente infuriò, che Riccardo da
San Germano scriveva: Eodem mense julii mons Isclae subversus est, et
perierunt in casalibus sub eo degentes fere septincentos homines inter
viros et mulieres. - Ma più famosa fu
la eruzione avvenuta, secondo l’Elisio e il Bacci, l’anno 1301, e secondo
Giovanni Villani (Istorie, lib. VIII, c.
53), e Tolomeo Fiadoni di Lucca, citato da Humboldt (Cosmos t. IX, p.
478), nel 1302.
Questa eruzione durò due mesi,
producendo molti guasti e ruine, e
obbligando parte di quegli abitanti a
fuggire nelle isole di Procida e di Capri, a Napoli, a Baja ed a Pozzuoli.
E vuolsi che allora sia colà rimasta
sepolta la città ili Geronda. - Finalmente l’isola d’Ischia soffrì molti
danni dal terremoto del 2 febbrajo
1828, che distrusse in gran parte Casa-Micciola, ma il re Francesco I la
fece risorgere con larghe elargizioni.
Alcuni scrittori accertano che fu
nell’isola d’Ischia che venne stabilita
la prima fabbrica d’allume in Italia.
L’isola d’Ischia è compresa nel
circondario di Pozzuoli, e forma
due mandamenti che sono quello
d’Ischia, e quello di Forio, popolati il primo da 13.416 abitanti, e il
secondo da 12.749. - Essa è molto
ricca di acque minerali, molto usate
anche dagli antichi, che le lodarono
spezialmente nella cura della renella
(Strabone, 1. c, e Plinio, lib. XXXI,
c. 2). E ricuperò con esse la salute
anche la vestale Attilia Metella.
Sette di queste acque appartengono al mandamento d’Ischia, e quindici a quello di Forio.
*
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
25
Ischia
porto di sole
160 anni
In alto - Luigi De Angelis
Al centro - Vincenzo Colucci
In basso - Cartolina (1927)
26 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
e di sogni
(1854 - 2014)
In cartolina e in arte
Al centro in alto : Lavori di apertura del porto di F. Mancini (1830-1903)
Al centro in basso :Il porto di Giacinto Gigante (1806-1876)
Colonna di destra : Cartoline
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
27
Lago - Porto
«.... Epperò con questa fertilità di
suolo, con questo aere purissimo,
con sì svariate genti che vi affluiscono, era veramente sventura che
l’isola mancasse di un porto. Ma ciò
che desiderarono in tutti i tempi, e
sempre indarno, tutti i Dinasti che
Ischia signoreggiarono, fu voluto
e fatto prestamente al cenno del re
Ferdinando II, immegliando così,
non è a dir quanto, la sorte di quei
popolani non solo, ma e delle vicine
isole ancora, e di quanti con esse fan
traffico.
Eravi a settentrione dell’isola uno
stagno ampissimo, originatosi fin
dai tempi più remoti dall’ultimo dei
tre gran tremuoti, onde quella fu
sconvolta, siccome ricorda la storia,
il quale appena avrebbe dato adito
a qualche navicello peschereccio
che vi fosse entrato per via di un
angustissimo canale comunicante
col mare. Veduto dunque il Re che
niun luogo offrivasi più acconcio ad
un porto, comandava che vi si fosse aperta nel sito più vicino al mare
un’ampia bocca da poter dare agevolissimo passaggio a qualsivoglia
più grande piroscafo da guerra, e
che il suo fondo si fosse purgato di
tutte le materie, che i secoli vi avevano accumulato, affinché anche
grandi navigli vi potessero riparare e
stanziarvi a loro agio. Acciocché poi
la bollente rabbia de’ venti non obbligasse i marosi a spingere le accumulate arene in quella chiostra, e la
foga dei cavalloni nuocer non potesse ai legni nel luogo medesimo dove
cercan salvezza, volle Sita Maestà
che di lunga ed acconcia scogliera si
munisse l’entrata del porto.
... Un magnifico spettacolo si vide in
quelle acque il giorno 17 settembre
dell’anno 1854. ... Quelle acque si
popolarono di mimero innumerabile
di palischermi, feluche, paranzelli,
tortane e trabacche, folte e gremite
di festevoli passeggeri. ... Il Re medesimo, a fianco dell’augusta sua
28 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Il porto di Antonio Macrì
Il lago di Philipp Hackert (1737-1807)
consorte e di tutta la regale famiglia,
da una tenda innalzata sul clivo soprastante, gioiva di quella gioia.
Fu bello vedere a quanti segni di
plauso si esprimesse l’esultanza degli animi, e un bel sentire i replicati
e fragorosi Viva il Re, maggioreggianti tra le numerose salve dei piroscafi da guerra, il Tancredi, la Saetta,
il Delfino, l’Antilope, della Cristina
e degli altri legni erranti nelle vicine
acque con le reali bandiere... Mostra
bellissima facevano gli abiti paesani
e festerecci, quelli soprattutto delle
foresi dell’isola e di Procida, che
tanto ritraggono delle antiche fogge.
Sfavillavano esse per ori e argenti,
con indosso quanto possedevano in
rubini e perle, e di ogni altra simil
cosa di pregio, gravate più che ornate» (da Annali Civili del Regno delle Due
Sicilie, vol. LIII, 1855).
Rassegna LIBRI
Filippo Strofaldi il vescovo con la chitarra
(a cura) di Ernesta Mazzella
Gutenberg Edizioni, Fisciano 2014. Ufficio comunicazioni
sociali della diocesi d’Ischia. In copertina: vignetta di Paolo
Del Vaglio donata a Mons. F. Strofaldi. Prefazione del Vescovo d’Ischia, Mons. Pietro Lagnese.
Ad un anno dalla nascita al Cielo di Sua Ecc. Mons.
Filippo Strofaldi, vescovo di Ischia, è stato presentato
il 27 agosto presso la Cattedrale di Ischia il volume
Padre Filippo Strofaldi. Il vescovo con la chitarra.
Il volume si articola in diverse sezioni. Sono raccolti
i documenti dell’intero episcopato di Padre Filippo, vescovo di Ischia dal 1998 al 2012, custoditi presso l’Archivio Diocesano di Ischia, partendo dalle numerose
Lettere pastorali, disposte secondo l’ordine cronologico originario, proseguendo con i Discorsi, le Omelie
per poi giungere alle Preghiere, alla sua Produzione
musicale, infine al suo Testamento e ad un’appendice
fotografica.
Apre il volume la bella e profonda prefazione di
Mons. Pietro Lagnese il quale esorta: Ricordatevi di
padre Filippo! “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi
hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la
fede”: quest’espressione, tratta dalla Lettera agli Ebrei,
che la liturgia ci propone nelle memorie dei pastori
santi, è citata da papa Francesco nei numeri introduttivi dell’Evangelii Gaudium, ed invita i credenti a fare
autentici esercizi di memoria. Infatti Mons. Lagnese
scrive che “con il presente volume la Chiesa di Ischia
desidera promuovere tale esercizio di memoria per ciò
che riguarda la persona di S. E. Mons Filippo Strofaldi.
Ad un anno dalla sua dipartita, avvenuta all’alba del 24
agosto 2013, ho inteso promuovere una prima pubblicazione che raccogliesse in un unico testo i documenti
più importanti del suo magistero, accanto ad alcune
brevi testimonianze riguardanti la persona di padre Filippo, tra le quali sottolineo quella più preziosa fra tutte, anche perché offertaci da un suo amico da sempre,
qual è stato Mons. Bruno Forte”.
“È dai suoi documenti – dice la Mazzella - che emergono la sua poliedrica personalità e il suo grande carisma di pastore, fratello e padre. Certamente Padre
Filippo sarà ricordato per i tanti e storici eventi che
hanno segnato il suo intero episcopato: la storica visita del Papa Giovanni Paolo II ad Ischia, la 51a Settimana Liturgica nazionale, il Sinodo, il primo dopo
il Concilio Vaticano II (l’ultimo Sinodo si era svolto
nella nostra Chiesa di Ischia nel 1938 con il vescovo de
Laurentiis), la creazione della ventiseiesima parrocchia
oltre Oceano, l’apertura della casa di accoglienza, l’arrivo delle reliquie ad Ischia del più bel fiore di Aenaria:
San G. G. della Croce, la visita degli ischitani nelle
Americhe e in Australia, i convegni ecclesiali biennali
etc.; egli ha inoltre completato e inaugurato i tre enti
culturali della diocesi e cioè l’Archivio, la Biblioteca e
il Museo. Certo questi eventi hanno riscosso maggiore
risonanza e una grande copertura mediatica, ma i suoi
scritti hanno avuto, inevitabilmente, una diffusione assai minore. E, come affermava lo storico Le Goff : “il
documento è un monumento”, non c’è modo migliore
dunque di commemorare, conoscere e approfondire
la conoscenza di una persona se non attraverso i suoi
scritti, i suoi documenti. Riemerge nella memoria la
famosa frase del poeta latino Orazio “exegi monumentum aere perennius”, ovvero ho eretto un monumento
più duraturo del bronzo. Così gli scritti di padre Filippo
siano un monumento di catechesi …”.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
29
Secondo il presule e teologo Mons. Bruno Forte,
l’amico fraterno di Padre Filippo da lui stesso definito
nel Testamento “un esemplare compagno di strada”, ci
sono tre chiavi di lettura per approcciare i testi, comprese le canzoni, di Padre Filippo: la condivisione, il
gioire e il soffrire insieme che si è sostanziato nella
quotidianità dei suoi anni ad Ischia; memoria della
fede, come continuità viva della tradizione apostolica,
e profezia, che dà l’impronta a diversi scritti e testi di
canzoni. “Filippo è stato un uomo profondamente libero nella fede … è stato il pastore della compagnia, un
Vescovo Padre e Fratello accessibile a tutti, accogliente. È stato Vescovo della memoria, una voce umile e innamorata della fede che la Chiesa custodisce e trasmette. Filippo è stato anche uomo della profezia testimone
del futuro di Dio mai ripiegato su se stesso, ma sempre
animato da uno sguardo di carità e di speranza. Filippo
è stato un uomo profondamente libero per quell’abbandonarsi semplicemente nella braccia del Padre come
Maria”.
L'ubriaca penna che scorre!
La nave gigante inabissa nelle tenebre di Pietro Calise
di Pietro Calise
Aletti Editore, aprile 2013
Luigi Mazzella
Aletti Editore, aprile 2014
Poesie (racconti-poesie) scritte quasi tutte tra la metà dell'estate e la fine dell'autunno 2012 nel primo libro, e
nell'inverno 2013 nel secondo. Quali gli argomenti? A chi a volte ha posto questa domanda, l'autore ha risposto:
"Di qualunque cosa. Scrivere mi fa stare meglio, soprattutto davanti ad un bicchiere di buon vino". Le poesie sono
nate in modo occasionale, senza un vero e proprio filo conduttore; molte hanno valenza narrativa: all'apparenza
sono scritte preferibilmente in forma discorsiva, non so se prive di punteggiatura normale o volutamente caratterizzate da un trattino in ogni pensiero, emozione o sensazine. Scrive l'autore: "Una calda sera d'estate, a cena,
dopo una giornata stressante, ho preso un vecchio taccuino e ho cominciato a buttare giù alcune parole e pensieri,
le prime cose che mi passavano per la testa": "stupendo il mare di notte", "Cielo confuso di stelle", "Pullula la
meschina gente"...
L'idea: immergere il lettore in un mondo particolare, che è quello di Pietro Calise, nato a Lacco Amenoo nel
1977, dove è ritornato dopo aver girato mezza Europa.
30 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Colligite fragmenta, ne pereant
Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia
A cura di Agostino Di Lustro
Il Convento e la Chiesa
di San Domenico di Ischia
III
Nel corso del secolo XX sono stati espletati diversi
tentativi di dare un assetto diverso da quello tradizionale alla parrocchia di S. Domenico, anche al fine di
risolvere i problemi che la posizione particolare del
tempio parrocchiale procurava all’attività pastorale del
parroco. Il territorio, d’altra parte, era vasto e la popolazione aumentava sempre più di numero.
Un primo progetto di risistemazione del territorio
parrocchiale, proposto durante l’episcopato del vescovo Ernesto de Laurentiis, prevedeva l’istituzione di
una parrocchia nella chiesa dell’Annunziata di Campagnano, mentre a quella di S. Domenico sarebbe rimasto
il rimanente territorio, già di per sé abbastanza vasto.
Ma l’attuazione di questo progetto fu giudicata impraticabile dal parroco D. Giuseppe Cuomo ritenendo più
conveniente spostare la sede parrocchiale di S. Domenico nella chiesa di S. Antonio Abate e lasciare il resto
allo «statu quo». Le discussioni e le ipotesi che venivano avanzate non portarono però ad alcun risultato. Il
vescovo Dino Tomassini (1962-70) finalmente con la
bolla del 26 novembre 1962 istituiva la nuova parrocchia di S. Antonio Abate con sede nella chiesa omonima1 assegnandole il territorio dalla zona di S. Michele
fino ai confini con la parrocchia di S. Maria della Porta
di Piedimonte e la zona di Fondo Bosso con la nuova
chiesetta del Crocifisso, allora non ancora completata.
Campagnano e la zona del Cilento continuavano a essere sotto la giurisdizione del parroco di S. Domenico
Con il conseguente costante aumento della popolazione e la considerazione che Campagnano restava
decentrata rispetto alla propria chiesa parrocchiale
il vescovo Antonio Pagano (1984-98)2 pensò di dare
una nuova sistemazione pastorale al territorio delle
due parrocchie di S. Domenico e S. Antonio Abate. Fu
disposto che il titolo parrocchiale della prima venisse
1) Cfr. in ADI, Bollario del vescovo Dino Tomassini.
2) C. d’Ambra, Ischia tra cultura e fede, Torre del Greco 1988.
spostato nella chiesa dell’Annunziata di Campagnano e diventasse «Parrocchia di San Domenico nella
SS.ma Annunziata». L’ex chiesa parrocchiale passava,
con l’intera zona del Cilento, sotto la giurisdizione
della parrocchia di S. Antonio Abate; Fondo Bosso,
con la chiesetta del Crocifisso, alla parrocchia di Gesù
Buon Pastore3.
Siamo arrivati alla cronaca dei nostri giorni che se
vede la chiesa di S. Domenico non più sede parrocchiale, tuttavia rimane sempre un luogo privilegiato
dell’attività pastorale del parroco di S. Antonio Abate, grazie anche all’intensa attività di apostolato svolto
dai suoi parroci in una zona che non è più isolata come
un tempo, ma che in questi ultimi decenni risulta fortemente incrementata dal punto di vista demografico.
Dopo avere esposto le vicende della parrocchia, ora
dobbiamo fermare la nostra attenzione sull’edificio
della chiesa di S. Domenico. Da quanto affermano i
frati nella relazione inviata a Roma in seguito alla costituzione «Inter coetera» di Innocenzo X del 17 dicembre 1649 con la quale si voleva accertare l’entità
numerica, le capacità ambientali e le risorse finanziarie dei conventi, soprattutto di quelli più piccoli esistenti
in Italia4, il convento sarebbe stato fondato, come sostenevano gli abitanti della zona circostante, da circa
trecento anni. I relativi documenti sarebbero andati
perduti a causa dei saccheggi operati nella prima metà
del secolo XVI da parte dei «Turchi», cioè dai pirati
berberi5. La relazione dei frati, datata 25 febbraio 1650,
afferma che in quell’anno il convento era abitato da
due sacerdoti e due conversi e che al momento della
compilazione sulla relazione c’erano: un padre, Angelo Ammirato di Napoli, predicatore generale e vicario, di anni 58, e due conversi: Giuseppe Cortese di
Napoli di anni 24, e Tommaso da Sponte da Napoli
3) Cfr. in ADI, Bollario del vescovo Pagano.
4) Bullarium Romanorum Pontificum, Romae MDCCLX, Edizioni
Mainardi, tomo VI, parte III p. 201.
5) Per le invasioni berbere e il numero delle persone rapite o vendute come schiavi, cfr: G. Coniglio, I Vicere di Napoli, Napoli 1967
p. 72.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
31
di anni 45, vestito religioso da due anni e mezzo. A
quella data il convento risulta ancora situato in una
«massaria fuori dell’abitato» e quindi lontano dalle
abitazioni, in una posizione isolata. Se dobbiamo credere alle notizie provenienti dalle fonti domenicane,
il convento sarebbe stato fondato nell’anno 14696. La
chiesa, invece, doveva esistere già a metà secolo XIV.
Infatti l’Ughelli, parlando del vescovo fra Bartolomeo
Bussolaro, agostiniano originario di Pavia, che resse
la chiesa Insulana tra il 23 marzo 1359 e il 4 dicembre 13897 ci descrive la tomba di Giacomo Bussolaro,
fratello del vescovo8 che si trovava in questa chiesa.
