La Rassegna d`Ischia 5/2014
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La Rassegna d`Ischia 5/2014
Anno XXXV N. 5 Ottobre - Novembre 2014 Euro 2,00 Personaggi Luigi Mazzella (1829-1886) Ischia nell'Odissea Ex libris Rassegna Stampa Il porto d'Ischia : 160 anni Rassegna Libri Il monastero delle Clarisse sul Castello (II) Torre Guevara : nuove risposte Pittori russi a Capri : Michele Ogranovitsch Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Anno XXXV - n. 5 Ottobre/Novembre 2014 Euro 2,00 Editore e Direttore responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661. Stampa : Press Up - Ladispoli (Roma) Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista - La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. Non si pubblicano pubblicità a pagamento. Nomi, ditte, citazioni sono riferiti a puro titolo informativo, ad orientamento del lettore. conto corr. postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.it www.ischiainsula.eu [email protected] [email protected] In questo numero 3 Motivi 4 Il Convento delle Clarisse sul Castello d'Ischia (II) 9 La Torre di Guevara Nuove risposte e qualche sorpresa 15 Personaggi Il dott. Luigi Mazzella 18 Forio Sensazioni e sentimenti 19 Da San Pietroburgo a Capri Il pittore Michele Ogranovitsch 22 Ex libris - Viaggio pittoresco a Napoli e in Sicilia - Geografia medica dell'Italia: acque minerali 26 Il porto d'Ischia Il lago-porto ha compiuto 160 anni 29 Rassegna Libri - Filippo Strofaldi il vescovo con la chitarra - L'ubriaca penna che scorre - La nave gigante inabissa nelle temebre 31 Fonti archivistiche Il Convento e la Chiesa di S. Domenico 35 Regione Campania Portale dei Musei locali 39 Ischia nell'Odissea 36 Rassegna Stampa - Il problema turistico in Campania - Archeo : I Greci in Italia In copertina : Cartolina del porto d'Ischia Chiuso in redazione il 6 ottobre 2014 MOTIVI Si va concludendo la “stagione estivo-turistica” 2014, quella che comunemente comprende i mesi da aprile ad ottobre, e si spera (si è sempre sperato) di continuarla in qualche modo con quella, meno appariscente, invernale, con un turismo diverso che dia più importanza al fattore termale, di cui una volta eravamo fieri e sul quale poggiava il fatto di avere una periodicità molto lunga sul piano del richiamo verso la nostra isola e di possibilità di lavoro per tutti. Allora un posto predominante avevano (e ci contavamo) il termalismo e il climatismo; si diceva di un’isola, preferibilmente, per anziani, in quanto mancavano attrattive giovanili. Il prof. Massimo Mancioli scriveva che «l’isola, in rapporto con la sua complessa origine vulcanica, ha un patrimonio idrotermale fra i più ricchi e interessanti del mondo, sì da costituire con i fattori climatico-ambientali un mosaico curativo naturale». Poi il declino, per cause sia esterne (crisi dappertutto), sia interne. D’altra parte è stato scritto ovunque e sempre che per molto tempo l’isola ha circoscritto soltanto intorno al nucleo delle sue attrattive originarie (fattori di efficacia curativa, bellezza dei suoi luoghi, mare, spiagge) la suggestione diretta ad orientare ed a determinare le reazioni individuali e collettive, facendo affluire in queste contrade gente, sempre più gente, per vacanze prolungate e non unicamente per i weekend. Di anno in anno crescevano i dati di arrivo e di permanenza dei turisti. Peraltro si viveva il turismo come un bisogno essenziale della personalità umana. Favorivano i viaggi e il soggiorno in località diverse dall’abituale residenza non solo il miglioramento del tenore di vita, ma anche la ricerca di svago nella uniforme cadenza del lavoro, l’esigenza, spesso dettata da motivi di salute, di uscire dal proprio ambiente, la propensio- Raffaele Castagna ne a conoscere direttamente luoghi e storia nell’ambito nazionale ed internazionale. Si è sempre discusso sul turismo d’élite, che ha costituito le basi di lancio dell’isola, e turismo di massa, che ha creato a volte tendenze e posizioni contrastanti: chi preferiva salvaguardare essenzialmente il primo, chi voleva (come poteva sembrare giusto) aprirsi a tutti e tutti accogliere per riempire gli alberghi e le case private; si è discusso di turismo per cura e turismo da diporto, dando però la preferenza alla circostanza di non fare mai scelte e di non dare all’isola un suo volto specifico e proprio, significando quella che si voleva esprimere. Questo avrebbe comportato anche qualche rinuncia che forse poteva risultare vantaggiosa per altri aspetti. Di problemi in tale tempo si è parlato poco, specialmente sul piano operativo, tendendo più a distruggere che a preservare quanto c’era o poteva esserci, secondo gli appassionati dell’isola, preferendo vivere, come si dice comunemente, sugli allori, e così mare, spiagge, paesaggi sono stati trascurati nelle esigenze che sempre si ponevano ed aumentavano, nonostante tutto. Anche i servizi non hanno mai convinto gli amministratori che bisognava intervenire in fatto di rinnovamento e di realizzazione. O forse bisogna parlare di interventi sbagliati? Tutti hanno dato, per esempio, la preferenza ai porti, facendo in modo che ciascun comune ne avesse uno, ma sono venute meno alcune spiagge, anche quelle che erano maggiormente frequentate; in tanti anni non si è riusciti a creare adeguati impianti di depurazione delle acque, e ogni volta si deve leggere sulla stampa di mare inquinato. L’isola vive oggi molti problemi che non si riescono a risolvere, nell’indifferenza generale, con amministratori che cambiano bandiera continuamente e passano ora da una parte, ora dall’altra, adducendo come causa l'interesse (sempre!) del paese, del popolo, ma invero di questi ultimi non si preoccupano affatto. Foglie autunnali che il leggere zefiro porta in giro, fino al loro definitivo destino di cadere al suolo e coprire brulle e sporche zolle! Fare di Ischia un centro di cultura non è mai stato un obiettivo da perseguire, nonostante che i nostri luoghi siano espressione di notevoli prerogative spirituali ed intellettuali; le ricerche e gli studi di archeologia hanno posto le condizioni fondamentali per sviluppare questa nuova possibilità di un turismo prevalentemente culturale. Ma come si vorrebbe raggiungere e conquistare lo sfruttamento (che brutta parola!) di tale caratteristica? Pensiamo al fatto che si ha il coraggio di tenere chiuso il Museo di S. Restituta da mesi, alla difficoltà del Comune d’Ischia di creare delle condizioni giuste per la vita della Biblioteca Antoniana, della Torre di Guevara o di Michelangelo, che dir si voglia, all’indifferenza che circonda quella grande istituzione che è il Museo Archeologico di Pithecusae a Villa Arbusto, ai tanti problemi che investono gli istituti scolastici di ciascun ordine, ad ogni inizio di anno scolastico, compresi i problemi dei trasporti marittimi e terrestri! Stupisce che si dica a volte di voler fare turismo culturale con questa o quella manifestazione, fatto momentaneo ed occasionale che ben presto viene dimenticato, e fa meraviglia soprattutto la circostanza che ciò lo si dica con piena convinzione, credendo che tutti plaudano finalmente ad amministratori efficienti. Enzo Migliaccio, con la sua improvvisa scomparsa, lascia un grande vuoto nell'isola d'Ischia, lui che è stato libraio sempre aggiornato, ma soprattutto un editore che ha ridato valore a tanta parte della cultura isolana, con la pubblicazione delle sue preziose collane di libri. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 3 Un falso storico o solo confusione di conventi e di date l’iniziale insediamento sull’Epomeo? Il Monastero delle Clarisse o Cappuccinelle sul Castello d’Ischia II Nel numero precedente (n. 4/2014) di questo periodico abbiamo pubblicato un primo servizio sul Diario del Convento delle Clarisse Isclane, riguardante una prima parte di una istituzione durata sull’isola dal 1575 al 1911. Detto diario risulta essere , come si legge sul frontespizio, copia di atti “nuovamente in unum et miglior metodo uniti per industria ed ordine della Signora Maria Battista Linfreschi, badessa del convento in data del primo di febbraio 1715”. Leggendo l’istrumento di fondazione e il breve pontificio di papa Gregorio XIII per la realizzazione del monastero, ubicato sul Castello d’Ischia, da parte di Beatrice della Quadra, oltre alcune considerazioni di Onofrio Buonocore inserite tra le varie pagine, si ProfessioneMonache 1575 1575 1575 1575 1575 1576 1576 1576 1576 1581 1582 è considerato strano il fatto che molti storici abbiano sempre riferito di queste monache come si fossero insediate primamente sul monte Epomeo e poi trasferitesi sul Castello per l’impossibilità di sopportare il freddo del monte. Un interrogativo allora si è posto circa un possibile falso storico, nel tempo ripreso e da tutti riportato, o dell’esistenza di conventi e di fatti non ancora ritrovati e non ancora conosciuti sul piano storico. In questa sede si annotano generalmente per ordine tutte le moniche dalle prime che entrarono nel tempo della fondatrice sin alle presenti con il giorno mese et anno in cui fecero la santa professione al margine sinistro e al margine destro i giorni, mesi et anni della loro morte, secondo le indicazioni proprie del Diario. Provenienza Beatrice della Quadra fondatrice Francesca Tricarico Elena Albano Elisabetta Bono Caterina Cervera Chiara Galliziana Eugenia Borrello Maria della Quadra Vittoria Rancione Maria Fortunata Girolamo Angela de Barberis Cornelia Martinez Vittoria Griffo Margarita Albano 1603 (14 settembre) Chiara Basso 1603 (14 settembre) Cecilia Basso 1608 (25 novembre) Dorodea Albano 1608 25 dicembre) Agata Scotto 1608 (16 maggio) Agnese Russo 1608 (15 dicembre) Veronica Melloso 1608 (settembre) Orsola Grimaldi 1613 (25 febbraio) Cristina Ferraro 1616 Felice Palmiero di Napoli 4 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Morte Giugno 1632 Marzo 1617 17 Luglio 1626 Aprile 1627 10 Dicembre 1595 10 Luglio 1599 7 Settembre 1611 20 Luglio 1628 Aprile 1655 Marzo 1645 10 Luglio 1599 10 Luglio 1599 10 Febbraio 1615 18 Marzo 1649 19 Novembre 1642 1679 1665 26 Settembre 1660 13 Maggio 1648 16 Agosto 1648 23 Dicembre 1682 8 Dicembre 1665 ProfessioneMonache 1619 (25 giugno) 1619 (25 giugno) 1624 (12 agosto) 1658 (27 luglio) 1658 (27 luglio) 1612 (10 maggio) 1628 (12 ottobre) 1628 (12 ottobre) 1632 (6 settembre) 1634 (10 settembre) 1643 (8 ottobre) 1645 (10 giugno) 1646 (10 luglio) 1649 (1 maggio) 1649 (1 maggio) 1650 (6 giugno) 1651 (11 novembre) 1655 (10 giugno) 1655 (dicembre) 1659 (27 marzo) 1659 (27 marzo) 1669 (giugno) 1669 (10 agosto) 1669 (10 agosto) 1670 (28 dicembre) 1678 (21 dicembre) 1699 (3 ottobre) 1681 (23 aprile) 1681 (27 luglio) 1685 (27 febbraio) 1685 (1 maggio) 1685 (7 novembre) 1680 professò a luglio Provenienza Vincenza Fiorillo di Napoli Anna Fiorillo di Napoli Giovanna Pesce Elena Santillo Colomba Santillo Eugenia Imparò di Napoli Serafina Pagano di Napoli Maria Maddalena de Linfrischi Lucia Miele Cherubina Scherillo di Napoli Caterina Scherillo di Napoli Beatrice Melloso Antonia Ferracuto Livia Scotto Antonia Amalfitano Costanza Filiberto di Milano Maddalena Filiberto di Milano Paola Antonia Albano Francesca Melloso Maria Girolama d’Avalos Vittoria de Franco di Napoli Elena Vitale Paola Antonia Vitale Cecilia Melloso Teresa Esuperanzia Scherillo Veronica Mele Costanza Agnese Eugenia D’Alessandro di Napoli Chiara Melloso Candida Scherillo di Napoli Serafina Gentile di Serracapriola Giacinta Salzano di Luna Angelica Salzano di Luna Teresa Mengo Tommasa D'Estrada Castiglia Angela Mele Battista Di Linfreschi Agata Mancuso Cherubina d'Aveta Francesca Canetti Rosa Punzo Maria Malfitano 1687 professò Giovanna Canetti 1689 professò Ludovica Bentovelli. 1694 professò 13 giugno Maddalena Linfreschi. 1704 professò Gabriela Linfreschi. 1706 professò 15 aprile Celeste Mengo. 1707 professò15 dicembre Girolama Linfreschi. 1707 morìai 16 di agostoGaetana Orta di Napoli. 1709 professò Veronica Calosirto. 1712 professarono Candida e Esuperanzia Gargiulo sorelle Morte 1668 23 Dicembre 1682 18 Settembre 1659 1668 1668 5 Febbraio 1659 18 novembre 1666 15 agosto 1685 15 novembre 1689 19 giugno 1676 27 febbraio 1694 12 aprile 1700 5 marzo 1694 11 maggio 1633 1631 12 agosto 1632 1638 21 agosto 1642 2 maggio 1680 12 febbraio 1706 8 aprile 1700 2 febbraio 1706 21 dicembre 1713 25 maggio 1716 12 maggio 1703 12 aprile 1690 27 maggio 1691 5ottobre 1704 25 aprile 1728 1690 13 settembre 1733 2 febbraio 1720 22 agosto 1730 17 febbraio 1711 4 aprile 1750 28 dicembre 1733 11 giugno 1749 12 dicembre 1734 4 novembre 1751 19 novembre 1752 7 novembr1748 1715 professò Teresa Menga, passata di vita il 26 dicembre 1733 in odore di santità. 1716 professò Vittoria Bassi. 1717 professò Angelica Mancuso. 