Oggi questa tomba non esiste più e sono perduti anche
i marmi e le epigrafi che la ornavano. Tuttavia non possiamo non ricordare quanto egli dice a questo proposito: il vescovo Bartolomeo «de Busulariis ebbe come
parente, forse fratello germano, Giacomo Bussolario
dell’Ordine dei Predicatori (sic) illustre famoso per la
particolare santità, al quale diedero il titolo di Beato,
che era stato tumulato in un sepolcro marmoreo nella
chiesa di S. Domenico nel sobborgo isclano, dove si
vede il ritratto del medesimo beato, che ha un libro
aperto nelle mani sul quale sono scolpite questa parole: Libro escusatorio sulle gesta da lui compiute in
tutta la sua vita. Sulla fronte del tumulo, sono scritte
invece le seguenti parole: Beato fra Giacomo detto
Bussolario sotto questo altare fu tumulato il giorno
16 agosto MCCCLXXX. Per quattordici anni dal milanese Giovan Galeazzo ricevette il martirio del carcere
a causa della verità. Trasse Pavia e Alessandria da
un profondo male, aborrì ogni onore, e non ebbe nulla
per sé. Grazie a Dio. A destra del tumulo sono scolpite
le insegne della famiglia Busolaria, cioè un leone con
sotto tre gigli. A sinistra una gran croce simbolo della
città di Pavia, con al centro queste parole C. della
6) Analecta Ordinis Praedicatorum, anno III p. 52.
7) Come si sa, questo vescovo, per motivi che non ancora sono del
tutto chiari, ma certamente per il passaggio della chiesa di Ischia
all’obbedienza dell’antipapa avignonese Clemente VII, fu processato e privato della diocesi. Alcuni studiosi però prolungano il suo
episcopato fino al 1389, anno della sua morte, mentre negli anni
1384-1389 la chiesa Insulana sarebbe stata retta da Paolo Strina
nominato proprio da Clemente VII (Hierarchia Catholica Medii
et Recentiosis Aevi… Patavii MCMLX vol. I p. 2869). È il caso di
ricordare ancora una volta la famosa lapide del vescovo Bussolaro
proveniente da Fontana, oggi purtroppo dispersa, che si trovava a
Casamicciola nell’androne dell’ex villa del Dott. Carlo Mennella.
Paolo Strina deve essere considerato un vescovo illegittimo perché
nominato da un papa illegittimo. L’Ughelli, comunque, prolunga
l’episcopato del Bussolaro fino al 1389, e mentre colloca Paolo
Strina nel 1392 senza alcun cenno alla rimozione del Bussolaro
o al periodo di obbedienza della chiesa Insulana all’antipapa avignonese.
8) Su Iacopo Bussolaro, cfr. L. Torelli, Secoli agostiniani, Bologna
1680; Codex Diplomaticus Ordinis Eremitarum Sancti Augustuni
Papiae vol. I 1905; A. Balzani, Frate Jascopo dei Busolarii, in La
Cultura, anno XII n. 140
32 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
comunità di Pavia: Bartolomeo poi avendo retto questa chiesa per quasi trenta anni, strappato da questo
carcere nel 1389 volle essere seppellito presso il tumulo dello stesso Beato, che ora si vede sovrapposto con
questo epitaffio. In questa tomba fu riportato Bartolomeo Lombardo di Pavia Busolario vescovo d’Ischia
MCCCLXXXIX il giorno 4 dicembre»9.
A proposito di fra Jacopo Bussolaro, c’è da notare
che l’Ughelli e altri autori ci lo presentano come un
frate domenicano, sepolto in una chiesa domenica. Al
momento della morte di fra Jacopo, avvenuta a Ischia
il 14 agosto 1380, sebbene il convento di S. Domenico non ancora esistesse, esisteva certamente la chiesa.
Il motivo per il quale fra Jacopo Bussolaro fu sepolto
nella chiesa di S. Domenico non ci è noto. Egli però era
agostiniano come il fratello vescovo e non domenicano come affermano alcuni. Inoltre all’epoca esisteva il
convento di Santa Maria della Scala degli Agostiniani10
in «burgo maris»11 per cui potremmo immaginare che
la chiesa di S. Domenico con la fattoria che la circondava all’epoca fosse proprietà degli agostiniani di S.
Maria della Scala. Successivamente la fattoria con la
chiesa sarebbero diventate proprietà dei domenicani
che vi avrebbero fondato il convento nel 1469. Documenti che potrebbero suffragare tale ipotesi però non
ne possediamo per cui resta solo una immaginaria supposizione.
«Nel 1384 (sic), il 4 dicembre, il fratello Bartolomeo, vescovo d’Ischia, seguì frate Jacopo nel sepolcro. Come lasciò detto, fu sepolto accanto al fratello
in un’urna marmorea. I due sepolcri nel secolo XVII si
vedevano nella chiesa a destra entrando. Le memorie
del tempo, fino ai principi della seconda metà del secolo XVIII, dicono che non erano più situati a destra
entrando, ma nel presbiterio in un vano dalla parte
dell’Evangelo e poggiavano su colonne. Ma ora i due
sepolcri ed altri ancora che si conservavano in quella
chiesa più non sono»12
Dell’antica costruzione che pertanto doveva risalire
almeno al XIV secolo, rimangono, a giudizio di Ilia
Delizia, «alcuni caratteri primitivi: mi riferisco all’invaso affidato a due coppie di mastodontici e lisci pilastri intermedi che rendono ancora più greve la iterazione delle basse crociere delle navate laterali, ed
9) F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, Venetiis
MDCCXVIII vol. VI col.233.
10) Sul convento di S. Maria della Scala, cfr. A. Lauro, La chiesa e
il convento degli Agostiniani nel borgo di Celsa vicino al castello
d’Ischia, in Ricerche contributi e memorie, atti del Centro di Studi
su l’isola d’Ischia per. 1944-1970, vol. I pp. 593-630; A. Di Lustro,
Ecclesia Major Insulana (la cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni), Forio 2010.
11) S. Santerano, Codice diplomatico barlettano, Bari 1957, vol.
III p. 190-191.
12) A. Balzani, op. cit. p. 39.
articolazione dello spazio di sacrestia tutto compreso
nello sviluppo della navata»13. La navata centrale è
coperta da una bassa volta a tutto sesto, mentre le navate secondarie sono divise in due crociere. La profonda abside oggi appare piuttosto alterata da una struttura poligonale che serve esclusivamente a contenere
il tabernacolo. La struttura della chiesa fu interessata
a lavori di restauro in seguito alla visita pastorale del
vescovo Felice Romano, come già abbiamo detto in
precedenza. Questi lavori, insieme con quelli della
facciata, furono realizzati su progetto dell’architetto P.
Francesconi che lavorò anche alla chiesa di Portosalvo14. Questi pochi elementi individuati dalla Delizia,
sottolineano e confermano l’osservazione che il complesso di S. Domenico rivestiva «un ruolo religioso
svolto all’interno di qualche piccola comunità, come
attesta l’annesso convento, sebbene dalla tipologia insediativa si sia tentati ad individuare anche un carattere rispondente ad esigenze di vita contemplativa»15.
Alle notizie tramandateci dall’Ughelli, bisogna aggiungere quelle che troviamo nel «Ragguaglio» di Vincenzo Onorato che le prende dal primo. Infatti anche
lui trascrive le iscrizioni latine che si trovavano sulla
tombe dei due Bussolaro e aggiunge a proposito di fra
Jacopo: «Questo santo sacerdote per sfuggire l’ulteriore persecuzione del duca Giovanni Galeazzo si ritirò in Ischia, presso il fratello vescovo Bartolomeo,
e dovè morire nel palazzo (episcopale n.d.r.) dentro il
castello dandosi ciò ad intendere dal verbo translatus
fuit. Il vescovo morto, dopo nove anni, si per l’amore
portava all’anzidetto fratello e si per la nota santità
del medesimo, dispone prima di morire che si li fusse
costruita una urna di marmo in dove fu riposto, ed indi
fu situato al lato del tumulo dell’enunciato fratello colla seguente iscrizione, beninteso che l’accennate urne
riposte sopra le rispettive colonnette stavano situate
nel vano rimpetto il cornu evangeli dell’altare maggiore. In hoc coemeterio reconditus fuit Bartolomeus
Lombardus de Papia de Pesulariis Episcopus isclanus
1389 die 4 mensis dicembris. La differenza che si osserva nel cognome tra la B e la P poté derivare dal
disaccordo incisore o dal disaccordo copista, oppure
che col tempo poté la lettera per la rosura ricevere
alterazione. Levandosi la seconda tirata della lettera
B»16. Inoltre l’Onorato fa intendere che ai suoi tempi i
monumenti dei due Bussolari già erano scomparsi dal13) I. Delizia, Ischia l’identità negata, SEN Napoli 1987 p. 110.
14) Ibidem, p. 193. La studiosa ricorda la «Relazione di progetto
e lo stato estimativo dei lavori bisognevoli per lo restauro della
facciata esterna della Parrocchiale chiesa di S. Domenico di Campagnano d’Ischia e di tutti i lavori indispensabili per lo completamento del detto sacro tempio» che si trova in ASN, Amministrativa, Prefettura vol. 559.
15) Ibidem, p. 193.
16) V. Onorato, Ragguaglio istorico-topografico dell’isola d’I-
la chiesa di S. Domenico per cui egli non ha avuto l’opportunità di ammirarli. Ed aggiunge: «In tale chiesa
si osservava ancora una lapide ingegnosa sepolcrale,
con la quale veniva posta in aspetto la pazzia delirante
della vana gloria, la stessa lapide che essendosi pure
tolta all’intutto della forma e del tenore della iscrizione ci è rimasta solo la memoria dei seguenti due versi:
Amat ranam, et dicit esse Dianam:
Amat pecus, et dicit esse Decus»17.
Da tutto questo e dalle vicende dei vari interventi nella struttura della chiesa che ci vengono documentati
dalle varie fonti che abbiamo già esaminato, riusciamo
a renderci conto che, purtroppo, questo monumento ha
fortemente subito l’affronto del tempo che lo ha privato di quello che di veramente interessante si raccoglieva al suo interno.
Per completare il discorso su questo monumento sacro ingiustamente rimasto nell’ombra nella pur variegata presenza sulla nostra Isola di monumenti sacri,
dobbiamo trattare alcuni aspetti devozionali di cui nel
corso dei secoli si è arricchita la chiesa per nulla messi
in evidenza dai pochi scrittori di cose isclane che si
sono interessati ad essa: lo sviluppo del culto mariano sotto il titolo del Rosario, sostituito in seguito da quello
alla Madonna della Misericordia.
In un anno imprecisato, ma certamente quando i domenicani erano ancora qui, fu fondato in questa chiesa
la confraternita intitolata al SS.mo Rosario come ce
ne sono state diverse sparse sulla nostra Isola18. Questo fatto favorì enormemente e sviluppò il culto alla
Madonna del Rosario che venne anche effigiata su una
tavola da un ignoto pittore nel secolo XVII19. Legato a
questa immagine della Madonna del Rosario troviamo
registrata una serie di prodigi che ci sono stati trasmessi da Serafino Montorio in un’opera dal titolo: Zodiaco di Maria ovvero le dodici province del Regno di
Napoli , Napoli 1715. Il Montorio, dunque, scrive tra
l’altro nella stella XLV del regno di Ariete :«A quella
miracolosa effige dunque ricorrendo quel Popolo divoto, da alcuni anni in qua hanno in essa sperimentata
la Vergine liberalissima delle sue grazie , come dalli
seguenti casi più chiaramente vedesi, e perciò è tenuta
in somma venerazione. L’anno 1712 mentre celebravasi solennemente in detta chiesa dedicata al Padre S.
schia, in E. Mazzella, L’Anonimo Vincenzo Onorato e il Ragguaglio dell’isola d’Ischia, Fisciano Edizioni Gutemberg 2014, pp.
249-256.
17) Ibidem, p. 250.
18) Oggi questo quadro, che pende sull’altare maggiore, in seguito
al restauro effettuato alcuni anni fa, è stato riportato su tela.
19) S. Montorio, Zodiaco di Maria, ovvero le 12 province del Regno di Napoli per Pablo Severini, 1716 p. 216 e ss.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
33
Domenico la festa della I domenica di ottobre, come è
solito farsi in tutto il mondo cattolico, avvenne un caso
ammirevole. Cadde la campana nel cortile senza ferire
alcuno benché i fedeli fossero molto numerosi nell’entrare e nell’uscire.
Mentre D. Sabato Schiano celebrava all’altare del
Rosario, fu presente un’ossessa. Un giorno il Parroco
andava a confessare Mons. Michelangelo Cotignola
(vescovo di Ischia dal 1691 al 1699 ) e trovò alla
porta del vescovo la madre che gli disse la figlia essere
stata da diversi esorcisti ed aver detto di sentirsi bene
alla festa del Rosario.
«Il Canonico Bartolomeo Manguso stava sul punto
di morire ed il Parroco andò a visitarlo. La madre lo
pregò di recitare le litanie alla Madonna la sera. Riunì
tutti i preti per le litanie ed in quell’ora guarì. Si chiese
al parroco a quale ora avesse recitato le litanie e si
seppe quando guarì .
«Ancora suo fratello Giovan Vincenzo Mancuso
prossimo a morire riebbe vita al contatto bacio della Madonna del Rosario ed anche suo figlio mentre il
parroco portava il Santissimo andò di notte a S. Domenico e benché le porte fossero chiuse invocò la Madonna e guarì».
Se tali prodigi siano continuati anche dopo la pubblicazione nel 1715 del libro del Montorio, non lo sappiamo perché nessuno li ha registrati. Certamente questo
contribuì notevolmente alla diffusione della devozione
alla Madonna del Rosario e delle varie manifestazioni
di culto nei suoi confronti. Tra queste manifestazioni
bisogna ricordare la processione con l’immagine della
Madonna del Rosario ogni prima domenica del mese
come si soleva fare anche in altre chiese o confraternite intitolate al Rosario, anche in diverse chiese della
nostra Isola. Oggi queste manifestazioni di culto verso
la Madonna del Rosario sono scomparse, almeno nelle
chiese della nostra Isola. So con certezza che ancora
oggi si svolgono in alcune chiese particolarmente del
Nord Italia. Così pure anche l’altra processione mensile che si svolgeva la terza domenica del mese nella
quale si recava in processione il SS.mo Sacramento,
soprattutto nelle chiese nelle quali vi era una confraternita con questo titolo. Anche queste da noi sono scomparse, ma esistono ancora in alcune zone del Nord.
.Agostino Di Lustro
Paestum: Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico
XVII edizione (30 ottobre - 2 novembre 2014)
Tre strutture geodetiche con i lati trasparenti a pochi metri dal Tempio di Cerere di Paestum: questa la suggestiva
location che per la prima volta ospiterà il Salone Espositivo e due delle 4 sale conferenze della XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre 2014.
La Borsa, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio di Expo Milano 2015, Ministero
dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Unesco e UNWTO, si svolgerà quindi nuovamente nell’area archeologica della città antica: oltre all’area adiacente al Tempio, le iniziative avranno luogo anche nel Museo Archeologico
(ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop con i buyers esteri) e nella Basilica Paleocristiana (Conferenza di apertura,
ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti).
La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti che saranno calendarizzati annualmente:
- Social Media & Archaeological Heritage Forum, venerdì 31 ottobre, che ospiterà “Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web”, il secondo incontro nazionale dei blogger culturali: l’obiettivo è promuovere lo sviluppo dei
beni culturali sempre più attraverso i social network;
- ArcheOpenData Forum. Trasparenza e riuso dei dati in archeologia, venerdì 31 ottobre, momento di discussione
dedicato agli open data;
- ArcheoStartUp, sabato 1 novembre, presentazione di nuove imprese culturali e progetti innovativi; il Concorso
Fotografico “La BMTA ti porta a Paestum!” sulla pagina Facebook.
La Mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la più importante Rete di ricerca Europea sui Musei
Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR), ospiterà
“Digital Museum Expo”, esposizione delle tecnologie più recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre
che a Paestum anche ai Mercati Traianei del Museo dei Fori Imperiali in Roma, alla Biblioteca Alessandrina di
Alessandria d’Egitto, al Museo Allard Pierwson di Amsterdam, al City Hall di Sarajevo. “Digital Museum Expo”
consentirà ai visitatori di vivere il passato, nei suoi edifici, nei suoi paesaggi e nella sua quotidianità, attraverso
filmati, sistemi di interazione naturale e applicazioni mobili: contenuti interattivi e multimediali, dunque, al fine
di promuovere la ricerca nell’ambito dei nuovi meccanismi di interazione e fruizione dei beni culturali.
34 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Regione Campania
Portale dei Musei locali e
di interesse locale per la Campania
www.regione.campani.it
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Turismo e Cultura
Musei in Campania
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Museo Civico Archeologico
di Pithecusae
Indirizzo: Corso Angelo Rizzoli, 210
Cap: 80076
Comune: Lacco Ameno - Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 081 3330288 - 081 996103
Fax: 081 3330288
e-mail: [email protected]
Sito web: http://www.pithecusae.it
Social network: Facebok
Tipo proprietà: Comune
Denominazione proprietà: Comune di Lacco Ameno (Na)
Riconoscimento Regionale: no
Rete o sistema museale: sì
Rete: Complesso Museale di Villa Arbusto
Ente competente: Soprintendenza speciale per i beni archeologici
di Napoli e Pompei
Ha sede in Lacco Ameno d’Ischia nell’edificio principale
del complesso di Villa Arbusto, costruito nel 1785 da Don
Carlo Acquaviva, duca d’Atri, lì dove esisteva la «masseria
dell’Arbosto». Divenuta nel 1952 residenza estiva dell’editore Angelo Rizzoli, fu acquistata dal Comune di Lacco
Ameno per ospitarvi il Museo Archeologico, destinato ad
illustrare la storia dell’isola d’Ischia dalla Preistoria sino
all’età romana. Numerosi ed importantissimi sono soprattutto i reperti, recuperati grazie agli scavi condotti a Ischia da
Giorgio Buchner a partire dal 1952, relativi all’insediamento greco di Pithecusae, il più antico dell’Italia Meridionale,
fondato nelI’VIII secolo a. C. da Greci provenienti dall’isola
di Eubea. Tra essi si annoverano il cosiddetto “Cratere del
Naufragio” e la kotile nota come “Coppa di Nestore” (VIII
sec. a C), che reca inciso in alfabeto euboico, e sicuramente
a Pithecusae, un epigramma di tre versi che allude alla celebre coppa di Nestore cantata nell’Iliade. Essa rappresenta
una delle più antiche testimonianze di scrittura in lingua greca finora note.
Descrizione: Il percorso museale si articola in otto sale
espositive, organizzate in ordine cronologico, dal periodo
preistorico al periodo romano. Del periodo preistorico (sala
I) si hanno testimonianze rilevanti di un villaggio dell’età
del ferro riportato alla luce grazie agli scavi dell’archeologo
Giorgio Buchner nella località Castiglione (Casamicciola
Terme). Le sale più importanti (II, III, IV) relative alla colonia greca di Pithecusa (VIII sec. a.C.) espongono i reperti
provenienti dalla necropoli (Valle di San Montano), utilizzata per più di un millennio. Nell’età romana l’Isola, che
assunse il nome di Aenaria, fu flagellata da numerose eruzioni vulcaniche, tanto che i Romani non vi si stabilirono in
maniera cosi massiccia come, ad esempio, nei vicini Campi
Flegrei. Le principali testimonianze di questo periodo sono
costituite dai rilievi votivi in marmo dal santuario delle Ninfe, presso Nitrodi (Barano), e dai lingotti in piombo e stagno
della fonderia sommersa di Carta Romana (Ischia) .
Museo Civico Angelo Rizzoli
Indirizzo: Complesso museale di Villa Arbusto - Corso Angelo
Rizzoli, 210
Cap 80076
Comune: Lacco Ameno - Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 081 3330288 - 081 996103
Fax: 081 3330288
e-mail: [email protected]
Sito web: http //www museoangelorizzoli.it
Social network: ---Tipo proprietà: Comune
Denominazione proprietà: Comune di Lacco Ameno (Na)
Riconoscimento Regionale: no
Rete o sistema museale: sì
Rete: Complesso Museale di Villa Arbusto
Ente competente: Soprintendenza speciale per i beni archeologici
paesaggistici storici artistici ed etnoantropolgici per Napoli e provincia.
Il Museo, concepito quale necessario e ideale completamento del Museo Civico Archeologico di Pithecusae, ha lo
scopo di far conoscere l’uomo, l’editore, il produttore cinematografico Angelo Rizzoli e l’evoluzione turistico-culturale dell’isola d’Ischia raccogliendo, conservando e tutelando
le testimonianze materiali dell’editore e le tracce storiche
dello sviluppo territoriale isolano. Il “Commenda”, infatti,
oltre ad essere un importante esempio di uomo che, dal nulla, crea un impero finanziario che segna la storia editoriale e
cinematografica della nostra nazione, ha anche condizionato
fortemente lo sviluppo socio-turistico di Ischia tra gli anni
Cinquanta e gli anni Settanta. A lui si deve la realizzazione
dell’unico ospedale pubblico, di strutture sportive, la spinta
allo sviluppo turistico con la costruzione di importanti alberghi e con la grande notorietà che diede all’Isola, sia rendendola crocevia di incontri e luogo di villeggiatura di attori e
registi, finanzieri, famiglie reali, sia consentendo alle risorse
termali ischitane di acquisire dignità terapeutiche.
Descrizione: Il Museo, inaugurato nel maggio 2000 in
collaborazione con la RCS, alla presenza del presidente del
Senato On. Nicola Mancino e della famiglia Rizzoli, è situato nel Complesso Museale di Villa Arbusto, ex dimora di
Angelo Rizzoli, e raccoglie le testimonianze della sua vita
eccezionale. Nelle cinque sale sono conservate 500 fotografie storiche che ritraggono Angelo Rizzoli con i maggiori
personaggi del suo tempo; documenti originali; premi cinematografici (Palma d’oro, David di Donatello, Biglietto
d’oro, Nastro d’Argento), letterari ed editoriali conferiti al
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
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“commenda”; riconoscimenti originali di capi di stato, le dediche autografe di Gabriele D’Annunzio e Luigi Einaudi, le
lettere che il giovane Rizzoli scriveva ai familiari dall’orfanotrofio Martinitt.
Fondazione William Walton
Giardini La Mortella
Indirizzo: Via Francesco Calise, 39
Cap 80075
Comune: Forio - Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 081 986220
Fax: 081 986237
e-mail: [email protected]
Sito web: http //www.lamortella.org
Social network: https://www.facebook.com/pages/Giardini-LaMortella-Ischia
Tipo proprietà: Fondazione
Denominazione proprietà: Fondazione William Walton e La Mortella
Riconoscimento Regionale: sì
Rete o sistema museale: no
Ente competente: Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campani
La Mortella è lo splendido giardino creato a partire dal
1956 da Susana Walton, appassionata botanica, moglie argentina del compositore inglese Sir William Walton. Disegnato dal paesaggista Russell Page, è considerato uno dei
più bei giardini privati in Italia. Lady Walton, rimasta vedova nel 1983, lo aprì al pubblico nel 1991 e creò la Fondazione William Walton con l’obiettivo di far conoscere la musica
del marito e preservare il giardino. Alla sua morte nel 2010
la proprietà è passata alla Fondazione. La Mortella è divisa
in due parti: Valle e Collina, ed ha una raccolta imponente
di piante esotiche. La Valle, disegnata da Page, subtropicale,
ha un’atmosfera intima, punteggiata di fontane e protetta da
grandi alberi. La Collina, solare, panoramica, presenta edifici come il Tempio del Sole, la Sala Thai con il giardino
orientale, i due memoriali, Ninfeo e Roccia di William, dove
sono custodite le ceneri dei Walton, ed il Teatro Greco, incastonato fra le rocce e affacciato sul mare. Nel giardino si
trovano il Museo e l’archivio William Walton, che comprende lettere, fotografie, manoscritti, alcuni dei quali in mostra
permanente nel Museo.
Descrizione: La Mortella ospita nelle diverse zone del
giardino molte piante rare ed inusuali, come la Victoria
amazonica (ninfea gigante) e lo Strongylodon macrobotrys
(rampicante di giada) nella Victoria House, le felci arboree
della Nuova Zelanda, le cycadaceae dislocate in vari punti del giardino, alcune di dimensioni imponenti, orchidee,
sia in serra che all’aperto, palme, fior di loto e ninfee nelle
diverse vasche e fontane, bromeliacee, come la imponente
Puya berteroniana dai fiori verde smeraldo, piante delle zone
mediterranee di tutto il mondo (dalla California all’Australia passando per il Sudafrica e le aree circum-mediterranee),
Agavi ed una ricchissima collezione di Aloe, frutto della donazione di collezionisti.
36 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Museo Luchino Visconti
(Fondazione La Colombaia)
Indirizzo: Villa La Colombaia, via Francesco Calise130
Cap 80075
Comune: Forio - Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 081 987115
Fax: 081 987115
e-mail: [email protected]
Sito web: http //www.fondazionelacolombaia.it/museo
Social network: Facebook
Tipo proprietà: Comune
Denominazione proprietà: Villa La Colombaia di Luchino Visconti
Riconoscimento Regionale: no
Rete o sistema museale: no
Ente competente: Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e provincia.
La Fondazione si propone lo scopo di diffondere la cultura
della comunicazione e dello spettacolo, con particolare riferimento alle arti cinematografica e teatrale, e di promuovere
la formazione e la specializzazione. La Fondazione “La Colombaia di Luchino Visconti” è stata costituita dal Comune di Forio con delibera n. 69 del 20 settembre 2001 ed ha
ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica dalla
Regione Campania con decreto n. 315/02 dell’Assessore al
Sistema delle Autonomie. Ha sede nella storica residenza
estiva di Luchino Visconti, dichiarata di interesse culturale e
architettonico dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, al termine di una campagna di sensibilizzazione che ha
riunito un vasto movimento di opinione animato da intellettuali, artisti e parlamentari italiani ed europei. Dall’11 agosto
2003 le ceneri del Maestro riposano nel giardino della Villa
laddove lui stesso coltivava splendide ortensie: una volontà
del regista esaudita a 27 anni dalla sua scomparsa. Dal 27
novembre 2006, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha
posto la Fondazione sotto il suo Alto Patronato, per l’intera
durata del suo mandato.
Descrizione: La Colombaia è oggi il principale luogo della
memoria viscontiana. Dal 2004 ospita il primo nucleo del
Museo permanente dedicato a Luchino Visconti nella sua
dimora, affidato alla progettazione e alla realizzazione di
Caterina d’Amico - figlia della sceneggiatrice Suso, preside
della Scuola Nazionale di Cinema e Ad di Rai Cinema - e
Piero Tosi, il maestro dei costumi che ha legato la sua carriera ai capolavori viscontiani. Oltre 300 immagini, i costumi di scena, cimeli compongono un racconto speciale tra le
stanze della villa attraverso una collezione che si arricchisce
di documenti di anno in anno.
Museo del mare dell’isola d’Ischia
Indirizzo: Ass. Amici Museo del mare_Palazzo dell’Orologio, Via
Luigi Mazzella, 7
Cap 80077
Comune: Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 3452305766
Fax: 081 993470
e-mail: [email protected]
Sito web: www.museodelmareischia.it
Social network: Facebook
Tipo proprietà: Associazione riconosciuta
Denominazione proprietà: Associazione Amici del mare
Riconoscimento Regionale: no
Rete o sistema museale: no
Ente competente: Soprintendenza per i Beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia.
Posta nel cuore del Mediterraneo la nostra isola è inserita
nella vita civile dell’uomo da millenni. I nostri antenati non
hanno lasciato testimonianze scritte sulla loro esistenza. Ci
tocca leggere il passato attraverso l’archeologia e il più recente attraverso la raccolta, l’osservazione e lo studio sia di
documenti scritti sia di reperti di materiali rimasti. Il Museo
del Mare dell’isola d’Ischia, inaugurato alla fine del 1996,
vuole esprimere la peculiarità della storia isolana. La terra
nata dal mare, il suolo che da sempre ha trovato nel mare il
proprio destino, lavoro e amore, ha il diritto ad una memoria
collettiva ben visibile. Né la dimostrazione dell’uomo, né
l’azione corruttrice del tempo deve distruggere le testimonianze del nostro passato.
Denominazione: Le raccolte
Il museo conserva una raccolta di fotografie e cartoline dal
1840 al 1860 tra le quali l’immagine della prima automobile
sbarcata sull’isola nel 1958. Vi sono conservate attrezzature
nautiche e antichi utensili da pesca: un inclinometro (1930),
un solcometro (1935), un fanale di via (1946), cesti, retini,
nasse di canna costruite dai pescatori negli anni ‘30 e una
tuta da palombaro del 1935. A questi oggetti si aggiungono
dei modellini di nave, ex voto dei marinai ed urne antiche.
Caratteristica è la collezione di francobolli provenienti da
tutto il mondo e raffiguranti elementi e materiali legati al
mare, come conchiglie, pesci e coralli.
Museo Civico del Torrione
Indirizzo: Via del Torrione snc
Cap 80075
Comune: Forio
Provincia: Napoli
Telefono: 081 3332935
Fax: 081 3332952
e-mail: [email protected]
Social network: --Tipo proprietà: Comune
Denominazione proprietà: Comune di Forio
Riconoscimento Regionale: no
Rete o sistema museale: no
Ente competente: Soprintendenza per i Beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia
(con esclusione della città di Napoli per le competenze in materia
di beni storici artistici ed etnoantropologici).
Il Museo, istituito dal Comune di Forio, ha sede in Forio
in locali di proprietà dello stesso Comune, ed espone beni
entrati a far parte del patrimonio di pertinenza comunale. La
collocazione all’interno della Torre costruita nel 1480 quale
difesa contro le invasioni saracene rappresenta di per sé un
bene architettonico monumentale, attribuisce valore aggiunto a quello delle singole raccolte di opere, di altra provenienza, che vengono ivi esposte. II patrimonio del Museo Civico
è costituito dai beni artistici mobili di proprietà comunale,
provenienti dall’artista Giovanni Maltese costituite da sculture e disegni che fotografano la vita popolare dell’ottocento. Le opere sono indicate nell’inventario del 2004,
Denominazione: Museo Civico del Torrione
Una testimonianza serena dell’umanità Foriana e isolana
dell’epoca. I personaggi sono popolani, borghesi, uomini
della politica e della cultura del tempo, con preziosi riferimenti alle sventure umane (es. il naufrago, alle attività: il
pescatore, alle aspirazioni dell’uomo dell’epoca. I volti e
gli atteggiamenti riprodotti nelle opere del M° Maltese dimostrano la partecipazione al pathos dell’esistenza umana
riprodotto con amore pietoso - Il naufrago, il naufragio di
Agrippina , il contadino, il volto dell’uomo morto le opere
suddette mostrano la vita del tempo in cui non era possibile
fotografare.
Museo Diocesano d’Ischia
Indirizzo: Palazzo Vescovile Via Seminario 29 (sez. Arte Sacra) –
Basilica S. Restituta, Piazza S. Restituta (sez. Archeologia)
Cap 80077
Comune: Ischia
Provincia: Napoli
Telefono: 081 991706 – 081 982708 Fax: 081 3330935
e-mail: [email protected]
Sito web: ---Social network: --Tipo proprietà: Ente ecclesiastico o religioso
Denominazione proprietà: Diocesi di Ischia
Riconoscimento Regionale: sì
Rete o sistema museale: no
Ente competente: Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campania
Il Museo, istituito il 5 Marzo 1997 dal Vescovo Antonio
Pagano, è articolato in due sedi: la prima, che include la se-
zione dedicata all’arte sacra, è esposta nei locali del Palazzo del
Seminario, sito nel Comune di Ischia e la seconda, che raccoglie
la sezione archeologica fa parte del complesso della Basilica
Pontificia di S. Restituta, sito nel Comune di Lacco Ameno.
Sezione Arte Sacra
Suddiviso in cinque sezioni (marmi, sculture, dipinti, argenti e
manufatti vari); gli oggetti provengono dalle chiese della diocesi e
in particolare dall’odierna Cattedrale che raccoglieva gli arredi della Cattedrale sul Castello Aragonese, bombardata nel 1809. Notevole è un fronte di sarcofago paleocristiano con 5 scene vangeliche
(IV e il V sec. d.C).
Sezione Archeologica. - Esempio di valorizzazione di area di
scavo archeologico poi musealizzata, illustra le vicende dell’insediamento di Pithecusae dall’età arcaica all’epoca medievale. L’area
(1000 mq), distribuita tra l’edificio annesso alla Basilica e la zona
sottostante, si esplica in tre sale e nei quattro settori dell’area di
scavo. Di particolare interesse l’area identificata con il quartiere
artigianale(Kerameikos) dell’antica Pithecusae e l’area della Basilica paleocristiana del IVsec. d.C.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
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Sezione Arte Sacra. I marmi
La maggior parte dei marmi provengono dal Castello Aragonese, in modo particolare dall’antica Cattedrale Si tratta di opere
che vanno dal XIV al XVIII sec., per lo più frammenti di monumenti funebri o commemorativi. Tra essi degno di nota la fronte
di un sarcofago risalente alla fine del IV secolo o all’inizio del V,
e appartenente al gruppo detto Bethesda. Raffigura cinque scene
evangeliche: Gesù che guarisce i due ciechi; Gesù che guarisce una
donna; la guarigione del paralitico a Gerusalemme presso la piscina Bethesda (donde il nome di tutti i sarcofaghi che riproducono
questa scena evangelica ); Zaccheo sull’albero; entrata di Gesù in
Gerusalemme.