1717professò Colomba Menga. 1722 professò Emanuela Canetti. 1728 professarono Nicoletta e Carmela Linfreschi sorelle. 1730 professò Saveria Pinar. 1731 professò Angelica Pinar. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 5 1733 professò Diletta Gargiulo. 1734 professò Felice del Palazzo. 1736 professò Chiara Manzi. 1742 professarono Serafina e Ludovica Rotondi sorelle. 1745 professò Teresa Canetti. 1750 professò Evangelista Gargiulo. 1750 professarono Giuseppa e Gaudiosa Coscinà. 1758 professò Raffaela Menga. 1758 professò Teresa Menga e poi Rosa. 1773 professò 6 giugno Francesca Canetti. 1797 professò 19 settembre Angelica Agnese 1818 entrò 20 dicembre Clementina Branni e professò il 4 agosto 1822 col nome di Francesca. 1822 entrò 29 giugno Maddalena Brann. Professò l’8 maggio 1826 col nome di Raffaela. 1827 entrò 10 giugno Anna Maria Rinaldi, professò il 2 marzo del 1828 col nome di Maria Giuseppa 1829 entrò nel dì 4 febbraio Antonia Rinaldi; professò il 4 novembre del 1838 col nome di Michela. 1834 entrò il 4 settembre Carmela Scotti di Tonno; professò con lo stesso nome Carmela il 3 aprile 1842. 1835 entrò ai 25 novembre Custoda Manzi di Casamicciola per conversa. 1839 entrò ai 26 di maggio per educanda Clorinda Morioni. 1839 entrò ai 3 di marzo per educanda Giuseppa Scotti di Tonno. 1839 entrò Luisa Monti della Comune di Casamicciola, alli 25 di settembre, si indossò l’abito ai 14 di giugno 1840, professò alli 24 giugno del 1841 col nome Maddalena. 1841 entrò il 27 maggio Raffaela D’Auria e professò col nome di Maria Crocifissa ai 27 novembre nel 1842. 1842 entròa 3 ottobre Antonia Rinaldi ; professò col nome di Rosa il 9 giugno 1844. 1836 entrò il 3 giugno Francesca Patalano, professò il 9 giugno del 1844 col nome di Filomena. 1839 entrò il 3 marzo Maria Giuseppa Scotti di Tonno, professò col nome di Teresa il 6 febbraio 1845 (morì l’ultima il giorno 21 giugno 1911) 1857 entrò il 10 agoaro Lucia Patalano. Si vestì religiosa col nome di Chiara il 3 febbraio 1873, professò il primo giugno 1874. 1859 entrò il 26 luglio Emilia Tirabella. La stessa Tirabella se ne uscì dal Monastero il 20 luglio 1872. 1860 entrò il primo di giugno Maria Anna Sersale Monica di casa Teresiana. La suddetta Sersale se ne uscì dal Monistero il 23 maggio 1864. Marianna Cenatiempo entrò in Monistero il dì 11 giugno 1679 e se ne uscì il dì 10 agosto 1686. Nelle storie e nelle guide relative al Castello d’Ischia si fa sempre riferimento al cosiddetto cimitero delle monache con relative fotografie, formato da locali con sedili di pietra addossati alle pareti. Qui erano posti in posizione seduta i cadaveri delle suore (seggi-scolatoi); i prodotti della decomposizione venivano scaricati mediante un colatoio con foro di scolo alla base. Detta pratica era in genere variamente diffusa in varie regioni. Si legge sul sito di wikipedia1: Il putridarium è un ambiente funerario “provvisorio”, in genere sotterraneo (tipicamente, una cripta sotto il pavimento delle chiese), in cui i cadaveri dei frati (o delle monache) defunti venivano collocati entro nicchie lungo le pareti, seduti su appositi sedili-colatoio in muratura, ciascuno munito di un ampio foro centrale e di un vaso sottostante per il deflusso e la raccolta dei liquidi cadaverici e dei resti in via di decomposizione. Una volta terminato il processo di putrefazione dei corpi, le ossa venivano raccolte, lavate e trasferite nella sepoltura definitiva dell’ossario. In alcuni casi sono presenti delle mensole su cui venivano esposti i teschi dei defunti. Nel putridarium, il continuo modificarsi dell’aspet- to esteriore del cadavere, che cedendo progressivamente le carni in disfacimento (l’elemento contaminante) si avvicinava sempre più alla completa liberazione delle ossa (simbolo della purezza), intendeva rappresentare visivamente i vari stadi di dolorosa “purificazione” affrontati dall’anima del defunto nel suo viaggio verso l’eternità, accompagnata dalle costanti preghiere di confratelli o consorelle. Ricollegabile per certi aspetti all’antica credenza della “doppia morte” e alla pratica della “doppia sepoltura”, in Italia l’usanza dei putridaria si diffuse principalmente nel meridione (sostanzialmente nel territorio del Regno delle Due Sicilie), dove questi luoghi sono noti anche con il termine generico di “camere di mummificazione”o, più nello specifico, come “colatoi a seduta” (per distinguerli dai colatoi orizzontali) e, soprattutto nel napoletano, con il nome di “cantarelle”. Ne esistono tuttavia esempi anche in altre regioni. La pratica religiosa cominciò ad essere osteggiata dalle autorità cattoliche ufficiali dopo il Concilio di Trento (1563). Tuttavia, ancora nel Settecento e Ottocento, mentre l’inumazione andava sempre più diffondendosi tra le classi povere, per le élite privilegiate laiche ed ecclesiastiche rimasero in uso, accanto alla mummificazione, i colatoi per la decomposizione e 1 Sito wikipedia: it.wikipedia.org/wiki/Putridarium 6 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 scheletrizzazione dei cadaveri. Essi scomparvero solo all’inizio del XX secolo, in seguito a una più rigorosa applicazione delle norme igieniche e sanitarie. dei morti, nel quale potrà essere ricordato, pregato, e così via. Ma finché il morto resta in bilico fra i due mondi, è visto come pericoloso. Sul sito bizzarrobazar.com/tag/scolatoi abbiamo trovato l’articolo che qui riportiamo in merito all’argomento di questi putridaria / cantarelle / o scolatoi Così, per tracciare in maniera definitiva questo limite, nel Sud Italia e più specificamente a Napoli era in uso (ed è in uso ancora, quando non si fa la cremazione, nde) fino a pochi decenni fa la cosiddetta doppia sepoltura: il cadavere veniva seppellito per un periodo di tempo (da sei mesi a ben più di un anno) e in seguito riesumato. “Dopo la riesumazione, la bara viene aperta dagli addetti e si controlla che le ossa siano completamente disseccate. In questo caso lo scheletro viene deposto su un tavolo apposito e i parenti, se vogliono, danno una mano a liberarlo dai brandelli di abiti e da eventuali residui della putrefazione; viene lavato prima con acqua e sapone e poi “disinfettato” con stracci imbevuti di alcool che i parenti, “per essere sicuri che la pulizia venga fatta accuratamente”, hanno pensato a procurare assieme alla naftalina con cui si cosparge il cadavere e al lenzuolo che verrà periodicamente cambiato e che fa da involucro al corpo del morto nella sua nuova condizione. Quando lo scheletro è pulito lo si può più facilmente trattare come un oggetto sacro e può quindi essere avviato alla sua nuova casa – che in genere si trova in un luogo lontano da quello della prima sepoltura – con un rito di passaggio che in scala ridotta […] riproduce quello del corteo funebre che accompagnò il morto alla tomba2”. Facendo riferimento al nostro articolo sulla meditazione orientale asubha, un lettore di Bizzarro Bazar ci ha segnalato un luogo particolarmente interessante: il cosiddetto cimitero delle Monache a Napoli, nella cripta del Castello Aragonese ad Ischia. In questo ipogeo fin dal 1575 le suore dell’ordine delle Clarisse deponevano le consorelle defunte su alcuni appositi sedili ricavati nella pietra, e dotati di un vaso. I cadaveri venivano quindi fatti “scolare” su questi seggioloni, e gli umori della decomposizione raccolti nel vaso sottostante. Lo scopo di questi sedili-scolatoi (chiamati anche cantarelle in area campana) era proprio quello di liberare ed essiccare le ossa tramite il deflusso dei liquidi cadaverici e talvolta raggiungere una parziale mummificazione, prima che i resti venissero effettivamente sepolti o conservati in un ossario; ma durante il disgustoso e macabro processo le monache spesso si recavano in meditazione e in preghiera proprio in quella cripta, per esperire da vicino in modo inequivocabile la caducità della carne e la vanità dell’esistenza terrena. Nonostante si trattasse comunque di un’epoca in cui il contatto con la morte era molto più quotidiano ed ordinario di quanto non lo sia oggi, ciò non toglie che essere rinchiuse in un sotterraneo ad “ammirare” la decadenza e i liquami mefitici della putrefazione per ore non dev’essere stato facile per le monache. Questa pratica della scolatura, per quanto possa sembrare strana, era diffusa un tempo in tutto il Mezzogiorno, e si ricollega alla peculiare tradizione della doppia sepoltura. L’elaborazione del lutto, si sa, è uno dei momenti più codificati e importanti del vivere sociale. Noi tutti sappiamo cosa significhi perdere una persona cara, a livello personale, ma spesso dimentichiamo che le esequie sono un fatto eminentemente sociale, prima che individuale: si tratta di quello che in antropologia viene definito “rito di passaggio”, così come le nascite, le iniziazioni (che fanno uscire il ragazzo dall’infanzia per essere accettato nella comunità degli adulti) e i matrimoni. La morte è intesa come una rottura nello status sociale – un passaggio da una categoria ad un’altra. È l’assegnazione dell’ultima denominazione, il nostro cartellino identificativo finale, il “fu”. Tra il momento della morte e quello della sepoltura c’è un periodo in cui il defunto è ancora in uno stato di passaggio; il funerale deve sancire la sua uscita dal mondo dei vivi e la sua nuova appartenenza a quello Le doppie esequie servivano a sancire definitivamente il passaggio all’aldilà, e a porre fine al periodo di lutto. Con la seconda sepoltura il morto smetteva di restare in una pericolosa posizione liminale, era morto veramente, il suo passaggio era completo. Scrive Francesco Pezzini: “la riesumazione dei resti e la loro definitiva collocazione sono in stretta relazione metaforica con il cammino dell’anima: la realtà fisica del cadavere è specchio significante della natura immateriale dell’anima; per questo motivo la salma deve presentarsi completamente scheletrizzata, asciutta, ripulita dalle parte molli. Quando la metamorfosi cadaverica, con il potere contaminante della morte significato dalle carni in disfacimento, si sarà risolta nella completa liberazione delle ossa, simbolo di purezza e durata, allora l’anima potrà dirsi definitivamente approdata nell’aldilà: solo allora l’impurità del cadavere prenderà la forma del ‹‹caro estinto›› e un morto pericoloso e contaminante i vivi si sarà trasformato in un’anima pacificata da pregare in altarini domestici. Viceversa, di defunti che riesumati presentassero ancora ampie porzioni di tessuti molli o ossa giudicate non 2 Robert Hertz, Contributo alla rappresentazione collettiva della morte, 1907 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 7 Ischia - Castello Aragonese: Cimitero delle Clarisse, seggi-scolatoi sufficientemente nette, di questi si dovrà rimandare il rito di aggregazione al regno dei morti e presumere che si tratti di ‹‹male morti››, anime che ancora vagano inquiete su questo mondo e per la cui liberazione si può sperare reiterando il lavoro rituale che ne accompagni il transito. La riesumazione-ricognizione delle ossa è la fase conclusiva del lungo periodo di transizione del defunto: i suoi esiti non sono scontati e l’atmosfera è carica di ‹‹significati angoscianti››; ora si decide – in relazione allo stato in cui si presentano i suoi resti – se il morto è divenuto un’anima vicina a Dio, nella cui intercessione sarà possibile sperare e che accanto ai santi troverà spazio nell’universo sacro popolare”. Gli scolatoi (non soltanto in forma di sedili, ma anche orizzontali o molto spesso verticali) sono inoltre collegati ad un’altra antica tradizione del meridione, ossia quella delle terresante. Situate comunemente sotto alcune chiese e talvolta negli stessi ipogei dove si trovavano gli scolatoi, erano delle vasche o delle stanze senza pavimentazione in cui venivano seppelliti i cadaveri, ricoperti di pochi centimetri di terra lasciata smossa. Era d’uso, fino al ‘700, officiare anche particolari messe nei luoghi che ospitavano le terresante, e non di rado i fedeli passavano le mani sulla terra in segno di contatto con il defunto. Anche in questo caso le ossa venivano recuperate dopo un certo periodo di 8 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 tempo: se una qualche mummificazione aveva avuto luogo, e le parti molli erano tutte o in parte incorrotte, le spoglie erano ritenute in un certo senso sacre o miracolose. Le terresante, nonostante si trovassero nei sotterranei all’interno delle chiese, erano comunemente gestite dalle confraternite laiche. La cosa curiosa è che la doppia sepoltura non è appannaggio esclusivo del Sud Italia, ma si ritrova diffusa (con qualche ovvia variazione) ai quattro angoli del pianeta: in gran parte del Sud Est asiatico, nell’antico Messico (come