Sezione Arte Sacra e sculture
La sezione dedicata alle sculture accoglie statue lignee provenienti da diverse chiese, particolarmente dall’attuale Cattedrale, da
Barano e altre località; sono opere comprese tra il XVIII e il XIX
secolo. Si tratta spesso di statue devozionali, eseguiti da scultori di
non grande rinomanza di ambito napoletano. L’isola d’Ischia sebbene patria di due fratelli scultori Patalano, non possiede loro opere
di sicura attribuzione. Infatti, le due statue di Gaetano, un Crocifisso e un'Assunta, citati da Antonio Parrino nel 1704 nell’antica
chiesa del Rosario di Lacco distrutta dal terremoto del 28 luglio
1883, sono scomparse.
Sezione Arte Sacra. I dipinti
La Quadreria del Museo comprende sia tavole che tele databili
tra il XVI e il XIX secolo, anch’esse provenienti da diversi luoghi
sacri della diocesi. In particolare, si segnalano alcune tavole provenienti dall’attuale Cattedrale e prima ancora da quella del Castello,
per le quali si può supporre una committenza aristocratica, forse da
parte della famiglia d’Avalos, che fino al 1730 circa ha esercitato
su Ischia un potere feudale. Notevole è un san Tommaso d’Aquino,
attribuibile allo spagnolo Pedro de Aponte, che risulta attivo a Napoli all’inizio del XVI sec. e un San Giorgio e il drago attribuibile
al pittore Ippolito Borghese (1598).
Sezione Arte Sacra. Gli argenti
Notevole per ricchezza e bellezza dei pezzi esposti, si presenta
anche la parte riservata agli argenti, che vanno dal XVIII al XX secolo. Anch ‘essi sono di varia provenienza, ma in modo particolare
spiccano quelli provenienti dalle due cattedrali come ad esempio la
Croce capitolare e il pastorale dell’Assunta, veri capolavori dell’argenteria napoletana del Settecento. Ma particolarmente notevoli
dal punto di vista storico sono il calice di papa Pio IX e quello del
Cardinale Luigi Lavitrano. Gli oggetti esposti sono solo un piccolo campionario degli arredi d’argento sparsi nelle varie chiese
dell’isola, che talvolta costituiscono veri capolavori sia dal punto
di vista artistico che catechetico. Ma bisogna almeno ricordare che
nel 1798, in seguito alla requisizione degli argenti ordinata da Ferdinando IV, andò perduto il parato di dodici candelieri con croci
e dodici frasche d’argento realizzato da vari argentieri del XVIII
secolo per la chiesa dello Spirito Santo, e le sei statue d’argento dei
fratelli del Giudice su bozzetto del Sanmartino, e altri arredi sacri
di argento esistenti nella cappella Regine a Forio.
Sezione Arte Sacra. Manufatti vari
In questa sezione sono esposti oggetti di varia natura, sacri e profani, alcuni dei quali abbastanza rari e di grande bellezza artistica,
suppellettile liturgica con pezzi veramente rari, come la “pace”
proveniente dall’arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli, che costituisce un raro oggetto di uso liturgico e, nel caso specifico, un pezzo unico di argenteria. Vi sono esposti anche anelli
episcopali e canonicali, tra cui un prezioso cammeo appartenuto
al canonico Onofrio Bonocore. Notevoli sono ancora alcuni tessuti
di particolare pregio per la stoffa e i preziosi ricami che li ornano.
Tra questi alcune pianete dei secoli XVIII - XIX provenienti dalla
38 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
Cattedrale. Gli oggetti musealizzati costituiscono solo un piccolo
campionario del patrimonio artistico e liturgico, che ancora si può
trovare in tante chiese dell’isola.
Sezione Archeologica. Sale I-II-III
Sala I e II Oltre ad oggetti votivi di diversa provenienza e cronologia, nelle vetrine sono esposti numerosi tipi di corredi liturgici
e maioliche del settecento e ottocento napoletano; tra le ceramiche, di particolare interesse sono le produzioni invetriate a bande che coprono un periodo che va dal VI al XIV sec. d. C e che
continuano a testimoniare il coinvolgimento dell’Isola d’Ischia nei
traffici commerciali del Mediterraneo anche in età Tardoantica e
Medievale. Le restanti vetrine ospitano frammenti di ceramica, per
lo più di fabbricazione locale, provenienti da diversi siti dell’isola: produzioni greco-arcaiche provenienti da Cava Grado, presso
Sant’Angelo, materiali di età romana rinvenuti in località Toccaneto (Barano), Noia (Serrara Fontana) e Cilento (Ischia). Sala III
L’ambiente, che funge pure da sacrestia alla basilica di S. Restituta,
ospita diverse statue lignee di santi e preziosi corredi liturgici (paramenti sacri, ostensori, messali, ecc.).
Sezione Archeologica. Settore I
Identificato come il quartiere artigianale dell’antica Pithecusae, comprende 6 fornaci, attribuibili all’età ellenistica, forse
con fasi di epoca precedente. La n. 1, n. 2 e la n. 3, site sotto la
sacrestia della Basilica, hanno restituito un mortaio cilindrico
e due vaschette rettangolari per decantare l’argilla e uno spazio per l’asciugatura delle tegole. La n. 4 e la n. 5 si trovano
sotto il cortile della chiesa; resta un paramento murario della
n. 6. Dall’area di scavo provengono ceramica a vernice nera,
ceramica comune, anfore di tipo greco-italico, spesso bollate.
Numerosi gli strumenti connessi con la produzione. Accanto
una necropoli di età romano-imperiale con sepolture di tipo
alla “cappuccina” (tegole a doppio spiovente), e del tipo a “enchytrismos” (per la sepoltura di bambini). Le vetrine espongono ceramica, terrecotte architettoniche, strumenti litici, utensili
in metallo…
Sezione Archeologica. Settore II
Vi si accede attraverso uno stretto passaggio su un lato del
quale è visibile una tomba ad “arcosolio” (tipo di sepoltura caratterizzata da un ampio arco a sesto ribassato, generalmente
attribuibile all’età tardo-antica). In questa zona si conservano
i resti di un muro in opera reticolata, di alcuni sepolcri ricavati
sul piano di calpestio e di una piccola struttura in pietra locale
in cui sono conservate le reliquie attribuite a S. Restituta; gran
parte di queste strutture sembrano essere pertinenti alla basilica
paleocristiana del V sec. d. C. dedicata alla martire cartaginese.
Sezione Archeologica. Settore III e IV
Settore III: Nelle vetrine si trovano strumenti preistorici in
selce e ossidiana e ceramiche del neolitico, scodelle e ciotole
dell’età del bronzo. Numerosi i frammenti di ceramica grecoarcaica della prima fase coloniale euboica e frammenti di coppe
di imitazione corinzia e frammenti di ceramica attica a figure
nere e rosse, anse di anfore rodie con bollo; terrecotte figurate
(testine femminili, statuette, busti), louteria e sostegni di bracieri, matrici per decorazioni, ceramiche a vernice nera del tipo
“Campana A”. Si segnalano fibule in bronzo, aghi, punteruoli
in metallo. Nel settore IV si apre un’ultima area caratterizzata
da una necropoli con più livelli di frequentazione: le sepolture
più antiche del tipo alla “cappuccina” (II-III sec. d. C.), mentre
le più recenti sono intagliate nel piano di calpestio e coperte da
tegole di scarto datate tra sesto e ottavo secolo d.C.
Francesco Cenatiempo
Ischia nell'Odissea
Prolusione all'Accademia tenuta in occasione
della solenne distribuzione dei premi
nel Seminario d'Ischia - 1907
Fra i genii che furono più maltrattati e ad un’ora più onorati di culto e
di ammirazione dalla critica di tutti i
tempi, il primo posto tocca esclusivamente ad Omero, la più grande anima poetica dei secoli passati. Intorno
all’esistenza, al luogo di nascita, al
tempo ed alle opere che la tradizione
ha sempre attribuite al suo meraviglioso ingegno, si accese, fin dalla più remota antichità, un gran dibattito fra gli
eruditi; dibattito che, ingrossatosi nel
progresso degli anni man mano che si
son venute evolvendo e perfezionando
le discipline filologiche, sempre lungi
da una soluzione decisiva, dura oggi
più che mai vivo ed ardente sotto il
famoso titolo di questione omerica.
A partire dai primi attacchi mossi,
nell’epoca alessandrina, dai cosiddetti
separatisti, fino alle ardite negazioni
del Casaubon, del Perrault e di G. B.
Vico; dalla guerra mortale dichiarata
da Augusto Volf fino alle generose
difese del Nauk e del Bérard, per tacere di moltissimi altri, chi potrebbe
dire quante tonnellate di carta e fiumi
d’inchiostro si sono consumati intorno a questa eterna questione, non dico
senza utilità, ma certo senza esito alcuno? Per cui, nei tempi che volgiamo, prevale fra i dotti una larga vena
di salutare scetticismo a riguardo delle strampalate e spesso contradittorie
conclusioni della critica omerica;
cotalché anche a voi potrebbe ormai
sembrare un perditempo l’occuparsi
più oltre di cose così lungamente e
profondamente discusse, ed intanto
insolute tuttora. Eppure, Signori, il vespaio omerico,
permettetemi 1’espressione, oggi è
stato ridesto da un’opera che vide la
luce, mesi fa, per i tipi del Leroux, in
Parigi, e di cui giova tener informata
la parte colta della cittadinanza ischiana. E, notate, dissi giova, non perché
il nuovo volume ci abbia portato, finalmente, la soluzione del complesso
problema, che è e sarà ancora per un
pezzo l'espettazione del mondo letterario; ma bensì perché il contenuto di
esso, ove mai fosse riconosciuto vero,
sarebbe un monumento parlante della
più antica e gloriosa storia di questa
nostra isola incantata.
Io parlo del lavoro di Filippo
Champault1, nel quale questo geniale scrittore, contro quella critica che
presume l’opera d’Omero sia tutta
una poetica invenzione, sostiene che
la seconda parte dell’Odissea, cioè il
Nostos, oltre ai meriti impareggiabili
di opera d’arte immortale, ha altresì
un grandissimo valore documentario,
studiato dal triplice punto di vista geografico, storico e sociale. In termini
più precisi, egli pretende dimostrare
che la terra dei Feaci, la loro città
Scheria ed i Feaci stessi non sono già
degli esseri immaginari, vissuti, un
momento solo, nella sola visione del
poeta; ma che sono invece esseri tolti
dal reale e che si identificano con la
nostra isola d’Ischia, col Castello e
con quella colonia di fenici ellenizzati
che vennero primi a stabilirsi da noi.
Naturalmente per questa identificazione occorreva che l’autore conoscesse
l’isola nostra non solo nella sua configurazione generale, ma anche nei suoi
minimi particolari topografici; ebbene
1 Ph. Champhault — Phéniciens et Grécs
en Italie d’après l’Odyssée. Paris. Leroux
Éditeur, 1906. (Di detta opera La Rassegna
d'Ischia ha anche pubblicato una completa
traduzione dal francese in italiano, a cura di
Raffaele Castagna).
lo Champault nel 1904 non trascurò di
venire a studiare sul luogo quello che
servir doveva al suo scopo. Ora, se il
suo studio meni ad una dimostrazione
scientifica della tesi predetta, ovvero
raggiunga solo un grado di maggiore o minore probabilità, o si debba
piuttosto ritenere come un germoglio
anch’esso poetico rampollato sul vecchio tronco del Nostos, giudicherete
voi, dopo che io ve ne avrò sintetizzato, nel miglior modo possibile e quasi
con le sue stesse parole, le parti più
rilevanti : solo vi dico che, nella speciosità e novità della cosa, noi abbiamo visto una ragione sufficiente per
accademizzare quest’anno appunto il
Nostos omerico.
Signori, tutti si sa che oggi l’Odissea dai critici è generalmente divisa in
tre grandi parti : la Telemachia, cioè
la lotta di Telemaco, figlio di Ulisse e
la sua dichiarazione di vendetta contro i greci divoratori delle sostanze del
padre; il Nostos, o «ritorno di Ulisse»
con le strane avventure dei suoi errori, ed infine la Mnesterophonia, cioè
la strage dei Proci per mano di Ulisse,
che compie la vendetta intimata eroicamente dal figlio. La seconda di queste tre parti forma 1’oggetto del nostro
breve trattenimento il suo contenuto
può riassumersi così: «Calipso, figlia
di Atlante, la quale per anni parecchi
ha ritenuto Ulisse prigioniero nella
sua isola di Ogigia, riceve da Giove,
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
39
padre dei numi, l’ordine di lasciarlo
partire. Il Laerziade s’imbarca solo sur
una zattera da lui stesso costruita, ed,
assalito per via da una tempesta, arriva
naufrago al paese dei Feaci. Quivi è
accolto da Nausicaa, giovanetta regale, che lo guida alla reggia del padre
Alcinoo, dove questi e sua moglie
Arete gli fanno festa unitamente ai
più nobili di tutti i Feaci. Ulisse racconta loro le prove senza numero che
l’hanno travagliato dopo la partenza
da Troia, il suo andar ramingo tre anni
per il mar Tirreno e la sua prigionia
di sette anni presso Calipso. Ottiene
quindi di essere ricondotto ad Itaca,
sua patria, dove finalmente approda».
Orbene, alla prima lettura di questa
parte, una cosa fra tutte colpisce il lettore, ed è l’importanza grandissima
che il poeta dà al piccolo popolo dei
Feaci, importanza ben notata sotto il
duplice aspetto: materiale e morale.
Difatti, tolto il brevissimo preambolo
del libro quinto, che necessariamente
preparar doveva l’arrivo di Ulisse alle
loro coste, e tolta del pari la non meno
breve conclusione che segue alla sua
partenza da Scheria nei XIII, tutto il
resto si svolge in mezzo a loro. Essi a
volte sono dati dal poeta come uditori
dei racconti dell’eroe, più spesso da
uditori divengono attori ed attori principali. La sorte del Laerziade, eversor
di città, è nelle loro mani; da essi dipende la sua vita ed il suo ritorno in
patria: in una parola si può bene affermare che il Nostos è il poema di Ulisse
presso i Feaci.
Ma il posto morale che essi occupano nell’animo dei poeta è molto
più considerevole di quello materiale
dai medesimi occupato in tutta l’opera. In verità i Feaci non costituiscono
che un minuscolo popolo quale potevasi contenere nella loro minuscola e
sola città: Scheria la deliziosa. Non
per questo però rimpicciolisce la loro
importanza agli occhi del poeta, che
scorge in essi una razza superiore e si
studia in mille modi di far lampeggiare questo suo sentimento. A sentirlo, i
Feaci sono prossimi parenti degli Dei,
illustri, irreprensibili, magnanimi, gloriosi in mare: le loro navi sono mirabili e
40 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
come stral veloci
varcano il mar pescoso, in densa avvolte
impenetrabil nube, né paura
mai d’arrenare o d’affondar le coglie.
(Masp.)
Così fra ammirazione a getto continuo e lodi più o meno sincere ed iperboliche, il poeta seguita ad esaltare di
quel popolo meraviglioso, il paese, i
costumi, il reggimento, ogni cosa insomma.
Dall’importanza cosi manifesta di
questo popolo agli occhi di Omero,
dall’atteggiamento che il poeta prende dinanzi ad esso, noi siamo indotti a
credere, prima di qualsiasi esame, che
questo popolo occupi un posto ben
noto nella storia e che la sua città, di
cui il poema fornisce sì minuto e preciso ragguaglio, si possa agevolmente
identificare sulla carta geografica. Eppure, notate combinazione, questo popolo è perfettamente sconosciuto agli
storici, come è perfettamente ignorata
dai geografi la loro città. Di ambedue
non esiste traccia alcuna: un ricordo
ne sopravvive nell’aria: il paese, la
vita e la storia di questo popolo è tutta
e solo nel nostro poema.
Questo bastò ai critici leggeri e
superficiali per proclamare i Feaci
un popolo non mai esistito e di pura
immaginazione. Il Rieman, nel 1879,
asseriva che «nessuno aveva mai sognato di prendere sul serio i racconti
di Omero sui Feaci: solo ammettersi
che marinai della jonia avessero potuto diffondere la notizia di un’isola,
molto lontana, molto fertile e ridente,
popolata di marinari impareggiabili,
e questi racconti fossero trasformati
dall’immaginazione popolare in una
leggenda meravigliosa: in questo solo
senso potersi far questione di Feaci
e della loro isola fortunata ». Peggio
ancora i fautori di miti ormai screditati, come il Velcher ed il Decharme,
i quali sostennero il carattere mitico
dei Feaci, fondandosi sulle genealogie
riportate dall’Odissea, per dimostrare
che «quegli esseri meravigliosi erano
personificazioni del mare e dei suoi
furori».
Ma non era questo il pensamento
dei Greci, i quali, convinti che i Feaci
dovessero essere vestiti di carne e di
ossa, e che i luoghi visitati da Ulisse
dovessero essere i dintorni delle loro
principali colonie italiane, vedevano
in essi gli antichi abitanti dell’isola
di Corcira, oggi Corfù; ipotesi che,
nonostante qualche voce in contrario,
come Eratostene, Aristarco e Didimo,
fece fortuna nei tempi antichi. Anch’oggi, salvo qualche leggera modificazione, è stata rimessa in onore per
opera di un altro scrittore anch’esso
francese, il Bérard, il quale con un diligente studio dei raffronti topografici,
ha preteso dimostrare che la terra dei
Feaci è la più settentrionale delle isole
Ionie, sulle coste Albanesi.
Signori, con gran fede nel testo omerico e con ferma persuasione del suo
valore documentario, Filippo Champault, entra a combattere le conclusioni di quella critica che presume fare
dell’opera d’Omero un tessuto d’invenzioni fantastiche o mitologiche, e,
scrollando la identificazione corfiotta
del suo connazionale, dimostra che
Scheda, la terra dei Feaci, non è immaginaria: è anzi veramente esistita e
si identifica con la nostra ridente isola
d’Ischia.
Vediamo come.
Tutte le avventure contenute nel Nostos hanno per teatro, secondo l’opinione più comune e meglio fondata, le
coste d’Italia bagnate dal mar Tirreno
e precisamente quelle che dalla Sicilia
vanno a tutta l’Etruria, anzi più propriamente ancora il centro di questa.
Che debba essere così, appare dal testo; poiché la tempesta del Capo Malè
e la conseguente apparizione di Ulisse
al paese dei Lotofagi, nell’ intendimento del poeta, hanno per fine assai
riconoscibile di condurre l’eroe nel
Tirreno per l’Ovest della Sicilia. E voi
già avete intuito, che ove mai le localizzazioni fossero certe, si avrebbe, dal
punto di vista delle ricerche del nostro
autore, un fatto di considerevole importanza. Ne seguirebbe, invero, che
il poeta ebbe delle ragioni tuttaffatto
speciali per raccontare le leggende ed
il passato meraviglioso di questa regione, in cui egli fa soggiornare il suo
eroe così a lungo; e se cerchiamo d’indagarle queste ragioni, una se ne presenta subito alla nostra considerazio-
ne come un’ipotesi non disprezzabile,
cioè che i Feaei, i quali sono tanto a
cuore al poeta, abitano appunto questa
regione. Cotalché il Nostos, eccezion
fatta del viaggio presso Calipso, nella
sua interezza avrebbe per teatro e per
obbietto un’unità geografica assai ristretta. La terra dei Feaci, alla quale il
poeta consacra dei libri interi ed una
serie di scene desunte dalla vita reale,
sarebbe agli occhi dello stesso il punto più importante, il centro morale,
se non forsanco il centro materiale di
questa unità geografica; laddove le regioni cantate negli episodi, sarebbero
le regioni circonvicine, di secondario
interesse. Senonché il viaggio presso
Calipso, che trasporta Ulisse lontano,
molto in fuori del Tirreno, pare che
spezzi questa unità geografica. Eppure non e cosi; questo viaggio stesso,
giustamente esaminato, ne conduce
perfettamente al centro del Tirreno.
Infatti, secondo l’Odissea, Ulisse,
nell’ ora
che molte liti il giudice composte
esce dal foro e a cena s’incammina,
(Masp.)
parte dal Nord di Cariddi e dopo nove
giorni di navigazione, alla decima
notte, arriva all’isola di Ogigia, ove è
raccolto da Calipso, figliuola d’Atlante. I commentatori son tutti d’ accordo
nell’ammettere che l’isola suddetta si
debba ritrovare nei dintorni di Gibilterra.
Ora la distanza che c’è dallo stretto di
Messina a Gibilterra è considerevole,
mentre il tempo che v’ impiega Ulisse
evidentemente è molto corto. Questo
doppio rilievo ci fa pensare che i nove
giorni e le nove notti e mezza, indicati
da Omero con tanta precisione, rappresentino secondo lui il tempo utile
a raggiungere quel limite per la linea
marittima più diretta. La quale linea
marittima più diretta è un itinerario
costiero quasi in linea retta, che, correndo parallelo alle spiagge della Sicilia settentrionale, raggiunga la costa
africana verso 1’antica Cartagine e la
persegua, senza perderla mai di vista,
fino a Ceuta. Ora, se consultiamo il
viaggio di circumnavigazione attribuito a Scjlax, troviamo che esso indica
sette giorni e sette notti da Cartagine
a Ceuta. Valutiamo il tempo necessario a correre, con la stessa velocità, lo
spazio tra Messina ed il capo Bianco,
deducendo il tragitto divenuto naturalmente inutile tra Cartagine ed il capo,
e noi troviamo due giorni e due notti
e mezza: sommando, avremo i nove
giorni e le nove notti e mezza, indicati
da Omero.
Né meno matematicamente precise
sono le cifre che questi ci dà del ritorno di Ulisse dall’Isola di Calipso alla
terra dei Feaci. Difatti, nel libro quinto, Giove, mandando Mercurio alla
ricciuta ninfa Calipso per comunicarle
l’ordine di far partire l’eroe, dice:
Non l’accompagni degli Eterni alcuno
o dei mortali :ma su ferma zatta,
da lui stesso allestita, il nero golfo
ei solchi, e dopo venti dì pervenga
alla fertile Scheria, ove soggiorno
hanno i Feaci dagli Dei discesi.
(Masp.)
Prima di dimostrare 1’esattezza di
questa cifra, è necessario premettere
che la navigazione contemporanea
di Scjlax ed a più forte ragione quella omerica, non potevano perdere di
vista le coste. Cotalché per andare da
Gibilterra in Grecia, gli antichi non
avevano già quel numero indefinito di
linee che hanno oggi i marinari moderni,
Due sole vie erano aperte: o quella meridionale costeggiante l’Africa,
ed è quella che in parte abbiam visto
percorsa da Ulisse in andare, o quella settentrionale, che per le coste della Spagna, della Francia e dell’Italia
raggiungesse la Grecia. Poteva il poeta fare che il suo eroe, ricalcando i
passi, scegliesse la prima ma poteva
benanco fargli preferire la seconda per
trarne motivo d’apprenderci ch’egli
conosceva non meno delle coste africane, le coste europee. Anzi il poeta
sapientemente volle che cosi fosse.
Difatti, Ulisse, sulla zattera da lui
stesso costruita, parte da Calipso,
avendo 1’Orsa sempre a sinistra, cioè
ad Occidente, e dopo aver navigato felicemente 17 giorni e 17 notti, al mattino del 17° giorno, si vide innanzi
coi primi raggi mattutini i foschi
monti apparir della Feacia terra.
Se non che il possente Nettuno, ritornando dalle genti etiopi, lo scorge
già in vista della terra fatale dove è
stabilito che debbano terminare i suoi
mali; epperò, come per dargli un ultimo addio, gli suscita contro un’orribile tempesta, che lo travaglia per altri
due giorni, finché, il mattino del terzo,
può finalmente mettere piede a terra. Orbene, se mettiamo a riscontro l’itinerario di Ulisse col giro di navigazione riconosciuto a Scjlax, noi troviamo
che per un viaggio lungo le coste della
Spagna occorrono sette giorni e sette
notti; per quello lungo le coste IberoLiguri fino al Rodano due giorni e una
notte : due giorni e due notti per le Liguri: quattro giorni e quattro notti per
le coste tirrene fino all’imboccatura
del Tevere; un giorno e una notte fino
a Terracina ed in ultimo con altri due
giorni si tocca il golfo di Napoli. Tirando la somma, troviamo 18 giorni e
15 notti. Ma, notate, si tratta di giorni
d’està, dappoiché non si naviga affatto
d’inverno, e questi giorni sono presso
a poco due volte più lunghi che le notti
corrispondenti: ora i nostri tre giorni
in più delle notti valgono dunque circa
48 ore, per cui abbiamo, con una soddisfacente approssimazione, 17 giorni
e 17 notti. Aggiungete a questi gli altri tre giorni che la tempesta trattenne
l’eroe in vicinanza delle coste senza
fargli toccar terra, ed avrete appuntino
i 20 giorni predetti da Giove. Come
dunque è manifesto, l’itinerario che il
poeta fa seguire al suo eroe, partendo
dall’isola di Ogigia, si arresta proprio
nel Golfo di Napoli, che è molto sensibilmente il centro del nostro bacino
marittimo tra l’Elba e la Sicilia. Cotalché, o signori, la terra dei Feaci si
deve per necessità trovare nel golfo di
Napoli.
Ma dove? sul continente o fra le
isole?
A prima vista, la risposta sembra un
po’ difficile. Omero a proposito della
terra dei Feaci adopera questa espressione a doppio senso: la terra dei Feaci. Intanto, se la terra dei Feaci è sulla
costa occidentale d’Italia, conviene
senza esitazione ricercarla in un’ isola.
Ed ecco perché.
Quando Ulisse, a cavalcioni sur una
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
41
trave della sua zattera spezzata, è gettato su queste rive, esso è ridotto allo
stato di naufrago: secondo l’espressione consacrata è lo zimbello dei venti
o, nella circostanza, di un vento solo,
che gli ha inviato la sua protettrice Minerva. Questo vento scelto a posta per
lui è Borea, che soffia da nord-est, e,
l’Odissea lo dice chiaramente, soffia
con violenza per 48 ore. Ulisse e la
sua trave debbono per conseguenza
seguire la direzione che loro imprime
il vento. Ora, sopra le coste occidentali d’Italia, Borea allontana i resti del
naufragio dal continente, ed è solo su
di un’isola che si può trovare una costa orientata a Nord, come è evidente.
Moltissime espressioni del testo sono
interamente nel medesimo senso. Qua
e là esso indica che gl’illustri navigatori di Alcinoo abitano lungi dagli
uomini, ch’essi sono in mezzo ai flutti
risonanti, che non hanno vicini e che
nessuno può venire ad inquietarli.
Tutto questo s’intende più verosimilmente di un’isola, ed anche meglio di
un’isola poco lontana dal continente.
Ma a quali segni riconosceremo noi
quest’isola? Omero ce ne dà moltissimi. La terra dei Feaci è dapprima
montagnosa. Il mattino del 17° giorno
di navigazione, Ulisse, che durante la
notte si è avvicinato a questa terra, la
vede, ai primi bagliori antelucani, levarsi dinnanzi a sé coi suoi monti ombrosi. La terra dei Feaci inoltre è vulcanica. Difatti, i Feaci per aver ricondotto in patria Ulisse, incorrono l’ira
di Posidone, il quale, sotto gli occhi
della cittadinanza e del re, afferra con
una mano la navicella già di ritorno da
Itaca e la trasforma in uno scoglio profondamente abbarbicato nel sottosuolo marino, indi si allontana. Il fenomeno naturale che Omero descrive sotto
forma poetica e misteriosa, colpisce
di stupore i cittadini scherioti: è una
emozione generale. Alcinoo accorre e
grida: «Gran Dio! son dunque per realizzarsi le profezie di mio padre? Egli
mi annunziava che Posidone, irritato
contro di noi un giorno avrebbe fatto
arrenare in mezzo ai flutti una delle
nostre navi ed avrebbe coperta la città
d’un’immensa montagna. Corriamo
dunque a placare con sacrifizi l’ira
42 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
del nume»! I commentatori, a questo
punto, si danno una gran pena a cercare nel mare uno scoglio che presenti
più o meno la figura di un naviglio, e
sulla terra una montagna che ingombri
veramente l’orizzonte. Vane ricerche,
poiché non era certamente questo il
pensiero del poeta. Dapprima lo scoglio e la montagna che essi indicano,
sarebbero esistiti in ogni tempo; per
converso Omero in termini molto
espliciti dichiara che la trasformazione della navicella in scoglio avviene al
cospetto del popolo. Quanto a la montagna, è anche chiaro che essa non esiste ancora, tanto vero che i Feaci corrono a scongiurarne la formazione con
preghiere e sacrifizi. Dippiù, per Alcinoo tra l’apparizione dello scoglio ed
il disastro che teme, v’ha un legame
stretto ed importante. Manifestamente
nel suo pensiero il primo fenomeno,
già spaventevole per se stesso, è foriero presso a poco certo d’un secondo fenomeno ben altrimenti temibile,
cioè che quella eruzione sottomarina
già incominciata od almeno annunziata dall’emersione di quell’isolotto vulcanico, può svilupparsi, aggravandosi,
e costituire una seria minaccia per le
abitazioni del suo popolo.
Né faccia specie il veder posti i fenomeni vulcanici alla dipendenza di
Nettuno, mentre per diritto spetterebbero a Plutone. Nettuno per Omero è il
nume che scuote la terra (enosigeo) e
la fa tremare: nel 20° libro dell’Iliade
un altro passo dice questo stesso. Ancora: il Nostos ci dà un’altra indicazione non meno precisa sulla costituzione
geologica del paese dei Feaci. Il nome
che esso dà alla loro città, e forse per
estensione a tutta l’isola, è « Scheria ».
Questa parola non greca, ma semitica
di origine, ha una radice che significa
esser nero. La città dunque dei Feaci è
la nera; ed ecco un colore nettamente
vulcanico. Scheria dev’essere fondata
sopra un masso di trachite, od almeno
in una regione, ove la lava e le scorie
sono a fior di terra.
Ma v’ha di più: il terzo segno a cui
dobbiamo riconoscere la terra in questione, secondo Omero, è che essa
dev’essere assai grande per nutrire i
suoi abitanti. Questa nota non è certa,
ma la è probabilissima. Trasferendosi a Scheria, loro novo possedimento,
come dice il poeta, i Feaci hanno voluto sottrarsi alla dipendenza ed al contatto dei popoli vicini, che erano loro
nemici. Essi si vantano e si felicitano
di non aver vicini e di essere al sicuro
dagli uomini; il che induce a credere
che essi non debbano negoziare con
altri la loro sussistenza e che tutto ricavino dal suolo. Scheria dev’essere
altresì famosa per la sua stragrande fecondità e per lo splendore del suo clima: dev’essere un paesaggio da idillio, pieno di freschezza e di mistero.
Secondo il Nostos, essa è la fertile, la
deliziosa. La descrizione che il poeta
fa del giardino di Alcinoo, da cui tolse
il Tasso le linee per il suo giardino di
Armida sulle isole fortunate, ci mette innanzi agli occhi una vera arcadia
chinese, tutta piccoli nascondigli e
piccole sorprese, e ci dà una sufficiente idea della immensa ricchezza della
sua vegetazione.
Ecco dunque brevemente compendiati i segni, da cui dobbiamo riconoscere l’isola dei Feaci. Orbene, fra le
isole del gruppo partenopeo (perché,
giova ricordarlo, Scheria dev’essere
nel golfo di Napoli a pochi chilometri
dalla terraferma) fra le isole partenopee tre sono le principali, che meritino
veramente tal nome: Ischia, Procida e
Capri. — Capri evidentemente non è
vulcanica, epperò non può convenire;
Procida, che viene dopo, è certamente vulcanica, ma non è montagnosa,
e d’altronde risponde male ad altre
condizioni che pur si richieggono per
la esatta identificazione del testo. Non
rimane adunque, che Ischia, e qui la
via all’identificazione è facile e piana. Ischia non è che un vulcano fiancheggiato da un certo numero di coni
secondari: dovunque son crateri dalle
vaste muraglie circolari, domi dalle
cupole arrotondate, larghe correnti di
lava e massi di trachite. Il suolo in più
parti ha nero: nere le rocce delle montagne, neri altresì gli scogli e le sabbie
delle spiagge. Fin dalla più remota
antichità a tutto l’evo medio, è stata
teatro di eruzioni spaventevoli; il suo
suolo, continuamente interrotto dal
mare e dai monti, come tutti i terreni
vulcanici, è di una fertilità prodigiosa;
è la più grande delle isole partenopee,
dista pochi chilometri dalla terra ferma; insomma Ischia risponde mirabilmente a tutte le esigenze del testo.
Signori, eppure, ve lo leggo sul viso,
voi non siete soddisfatti ancora; vi
mantiene perplessi e dubbiosi il pensiero che forse per mera combinazione del caso l’isola nostra riproduca la
situazione geografica e tutti i caratteri
e tratti generali della terra dei Feaci.
Voi, per dare il vostro assenso, vorreste riscontrare nell’isola nostra, oltre
ai tratti generali, tutti i particolari topografici attribuiti dal poeta a questa
terra istessa. Ebbene Filippo Champault non ha trascurato di passare a
rassegna tutte le più piccole indicazioni topografiche del testo per ricostruire qui ad Ischia lo stato antico dei
luoghi. Seguiamolo nelle sue ardite ed
ingegnose ricerche.
La scena dell’approdo alla terra dei
Feaci si svolge tutta nel 5° e 6° libro.
Ulisse, il mattino del 17° giorno di navigazione dall’isola di Calipso, vede
drizzarsi innanzi gli ombrosi monti
della Feacia terra,
quasi uno scudo in mezzo a l’oceàno;
e dopo di essere stato travagliato per
due giorni e due notti dalla tempesta
scatenatagli contro di Nettuno, finalmente perviene ad un verde lido, cui
spera di raggiungere nuotando con
tutta forza.
Ma come presso
ne fu quanto d’un uom si sente il grido,
un gran fragore udì lungo la riva;
ed era il flutto che dagli irti scogli
ripercosso muggia terribilmente,
spargendo intorno le canute spume.