dimostrano recenti ritrovamenti) e soprattutto in Oceania, dove è praticata tutt’oggi. Le modalità sono pressoché le medesime delle doppie esequie campane – sono i parenti stretti che hanno il compito di ripulire le ossa del caro estinto, e la seconda sepoltura avviene in luogo differente da quello della prima, proprio per marcare il carattere definitivo di questa inumazione. Se volete approfondire ecco un eccellente studio di Francesco Pezzini sulle doppie esequie e la scolatura nell’Italia meridionale; un altro studio di A. Fornaciari, V. Giuffra e F. Pezzini si concentra più in particolare sui processi di tanametamorfosi e mummificazione in Sicilia. * Nuove risposte e qualche sorpresa La Torre di Guevara IV di Rosario de Laurentiis Siamo giunti al quarto appuntamento relativo ai disegni trovati alla Torre Guevara nel corso della campagna di restauri di quest’anno. Restano ancora molti interrogativi (e forse il primo è “quando finirò di rompere le scatole con questo argomento?”). Iniziano anche ad emergere alcune risposte (ma non quella al quesito appena proposto...) Volendo fare una lista delle cose di cui parlare oggi, possiamo compilare scherzosamente il seguente elenco: - è spuntato fuori Guidone - altro che Corleone o Casaldiprincipe - il figlio di una cooperativa - prolifici dopo morti - follow the money - per fatto personale Tornando seri, vediamo di presentare il risultato delle nostre ricerche senza forzare troppo la pazienza del lettore, ma prima consentitemi una piccola e pedante correzione. Sul numero precedente, per un refuso prodottosi in sede di correzione di bozze, è stato indicato Pirro del Balzo come duca di Verona invece che di Venosa: me ne scuso con i lettori più attenti. Guidone La scena trovata al primo piano della Torre con il “duce” di Bretagna che abbraccia suo figlio ha colpito da subito la nostra curiosità, anche perché non vedevamo alcun collegamento tra una famiglia spagnola ed una regione francese. Segnalai con il primo articolo che un proverbio medioevale spagnolo parlava dei Guevara come di nobili venuti dalla Bretagna, e ricordai come nessun Guido fosse presente nella genealogia della casata. In Spagna gli storici, sulla base di un manoscritto del 1671 e perciò sconosciuto agli autori napoletani consultati dai Bovino, parlavano di un leggendario cavaliere chiamato Sancho Guillermo, parente dei duchi di Bretagna, che venne in Navarra a combattere contro i mori. Con la “prima puntata” di questo nostro ciclo avevo detto che il nome “Sancho”, così tipicamente spagnolo, doveva essere stato aggiunto dopo l’insediamento in Navarra, probabilmente per indicare una parentela che si era venuta a formare con i Re di Pamplona. Ma Guillermo era certamente la traduzione di un nome tipico di quei Paesi che oggi chiamiamo Gran Bretagna o Francia. Lo storico spagnolo Josè Luis Martìn (Reynos y con- tados del norte) ricorda che, da Carlo Martello in poi, i re franchi avevano cercato di proteggere i loro confini meridionali dal pericolo delle invasioni arabe. Carlo Magno aveva collocato suoi fedeli nei feudi spagnoli che andava conquistando: si trattava di fuoriusciti che si erano rifugiati nei territori franchi (come il basco Velasco, appartenente alla famiglia Vela dalla quale provenivano i Guevara) o conti franchi delle contee di confine (e tra questi Guillermo di Tolosa). Questo Guillermo, che tanto ci ricorda il Sancho Guillermo che in Spagna indicano come mitico capostipite dei Guevara, dopo aver combattuto i mori si fece frate e fu fatto santo nel 1066. Perché allora nella Torre di Ischia - invece che di questo Guillermo - si parla di un Guido, precisando che venne accolto in Spagna con molti onori e diventò Conte di Ognate e Signore di Alava? Nel successivo articolo su La Rassegna d’Ischia avevo azzardato una ipotesi molto ardita, che avrà fatto alzare gli occhi al cielo a qualche specialista della materia: partendo dal fatto che “Guido” - in latino - era in italiano Guidone, avevo ricordato che il nome Guy - tipicamente franco - era nel medioevo tradotto in Wido o in Guidone. E fin qui non c’erano obiezioni. Ricordavo che quel nome era portato da un Guy de Nantes, signore della marca di Bretagna in qualità di successore (figlio?) del paladino Orlando (quello di Roncisvalle). Da questo Guy discendeva la famiglia dei Guidoni, e qualche generazione dopo un membro di quella casata divenne re d’Italia ed imperatore del Sacro Romano Impero. Insomma avevo detto che i Guevara vantavano parentele con Carlo Magno! Potrete capire la garbata diffidenza di uno studioso spagnolo che ai Guevara aveva dedicato molti saggi, che mi ha consigliato di cercare documenti a sostegno di quanto dicevo. Ovviamente stiamo parlando qui, non del fatto di ricercare conferme storiche di questa fantasiosa parentela (cosa del resto impossibile, anche perché le discendenze illustri di molte famiglie venivano spesso create da genealogisti in vena di ossequiare il ricco mecenate), bensì di cercare le prove del fatto che il nome Guidone fosse stato annotato da qualche autore qualificato e non fosse invece una invenzione di chi aveva decorato la nostra torre. E qualche cosa è emerso. Autori seicenteschi hanno citato la parentela con la casa reale di Francia ma a Malta, dove un ramo dei Guevara si stabilì acquisendo anche lì feudi e titoli - e ce ne fu anche uno di sovrano, Gran Maestro dei Cavalieri di Malta -, troviamo un dettagliato albero genealogico della famiglia. In un sito maltese - ripreso poi da altri siti anglosassoni - troviamo un affermaLa Rassegna d’Ischia n. 5/2014 9 zione molto impegnativa: “The De Guevara or Deguara of spanish descent and nobility, descendants of Navarre, Aragon and Castille Kings, ancestry can be trace to Charlemagne”. Gli autori napoletani - che scrivevano a due secoli dalla venuta in Italia della famiglia - fanno anche loro riferimento ad un capostipite venuto dalla Bretagna. Carlo De Lellis, che può essere considerato il più documentato studioso della storia della nobiltà napoletana dell’epoca, scriveva, nella prima metà del '600: “I Guevara, nella comune opinione (Mazzella e Contarino) vennero in Spagna con un figlio di quei duchi (di Bretagna) nomato GUIDONE, detto il Gran Guerriero”. E troviamo un Guidon Selvaggio tra i protagonisti dell’Orlando Furioso. Ed ecco spiegato perché nella torre di Ischia si parla di un Guido invece che di un Guillermo. De Lellis precisa che la prova di questa provenienza è data dallo stemma della famiglia che, nelle bande trasversali, ha delle piccole code di ermellino che sono proprie dei duchi di Bretagna (ancora oggi le code di ermellino sono nello stemma della citta di Nantes). Guidone - dice De Lellis - venne contro i mori e li cacciò da Ognate ai tempi del Conte Fernando Gonzales di Castiglia (morto nell’anno 970). Come molti altri autori, De Lellis considera i Guevara ed i D’Avalos come appartenenti alla stessa famiglia, ed infatti nel capitolo dedicato ai primi inizia dai secondi (anche la genealogia maltese inizia con gli antenati dei D’Avalos e solo dal 1400 continua con i Guevara...). Per De Lellis, i D’Avalos discendono da un Guillermo (un altro!) Avalon della casa reale inglese, venuto in Spagna nell’anno 901. Per capirci: stiamo parlando di Avalon, l’isola leggendaria dove c’era re Artù e la tavola rotonda. Se questo non bastasse, ricorda anche che un altro autore (Filiberto Contarino) sostiene invece che discendano dal console romano Attilio Regolo, mentre il procidano Scipione Mazzella si limitava a riferire che l’imperatore bizantino Alessio Comneno nel 1081 acconsentì al matrimonio di sua sorella con un D’Avalos perché questa famiglia discendeva dal Pelide Achille. “Ma mi faccia il piacere!” avrebbe a tal punto esclamato Totò, che vantava la parentela con quello stesso imperatore Comneno. Gli stemmi testimoniano stragi feroci Lo stemma dei Guevara ci fornisce una serie di indicazioni interessanti, che fanno riferimento anche a lotte selvagge che insanguinarono i Paesi Baschi con ferocia paragonabile agli odierni delitti di mafia o camorra. Ma andiamo per ordine e partiamo dall’antico. Lo stemma originario dei Guevara era costituito da “bande d’argento filettate di nero” con le piccole code di ermellino che, come abbiamo detto sopra, testimoniavano la provenienza dalla Bretagna. Questo stemma è riprodotto sugli stendardi dei cavalieri che attendono Guidone per andare in Spagna (nel disegno relativo al Dux Britanniae e a Guido, ducis filius). 10 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Successivamente lo stemma fu modificato, come vediamo all’ingresso della sala del primo piano. I colori originari rimasero nel primo e quarto quarto dello scudo, mentre il secondo ed il terzo contenevano cinque foglie di pioppo. Il sito della nobiltà napoletana riporta che queste foglie sono il simbolo dei Suardo. E non è vero, perché lo stemma è diverso e perché la famiglia Suardo si congiunse alla famiglia Guevara solo nel ‘700. Il genealogista seicentesco Mazzella sostiene che quelli sono i colori dei Mendoza. Ma nemmeno questo è vero ed i Mendoza hanno uno scudo differente. I Guevara hanno “inquartato” - intorno al 1050 - i colori dei Gamboa, caratterizzati dalle foglie d’albero. Questa è un’ulteriore conferma del fatto che lo stendardo di Guidone si riferiva a un periodo precedente, anche se i personaggi indossavano vestiti rinascimentali. Gamboa ci ricorda un episodio che scatenò tre secoli di lotte feroci in quel paese, anche se a noi fa venire da ridere. La storia - raccontata nel quindicesimo secolo da Lope Garcia de Salazar - è questa: il primo di maggio le confraternite religiose portavano enormi ceri (come i “gigli” di Nola) ad una chiesa di Alava. Come ci ha insegnato il recente episodio dell’inchino della Madonna davanti alla casa del boss calabrese, questi portatori non erano mansueti devoti ma dei bravacci attaccabrighe. Davanti stavano coloro che sarebbero stati chiamati Ognacini, dietro i futuri Gamboini. All’inizio di una discesa, coloro che stavano davanti - sui quali veniva a cadere il peso maggiore - chiesero a gran voce a quelli di dietro di abbassare le braccia per riequilibrare il cero; gli altri insistettero a portarle in alto. I primi gridavano in basco “Ognaz” (abbassa) e gli altri urlavano “Gamboa” (in alto). Iniziarono violentissimi scontri con incendi ed attacchi alle case degli avversari. Essendo la regione contesa tra Castiglia e Navarra, gli scontri proseguirono tra i diversi partiti: gli Ognacini - tra i quali i Mendoza - per la Castiglia ed i Gamboini per la Navarra, con i Guevara in prima fila. I massacri durarono - nonostante le punizioni e gli esili comminati dai vari tribunali - e si videro episodi di particolare crudeltà. Si racconta di un Guevara che uccise un Mendoza e ne portò la testa nella piazza del mercato. Il figlio del morto si recò da solo sotto il castello dei Guevara insultando a gran voce l’uccisore; questi - pazzo di rabbia - montò a cavallo e si diresse a tutta velocità verso l’avversario. Per la rabbia - o forse per uno scarto del cavallo - andò a sbattere con violenza contro la porta della sua proprietà e rimase esanime a terra. Il Mendoza accorse e gli staccò la testa, che portò anche lui al mercato. La cosa si calmò solo nel ‘400, ma i sovrani della Spagna unita lasciarono la regione sotto la diretta sovranità dello stato, senza inquadrarla nella Castiglia o la Navarra, fino al 1845. Quando i Guevara vennero in Italia, il loro stemma, come in Spagna, aveva i due quarti con le foglie di Gamboa ed è questo lo scudo che troviamo nella sala del primo piano, che - non portando ancora lo scudetto di Bovino - è databile a prima del 1575. Passando a stemmi meno cruenti, ricordiamo che per le scale della Torre abbiamo uno scudo che affianca alle insegne dei Guevara (sulla sinistra, quindi per la famiglia paterna) quelle che dovrebbero essere dei Tomacelli, per la parte materna. Salvo errori, quindi, dovrebbe essere lo stemma di Guevara de Guevara, figlio di Giovanni e di Lucia Tomacelli; il che ci consente di datare quell’immagine - molto sbiadita - al secondo quarto del millecinquecento, cioè al periodo in cui questo cavaliere, morto nel 1550, era a capo della famiglia dei proprietari della torre. Lo stemma che figura sotto la scena della battaglia di Las Navas de Tolosa, come quello poi rubato che sovrastava l’ingresso della torre, ha uno scudetto sovrapposto alle insegne di famiglia, a testimoniare l’avvenuta ratifica imperiale (1575) dell’acquisto del ducato di Bovino, effettuato da Giovanni, marito di Isabella Frangipane della Tolfa. Sempre in tema di araldica va ricordato che il quarto duca di Bovino, Carlo Antonio, sposa nel 1635 Placidia Cybo Malaspina (discendente di Lucrezia Borgia). Il nonno di Placidia - Alberigo, principe di Massa e Marchese di Carrara - aveva ottenuto dall’imperatore austriaco Rodolfo II il privilegio di inserire nel proprio scudo l’aquila bicipite d’Asburgo. Poichè nella seconda sala della Torre troviamo ai quattro angoli della volta delle aquile coronate a due teste - che non c’erano nei disegni di Vredeman de Vries usati come modelli dai decoratori della torre possiamo pensare che siano state inserite per ricordare la famiglia di Placidia, nuova duchessa di Bovino. Va però riferito che il responsabile dei restauri della Torre prof. Danzl, dell’Università di Dresda, ha presentato - il 24 luglio - le foto di affreschi del tutto analoghi a quelli di Ischia, trovati in un castello della Sassonia. Su questo ci riserviamo di proporre qualche osservazione con la prossima “puntata”. Di chi era figlio il Marchese del Vasto? Mentre le notizie sui Guevara ed i Dàvalos sono abbastanza chiare per quanto riguarda i secoli precedenti, quando si arriva al quindicesimo secolo, che è quello che più ci interessa perché è il momento in cui dalla Spagna si passa all’Italia, tutto diventa molto complicato e le evidenze spagnole, quelle italiane e quelle maltesi diventano assolutamente inconciliabili, tanto da farci dire scherzosamente che forse il primo marchese del Vasto era figlio “di una cooperativa”. Nella “puntata precedente” avevo ricordato i 4 cavalieri che vennero in Italia con re Alfonso d’Aragona. I quattro si chiamavano D’Avalos e Guevara ma appartenevano alla stessa famiglia: Pedro Velez de Guevara si era sposato - in seconde nozze - con Costanza di Tovar. Questa, dopo la morte del Guevara, si era risposata con il “buon conestabile di Castiglia” Ruy Lopez Dàvalos, che era anche suo cognato, perché in seconde nozze aveva sposato Elvira Guevara. Tutti quanti avevano fatto figli e probabilmente c’erano anche giovanotti generati al di fuori dei matrimoni. Di chi era figlio Ignigo Guevara, conte di Ariano, Apici, Potenza, Marchese del Vasto, Gran Siniscalco del regno di Napoli, Cavaliere dell’Ermellino e del Toson d’Oro? Non lo sappiamo con precisione. Confrontando le fonti antiche (Garibay, Lopez de Haro, De Lellis, Mazzella) e quelle moderne (Kvirkveliya, Aguinagalde, Belli) troviamo risposte differenti. Poteva essere figlio di un Guevara (Pedro, Pero o Beltran) o di un Dàvalos (Ruy o Beltran). La madre poteva essere la prima moglie di Pedro, Isabella di Castiglia, o la seconda moglie di Ruy, Elvira de Guevara, o ancora - ed è l’opinione prevalente - la moglie di entrambi, Costanza de Tovar. Se era figlio di quest’ultima, è possibile (ma è una mia malignità) che nemmeno la madre sapesse esattamente chi fosse il padre, visto che Costanza sposò suo cognato Ruy Lòpez Dàvalos pochi giorni dopo la morte del primo marito. Anche se l’ipotesi più accreditata è quella della coppia Guevara-Tovar, non mancano altri che lo ritengono figlio di Ruy Lopez e di Elvira Guevara, sorella di Pedro. Questa ipotesi è sostenuta dal miglior genealogista napoletano del ‘600 (Carlo De Lellis) che così spiega perché il figlio di un Dàvalos portasse il cognome di Guevara: i cavalieri “che - all’uso di Spagna - lasciato il proprio cognome, e cognominati assolutamente dal quarto averno di Guevara, vennero col Re Alfonso e Ignigo fu fatto marchese del Vasto...” Gioca a favore di questa tesi anche l’opinione di Lopez de Haro, che parla di figli di un sol padre e due madri, ed il fatto che Ignigo si comportasse come il maggiore dei suoi fratelli, acquisendo per primo i vari titoli ed in parte poi cedendoli ai suoi congiunti. Sembra però strano che - sia pure da madri diverse - Ruy Lopez avesse due figli chiamati entrambi Ignigo, Guevara il primo, Dàvalos il secondo. La ricerca di onori e ricchezze da parte di Ignigo Guevara (che ricordava la miseria che aveva patito nella casa di Ruy Lopez e Costanza di Tovar quando “il buon conestabile” cadde in disgrazia e fu esiliato) è documentata dalla velocità con la quale la famiglia si è arricchita dopo la venuta in Italia, tanto da generare malumori nei nobili napoletani ed in particolare nella famiglia Caldora, che si vide sottrarre feudi e proventi da parte di quello che definivano “un barbaro sconosciuto” (Treccani, dizionario biografico) Con Ignigo Guevara partecipò alla spedizione del 1432 del re Alfonso “il Magnanimo” anche - giovanissimo: “ancora paggio” - Ignigo D’Avalos (si noti il cambio di grafia rispetto all’originario Dàvalos) che il re beneficiò poi facendolo sposare ad Antonella d’Aquino marchesa di Pescara e dandogli numerosi altri titoli. La famiglia d’Avalos ha avuto un ruolo importante nella storia, oscurando i consanguinei Guevara. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 11 Abbiamo in una precedente occasione ricordato che Ignigo Guevara (da cui discendono i Conti di Potenza) non risulta avere collegamenti diretti con i Guevara che risiedettero sulla nostra isola, pur avendola probabilmente visitata al seguito di Re Alfonso, che per le nostre terre ebbe una particolare attenzione. Come ricorda - con indignazione - Giuseppe d’Ascia nella sua “Storia dell’isola d’Ischia”- Re Alfonso insediò sul castello una guarnigione di 300 soldati (catalani ed aragonesi) e li fece sposare con le donne di cui aveva esiliato i mariti ed i padri; nominò poi la sua amante Lucrezia d’Alagno governatrice di Ischia. Spuntano sempre nuovi figli Ma torniamo ai 4 cavalieri. Con i due Ignigo dovrebbero essere arrivati anche Ferrante e Alfonso. De Lellis specifica che si trattava di “fratelli carnali” di Ignigo Guevara. Per Croce - invece - erano Ignigo e Ferrante Guevara e Ignigo e Alfonso d’Avalos. Poichè nelle cronache del Muratori si trovano fonti del 1467 che parlano di Ferrante e Alfonso de Giovara (e la famiglia Giovara è peraltro ancora esistente) rispettivamente conti di Belcastro e di Archi, dobbiamo pensare che o c’erano - oltre ai due Ignigo- anche due Alfonso o - ed è più probabile - che la stessa persona venisse indicata a volte con il cognome del padre (D’Avalos) ed altre con quello della madre (Guevara). Certo è che di Alfonso Guevara e Alfonso d’Avalos si sa pochissimo e non ci sono figli. Più notizie si hanno invece di Ferrante, definito dai contemporanei come giovane dai vestiti strani, di animo inquieto, introverso e turbolento. Non si sposò nè ebbe figli. Benedetto Croce dice: “Ferrante Guevara, dopo aver girato il mondo in cerca di avventure, e dopo aver combattuto in Germania, divenne conte di Belcastro... passò il resto della sua vita in Napoli, dove morì in tarda età”. Delle sue avventure come “cavaliere errante “ si parla addirittura nel Don Chisciotte di Cervantes. Amante degli studi, gran poeta, è ricordato dal Gareth come il “bel Ferrando, ai re non ineguale in majestate”. La contea di Belcastro tornò alla corona alla morte del conte. I Maltesi Dobbiamo ora occuparci dei maltesi: la “descrizione di Malta del commendatore Abela” del 1647 riporta che i Guevara di Malta discendono dai conti di Ariano, perché re Alfonso cedette dei feudi in quelle isole ad un Diego Guevara, conte di Ariano, morto poi intorno al 1461. Si specifica però che quel Diego potrebbe essere anche letto come “Ineco” (Ignigo); il che collocherebbe questa vendita tra il 1440, anno in cui Ignigo Guevara diventò conte di Ariano, ed il 1444, che è il momento in cui Ignigo doveva essere chiamato Marchese del Vasto. Questo però complica un po’ le cose: se si trattava veramente di quell’Ignigo, bisogna dire che della fiorentissima discen12 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 denza maltese non vi sono tracce nelle genealogie italiane e men che meno in quelle spagnole; se invece il nome era proprio Diego, allora sarebbe sbagliata l’indicazione di conte di Ariano e resterebbe il problema di sapere di chi era figlio questo Diego. A Malta, e più in generale negli scritti anglosassoni, si risolve il problema considerandolo un figlio di Ruy Dàvalos e Costanza de Tovar. Poichè questa operazione viene fatta ogni volta che non si sa esattamente chi fosse un Guevara o un Dàvalos, dobbiamo dedurre che questa coppia è stata molto prolifica, soprattutto post mortem! Ci sono altri Guevara venuti a Napoli? Certamente, ma non sono parenti stretti dei Guevara italiani. Si tratta del cardinale Pedro Pacheco Làdron de Guevara (vicerè dal 1553 al 1555), del vescovo di Badajoz don Juan Beltran Guevara (presidente del consiglio di stato dal 1613 al 1615, poi promosso arcivescovo di Santiago), e di don Ignigo Vèlez de Guevara y Taxis, ottavo conte di Ognate (vicerè dal 1648 al 1653) che combattè contro i francesi riconquistando Ischia e Nisida; combattè anche contro una congiura di nobili facendo arrestare e condannare Andrea D’Avalos che si era schierato con i ribelli capeggiati dai Pignatelli. Il fratello di questo Ignigo – don Beltran - fu a sua volta vicerè in Sardegna. Avendo accennato ad un Guevara (sia pure di Spagna) che fa arrestare un D’Avalos possiamo ricordare un episodio - più grave - che riguarda due diretti discendenti dei due Ignigo venuti dalla Spagna: si tratta di un D’Avalos marchese di Pescara che uccide un Guevara, figlio del Conte di Potenza e Gran Siniscalco del Regno di Napoli. Dovette intervenire l’Imperatore Carlo V per mettere pace ed imporre un matrimonio tra le due casate (ma Beatrice D’Avalos, divenuta contessa di Potenza, morì subito di parto...) A questo punto però, visto che andiamo cercando gli antenati dei signori della Torre di Ischia ed avendo precisato che essi non discendono dai 4 cavalieri venuti nel 1432, dobbiamo allargare le nostre indagini. De Lellis - citando questi quattro - aggiunge: “e poco dopo li raggiunse Guevara de Guevara, fratello (perché figlio di Pietro) o nipote (perché figlio di uno rimasto in Spagna) dei quattro e da questo discendono i marchesi di Arpaia e i duchi di Bovino”. Il Mazzella ricorda che Pedro (primo figlio di Ignigo Guevara marchese del Vasto) fu cavaliere dell’ermellino “insieme agli zii Ferrante conte di Belcastro, Alfonso conte d’Archi e (!) a Guevara de Guevara, signore di Arpaia”. Esteban de Garibay sostiene che questo Guevara de Guevara è figlio o nipote di Ruy Dàvalos ed Elvira Guevara. Sarebbero loro quindi gli antenati dei duchi di Bovino e - per altra linea - dei nobili di Malta. Seguiamo la storia dei feudi Per capirci qualcosa, abbandoniamo le complicazioni genealogiche e - per individuare i proprietari della torre Giovanni ed Apici al figlio Ignigo (questa ultima linea si estingue e la contea di Apici passa probabilmente a successori di altro cognome). Giovanni conte di Potenza e Gran Siniscalco sposa Altobella da Capua ed il suo primo figlio viene ucciso da Alfonso d’Avalos marchese del Vasto. La contea di Potenza passa al figlio Carlo e poi al nipote Alfonso (che Carlo V fa sposare con Beatrice d’Avalos per pacificare le due famiglie; morta questa, sposa Beatrice di Lannoi che gli dà l’erede, chiamato anche lui Alfonso). Alfonso, sesto conte di Potenza, sposa Isabella Gesualdo (parente di San Carlo Borromeo, fratello di sua nonna). Hanno solo figlie femmine e quindi la contea di Potenza passa ad eredi di altra famiglia. In conclusione, i duchi di Bovino non discendono da Ignigo Guevara primo marchese del Vasto. 3) Ma questo marchese aveva altre proprietà: Abbiamo parlato delle proprietà maltesi, che vanno ad un Giovanni (figlio di quel Diego che forse era lo stesso Ignigo; in ogni caso non conosciamo la madre) capostipite della linea maltese. Anche questa discendenza non riguarda i nostri duchi. Ischia - Torre Guevara altrimenti detta anche o di S. Anna o di Michelangelo - facciamo una ricerca sui feudi, visto che le proprietà sono più facilmente rintracciabili e ci aiutano a capire le complesse parentele che emergono dalle fonti storiche; per dirla alla americana: let’s follow the money. Abbiamo già detto che non ci sono eredi o successori di Ferrante e Alfonso de Guevara. Vediamo ora di seguire le proprietà di Ignigo che, durante la prigionia con il re Alfonso, riceve la promessa di tutti i beni di proprietà di Francesco Sforza e Michelotto Attendolo. Al momento questa donazione - fatta da un prigioniero ad un altro prigioniero e riguardante i feudi dei loro nemici - sembrava un po’ velleitaria, eppure venne realizzata: nel 1440 Ignigo ricevette le contee di Ariano ed Apici - tolte allo Sforza - nel 1442 gli fu data la contea di Potenza (tolta all’Attendolo) e nel 1444 diventò Gran Siniscalco e Marchese del Vasto; non bastandogli tutto ciò, l’anno dopo comprò i feudi di Greci, Savignano e Buonalbergo. Vediamo allora a chi passano tutti questi beni: 1) La carica di Gran Siniscalco, il Marchesato del Vasto e la contea di Ariano spettano al primo figlio Pietro. Come abbiamo ricordato in altra occasione, Pietro partecipa alla congiura dei baroni e perde tutte le sue proprietà, che tornano alla corona. Dalla moglie Isotta del Balzo ha solo figlie femmine e quindi possiamo abbandonare questa discendenza. 