Ivi porto non era o seno adatto
a ricettar le navi, ma sporgenti
scogliere e pietre.
(Masp.)
Corre serio pericolo di essere sfracellato contro queste da una terribile ondata, poi, sempre a nuoto, devia e giunge
alla foce di un limpido fiume. Questo
luogo riparato dai venti e senza scogli
gli piace: vuole mettere finalmente piede a terra, ma si accorge che la corrente
del fiume è grossa. Prega quindi il Dio
del fiume che si mova a compassione
di lui: è esaudito e dal fiume stesso è
deposto salvo sulla riva. Per la stanchezza forse o forse per la gioia, se non
per l’una e l’altra insieme, 1’eroe sviene; ma quando gli tornano i sensi e la
lena, si prostra, bacia la terra, indi per
timore che la brezza e la rugiada non
rechino offesa alle sue membra affralite, s’avvia ad un bosco vicino, entra
nel vano di due frondosi ulivi, insiem
cresciuti e avviticchiati fra loro, e si
addormenta sopra uno strame di foglie
inaridite. Il giorno seguente, verso tardi, è svegliato da un grido femminile:
esce fuori della macchia, si recinge di
un frondoso ramo di ulivo e, tutto intriso di melma e ignudo, prende dalla
parte donde il grido è venuto.
Scorge ivi un gruppo di vispe giovanette, che al mirare quella stranissima
figura di uomo,
di qua di là per lo sporgente lido
atterrite fuggir.
(Masp.)
Una di esse però, coraggiosa quanto
bella, la gentile Nausicaa, il tipo più
soave di fanciulla che vanti la poesia
ellenica, aspetta l’eroe, attacca con lui
discorso e, dopo averlo fatto lavare in
un seno del fiume ed ungere il corpo
di olio odoroso; dopo averlo donato di
tunica e manto, lo invita a seguirla alla
reggia del padre, discosta un bel tratto
da quel sito.
In effetto, riposte le biancherie già
lavate al fiume ed asciugate sulla tersa
biga, ed attaccati i cavalli, la fanciulla
dalle bianche braccia vi monta e si fa
seguire dall’eroe e dalle compagne, a
patto che, finché andranno tra le macchie ed i campi, egli sarà in loro compagnia; ma giunti in vista della città
così vicino ch’udir ne possa il grido,
(Masp.)
e propriamente al bosco dei pioppi sacro a Minerva, nel cui confine verdeggia un prato
che bagna coi sui rivi argentea fonte,
(Masp.)
egli vi si dovrà arrestare e non salire
insieme alla città, perché altrimenti
ecciterebbero il malizioso motteggio
dei concittadini. E l’eroe esegue fedelmente le prescrizioni della regale giovanetta, arriva al bosco dei pioppi, vi
si ferma e, dato il tempo utile alla fan-
ciulla di raggiungere la città, vi move
anche lui ma inosservato, perché avvolto in una nube da Pallade Minerva,
la quale gli cammina innanzi sotto le
sembianze di una donna che porta giovanilmente un’urna sul capo.
Attraversa le vie affollate di popolo,
contempla il porto, le navi schierate, il
foro, le sublimi vaste muraglie ed infine sale alla città di Alcinoo.
Ciò posto, vediamo se il nostro scrittore riesce ad identificare in Ischia tutti questi particolari topografici di cui
si fa cenno nel racconto omerico, che
vi ho testé riassunto.
Dapprima nel Nostos si dice che
Ulisse, scendendo da Nord-Ovest,
vede, il mattino del 17° giorno di navigazione, levarsi dinnanzi l’isola dei
Feaci, che nella parte più vicina disegna ai suoi occhi come uno scudo al
disopra del mare nebbioso. - Orbene,
secondo un dotto autore che ha fatto
uno studio profondo dei documenti archeologici contemporanei dell’Iliade
e dell’Odissea, lo scudo più usato al
tempo dei poemi presenta una forma
ovale, fortemente convessa in fuori,
e verso il suo centro porta una o più
sporgenze dette Omphaloi. Se, dopo
aver adagiato sur un piano uno scudo
costruito secondo le predette indicazioni, lo si situa in modo da guardarlo
di profilo, della superficie convessa
non si potrà vedere che una sola metà,
la quale termina, nella sua parte inferiore, con una silhouette disegnata
orizzontalmente.
Ora se voi vi trasportate nel mare
d’Ischia, di fronte al Capo Zale, il quale, a Nord-Ovest dell’isola, presenta la
sua larga faccia ai naviganti che, come
Ulisse, discendono dal Lazio, si disegna precisamente quella massa rotonda e schiacciata molto della montagna
principale, che corona la linea della
scogliera. Due curve quasi simmetriche partono a destra ed a sinistra,
a più centinaia di metri l’una dall’altra, e s’elevano lentamente verso un
punto culminante quasi centrale. Esse
si sono appena riunite ad un’altezza
approssimativa di 100 metri, quando
tornano ad elevarsi bruscamente in un
cono definitivo di una decina di metri:
questo cono è la guardiola di Zale.
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
43
Passato il largo del capo Zale, dopo
la costa settentrionale della nostra
isola, Ulisse lascia sulla sua destra
successivamente Monte Vico e Lacco
Ameno; e se il destino lo spinge verso
l’imboccatura del fiume, è tra Lacco
Ameno e detta imboccatura che trovar
si deve la scogliera, dove fece il primo
tentativo di prender terra e dove corse
il rischio di esser sfracellato. V'ha, difatti, in quel luogo e propriamente nel
declivio di Lédomada, una scogliera
lunga un dugento metri, la quale, salvo in un punto, presenta dappertutto
una muraglia a picco alta una ventina
di metri e guarnita alla base di blocchi
smottati, sui quali le onde si frangono
in una nebbia bianca di spume. Essa
è del tutto inabordabile e risponde benissimo alla descrizione omerica.
Più difficoltosa potrebbe sembrare
l'identificazione del fiume, sulla cui
riva avviene l’incontro con Nausicaa, mancando evidentemente l’isola
nostra di un corso d’acqua, cui possa competere un tal nome. Ma giova
far notare che nella lingua omerica
ed anche nella lingua greca di tutti
i tempi, con la parola fiume si vuol
indicare tutt’altra cosa che noi popoli occitanici indichiamo con essa. Il
più piccolo ruscelletto che si scarichi
al mare, risponde sufficientemente al
vocabolo greco potamòs. Posto ciò
nell’isola nostra, sur una costa orientata a Nord e ad una distanza di 6 chilometri circa dal castello, v’è un corso
di acqua che risponde molto bene alle
nostre due condizioni essenziali, ed è
la Lava che, scendendo dall’Epomeo,
va a gettarsi a mare in un punto quasi
centrale tra Perrone e Pozzo. È vero che
presentemente questo corso di Lava
è molto povero di acqua e potrebbe
sembrare una cosa addirittura irrisoria; ma convien ricordare che la sua
sorgente principale di Buceto, verso
la fine del 500, fu in parte deviata per
alimentare la città d’Ischia, e che ad
altre quattro sorgenti, provenienti dalla stessa regione, toccò alla loro volta
la sorte istessa, un venti anni fa, per
provvedere ai bisogni di Casamicciola. Restituite col pensiero alla Lava attuale le acque perdute e che un tempo
mettevano in movimento un mulino;
44 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
riconducetela nel suo letto antico senza trasformarla in fogna coperta nel
suo corso inferiore e senza biforcarne
l’imboccatura negli edifizii del Monte
della Misericordia e dell’Orfanotrofio;
restituite alle sue rive le fresche ombre
e le verzure, e voi avrete un bel fiumicello corrispondente alle esigenze
molto limitate del testo.
Né meno consona a queste è la identificazione del bosco dei pioppi sacri
a Minerva, nel cui confine è un prato
irrigato dall’acqua di una fontana. Difatti, da Casamicciola ad Ischia oggi
v’ha meno di 6 chilometri di distanza
: ma ai tempi di Nausicaa la via doveva essere molto più breve: le lave
dell’Arso e i contrafforti del Montagnone, del Rotaro e del Tabor, che vi
si sono formati dopo, non esistevano
ancora per imporre alla via dei Feaci
tante sinuosità. Comunque sia, certo è
che sulla strada che da Casamicciola
per Bagno conduce al castello, a 700
metri da questo, incontriamo l’acqua
Pontano, così detta dal famoso poeta
e letterato quattrocentesco che vi aveva una casa di campagna. Siccome lo
spazio intermedio è occupato in gran
parte dal mare che trasmette mirabilmente i suoni, è facile farsi sentire
di là fino al castello: epperò nulla impedisce di supporre che in quelle
circostanze appunto si trovassero il
bosco di pioppi ed i poderi del re di
cui nell’Odissea.
Ma, notate, quest’acqua ormai riconosciuta salutare e di gran valore curativo, allora non doveva essere utilizzata
dalla cittadinanza per gli usi domestici:
perché, se cosi non fosse, la fontana sarebbe stata frequentata e per conseguenza sarebbe non consentaneo al fine il
consiglio di Nausicaa all’eroe, quando
gli raccomandava di fermarsi a quella
fontana perché rimanesse inosservato.
Se non che il poeta ci parla di una fanciulla che sale alla città con sul capo
un’urna piena di acqua: questo fatto
da una parte ci fa sapere che il Castello difetta di acqua, ci mette dall’altra
nella necessità di trovare nei dintorni
medesimi un’altra fontana più utilizzabile. Orbene, la riva dell’isola, nella
parte vicina al ponte d’imbarco, offre
l’acqua quasi a fior di terra, ed il De
Rivaz nota in particolare una fontana
che il mare invase proprio al suo tempo e che aveva servito ai bisogni del
castello in tutto il medio evo.
Signori, arrivato a questo punto, io
ardisco domandarvi: non vi pare che la
cosa presenti tutti i caratteri di una grandissima probabilità? E se lo Champault
riesce ad identificare l’ultima parte della sua tesi, la Scheria cioè dei Feaci e
suoi dintorni col castello nostro e coi
dintorni dello stesso, persisterete voi a
non partecipare la sua fiducia? Ebbene;
quest’ultima identificazione, benché
alquanto più spinosa, non manca, né è
meno felice delle altre.
Il passo del Nostos che tocca della
Scheria dei Feaci è il seguente, tradotto a parole: «noi ascendiamo alla città
cui circonda un’alta muraglia: ai due
lati si apre un bel porto con una entrata
stretta: vi si fa penetrare le navi con
precauzione e tutte vi trovano sicuro
asilo. E là, ed intorno al bell'altare di
Posidone, che si spazia l’agorà, lastricata di enormi blocchi saldamente
messi - come pure è là che si riparano
gli attrezzi dei neri navigli, le gomene,
i cordami, ed è là che si fabbricano i
remi» - Il testo, come si vede, non è
molto preciso, anzi, specie nella prima
parte, si presta ad interpretazioni varie; ma, tenuto conto che i Fenici avevano in orrore le rade a gola e che preferivano gl’istmi, i quali offrivano una
marina a destra ed un’altra a sinistra
con due orientazioni opposte, possiamo precisarlo cosi: «noi ascendiamo
alla città situata sur un promontorio
peninsulare che si distacca nettamente
dalla linea generale della riviera: questo promontorio è legato alla costa da
un istmo stretto: i porti sono tra la città
ed il continente a sinistra ed a destra
dell’istmo». Come è chiaro, padrone
della situazione è qui l’istmo, quell’istmo che or son tre mila, anni era là,
mentre oggi è scomparso a causa di un
lento ma considerevole abbassamento
di suolo. E che questa asserzione sia
dalla, parte del vero, non è, credo,
chi lo metta in dubbio, se la moderna geologia ha dimostrato un lento
ma generale abbassamento di tutto
il suolo italico, eccezion fatta per la
Sardegna, la Sicilia ed il promontorio
Calabro. Prove indiscutibili di questo
bradisismo tellurico in Italia si hanno
sul fianco nord dell’Argentaro, tra Civitavecchia e Santa Severa, a Roma,
a Ostia e Fiumicino, al capo Circeo,
a Capri, Pozzuoli e ad Ischia stessa.
All’est della cittadina di Casamicciola, e propriamente di fronte al nuovo
edifizio del Monte della Misericordia,
si veggono tuttora, a livello del mare o
poco al disopra di esso, delle muraglie
che si elevano dal bassofondo ed appartengono certamente ad un edifizio
sommerso. Né mancano scienziati di
valore riconosciuto, i quali appoggino
di loro autorevole opinione l’esistenza dell’istmo tra il castello e l’isola.
Il professore Issel dell’Università di
Napoli cosi scriveva allo Champault:
«Secondo tutte le verosimiglianze, la
rocca del castello, secoli fa, era unita
all’isola a mezzo di un istmo naturale,
sparito in seguito sotto l’azione d’una
sommersione, lenta». — «Noi abbiamo ogni ragione di credere, scrive un
altro illustre geologo, che, mille anni
prima dell’era cristiana, l’istmo naturale era al di fuori delle acque. Questo
risultato si avrebbe, se noi sollevassimo Ischia al livello che occupava
dapprima il pavimento inferiore del
tempio di Serapide a Pozzuoli. L’istmo una volta sommerso, ha dovuto
essere attivamente corroso dalle correnti marine». Dopo di che, o Signori,
noi potremmo ancora questionare sul
suo modo di formazione, se cioè sia
dovuto ad importazioni delle onde
provenienti da nord e da sud, e che
vi costrussero una diga con le sabbie
che deposero nella zona comune ove
si neutralizzavano i loro sforzi: ovvero
sia stato la risultanza della erosione di
una zona di terra preesistente ed anticamente assai larga; ma questionare
sulla sua esistenza non è più lecito,
dopo sì autorevoli pareri e dopo la
constatazione dell’abbassamento del
suolo isolano e della poca profondità
del braccio di mare che lo ricopre. Se,
dunque, l’istmo è esistito, noi per ricostruire la rada che ai tempi omerici
circondava il castello, non dobbiamo
fare altro che richiamarlo a galla con
la nostra immaginazione: con questa
stessa spazzare via la gittata di scogli
su cui fu costruita la strada attuale, ed
allora la topografia del Nostos rivivrà
innanzi ai nostri occhi. Vedremo dapprima la linea sinuosa delle case che,
dopo alquanti secoli, delimita la città
odierna sulla riva dell’isola principale,
allontanarsi di una certa distanza dal
mare e lasciare dinanzi a sé lo spazio
necessario per ricostruirvi la marina
tradizionale delle piccole città italiane: vedremo l’istmo, largo dalla parte
dell’isola, avanzarsi, restringendosi in
punta, verso il castello, saldarvisi con
essa e per essa dare accesso al medesimo: per conseguenza vedremo il doppio porto, disegnato dall’istmo e dallo
stesso rifatto sul mare, aprirsi al nostro
sguardo, tal quale ce lo hanno indicato
il testo e le analogie storiche. Rivedremo altresì a destra ed a sinistra in doppia fila le navi tirate a secco: dietro di
esse il luogo dove si facevano le riparazioni, ove si curavano gli attrezzi e
si fabbricavano i remi: dirimpetto alla
strada che viene dalla città, vedremo
risorto l’altare a Posidone, circondato dall’Agorà, piazza lastricata con
dei sedili di pietra per i maggiorenti.
Dietro si aprirà il luogo destinato ai
giuochi pubblici, e poi, senza dubbio,
alcune costruzioni, embrione del sobborgo medioevale.
Ed ecco ricostruito il porto; ma
e la città? — Situata sul Negrone, la
città feacia era la città a cui conveniva
salire, la città alta del testo. La roccia,
ond’essa aveva incoronata la cresta,
era già naturalmente a picco; ma fu
solo nel 1440 che la cinta di difesa, costruita da Alfonso d’Aragona, la rese
inaccessibile. In quel torno, questo
principe scavò nelle visceri della roccia un tunnel in pendio, per cui oggi
si accede alla fortezza, e contemporaneamente, come affermano di molte
testimonianze storiche, egli distrusse
la via antica che vi si inerpicava all’aria aperta. Laonde a noi ora torna assolutamente impossibile determinarne
le tracce, come del pari impossibile è
il precisare di che natura si fosse, se
cioè, solamente mulattiera od anche
carrozzabile, e se realmente il carro
di Nausica l’ascenda o non si debba
piuttosto ritenere quell’ascensione
come una libertà che il poeta si pren-
de con la topografia per una esagerata
deferenza agl’ingegnosi Feaci. Certo
è pero che la piattaforma del Castello
risponde assai bene alle esigenze del
testo. Il suo colorito è nero, onde a ragione fu detto il gran nero, il Negrone,
dappoiché la parola, «Ischia» radicalmente vuol dire: «isola della rocca
nera».
Presenta una superficie di 8 ettari ed
intorno alla sua cattedrale ed alle altre
chiese più piccole, albergava nel medio evo ben 182 famiglie, 8000 anime
circa, come si ricava dai papiri pubblici di quell’epoca. Poteva quindi ai
tempi di Omero, contenere la città dei
Feaci, di certo meno considerevole.