2) Ignigo lascia all’altro figlio Antonio le contee di Potenza e di Apici. Antonio sarà vicerè di Napoli e marito di Caterina d’Aragona. A sua volta lascia Potenza al figlio 4) Tra le proprietà di Ignigo avevamo elencato anche i feudi di Greci, Savignano, Buonalbergo. Che fine hanno fatto? Sono stati donati a quel Guevara de Guevara di cui non sappiamo assolutamente la paternità. Sia De Lellis che Scipione Mazzella si limitano a dire che arrivò successivamente ai quattro cavalieri che accompagnavano re Alfonso e pensano che sia un fratello del marchese Ignigo oppure il figlio di un suo fratello rimasto in Spagna. Certo è che, quando Ignigo era Gran Siniscalco, lo fece nominare Cavaliere dell’ermellino come lo era lui stesso ed i suoi fratelli conti di Belcastro e di Archi. Non vi pare un po’ troppo per un nipote? De Lellis e Mazzella scrivevano in un periodo in cui la famiglia era potentissima, e si dovevano guardare la pelle. Ma possiamo immaginare di tutto, anche che questo Guevara sia - come può esser stato anche nel caso del maltese - un figlio naturale dello stesso Ignigo, che gli avrebbe dato non solo il cognome ma anche il nome della sua casata. Da questo cavaliere discendono i duchi di Bovino. E vediamo come. Guevara de Guevara sposa Margherita di Lagonessa (o anche Leonessa) che gli porta in dote il feudo di Arpaia ed ha due figli: Ignigo e Giovanni. 4a) Seguiamo prima la linea di Giovanni, signore di Savignano, che sposa Lucia (o Luciana) Tomacelli ed ha tre maschi: del terzo, Tommaso, non risultano discendenti; il secondo - Paolo - sposa Livia Carbone di Padula, nipote del Papa Paolo IV, ed ha una lunga discendenza, che però non riguarda la nostra ricerca. Ci interessa invece la linea del primogenito di Giovanni, che porta il nome del nonno: Guevara di Guevara. È lui quello che mette il La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 13 suo stemma (padre Guevara, madre Tomacelli) nelle scale della torre. Guevara sposa Delfina Loffredo ed ha nove maschi ed una femmina. Dei maschi - a parte il primo - non si conoscono discendenze salvo quella di Ferrante (padre di Hieronimo) e Pietro, che ha nove figli ma nessun nipote. Il primogenito di questo secondo Guevara de Guevara si chiama Giovanni, come il nonno, ed è lui che diventa il primo duca di Bovino. Il Duca Giovanni sposa Isabella della Tolfa ed ha tre maschi e tre femmine. Di due di queste sorelle ci occuperemo nel paragrafo successivo. Dei maschi uno (Alfonso) si fa prete, un altro (Ferrante) ha solo un figlio ma senza eredi, ma il ducato spetta al primogenito Ignigo, secondo duca di Bovino e Gran Siniscalco. Ignigo, che sposa Porzia Carrafa figlia del duca d’Andria, dopo aver avuto ben undici figli prende i voti (e meno male!) e diventa gesuita. Gli succede Giovanni, terzo duca ed anche lui gran siniscalco, che prende in moglie Giulia Buoncompagno, figlia del duca di Sora. Ha quattro figli e poi muore in Lombardia per le ferite riportate in combattimento. Il suo primogenito Carlo Antonio, quarto duca di Bovino e gran siniscalco, diventa conte del suo feudo di Savignano ed in più compra Ariano, che era stato feudo del primo marchese del Vasto e che era stato confiscato al di lui figlio dopo la congiura dei Baroni. La moglie di questo quarto duca è quella Placidia Cybo che ha nello stemma l’aquila bicipite d’Asburgo che troviamo nella volta di una stanza della torre. La linea dei duchi di Bovino prosegue ed arriva fino al momento in cui i titoli vengono aboliti per l’avvento della Repubblica Italiana. Per “fatto personale” Sul precedente numero de La Rassegna d’Ischia avevo ricordato che molti siti ischitani riportavano una frase del tutto sbagliata: e cioè che un Francesco duca di Bovino sarebbe stato nominato - alla fine del ‘400 - governatore a vita di Ischia dall’imperatore Carlo V. Ciò è completamente sbagliato, perché nessun duca di Bovino si chiamava Francesco, il ducato era stato ottenuto solo nel 1575 e Carlo V alla fine del ‘400 non era ancora nato. Avrei scritto anche che non era mai esistito un Francesco Guevara governatore a vita di Ischia, ma all’ultimo momento ho cancellato questa frase. E questo perché, stufo di occuparmi dei Guevara, mi ero messo a fare qualche ricerca sulla famiglia di mia madre. Avevo sempre saputo che i Palagano erano pugliesi, ma oltre questo non sapevo assolutamente niente. Semmai avevo guardato un po’ la famiglia di mio padre, perché conserviamo ancora un quaderno in cui tutti i capifamiglia, dal 1702, annotavano nascita e morte dei de Laurentiis. Leggendo Chevalley de Rivaz avevo trovato però un 14 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 accenno alle famiglie “nobili” di Ischia e avevo visto elencato anche i Palagano, che pensavo avessero appreso dell’esistenza della nostra isola solo quando mia madre aveva conosciuto mio padre. E quello che emergeva andava solleticando la mia vanità (antichi nobili normanni, signori di Trani nell’anno mille, etc.). Tra l’altro un Pietro Palagano signore di Trani -consigliere della regina Giovanna II- era stato uno dei nobili che uccisero SerGianni Caracciolo, favorendo così la successione di re Alfonso d’Aragona al trono di Napoli; per quello stesso re era stato anche comandante delle truppe che combatterono contro gli Angioini, che lo presero prigioniero insieme con il Principe di Taranto costringendolo a cedere il suo feudo per aver salva la vita. Nel corso di queste ricerche trovavo anche vari matrimoni di cavalieri Palagano con dame dell’alta nobilità (tra i quali una Este e due sorelle Guevara). Ippolita e Costanza Guevara, figlie del primo duca di Bovino, avevano sposato rispettivamente Goffredo (signore di San Vito dei Normanni) ed Ignigo Palagano. Racconto questa storia perché Ippolita Guevara Palagano aveva avuto in dote il feudo d’Arpaia, che aveva poi venduto a suo zio Francesco Guevara. Abbiamo rintracciato dunque questo Francesco Guevara, marito di Aurelia Caracciolo, che nel 1577 acquistava la signoria di Arpaia. Suo figlio Giovanni sarebbe poi diventato primo marchese di Arpaia. Ma da dove veniva questo Francesco, governatore a vita di Ischia? Torniamo al Guevara de Guevara venuto dalla Spagna e sposato con Margherita Leonessa. Come abbiamo detto, i suoi figli erano Giovanni signore di Savignano (di cui ci siamo occupati - sub 4a - perché è il capostipite dei duchi di Bovino) e Ignigo, signore di Buonalbergo e di Arpaia. 4b) Ignigo sposò Caterina Gesualdo, gli succedettero nell'ordine: un altro Giovanni, poi ancora un Ignigo, ed infine un Alfonso. Questo Alfonso, signore di Buonalbergo e di Arpaia, è padre di nove figli e tra questi c'è il Francesco, Governatore a vita di Ischia. Direi che per il momento possiamo fermarci Rosario de Laurentiis Angelo Di Costanzo: Historia del Regno di Napoli Esteban de Garibay: De los linajes vasconados contenidos en las Grandezas de Espana Scipione Mazzella: Trattato dell'origine e divisamento delle corone Carlo De Lellis: Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli Giuseppe d'Ascia: Storia dell'isola d'Ischia Benedetto Croce: La Spagna nella vita italiana del rinascimento Olga Kvirkveliya: Bovino e Guevara in letteratura Vincenzo Belli: La torre di Sant'Anna F. Borja Aguinagalde: varie pubblicazioni su Archivio Storico di Bilbao. Note di don Camillo D'Ambra Personaggi ischitani Il dott. Luigi Mazzella medico e, per 15 anni, sindaco d'Ischia “La mia diletta città potrebbe benissimo fare a meno di me, ma sono io che non posso fare a meno di essa, perché l’amo”. Questa frase del filosofo cinquecentesco Bernardino Telesio da Cosenza ben potrebbe porsi sulle labbra dell’illustre medico, sindaco e politic ischitano, il Dott. Luigi Mazzella. Egli infatti dedicò l’intera sua vita, e mise a disposizione tutte le sue energie e il suo gran cuore, perché i suoi concittadini fossero tutelati nei sacrosanti diritti umani e fossero gratificati nelle loro legittime aspirazioni alla promozione civile, culturale ed economica del paese. La strada principale del centro storico d’Ischia è a lui dedicata, ma non tutti si rendono conto dell’importanza del personaggio, che è unico e non facilmente ripetibile, anche se reca un nome e un cognome molto diffusi a Ischia. Luigi Mazzella era figlio di Bonaventura e di Angela Maria Califano e venne alla luce in Ischia nel giorno di San Silvestro, cioè nell’ultimo giorno del 1829; al battesimo gli furono imposti i nomi di Luigi, Enrico e Silvestro. Crebbe sotto l’amorevole cura dei suoi genitori in una casa sita in Via dei Pescatori nel Borgo di Ischia. La sua fu una famiglia modello. Dai suoi genitori ricevette la prima educazione e per tutta la vita si ispirò a quei sani principi etici che vide concretizzati nella condotta dei genitori. Gli anni dell’infanzia non furono facili perché contrassegnati da non pochi momenti angosciosi. Basta ricordare l’epidemia di vaiolo del 1831 e quella ancora più nefasta del colera del 1837, per non parlare delle turbolenze paventate dagli aderenti alle associazioni settarie che allora erano in gran voga anche a Ischia. Fin dagli anni delle scuole elementari, Luigi Mazzella rivelò una intelligenza spiccata e una saviezza superiori alla sua età. Il maestro, che aveva una scolaresca numerosissima e che percepiva dal Comune (le elementari allora non erano ancora statali) appena 80 ducati all’anno, si congratulava col signor Bonaventura Mazzella e lo esortava a far proseguire gli studi al figlio Luigi, prevedendo che egli avrebbe fatto molta strada. Erano ben pochi quelli che continuavano gli studi dopo le elementari perché nell’isola non esisteva nessun istituto superiore ad eccezione del Seminario. Bonaventura Mazzella fu d’accordo con il maestro, Il dott. Luigi Mazzella medico e, per 15 anni, sindaco d'Ischia (foto tratta dal periodico "Ischia Mondo" n. 137 / Marzo 1988). non si intimidì per il fatto che allora il Seminario d’Ischia non era a disposizione, in quanto ancora requisito dal Governo, e non esitò a scrivere Luigi al Seminario di Pozzuoli che allora godeva tanta buona stima per il prestigio recatogli dal vescovo Carlo M. Rosini. Quando nel 1844 fu riaperto il nostro Seminario, Luigi optò per esso per gli studi liceali. Sia nel Seminario di Pozzuoli che nel nostro, Luigi Mazzella si distinse per gli ottimi voti riportati e per il suo primeggiare nelle accademie filosofiche, pratiche e letterarie che allora si tenevano in particolari occasioni ed ebbe modo di accumulare medaglie al merito e ambiti attestati di benemerenza. Benché avesse grande stima per i sacerdoti, Mazzella non si sentiva la vocazione. Il suo ideale, non meno nobile di quello sacerdotale, era quello di alleviare le sofferenze, sanare le infermità, confortare i malati, alleviandoli nel morale e affrettandone con appropriate cure la guarigione. Lasciato il Seminario, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina di Napoli e si trasferì in questa città, per frequentare i corsi accademici, brillantemente coronati dalla laurea e successivamente con la specializzazione in ostetricia . Negli anni dei suoi studi universitari il Mazzella visse tutte le vicissitudini politiche che determinarono la fine del reame borbonico e l’annessione del Meridione d’Italia al Regno di Savoia. Il Mazzella rimase ancora La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 15 a Napoli per qualche tempo dopo la laurea in chirurgia e ostetricia come medico ordinario dell’istituto per malattie sifilitiche, poi tornò definitivamente in patria, ove si dedicò all’esercizio della sua professione, riscuotendo tanta stima per la sua affabilità e il suo disinteresse nonché per la sua non comune perizia nella scienza medica. Non si pentì d’aver seguito la vocazione di medico quando nel 1879 sperimentò sulla sua pelle il contagio contratto al capezzale dei suoi assistiti. Durante le varie epidemie che afflissero il paese non si risparmiò, sfidando il contagio. Sempre esercitò la professione come un dovere di coscienza. Luigi Mazzella non si limitò all’esercizio della sua professione, ma volle cimentarsi anche in politica ed anche in questo campo, benché arduo ed infido, incontrò successo tanto che il 25 luglio 1865 entrò nel consesso dei consiglieri comunali, ed in quello stesso anno, il 26 ottobre, assunse la carica di sindaco d’Ischia che coprì con disinteresse ed equità per ben quindici anni. Dal 1870 fece anche parte del Consiglio Provinciale di Napoli. Nella sua doppia veste di sindaco del capoluogo isolano e di consigliere provinciale, Mazzella porse il benvenuto al nuovo Vescovo d’Ischia Mons. Francesco Di Nicola l’undici febbraio 1872, appena sbarcato nel piazzale del Ponte d’Ischia dal piroscafo “La Goletta”. Esempio di onestà civica, Mazzella pose al servizio del suo paese tutto il suo ingegno nell’intento di elevarne il tono, allora ancora alquanto scadente. Egli giustamente può considerarsi come il pioniere di quel salto 16 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 di qualità che l’isola avrebbe fatto negli anni successivi grazie alla lungimiranza e alla sagacia di tanti isolani impegnati nello sfruttamento delle ricchezze naturali locali. Come sindaco di Ischia inaugurò con orgoglio nel 1876 la Stazione balneo-climatico-militare che fu allestita negli ambienti del palazzo reale e nel 1877 accolse insieme al vescovo Di Nicola le figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli che posero dimora nel Palazzo Reale, e vi rimasero per circa 80 anni alimentando nella popolazione di Porto d’Ischia il senso di solidarietà verso i meno fortunati. Realizzò non poche opere pubbliche, come il tratto della strada che costeggia i cosiddetti pilastri, la strada detta di Ca’ Mormile a Campagnano, l’arteria che unisce il centro storico con Villa dei bagni, gettando le basi di quel meraviglioso sviluppo che avrebbe poi avuto il territorio che va oggi sotto il nome di Porto d’Ischia. Il primo tratto di questa strada, allargato e pavimentato con lastroni di pietra vesuviana, cioè dal ponte aragonese alla piazza d’Ischia dominata dalla Croce. Un’altra opera meritoria di risanamento per il centro storico fu la demolizione di vecchie casupole, ormai fatiscenti e malsane esistenti tra due vicoletti luridi e senza sole, creando così una strada spaziosa ch’egli volle intitolare al Santo Patrono d’Ischia, strada che per la sua ampiezza fu popolarmente denominata “piazza”. Si deve ancora a questo benemerito primo cittadino la costruzione dello Stabilimento termale del Comune, costruito su progetto e direzione dell’ing. Giuseppe Florio, proprio sulla sponda del porto, sfruttando, a beneficio della popolazione e dei forestieri, le acque medicamentose delle sorgenti e dei fanghi di Fornello e Fontana. Si collega al nome del sindaco Luigi Mazzella anche la realizzazione del Cimitero comunale. Per lunghi anni si era discusso sulla costruzione del cimitero, ma mai si era raggiunto un accordo circa il luogo dove avrebbe dovuto sorgere. Chi lo voleva presso la Torre di S. Anna, chi nella zona di Soronzano, chi nello spazio allora esistente presso la chiesa del Purgatorio, detta di S. Pietro a Villa dei Bagni. Finalmente fu deciso di costruirlo dove adesso sta, nella Via Cartaromana, nei pressi della chiesa di S. Domenico. La bontà e la sollecitudine nel soccorrere chi soffriva rifulse soprattutto in occasione dei terremoti del 1881 e 1883. Quel 4 marzo 1881, quando avvenne il terremoto a Casamicciola, Luigi Mazzella si trovava a Barano, dove si era recato per la visita di alcuni suoi pazienti. Non tornò neppure a casa per il pranzo, ma corse subito a Casamicciola per cercare di strappare alla morte chi era rimasto sotto le macerie. La stessa cosa fece all’alba del 29 luglio 1883, dopo il disastroso terremoto della sera precedente, insieme con altri medici ischitani, tra i quali i dottori Carlo e Giuseppe Calosirto e nei giorni successivi si incontrò con il Re Umberto I, con l’Arcivescovo di Napoli Mons. Guglielmo Sanfelice, con l’onorevole Francesco Genala, allora ministro dei Lavori Pubblici, con l’onorevole Rocco de Zerbi e con il Marchese Pasquale Adinolfi. Presidente del Comitato che subito fu formato per soccorrere i sopravvissuti. In quella occasione tutti i sindaci dell’isola furono solidai nell’aiutare le popolazioni colpite in modo più grave nella fascia Casamicciola-Lacco-Forio. Era ancora nella sua piena attività il Mazzella, quando nell’anno seguente ci fu il dilagare dell’epidemia colerica in tutto il napoletano; allora invero egli manifestò ai suoi collaboratori la sua intenzione di lasciare la vita pubblica. A chi lo esortava a continuare egli rispose di sentirsi stanco e di aver bisogno di riposo. Il suo aspetto e l’età facevano sembrare assurda quella sua decisione; gli amici insistettero perché desistesse da quel proposito. Fu irremovibile. Da buon clinico aveva diagnosticato in sé un morbo incurabile che non rivelò a nessuno. Solo, si ritirò in casa, dove lo assistette la sorella nubile M. Antonietta, che aveva 35 anni ed era ignara del male che il fratello volle nascondere sino alla fine. Dire che il Mazzella era un credente è dir poco. Egli era un cristiano convinto. L’educazione ricevuta in famiglia e in seminario gli aveva plasmato una coscienza così retta e un cuore così traboccante di amore fraterno da far della sua vita una testimonianza ammirevole di fede e di carità e di tenera devozione alla Madonna, in ossequio alla quale si astenne ogni mercoledì e ogni sabato dalla carne, dal vino e dalla frutta. Fu lungo e doloroso il suo calvario ma, seppe mimetizzare la sua sofferenza che non lo si credeva malato, tanto più che non fu costretto a stare a letto se non negli ultimi giorni di vita. Si spense il 4 marzo 1886. Grande fu il cordoglio per la scomparsa a soli 43 anni di un uomo sì grande. Le esequie, che si svolsero nella cattedrale il 5 marzo, il giorno della festa del Santo Patrono, furono imponenti e si riversò in Ischia una folla strabocchevole venuta da più parti dell’isola. Camillo D’Ambra Del medico Luigi Mazzella, divenuto sindaco nel 1869, Paolo Buchner nel suo opuscolo “Storia degli stabilimenti termali di Porto d’Ischia” (1959), scrive: «Uomo attivo e di larghe vedute, al quale il Comune deve la sua riconoscenza per molti riguardi. Non fa meraviglia che egli, persuaso anche come medico dell’importanza delle due sorgenti di Fontana e Fornello, si adoperò con tutto il suo impegno per un rimodernamento delle Terme, il cui progetto fu curato dall’ing. Giuseppe Florio ed esso fu realizzato con una rapidità fino allora insolita; dopo due anni, il nuovo stabilimento fu solennemente inaugurato il 26 giugno 1881; tenne il discorso inaugurale Eugenio Fazio, nuovo direttore sanitario, il quale poi darà alle stampe l’opuscolo “Terme di Porto d’Ischia”. Già alcune settimane prima, il 21 maggio, Luigi Mazzella aveva emesso un proclama in cui rivolgeva alla popolazione esortazioni che oggi sono non meno, anzi forse ancora più valide». Il titolo del citato opuscolo di E. Fazio porta, per la prima volta, secondo P. Buchner, il nome di “Porto d’Ischia” che poi è prevalso su quello antico di “Villa de’ Bagni”, senza essere stato tuttavia mai confermato da un decreto ufficiale. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 17 Forio culla sacrale nella quale ho lasciato da sempre la mia anima, il mio cuore e i miei pensieri!! Spesso oggi, dopo il tramonto scorgo nell’azzurro terso del cielo, qui a Grugliasco dove io vivo, numerosi maestosi bianchi gabbiani, volare da nord a sud, con ali distese, silenziosi ed in gruppo. Li scorgo e colgo in loro, nel loro sguardo tanta mestizia e malinconia, poiché sorvolano non le azzurro-cupoverdeggianti immense e maestose distese marine ma le enormi distese di montagne di discariche di rifiuti, alla ricerca affannosa di un po’ di maleodorante e nauseabondo cibo: che squallore, quale atroce triste nuova realtà!!! Nonostante tutto ciò (squallore e tristezza) io sono e mi sento orgoglioso di amare e rispettare la ‘mia’ Isola Verde, la ‘mia’ ancestrale Forio, culla sacrale nella quale ho lasciato da sempre la mia anima, il mio cuore e i miei pensieri!!! Non posso e non riuscirò mai a dimenticare la "sua" (della mia Pithecusa) e la "mia" giovinezza, allorquando spensierati e speranzosi di un mondo, il nostro mondo, migliore, ci trastullavamo con semplici giochi, in simbiosi armoniosa con tutta la sua, la nostra incontaminata, naturale bellezza, formata da maestose pinete e colture verdeggianti: flora multivariegata con multicolori e fascinosi fiori pregni di profumi e aromi, piccoli, graziosi e sorridenti arenili, alcuni situati tra pendii verdeggianti e rocce calcaree di tufo, scoscese a picco nel ‘mio’ azzurrocupoverdeggiante mare che avvolge tutto in un abbraccio ancestrale, tutto avvinghiato con la nostra ingenua giovinezza di ‘amanti’ l’una dell’altro. Tutto ciò non dimentichi dell’intenso avvolgente profumo di salsedine misto a quello di alghe che ci dona, instancabilmente ed ininter18 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Forio - Veduta da P. Caruso rottamente, il Dio Nettuno con la sua multivariegata maestosa e avvolgente distesa marina, mirabilmente incantevole con tutta la sua variegata flora e fauna, tutto adornato con spumeggianti onde, createsi come d’incanto dal mitico Eolo, con il suo alito e sbuffo spesso inebrianti e ammalianti, tutto ciò contornato, adornato e attraversato dal volo di bianchi maestosi gabbiani che paiono tessere nell’aere melodiosi e ritmici voli, che oggi per noi giovanetti, colmano i nostri cuori di magnificenti e perenni sconvolgenti sensazioni ed emozioni che oggi, in una nuova, ahimè negletta realtà, riaffiorano dal nostro animo e dalla nostra mente, prepotentemente, rivitalizzandoci, con la memoria nostalgica (sic!) del passato. Essi, i gabbiani, hanno oggi lasciato, abbandonato, almeno in parte, le ancestrali distese marine e forse per carenza di cibo o per qualche arcaica misteriosa ragione si dirigono ad elemosinare un po’ di cibo, in zone metropolitane, su discariche maleodoranti, tra rifiuti di ogni tipo: quale squallore (sic-ahimè)!!! Anche i mari e gli oceani, nella loro immane vastità, si sono purtroppo, gradatamente inquinati deteriorandosi, infatti non sono più come un tempo blucupoverdeggianti, ed è stata la causa della variazione degli itinerari migratori, alla ricerca del loro migliore habitat dei pesci, quindi di tutta la fauna non solo acquea ma anche terrestre e il lento deterioramento pur della flora terracquea. Oggi assistiamo purtroppo, impotenti ai mutamenti geofisici, che coinvolgono direttamente non solo l’atmosfera, nonché l’intero territorio mondiale, compresi il polo nord ed il polo sud con i relativi ghiacciai, ma anche l’intero sistema floristico e faunistico, con la vita dell’uomo colpevole in prima persona, da molti decenni di tali sconvolgimenti. Meditando su tutto ciò, giunge spontaneo un auspicio, di un nuovo costante impegno, fermo e deciso, non solo da parte mia, per rinverdire gli ameni e dolci ricordi della ‘mia’ amatissima isola Aenaria con il suo mitico monte che sovrasta Tifeo, ma di tutte le nazioni del globo, per sigillare quel protocollo universale sull’ecosistema che ci impegna a porre un freno al continuo decadimento ecologico, posizionando, finalmente, quelle basi necessarie ed indispensabili al conseguimento di una ripresa universale, affinché i ricordi nostalgici delle ancestrali bellezze di un tempo, possano ridiventare realtà, e con l'impegno di tutti (limitazione degli armamenti nucleari, contenimento delle emissioni e formazioni di anidride carbonica, rispetto del territorio nella sua globalità etc.), esaltare l’intera umanità!!..spero alfine rinsavita e risorta a nuovi più rosei obiettivi e confini. Con questo auspicio, intendo augurare a tutti, tesaurizzando le ‘rimembranze emozionali e riflessioni’ nuovi impegni e nuovi propositi nel rispetto e a tutela dell’intera natura terracquea. Gaetano Ponzano Da San Pietroburgo a Capri il pittore Michele Ogranovitsch Michele Ogranovitsch1 nacque il 5 luglio 1878 a San Pietroburgo, capitale dell’Impero Russo di allora, da famiglia nobile discendente dai cavalieri di Lituania. Il padre, anche egli Michele (Michail), uomo intransigente e valido medico, gli trasmise il titolo di barone2. Sappiamo che suo padre fu tra i primi medici che fondarono stabilimenti di benessere (sanatorij) nella splendida e calda Crimea. La madre del futuro pittore si chiamava Alevtina Jakovleva. Ogranovitsch presto manifestò le sue qualità nella città natale, alla rinomata Scuola d’arte del barone Stiglitz. Questa scuola insegnava le cosiddette ‘arti applicate’, vale a dire arti decorative. La ricerca negli archivi della Scuola purtroppo non ha portato alla luce alcun dossier del giovane Ogranovitsch, però abbiamo trovato un album stampato con i disegni dei migliori studenti e fra essi del Nostro: l’artista presentò la bozza di una tavola e quella di una sedia per la Direzione della Scuola, fatte nello stile “neorinascimentale”3. In un elenco dei laureati della Scuola nel 1901 sotto il numero 102 è indicato il nome del Nostro con la seguente frase: “al termine degli studi nella classe di composizione è stato insignito con il titolo di dise1 Secondo le regole slavistiche il suo nome va scritto come Michail Ogranovič, ma noi ci adattiamo all’autoscrittura del pittore. 