Vero è però che noi sul castello non
troviamo, nei pressi del palazzo di Alcinoo, le due fontane del testo, di cui
una serve ad innaffiare il giardino del
re, l’altra per fornire di acqua gli abitanti. Ma evidentemente Omero, che
vede tutto con occhio di poeta, dovette trasformare in sorgenti d’acqua viva
quelli che erano dei semplici serbatoi,
se pure questa trasformazione non si
debba attribuire all’opera dei commentatori; perché la parola del testo si
accomoda a significare anche bacino o
serbatoio d’acqua.
In ogni caso, queste pretese fontane dovevano essere, ed è il poeta che
lo dice, di minima importanza per gli
abitanti, se i vicini stessi di Alcinoo
vanno ad attingere l’acqua fuori di città, alle sorgenti dell’isola principale.
Signori, senza procedere più oltre
a discutervi altri particolari di secondaria importanza, noi possiamo anche
qui convenire col nostro scrittore che
il castello ai tempi d’Omero aveva tutti i caratteri dallo stesso attribuiti alla
Scheria dei Feaci.
Così io dovrei por fine senz’altro
al mio lavoro; ma non posso, senza
rispondere ad una difficoltà, la quale
potrebbe mandare per aria il castello
di carta pesta della fatta dimostrazione, e senza aggiungere qualche cenno
storico sulla origine e sulla costituzione di questi gloriosi Feaci. Esaminiamo quindi prima brevemente la difficoltà.
Omero nel Nostos afferma che
Scheria non è separata da Itaca che
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
45
di alcune ore di navigazione, ed Itaca, come tutti sanno, è sulle coste
della Grecia, cotalché Scheria non
può trovarsi nel mar Tirreno. Difatti,
ecco il passo omerico donde emerge la
suddetta difficoltà: «Verso la fine del
giorno dell’addio passato in festini,
Ulisse vede cadere con gioia il sole.
Egli rivolge i suoi ringraziamenti e i
suoi voti ai Feaci e ad Alcinoo. Si fa
una libazione solenne. Dopo un ultimo complimento alla regina, il nostro
eroe si accommiata. Si discende al
porto: s’imbarcano le provvigioni e
gli ultimi doni. I marinai seggono in
ordine ai loro banchi e sciolgono i ritegni. Si parte finalmente. Ulisse si addormenta subito d’un sonno profondo.
In questa stessa notte, al levarsi della
stella più lucente, quella che annunzia
l’aurora, la nave già tocca l’isola d’Itaca. Ulisse, sempre addormentato, è
deposto a, terra prima della levata del
sole».
Signori, questa difficoltà è mossa dai
sostenitori dell’ipotesi tradizionale che
Scheria sia l’isola di Corfù. Questa ipotesi è oggi insostenibile per varie ragioni: prima perché la costa Ermones, dove
si fa avvenire l’approdo di Ulisse, è
orientata ad occidente, mentre come abbiamo dimostrato, la dev’essere a NordEst, dovendo 1’eroe seguire la direzione di Borea: poi perché Corfù è bensì
montagnosa, ma non è punto vulcanica
e tanto meno è nera, come pure essa per
la vicinanza con i popoli barbari e feroci
dell’Albania, non poteva offrire quella
sicurezza che i Feaci si compiacciono di
avervi trovata. Ma Corfù si presta evidentemente meglio che Ischia a spiegare
il fatto della distanza, per essere quasi
vicina ad Itaca, ed ecco perché i critici
corrotti cercano di confortarne la loro
tesi vacillante.
Se non che a costoro potremmo rispondere che la loro difficoltà, più che
confortare, smantella anzi sempre più
la loro tesi. Difatti, se Scheria s’identificasse con Corfù, non si saprebbe
spiegare come un vascello omerico
potesse percorrere i 170 chilometri da
Corfù ad Itaca in una notte sola, d’està
o d’autunno per giunta, cioè in 8 o 9 ore
al più ! Un calcolo fatto su questa base
ci condurrebbe ad un minimum di 450
chilometri in 24 ore, laddove la velocità
media della navigazione antica non ol46 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
trepassava i 150. Ma Omero ci premunisce lui stesso contro questa difficoltà;
egli ci dice, infatti, e ci ripete più volte
che, allorché si tratta di navigazione feace, la parola distanza perde il suo significato ordinario: per i vascelli feaci
le distanze non contano: sono come se
non esistessero. Sentite quel che dice
Alcinoo, rispondendo ad Ulisse: «Sulla
nave che io ti darò, tu arriverai alla tua
patria e dovunque ti piacerà andare, anche al di là dell’Eubea. Quelli del nostro
popolo che l’hanno visitata, dicono che
essa è moltissimo lontana, eppure essi vi
sono andati e ritornati facilmente nello
stesso giorno». Come vedete, da Scheria
all’Eubea, andata e ritorno in una giornata, questo importerebbe, sia detto con
modestia, 1800 chilometri solo nel mare
della Grecia senza tener conto della distanza dalla Grecia a Scheria! — In un
altro passo, Alcinoo dice: «Esse ti ricondurranno in patria le mie navi intelligenti! Perché non hanno piloti uè timoni
come le altre; ma hanno lo spirito ed il
pensiero degli uomini, e conoscono tutte
le città e tutte le terre. Attraversano rapidamente l’abisso del mare, circonfuse
di nebbia!» Signori, non siamo innanzi
a navi incantate, a vascelli magici? Non
siamo dinanzi a creature di quella meravigliosa arte corbellatrice degli antichi?
No. Alcinoo ha delle ragioni speciali
per farci di simili racconti. All’epoca in
cui Omero colloca il suo eroe, la via di
Scheria è ancora un mistero severamente custodito. Si verificava presso i Feaci
quello che si è verificato in tutti i tempi
presso i navigatori che hanno fondate delle stazioni in paesi nuovi; nascondevano cioè, gelosamente, spesso
anche ferocemente, il loro itinerario per
conservarne il monopolio commerciale.
È una delle leggi storico-sociali di questa specie di trasporti marittimi: né scarseggia di esempi in tempi relativamente
recenti. Le rivalità delle repubbliche italiane nel medio evo, che si disputavano
il commercio dell’Europa meridionale:
la lega monopolizzatrice del Nord detta
Hanseatica e le guerre che ne derivarono: le gelosie commerciali dei Portoghesi e degli Olandesi per l’Insulinde,
che altro sono se non una riproduzione
di questa legge?
Ma chi sono i Feaci? donde vengono? che cercano dalle nostre parti ? —
Signori, a compimento delle cose fin qui
dette, permettete che io dia una brevis-
sima risposta a queste tre domande, ed
avrò finito.
I Feaci sono un rampollo di quel popolo
forte che, per la sua immensa attività, dall’
angusta sua culla alle falde del Libano e
dell’Antilibano, seppe distendere le sue
propaggini coloniali su tutte le coste del
Mediterraneo e farsi maestro di civiltà al
mondo con la diffusione del suo alfabeto. Io parlo di quel glorioso popolo di
mercanti che furono i Fenici. Sappiamo
dalla storia che la prima colonia che essi
fondarono fu quella di Tebe, rappresentata dall’eroe leggendario Cadmo, la
quale seppe ben presto conquistare nella
Grecia un’importanza commerciale e
politica tra grandi e farsi centro di altre
colonie che rapidamente rampollarono
intorno al suo giovine tronco, quali furono Calcide ed Eretria. Molti secoli prima della guerra di Troia, Tebe già aveva
relazioni commerciali con tutto l’arcipelago greco specialmente con le isole di
Lemno, Delo ed Egina. Poi, o sola o con
la sua alleata Eretria, fondò degli stabilimenti che in prosieguo divennero molto
numerosi, nella penisola settentrionale,
la Calcidica, ove 1’attiravano le miniere
di rame ed anche d’argento. Contemporaneamente le sue vicine attraversavano
di comune accordo l’istmo della Beozia
e si dirigevano ad Ovest, discendendo
il golfo di Corinto. Caminin facendo,
stabiliscono sulla costa meridionale
dell’Egeo, e precisamente sulla costa
etolica, un’altra Calcide figlia della città eubea omonima. Di poi si avanzano
sulle isole seminate innanzi a quel golfo
e lungo la costa settentrionale, donde
allacciano relazioni commerciali con la
penisola italica. Numerosissimi furono
gli stabilimenti tebano-fenici in questa
regione: uno dei più antichi fu quello
dei Messapii, che dette poi il nome alla
Messapia italiana, e che il Pais riguarda
come non solamente venuto dalle coste
greche, ma dalle regioni tebano-eubee.
In tempi un po’ più. vicini a noi, leggende storiche attestano stabilimenti di origine lebana anche nel golfo di Taranto:
fra questi, principali furono: Metaponto,
la Tebe lucana dei vecchi autori secondo
lo stesso Pais, ed, a fianco a questo, Taranto, il cui eponimo fu forse originario
delle coste della Beozia, dirimpetto alla
punta Nord dell’Eubea. Diligentissimi
nell’evitare i passi difficili e nel ridurre la navigazione al minimum, questi
commercianti si servivano senza dubbio
assai poco dello stretto di Messina, specialmente sul cominciare delle loro peragrazioni ; più volentieri si avvalevano
di vie terrestri per trasferirsi da una in
un’ altra regione. Ora. dinnanzi ai loro
primi stabilimenti fondati, come abbiam
detto, nel golfo di Taranto, si apriva una
strada naturale che, risalendo la vallata del Bradano o quella del Basento, a
Potenza passava nel bacino del Sele, e
per Salerno, Nocera e Napoli toccava il
centro del Tirreno presso Cuma.
Niente di più facile quindi che questa colonia di Fenici ellenizzati del
golfo di Taranto, seguendo la strada suddetta, siasi venuta a stabilire a
Cuma. Più tardi, ai tempi di Nausitoo,
padre di Alcinoo, una rottura definitiva coi giganti, cioè cogli Enotrii della
regione di Napoli, venne a tagliare la
strada di terra nella sua parte Nord,
e privò la città delle sue comunicazioni con l’oriente. La strada dovette
però raggiungere il mare più giù delle montagne che chiudono il golfo di
Napoli, per conseguenza più in là di
Salerno, cioè a mezzodì dell’imboccatura del Sele, arrivando cosi a portata
di Licosa, unico isolotto costiero. Nel
tempo stesso Nausitoo si vide costretto ad abbandonare Cuma e trasferirsi
ad Ischia, dove egli si orientò verso le
provenienze marittime di Licosa. Eccovi come si spiega il fatto che i Feaci,
secondo il Nostos, vengono da Cuma,
e l’altro che essi si stabilirono sul castello a preferenza di ogni altro punto
dell’ isola Questa trasmigrazione, per
chi avesse vaghezza di saperlo, avvenne una generazione prima della guerra
di Troia, cioè verso la fine del secolo
XIII. - Ma che volevano essi da noi ?
Erano forse quei nostri antichi progenitori così barbari ed incolti, da dovere
attendere da essi i beneficii della civiltà?
Tutt’altro: l’evoluzione successiva etrusca e romana induce a credere che, all’arrivo dei Feaci, l’Italia centrale fosse già
formata alla cultura. Ciò non toglie però
che essa fosse presso a poco vergine dal
punto di vista delle relazioni straniere da una parte, delle fabbriche e delle
arti meccaniche dall’altra. Sotto questo
rispetto essa era di molti secoli indietro
alla Grecia.
In ciò che concerne i prodotti fabbri-
cati, la, sua capacità di assorbimento era
in ragione diretta del suo sviluppo culturale ed urbano. I paesi nuovi non attirano certo il commercio che a condizione
di offrire ai civili delle materie prime
di gran valore, donde promanino grossi
guadagni. I diamanti delle Indie, le perle
di Golgonda, l’oro degli Atzechi o degli Incas, ecco l’ideale: in mancanza di
questo, le specie delle regioni tropicali,
l'avorio d’ Africa, i cautchoues del Brasile, i profumi dell’ Arabia e del Giappone, l'ambra del Baltico, le pellicce
del Canada, ecco gli elementi preziosi e
meravigliosi per il commercio contemporaneo. Tutto questo si trova a buon
mercato nei paesi nuovi, e poi si rivende
nei civili con vantaggi rilevanti. Ma il
mar Tirreno non offre niente di simile:
che cercano dunque i Fenici nel nostro
mare? Chiedono alle nostre ridenti contrade mercanzie allora preziosissime a
cagione della loro rarità e soprattutto
indispensabili ai fabbricanti della madre
patria ed a tutta la loro clientela d’Oriente: quelle stesse che i loro compatriotti
avevano dapprima domandate all’Asia
ed al mar Egeo, alla Tunisia ed all’Algeria: quelle che li avevano costretti a
scandagliare i fiumi del mar Nero ed i
recessi dell’ Adriatico, e che in seguito
li menarono in Sicilia, nella Sardegna, a
Marsiglia e nell’Atlantico fino alle Cassiteridi: io intendo dei minerali di diverse specie, principalmente lo stagno, il
piombo, lo zinco, fors’anco il ferro, ed
a volte prodotti naturali più stimabili ancora, come l'ambra e la porpora. Tale era
il commercio che questo popolo attivissimo esercitava presso di noi, fra mille
cautele per evitare straniere concorrenze, e che era fonte inesausta per esso di
agi e di ricchezze. Strabone tocca in più
d’un punto della fortuna rapida dei primi coloni greci d’Ischia a causa del loro
traffico di metalli. Quando, in seguito
all’invasione dei Dori nel Peloponneso,
si ebbe a verificare la crisi metallurgica
in Grecia, una colonia di Greci, venuti
dalla Calcide e simboleggiati nel Nostos
da Ulisse, si stanziò in Ischia ove, secondo la vecchia tradizione sarebbe stata chiamata od almeno accolta amichevolmente dai Feaci, per la loro valentia
metallurgica; della quale immigrazione
od alleanza degli Eubei coi nostri Feaci
, è per molti capi testimonio il poema
istesso, sorto appunto nel seno di quella
Società per opera di un poeta venuto in-
sieme ai coloni Eubei, e composto proprio sotto il nostro bel cielo, al sorriso
influito delle onde tirrene.
Queste sono le conclusioni a cui, nel
suo poderoso lavoro, viene lo Champault: conclusioni che, singolarmente
considerate, potranno forse non meritare tutta la fiducia dei critici; ma che nel
loro insieme sono di tanta speciosità ed
evidenza da non potersi giustificare in
alcun modo un assoluto scetticismo. A
quanti isolani poi amino davvero la piccola patria loro e ne desiderino magnificate le origini, non potrà non arridere il
sogno dello scrittore e critico francese, il
quale intese ogni sua forza intellettiva a
fare del Nostos l’anima d’Ischia nella
storia, l’anima d’Ischia nell’eternità
della vita. Qual legittimo orgoglio, qual
gloria per noi poter dire: siamo tardi ma
genuini rampolli e portiamo nel sangue
la maschia gagliardia di quel popolo forte che fu cantato dalla gigantesca fantasia del
primo pittor id le memorie antiche?!
Sì d’oggi innanzi, noi leggeremo
il Nostos come il poema nostro: voi
vecchi riconoscerete nei venerandi
padri dei Feaci i vostri prototipi: noi
giovani riabbracceremo nei giovani
feaci i nostri antichissimi fratelli:
voi giovanette bacerete in Nausicaa
una soavissima antica vostra sorella.
Tutti insieme ci sforzeremo, con la
semplicità dei nostri costumi, con la
fecondità e bontà delle nostre azioni, di perpetuare le gloriose tradizioni dell’isola nostra, memori che
il passato è un peso incommodo e
rincrescioso, quando il presente non
si sente capace di continuarlo preparando l’avvenire.
*
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
47
Rassegna STAMPA
Gazzetta Azzurra
Genova, giornale del turismo, anno VI, 13 gennaio 1928)
ll problema turistico nella Campania e
le comunicazioni con le isole del Golfo
Il «Giornale d’Italia», prendendo
lo spunto da una nostra pubblicazione, pubblica il seguente articolo di
Libero Lo Sardo sul problema turistico nella Campania:
Tutti si occupano di Napoli, delle sue bellezze, dei dintorni divini,
dell’opera formidabile che vi compie il Regime, attraverso una serie
di lavori pubblici che hanno trasformato il volto della città, niuno però
considera la necessità di valorizzare
appieno questo nostro paese sotto il
punto di vista turistico. Il problema
è stato altra volta da noi sfiorato, allorché prospettavamo la opportunità di organizzare un programma di
attrazioni che fosse valso a trasformare Napoli da stazione di transito
pei forestieri in città di svernamento, come taluni centri della Riviera
Ligure, ove albergatori ed autorità
comunali sono in continua gara per
rendere agli stranieri più gradito il
soggiorno.
Qui tutto tace, niuno si occupa
dell’industria turistica, che pur renderebbe alla città, al Comune, fior
di quattrini, mentre d’altra parte il
Governo Nazionale tende in uno
sforzo costante al miglioramento dei
servizi marittimi e ferroviari, alla
costruzione di nuove, rapide vie di
comunicazione, l’autostrada NapoliPompei insegni.