2 Da notare però che nelle fonti russe il titolo baronesco non risulta; non da escludere che il pittore, emigrando dalla Russia, si sia espropriato del titolo aristocratico come succedeva nelle molte case dei russi fuoriusciti. 3 Sbornik klassnych rabot učenikov central’nogo učiliša techničeskogo risovanija barona Štiglica za 1901 god [Raccolta delle opere scolastiche della Scuola centrale del disegno tecnico del barone Stiglitz del 1901], Sankt-Peterburg 1904. gnatore educato”. Le sue bozze per i mobili della Scuola ebbero successo ed egli ricevette una borsa per un “viaggio educativo” come premio. Così l’esprit d’artista si evidenziò nell’ambiente scolastico e non sfuggì al classico tour per l’Europa; fu il Museo d’arte di Kiev (con il quale ebbe rapporti a causa dei suoi frequenti viaggi in Crimea), ad invitarlo nel maggio del 1902 nelle capitali d’arte: Praga, Vienna, Parigi, Venezia, Firenze, Roma. A Napoli fu ospitato nel Palazzo Reale di Portici e si applicò alla pittura di paesaggio per alcuni mesi. Attratto dalla fama di Capri, giunse sull’isola per una gita turistica e prese alloggio in una stanza che affacciava sul porticciolo di Marina Grande, dove si lasciava ispirare per le sue pitture dai soggetti di marine. L’albergo Belvedere & Tre Re diventò presto il suo atelier. La passione della sua vita per la pittura s’intrecciò con una nuova passione: Laura Petagna, bella caprese dai capelli neri e figlia degli albergatori. L’amore dei due venne salutato con piacere anche dal parroco caprese De Nardis, ma dalla madre Russia i nobili genitori protestarono sulle origini dell’amata Laura, coinvolgendo anche l’ambasciatore russo per il rimpatrio del figlio: quest’ultimo, rivendicando la sua maggiore età, si sposò il 17 maggio 1903. La frattura con la famiglia sarà colmata con l’arrivo dei figli, Giuseppe, nato nel 1905, e Gelsomina, nata nel 1910. Proprio in questi anni, al seguito dello sbarco sull’isola di Massimo Gorkij, a Capri si era formata una folta colonia di artisti russi, ma non si verificarono contatti fra loro e Ogranovitsch, che apparteneva agli strati sociali assai diversi e certamente non condivideva con il circolo di Gorkij l’idee rivoluzionarie. La passione per la pittura era sempre viva in lui, ma Ogranovitsch si prodigava anche in altri impegni artistici per conto di musei russi ed iniziò a collaborare come scenografo per il famosissimo Teatro Bolscioj. A causa della Rivoluzione russa del 1917 venneroo a mancare questi contatti, e si rivolse come scenografo al Teatro San Carlo di Napoli. A Capri l’artista lavorò e dipinse per molti anni. Al Caffè Morgano, da donna Lucia, s’intratteneva a volte con i connazionali presenti sull’isola: a Capri ci furono dopo la Rivoluzione diversi esuli che appartenevano alle famose casate russe imperiali – i conti Sayn Vittgenstein, i baroni von Uexküll, i baroni von Rahden ecc. Come costoro, Ogranovitsch ebbe lo stesso destino, cioè la vita abbastanza agevole prima del 1917 e poi, con le confische bolsceviche, la perdita dei beni e dei possedimenti. Ma a differenza di molti esuli all’estero, cosi detti ‘russi bianchi’, Michele Ogranovitsch ebbe in Italia una sua famiglia e un suo mestiere. Operoso come litografo, Michele Ogranovitsch ebbe buon successo nella vendita dei suoi quadri nella bottega d’arte di Emiddio Trama, e nel 1929 la ‘Bottega di Decorazione’ ospitò una sua mostra personale4. Per quest’ultima occasione furono esposte l’opere: “Ulivi sul Castiglione”, “Monte Solaro”, “Il Porto dall’alto”, “Paesaggio autunnale”, “Vecchio Castello”, “La famiglia”; 4 Cfr. A. Schettino, Il pittore Michele Ogranovitch alla ‘Bottega di decorazione’, in “Mezzogiorno”, 21.11.1929 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 19 Capri - Quadri del pittore Ogranovitsch Ogranovitsch è dunque un pittore russo che vive da molti anni in Europa, ed è un pittore naturalmente... di Capri, che riesce a dare grande forza ai suoi paesaggi e soggetti tipici grazie ad una tavolozza inconsueta ed una pennellata impressionista, in cui emergeva la sua formazione neoclassica pietroburghese e la sua cultura visiva svincolata dalle scuole paesaggistiche napoletane. I cadmi giallo e rosso, che un pittore 20 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 meno equilibrato potrebbe adoperare in senso pazzesco, in lui riescono addirittura ad essere dinamici. Il suo senso cromatico tendente al primitivismo, la sua caoticità di masse colorate e di materia pittorica si iscrivono di diritto in una visione del tutto particolare di un artista russo che a Capri ha trovato il luogo ideale per la sua arte e la sua felicità. Il costante dialogo con il tessuto cromatico durante i lavori di restau- ro sulle opere di Michail Ogranovitsch5 ha favorito uno studio della materia pittorica variamente stratificata e dosata tra le pennellate e le spatolate dell’artista. Il momento della scoperta dei tessuti cromatici, grazie agli interventi di restauro nelle operazioni di pulitura ed eliminazione delle vernici ingiallite, regala nei dipinti di Ogranovitsch varchi luminosi che magnetizzano l’osservatore e lo trasportano con la mente alla vita popolare della Capri di un tempo6. Ogranovitsch ci attrae con la sua espressione gestuale, ci coinvolge nello spessore materico modellato dal taglio della spatola e poi strutturato in sconnesse piastrellature. Ci richiama ad una sintonia con l’andamento delle forme costruite per sovrapposizione, delineate con tratti veloci. È una tavolozza multicolore dove, attraverso l’uso del pennello e della spatola, si lavora per aggiunte: una stesura che si frantuma su altri spessori di colore. I volumi, i chiaroscuri vengono quindi trasformati dall’uso di colorimetrie differenti: lì, dove c’è un rosso, c’è sopra un guizzo di blu, poi un verde e così via, fino a quando l’autore non trova la sua espressione. Queste soluzioni pittoriche adottate notano una certa novità nel campo consueto del vedutismo a Capri. Di fatto la pittura legata principalmente al rispetto ed alla valorizzazione della stesura pittorica sembra non interessare più tanto il nostro Ogranovitsch, attirato invece in un percorso diverso arricchendo ed impreziosendo l’aspetto materico e quindi aumentando la plasticità delle opere7. 5 Il lavori del restauro sono stati condotti da Nabil Pulita con Bruno e Mario Tatafiore. 6 R. Guerrizio, Il barone Michele Ogranovitsch amò e dipinse Capri, in “Restauro. La Gazzetta dell’Antiquariato”, 1999, pp. 30-31. 7 Vedi anche A. Basilico Pisaturo, Pittori a Capri, 1850-1950. Immagini, personaggi, documenti. Capri, La Conchiglia 1997, pp. 213, 241. La sua biografia non ha avuto episodi drammatici a parte la mancanza della patria. In seguito, dopo la Rivoluzione, Michele Ogranovitsch divenne, usando la terminologia sovietica, un nevozrašenec (“uno che non ritorna”), rifiutandosi di tornare tra i bolscevichi, che avevano nazionalizzato il sanatorij di suo padre in Crimea. Nella Russia sovietica la città natale di San Pietroburgo diveniva Leningrado, il governo di Stalin costruiva “il paradiso degli operai”, incluso il Gulag, sterminava i rappresentanti dell’ancien régime, affrontava l’invasione hitleriana. Il pittore Ogranovitsch non partecipava a tutti questi eventi epocali, come non partecipava all’opposizione al regime sovietico dalla parte degli esuli. A lui era sufficiente trovare una sua nuova piccola patria, l’isola di Capri, insieme con una felice vita famigliare e una soddisfazione professionale. Il secolo repressivo passò non toccando la sua tavolozza dedicata ai paesaggi del Golfo e ai ritratti delle persone care a lui. Nella seconda guerra mondiale, durante il periodo dell’occupazione alleata, Capri fu dichiarata un Rest Camp per i reduci di guerra: Ogranovitsch non disdegnerà di disegnare sui giubbotti degli aviatori inglesi e americani ritratti di volti di donne. Muore a Capri l’11 ottobre 1945 e viene sepolto al cimitero comunale. Proprio in quest’anno in Europa si stabilisce un nuovo equilibrio fra l’Oriente e l’Occidente e il pittore riceve una formidabile consolidazione in patria. Ma ormai Michele Ogranovitsch è diventato non un russo ma un caprese. Recentemente l’interesse per il patrimonio dell’artista è cresciuto. Sua figlia ha donato all’Associazione Culturale “Achille Ciccaglione” (Centro Archivistico Documentale) un quadro importantissimo del padre, una veduta della Marina Grande. Dopo uno scrupoloso restauro di Bruno e Mario Tatafiore, con Nabil Pulita, il quadro è diventato molto noto fra gli isolani. La maggior parte delle opere sono conservate dai suoi eredi presso l’albergo Belvedere & Tre Re. Sulla base di questa collezione sono state organizzate due mostre retrospettive personali del pittore, una nel 1989 a cura dell’Associazione “Achille Ciccaglione” nella chiesa del SS. Salvatore a Capri, e l'altra dall’Associazione “Massimo Gorkij” presso la sua sede a Napoli nel maggio di 2005. Nabil Pulita, Michail Talalay Di prossima pubblicazione un libro dello scrittore napoletano Raffaele Bussi sul pittore russo Michele Ogranovisch. Capri - Quadri del pittore Ogranovitsch La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 21 EX-LIBRIS Viaggio pittoresco a Napoli ed in Sicilia di Jean Claude Richard di Sant-Non Nuova edizione, tomo II, Parigi, 1829 Il nostro progetto che intende occuparsi, in questo capitolo, dei luoghi più celebri dei dintorni di Napoli, non può passare sotto silenzio parecchie isole situate all’entrata del golfo di questa città, le quali senza dubbio hanno fatto una volta parte della Campania. La loro posizione molto vicina alla terra, la loro forma vulcanica, i loro bagni di acque calde, tutto fa capire che queste isole sono state tutte altrettanti vulcani attivi e che in epoche molto remote sono state separate dalla Campania a causa di qualche terremoto o di qualcuno dei grandi sconvolgimenti cui questo bel paese è stato esposto da sempre. Ischia - La più grande e la più considerevole di queste isole è situata alla destra ed all’entrata del golfo di Napoli, di fronte al promontorio di Miseno, Ischia, l’Inarime o Pythecusa degli antichi, poiché essa ha avuto diversi nomi nell’antichità; soprattutto quello di Pythecusa che, in greco, vuole dire scimmia, sembra avere qualche rapporto con un vecchio culto che sarà potuto esistere in quest’isola, sotto il simbolo di tale animale, così come in Egitto, dove era chiamato Cercopiteco. Omero e Pindaro, nelle descrizioni che hanno lasciato di questa isola, dei suoi vulcani e delle sue frequenti eruzioni, la chiamano Inarime. Altri antichi autori hanno preteso, ma con minore verosimiglianza, che sia stata la quantità di scimmie una volta molto abbondanti, e che in lingua etrusca si chiamavano arimi, a farle dare siffatto nome. Infine, secondo Voyage pittoresque à Naples et en Sicile par Jean Claude Richard de Saint-Non Nouvelle édition, tome II, Paris 1829 Notre projet étant de nous occuper, dans ce chapitre des lieux les plus célèbres des environs de Naples, nous pouvons d’autant moins passer sous silence plusieurs îles situées à l’entrée du golfe de cette ville, qu’on ne saurait douter qu’elles n’aient fait autrefois partie de la Campanie. Leur situation très voisine des terres, leur forme volcanique, leurs bains d’eaux chaudes, tout annonce que ces îles ont toutes été autant de volcans allumés, et qu’à des époques très reculées, elles ont été séparées de la Campanie par quelque tremblement de terre ou quelques unes de ces révolutions formidables auxquelles ce beau pays a été exposé de tout temps. Ischia - La plus grande et la plus considérable de ces îles, située à la droite et à l’entrée du golfe de Naples, du côté du promontoire de Misène, Ischia, l’Inarime ou Pythecuse des anciens, car elle a porté différens noms dans l’antiquité; celui de Pythecuse surtout, qui, en grec, veut dire singe, semble avoir quelque rapport avec un ancien culte qui aura pu exister dans cette île, sous le symbole de cet animal, ainsi qu’en Egypte, où il était appelé Cercopjtheque. 