Assai di recente, in «Gazzetta Azzurra» che si occupa con passione
del problema turistico in Italia, ecco
quanto a proposito della nostra città
si scrive:
«Napoli, la città dei sogni, dei canti, del sole, degl’innamorati del bel48 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
lo, è da secoli la meta dei forestieri.
Arricchita ora dalle nuove poderose opere del Regime: la Litoranea,
la Direttissima, ecc. richiama con i
suoi dintorni meravigliosi frotte numerose e cosmopolite di personalità
e di turisti. Intenso è dunque il movimento dei forestieri e degli italiani, facilitato il primo dalle comode
e sempre più rapide comunicazioni
transoceaniche, determinato il secondo dall’affetto e dall’ammirazione, sempre crescente, che tutti
i nostri connazionali nutrono per
questa nostra bella e prosperosa
terra, che delle bellezze italiane è
sempre stata ed ora più che mai è
la regina dominatrice ed incantatrice. Ma i forestieri che scendono nel
porto di Napoli rimangono in città
e nei dintorni il tempo veramente
necessario ed indispensabile per visitare tutte le sue bellezze? Non possiamo affermarlo. A Napoli e negli
altri importantissimi centri turistici
del Mezzogiorno d’Italia si continua
a fare dell’escursionismo e non del
vero e proprio turismo.
I forestieri che scendono a Napoli
visitano con grande rapidità la città,
fanno qualche breve ed affrettatissima escursione nei dintorni partendo al mattino e ritornando la sera.
Dopo tre o quattro giorni al massimo ripartono alla volta di altre città
comprese nei loro itinerari di viaggio».
Osservazioni perfettamente vere,
e di cui i nostri albergatori si rendono conto, ma nulla vale a rimuovere
tale stato di cose che si risolve in un
danno per la città. In questo inverno
una quarantina di grandi navi approderanno nel nostro porto, trasformato dall’opera dell’ammiraglio Solari
in uno dei più belli e disciplinati del
Mediterraneo; a bordo di essi circa
40 mila turisti, ma quanti sosteranno
in città per alcuni giorni o per svernarvi? Pochissimi, di sicuro, poiché
la stragrande maggioranza permarrà,
nel breve periodo di sosta, a bordo
dei transatlantici con cui giungeranno dall’America o dalla nebbiosa e
gelida Inghilterra.
Le prime due navi non turistiche
venute a Napoli, sono state il Carinthia e l’Empress of Australia.
Permanenza in porto 36 o 48 ore,
rapida escursione al Vesuvio, Pompei, Capri, quindi partenza per Atene ed Alessandria d’Egitto. Hanno
cioè guadagnato due sole categorie
di lavoratori, guide e noleggiatori
di auto. Ora tutto ciò costituisce un
andazzo deplorevole e che non può
continuare, senza creare danno alla
città ed alla nazione tutta.
Alla inerzia degli enti locali, si
contrappone la fervida opera del Governo, in tutti i campi. Napoli, come
dicevamo, acquista un aspetto sempre più malioso, essa può raffrontarsi ad una bellissima donna in ancor
più seducenti toilettes; la Litoranea
da via Cesareo Console alla Rotonda
di Posillipo, costituisce il più superbo lungomare del mondo.
Montagna spaccata sarà tra breve
congiunta al Capo da un ponte monumentale; la grande via dei Campi
Flegrei sarà posta in completo riassetto; l’autostrada con Pompei ci
congiungerà in 20 minuti alla città
morta, che indubbiamente costituisce una delle attrattive maggiori in
tutto il mondo; gli scavi di Ercolano rappresentano uno dei posti di
maggiore interesse, per il forestiero;
la strada per Amalfi e Vietri è stata
completamente riattata; a Capri si
costruisce il porto, così pure a Massalubrense; Ischia si va man mano
mettendo a posto, mercé l’opera
attivissima del Podestà e dei Fasci.
Tutto un rifiorire di attività, un fervore di opere che serve sempre meglio a mettere in valore questa nostra regione, così ricca di attrattive,
di vestigia della latinità, ubertosa,
ridente, in una perenne primavera,
circonfusa da un barbaglio di luci, di
sole che altrove è difficile trovare.
Uno dei problemi che sembrava
insolubile era fra l’altro la rapida comunicazione tra Napoli e le isole del
golfo; questione lunga, annosa, che
per lo passato era stata costantemente dibattuta, senza mai giungere ad
una pratica soluzione.
Problema di duplice aspetto, in
quanto che investiva gl’interessi locali e quelli del turismo. Una delle
maggiori difficoltà era costituita dal-
la mancanza di approdi sicuri, specialmente ad Ischia, ove il piroscafo
era costretto, in base ad un erroneo
concetto, a rimanersene all’ancora
in mare aperto.
Di recente la questione degli approdi verso l’Isola d’Ischia è stato risoluto in pieno, poiché nella stagione invernale i postali faranno scalo
direttamente a Porto d’Ischia, il grazioso rifugio naturale fatto costruire
dai Borboni, tra il verde delle campagne ubertose. Da Porto d’ Ischia si
dirama, per tutti i centri dell’Isola,
un rapido servizio automobilistico,
cosa che metterà in grado i forestieri
di visitarne la parte meno conosciuta, cioè la parte occidentale così caratteristica e ricca di paesaggi
A ciò occorre aggiungere che la
Società Partenopea di Navigazione
ha acquistato in Inghilterra un ottimo piroscafo da 500 tonnellate, con
15 miglia di velocità; questa nave,
che giungerà fra alcuni giorni a Napoli, sarà adibita alla linea di lusso
Napoli-Capri. Il Ministero delle Comunicazioni ha poi approvato di recente la modifica alla Convenzione
pei servizi sovvenzionati nel Golfo
di Napoli, sicché la società esercente
sarà in grado di affrettare la costruzione di navi celeri da 250 tonnellate, che faranno servizio diretto tra
Napoli e tutti gli scali della Penisola
Sorrentina, impiegando nel percorso
poco più di un’ora. Capri ed Ischia
avranno nuove comunicazioni rapide con la nostra città. La prima isola,
centro turistico di mondiale importanza, oltre alla linea diretta di lusso
avrà due altre comunicazioni con
toccata a Sorrento. Per Ischia, con
la primavera sarà istituita un servizio diretto, ed una seconda linea con
scalo a Procida.
Le più vecchie unità della Partenopea, quali il Gaiola ed il Corriere di
Salerno, saranno finalmente radiate
e la Compagnia assuntrice dei servizi del golfo fra qualche anno, con
le nuove unità celeri, coi piroscafi
attualmente esistenti ed utilizzabili potrà pienamente rispondere alle
esigenze turistiche e locali, ai servizi con la penisola sorrentina, con
Amalfi e le isole partenopee, contribuendo alla loro piena valorizzazione (Franco Luigi).
Archeo - attualità del passato
Monografie n. 2/1996
Pitecusa
(…)
… Sull’attuale golfo di Napoli era
stata fondata dai Cumani la città di
Partenope, nel corso del VII secolo:
essa si rese successivamente autonoma e, dislocandosi più a est, si dette
il nome di Neapolis (Città nuova),
in opposizione alla precedente. A
tale nuovo insediamento, verificatosi intorno alla metà del V secolo,
gli Ateniesi in cerca di un’espansione verso occidente contribuiscono
a dar nuova e regolare forma, favorendone l’espansione fino alla punta della Campanella, sulla quale un
più antico luogo di culto fu dedicato
ad Athena, dea protettrice di Ate-
I Greci in Italia
di Pier Giovanni Guzzo
ne. Il «navarco», ossia ammiraglio,
Dirtimo fu il propulsore dell’intera
operazione diplomatica: egli è ricordato inoltre come promotore di un
rito notturno, una corsa di portatori
di fiaccole in onore di una divinità
femminile, forse Demetra.
Neapolis fu collocata nella pianura digradante, a est della collina
di Pizzofalcone, sede di Partenope:
l’attuale centro storico fa vedere
quasi immutato l’antico schema urbanistico, costituito dall’incrocio ortogonale di vie rettilinee. Quelle po-
ste in pendenza, più strette, sono gli
stenopòi; quelle ortogonali, più ampie, le plathiai. La continuità di vita
della città fino a oggi ha sovrapposto
continui rifacimenti e adattamenti ai
monumenti pubblici antichi, lasciandone tuttavia immutato lo schema.
Ad esempio, del teatro si indovina
la localizzazione anche solo grazie
al profilo arrotondato degli edifici
moderni che gli si sono sovrapposti,
mentre resti delle sue strutture originarie sono state recentemente riportati in luce nei cortili e nelle cantine;
La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
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del tempio dei Dioscuri, oggi occupato da una chiesa dedicata ai Santi
Pietro e Paolo, rimane un alto podio.
Negli spazi liberi di piazza Bellini
e delle Cliniche Universitarie sono
stati scavati tratti delle mura di difesa. Esse sono costruite con blocchi
parallelepipedi disposti su due fronti, il cui spazio intermedio è rafforzato da muri di collegamento e da
riempimenti; le mura presentano nu-
merose fasi di rifacimento, in specie
nel corso del IV secolo. Ancora, si
sono rinvenuti alcuni depositi votivi, costituiti per lo più da terrecotte figurate. Poco sono conosciute le
sepolture riferite al V secolo, poste
nella zona di cerniera tra Partenope
e Neapolis. Nel periodo successivo
erano in uso sepolture a camera, scavate nel tufo: se ne ricorda quella
detta «dei Cristallini», dal convento
che la ricopre, composta da più camere con letti funebri e decorazioni
a rilievo e dipinte.
Le fonti attribuiscono al santuario
di Athena sulla punta della Campanella, del quale poco si conosce, la
fondazione in un periodo mitico, ma
i ritrovamenti finora effettuati non
risalgono al di là della fine del VI o
dell’inizio del V secolo. Il santuario,
che costituiva un importante punto
di riferimento per la navigazione,
venne probabilmente rafforzato in
concomitanza con la sconfitta navale degli Etruschi del 474 a.C.
Cuma e Pithecusa sono le più
antiche colonie calcidesi in Ita-
Terracotta raffigurante un carro agricolo tirato da cavalli
o muli, da Ischia. Fine del VII secolo a. C., dalla località
Pastola (Lacco Ameno)
50 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014
lia meridionale: la prima era posta
sulla terraferma, su di una collina,
isolata e fornita di un ottimo porto, ora scomparso, che si apriva ai
suoi piedi. La collina era stata sede
di uno stanziamento indigeno, frequentato almeno fino a poco dopo
la metà dell’VIII secolo. Per Cuma
arcaica conosciamo esclusivamente
le necropoli, formate da sepolture a
inumazione, frammiste a gruppi di
incinerazioni, le sepolture degli individui dominanti. Queste strutture
sono costituite da dadi in tufo, nella
cui massa sono state deposte le ceneri del defunto, raccolte in bacili
in bronzo coperti da scudi in bronzo
decorati a sbalzo di produzione etrusca. Il corredo era composto, oltre
che dalle armi da lancio, da recipienti preziosi per il simposio e, oltre che
da fibule in argento, da ornamenti in
oro, anch’essi di produzione etrusca, usati per trattenere la veste sulla
spalla. Le donne erano, invece, inumate, e sono distinte da una serie di
gioielli personali.
I Cumani si impadronirono delle
rive del golfo di Napoli con i propri stanziamenti di Pozzuoli, dove
nel 531 giunsero gruppi di esiliati da
Samo che le dettero il nome di Dicearchia («Città della giustizia»), e
con la fondazione di Partenope (Napoli). Di quest’ultima è stata scavata
la necropoli di via Nicotera, sulla
collina di Pizzofalcone, attiva dalla
prima metà del VII secolo. Entro il
VI secolo prodotti greci sono frequenti negli insediamenti indigeni,
da Pompei a Sorrento, frammisti
a quelli etruschi, costituiti particolarmente da recipienti in bronzo e
da anfore da trasporto. Gli indigeni
campani mutuarono l’alfabeto da
quello etrusco, come testimonia l’alfabetario graffito sulla parete di un
vaso in bucchero dalla necropoli di
Vico Equense. Le ricerche arche-
ologiche condotte durante l’ultima generazione hanno permesso di acquisire conoscenza
del più antico stanziamento
greco, in epoca storica, verificatosi in Italia meridionale: si
tratta di quello messo in luce
da Giorgio Buchner sull’isola di Ischia. Le fonti letterarie
tramandano che Cuma era
considerata come la più antica
colonia greca: ma, grazie alle
recenti indagini archeologiche,
possiamo affermare che questa
deriva dal più antico stanziamento insulare, al quale i Greci
hanno dato il nome di Pithecusa. L’apparente contraddizione
dipende dal fatto che quando i
Romani strinsero i primi rapporti con Cuma, Pithecusa era
ormai subordinata ai Cumani,
quasi sul punto di scomparire.
Ambedue gli stanziamenti sono
dovuti ai Calcidesi, originari della grande isola di Eubea, quasi un
trampolino tra la Grecia propria e
l’Asia Minore, e da sempre abituali
navigatori dell’Egeo. I Calcidesi si
stanziarono entro la metà dell’VIII
secolo sull’isola nel golfo di Napoli, cosi da poter intrattenere rapporti
proficui con le popolazioni che abitavano le pianure campane e, via
mare, con i popoli etruschi posti più
a nord. I coloni erano impegnati in
fiorenti attività economiche: conosciamo sia le fonderie metallurgiche
di località Mazzola, nelle quali si
forgiava anche il ferro proveniente
dall’isola etrusca d’Elba, sia numerosi recipienti ceramici di fabbrica
pithecusana provenienti dalle sepolture indigene di Pontecagnano,
della valle del Sarno e di Capua. La
presenza di uno stanziamento greco
come Pithecusa ebbe funzione di
stimolo per il popolamento indigeno
della Campania e non si può escludere che esso abbia contribuito ad
accelerare anche lo stanziamento
etrusco di Capua.
Accanto ai coloni calcidesi, vissero famiglie di origine e cultura semitica, provenienti dall’Asia Minore,
come documentano sia i recipienti
ceramici adoperati nei corredi tombali sia i graffiti alfabetici.
La nostra conoscenza di Pithecusa
dipende soprattutto dalla necropoli di San Montano, datata da poco
prima della metà dell’VIII secolo al
primo quarto del VII secolo. La zona
è posta ai piedi di Monte di Vico, sulla cui cima, attualmente erosa completamente dall’azione dei venti,
sorgeva l’abitato, del quale purtroppo rimane ben poco. La necropoli
è costituita da sepolture a incinerazione sotto cumuli di pietrame. Lo
scavo archeologico ha permesso di
individuare la «stratigrafia orizzontale» delle sepolture, ossia l’esatta
successione temporale (o cronologia
relativa) secondo la quale le tombe
sono state erette e adoperate.
Le sepolture più antiche sono diffuse nell’area della necropoli, e attorno a esse si aggruppano quelle
progressivamente più recenti; sembra che la zona destinata a necropoli fosse stata divisa in lotti per ogni
famiglia, rimasti in uso a ogni distinto gruppo parentelare per lunghi
periodi. Tale divisione degli spazi e
delle proprietà era analoga sia per la
città sia per la campagna, a ulteriore
dimostrazione del carattere organizzato e «politico» dello stanziamento
di Pithecusa, in quanto l’attuazione
dei diritti di proprietà e d’uso deriva
solamente da una precedente istituzione e da un potere riconosciuto. Ai
margini delle sepolture incinerate si
sono rinvenute sepolture di inumati,
sprovviste di corredo, nelle quali si
è proposto di riconoscere la deposizione degli indigeni adibiti a lavori
servili.
I corredi funerari sono per lo più
costituiti da vasi ceramici; il loro studio permette di seguirne lo sviluppo
morfologico e l’evoluzione delle
decorazioni geometriche dipinte.
Si hanno importazioni dalla madrepatria e dal Mediterraneo orientale:
importanti, tra queste ultime, sono
gli scarabei egizi, gli amuleti in pietra dura con incisioni ascritte alle
botteghe glittiche siriane, dette «del
Suonatore di Lira», dalla raffigurazione incisa sui primi esemplari studiati.
L’insediamento calcidese sull’isola di Ischia si componeva, inoltre,
del già ricordato centro produttivo di
località Mazzola: accanto alle fornaci metallurgiche sono stati ritrovati
resti di lavorazione di fibule in ferro,
chiaro indizio di manifatture locali, e
alcuni dischetti in bronzo, che sono
stati convincentemente interpretati come prova di una produzione
orafa locale. A quest’ultima vanno
probabilmente ascritti gli ornamenti in argento, come fibule, pendenti
ad anelli, diademi a fascia decorati a
sbalzo, frequenti nei corredi funerari. La fondazione di Cuma avvenne
entro l’ultimo quarto dell’VIII secolo: a essa Pithecusa sopravvisse solo
per una generazione. Quest’ultima
lasciò solo un’altra generazione di
sopravvivenza alla più antica colonia. (---)
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Forio - Spiaggia