22 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 altri, portò ancora il nome di Enaria, perché Enea, arrivando in Italia, vi condusse la sua flotta e vi soggiornò qualche tempo. Il nome e l’origine dei primi abitanti dell’isola di Ischia non sono certi. Strabone ci dice che furono gli Éretriesi che, per primi, si stabilirono nell’isola, ma che i suoi vulcani sempre attivi e le sue terribili eruzioni li costrinsero ad abbandonarla, sicché l’isola restò deserta fin verso l’anno 3540, quattrocentocinquant’ anni a. C., epoca in cui Gerone, re di Siracusa, vi mandò inutilmente degli operai per costruire e formarvi degli insediamenti. Infine i Romani più arditi se ne impossessarono, vi mandarono una colonia e la conservarono fino ad Augusto, che, essendosi innamorato di Capri, la scambiò coi Napoletani ai quali cedette l’isola di Ischia. Il suo circuito è di diciotto miglia; nel mezzo dell’isola s’eleva una notevole montagna, un antico vulcano chiamato Monte Epomeo, da molto Homère et Pindare, dans les descriptions qu’ils ont laissées de cette île, de ses volcans, et de ses fréquentes éruptions, l’appellent Inarime. D’autres anciens auteurs ont prétendu, mais avec moins de vraisemblance, que c’était la quantité de singes, qui y étaient autrefois très abondants, et qu’en langue étrusque on nommait arimi, qui lui avait fait donner ce nom. Enfin, suivant d’autres, elle porta encore le nom d’Enaria, parce qu’Enée, arrivant en Italie, y conduisit sa flotte, et y séjourna quelque temps. Le nom et l’origine des premiers habitants de l’île d’Ischia ne sont pas plus certains. Strabon nous dit que ce furent les Érétriens qui, les premiers, s’établirent dans cette île, mais que ses volcans toujours allumés, et leurs terribles éruptions, les ayant obligés d’en sortir, l’île resta déserte jusque vers l’an 3540, quatre cent cinquante ans avant J.C, époque où Hiéron, roi de Syracuse, y envoya aussi inutilement des ouvriers pour y bâtir et y former des établissemens. Enfin les Romains plus hardis s’en emparèrent, y envoyèrent une colonie, et la conservèrent jusqu’à Auguste, qui, s’étant plu à Caprée, en fit l’échange avec les Napolitains, auxquels il céda l’île d’Ischia. Son circuit est de dix-huit milles; au milieu de l’île s’élève une montagne considérable, ancien volcan autrefois nommé Mons Epomeus. Depuis long-temps ses feux sont éteints et tempo spento ed inattivo, sebbene non si possa dubitare che nell’interno dell’isola sia esistito il fuoco, a giudicare almeno dai frequenti terremoti ai quali è soggetta, così come dal calore delle sue sorgenti e dei suoi bagni. Vi sono ad Ischia molti borghi abbastanza considerevoli, ed una città episcopale della fortezza anticamente separata, ma oggi comunicante per mezzo di un ponte molto lungo. Per il resto, questa isola è cinta a mo’ di anfiteatro da promontori, da piccoli porti e da numerose rocce, per cui il sito selvaggio ed austero forma un quadro molto pittoresco. Un’altra parte dell’isola presenta invece un aspetto più ridente e più piacevole per la sua fertilità e l’eccellenza dei suoi vari prodotti. I suoi boschi sono ricchi di selvaggina, di fagiani, e soprattutto di un tipo di gallinella d’acqua che si trova in prodigiosa abbondanza. Ma ciò che ha reso più celebre in tutti i tempi l’isola di Ischia, sono le sue sorgenti di acque minerali ed i suoi bagni caldi ai quali si attribuiscono, a ragione, le doti più meravigliose per la salute. Tra il gran numero delle sue acque termali, più famose sono quelle che provengono dai bagni chiamati Fornelli e Castiglio di Scroffa 8 (sic). Indipendentemente dai suoi bagni di acque calde, c’è ancora una specie di stufe di sabbia che è particolare a questa isola. Queste stufe naturali sono riscaldate forse dai vapori sotterranei e solforosi di cui il suolo dell’isola è pieno, ed il loro effetto è di un grande soccorso salutare per molte malattie. Sembra che Ischia abbia subito molto anticamente delle notevoli devastazioni per i suoi vulcani; ma che, da parecchi secoli, sono acquietati, come abbiamo detto. Una delle ultime eruzioni, ed una delle più terribili di cui si sia conservato la memoria nel paese, è quella che avvenne nel 1302. L’isola fu soggetta al fuoco per due mesi interi, e gli abitanti ne furono sì spaventati che inactifs, quoiqu’on ne puisse douter qu’ils ne soient toujours existans dans l’intérieur de l’île, à en juger au moins par les fréquens tremblemens de terre auxquels elle est sujette, ainsi qu’à la chaleur de ses fontaines et de ses bains. Il y a à Ischia plusieurs bourgs assez considérables, et une ville épiscopale anciennement séparée de la forteresse, mais qui, par le moyen d’un pont très long, y communique aujourd’hui. Au reste, cette île est entourée de promontoires, de plusieurs petits ports et de nombre de rochers en amphithéâtre, dont le site sauvage et austère forme un tableau des plus pittoresques. Une autre partie de l’île présente au contraire l’aspect le plus riant et le plus agréable par sa fertilité et l’excellence de ses productions de toute espèce. Ses forêts sont remplies de gibier, de faisans, et surtout d’une sorte de poule d’eau qu’on y trouve dans une abondance prodigieuse. Mais ce qui a rendu de tous les temps l’île d’Ischia plus célèbre, ce sont ses sources d’eaux minérales et ses bains chauds auxquels on attribue, avec raison, les qualités les plus merveilleuses pour la santé. Parmi le nombre considérable de ses eaux thermales, les plus renommées sont celles qui viennent des bains appelés i Fornelli et Castiglio di Scroffa. Indépendamment de ses bains d’eaux chaudes, il y a encore une espèce d’étuves de sable qui sont particulières à cette île. Ces étuves naturelles sont sans doute échauffées par les vapeurs souterraines et sulfureuses dont le foyer de l’île est rempli, et leur effet est d’un grand secours et infiniment la maggior parte prese la fuga e l’abbandonò1. Procida. L’isola di Procida è localizzata tra quella di Ischia ed il promontorio di Miseno, ad uguale distanza dall’una e dall’altro, e può avere da sette ad otto miglia di circuito. Secondo parecchi storici, faceva parte dell’isola di Ischia, e ne fu staccata da un terremoto che inghiottì nel mare tutto lo spazio intermedio. Strabone e Plinio lo dicono formalmente2. 1 «Anno 1302, la Solfaterra di Ischia, isola vicina a Napoli, gittò fuora fuoco così grande, talché le fiamme giunsero sino al girone dell’isola, per la qual cosa molti uomini ed animali dell’isola perirono, e molti, li quali furono più presto accorti, montati sopra una barchetta che loro accorse, chi a Procida, chi a Capri, chi a Baya, Pozzuolo e Napoli si ridussero, lasciando l’isola diserta, in cui, per due mesi continui, durò il fuoco» (Pandolfo). 2 Di fronte a Miseno si trova l’isola di Procida, una volta staccatasi da Pitecusa, secondo Strabone. Fu il monte d’Inarime che a seguito di un terremoto creò un’altra isola, detta Procida (Plinio). salutaire pour beaucoup de maladies.Il paraît qu’Ischia a éprouvé très anciennement des ravages considérables par ses volcans; mais que, depuis plusieurs siècles, ils sont apaisés, comme nous l’avons dit. Une des dernières éruptions, et une des plus terribles dont on ait conservé la mémoire dans le pays, est celle qui arriva en 1302. L’Ile fut en feu pendant deux mois entiers, et les habitans en furent si effrayés, que le plus grand nombre prit la fuite et l’abandonna1. Procida. L’île de Procida est située entre celle d’Ischia et le promontoire de Misène, à égale distance de l’un et de l’autre, et peut avoir sept à huit milles de circuit. Suivant plusieurs historiens, elle faisait partie de l’île d’Ischia, et en fut détachée par un tremblement de terre qui engloutit dans la mer tout l’espace qui est entre deux. Strabon et Pline le disent formellement2. Son site uni, couvert de verdure, de jardins et de maisons 1 «Anno 1302, la Solfaterra d’Ischia, isola vicina a Napoli, gittò fuora fuoco si grande, talché giunsero le fiamme sino al girone dell’isola, per la qual cosa molti uomini ed animali dell’isola perirono, e molti, li quali furono più presto accorti, montati sopra una barchetta che loro accorse, chi a Procida, chi a Capri, chi a Baya, Pozzuolo e Napoli si ridussero, lasciando l’isola déserta, in cui, per due mesi continui, durò il fuoco» (Pandolfo - it. nel testo). 2 Ante Misenum Procita jacet insula, a Pythecusis quandoque divulsa. (Strab., Lib. VI.) Inarimeus mons fuit qui terraemotu diffusas alteram insulam fecit, quae Procita ab effusione dicta est (Plin.). La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 23 Il suo sito compatto, coperto di vegetazione, di giardini e di case di campagna, ne rende l’aspetto e l’accesso infinitamente piacevoli; si distinguono soprattutto quelle che sono state costruite dalle famiglie Vasto e d’Avalos. Si raccoglie una quantità prodigiosa di uve e di fichi molto delicati. Due delle sue coste sono molto frequentate: una, ad est, che si chiama San Catholico, è coperta sempre di derrate che vi si portano da tutta l’isola, e che attirano un gran numero di commercianti: l’altra, ad ovest, che si chiama Cornicella, è coperta di abitazioni di pescatori che fanno un vasto commercio. Dovunque si vedono sgorgare delle sorgenti di acqua dolce dalle sabbie e, ciò che non si trova in nessun luogo d’Italia tranne che a Procida, sulla riva Anannello, c'è una sabbia piena di particelle di piombo. I fagiani ed i francolini sono in così grande abbondanza, che se ne vedono spesso delle migliaia stendere il loro brillante e vario piumaggio ai raggi del sole; il timore di farne diminuire il numero ha fatto che si siano costruiti per loro nei boschi parecchi ripari. Si trovano tutte le specie di selvaggina più comune, e soprattutto le lepri. La loro caccia è riservata al re di Napoli, ma le cure che si avevano un tempo, e soprattutto l’espresso divieto per gli abitanti di avere dei gatti, dato che questi animali, naturalmente cacciatori, distruggevano la selvaggina, rischiarono di avere un inconveniente veramente grave per la tranquillità degli abitanti3. Si dice che questa isola fornisca i migliori marinai d’Italia. Si vedono 3 In seguito a questa difesa, i topi si moltiplicarono talmente nell’isola di Procida, che formarono una terribile calamità; i giardini, le case, le chiese, le sagrestie, gli armadi, fino ai tubi di scarico, tutto era divorato dai topi. Le provviste della gente, i cadaveri prima della sepoltura, i bimbi stessi nelle loro culle, erano in preda a questo orribile razza; l’isola intera diventava inagibile. I contadini si gettarono ai piedi del re; portarono da sei a settecento di questi animali sul suo passaggio, e questo terribile divieto fu revocato» (Lalande, Viaggio di Italia, vol. VII, p. 75.). de plaisance, en rend l’aspect et l’abord infiniment agréables; on y distingue surtout celles qui y ont été élevées par les familles Wasti et Discari. On y recueille une quantité prodigieuse de raisins et de figues très délicates. Deux de ses côtes sont très fréquentées: l’une, à l’est, qu’on appelle San Catholico, est toujours couverte de denrées qu’on y apporte de toute l’île, et qui y attirent un grand nombre de marchands: l’autre, à l’ouest, qu’on appelle Cornicella, est couverte d’habitations de pêcheurs qui font un assez un grand commerce. Partout on voit des sources d’eau douce jaillir du milieu des sables, et ce qu’on ne trouve dans aucun endroit de l’Italie qu’à Procida, sur le rivage Anannello, c’est un sable rempli de parcelles de plomb. Les faisans et les francolins y sont en si grande abondance, qu’on y en voit souvent des milliers étaler leur brillant et varié plumage aux rayons du soleil; la crainte d’en faire diminuer le nombre a fait qu’on leur a construit dans la forêt plusieurs abris. Toutes les espèces de gibier y sont on ne peut plus communes, et les lièvres surtout. On en conserve la chasse pour le roi de Naples, mais les soins qu’on y apportait jadis, et surtout la défense expresse faite aux habitans d’avoir des chats, attendu que ces animaux, naturellement chasseurs, détruisaien le gibier, faillirent avoir un bien grand inconvénient pour la tranquillité des habitans3. 3 Par suite de cette défense, les rats se multiplièrent tellement dans l’Ile de Procida, qu’ils y formèrent une affreuse calamité; les jardins, les maisons, les églises, les sacristies, les armoires, 24 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 moltissimi anziani che devono alla mite temperatura ed alla salubrità dell’aria la possibilità di vivere, senza tutti i comuni disagi della vecchiaia, fino ad un’età avanzata. Ci sono a Procida parecchie chiese abbastanza belle, ed una, tra le altre, che si chiama Monastile; era una volta una importante casa di religiose; ma la comparsa e l’avvento dei Barbareschi che venivano a fare spesso delle scorrerie sulle coste, spaventarono le religiose, al punto che lasciarono l’isola, e si ritirarono a Napoli, nel convento di San Patrizio. L’isola di Procida è appartenuta in vari tempi a semplici privati che la tenevano probabilmente come in feudo. Si sa che Giovanni di Procida che, nel 1282, ebbe un ruolo molto importante in Sicilia nei famosi Vespri siciliani, ne era stato signore. Fu venduta, nel 1339, da uno dei discendenti di questo Procida, a Marino Cossa; dopo, questa isola ha cambiato parecchie volte padrone: infine è ritornata sotto il dominio del Principe. On prétend que cette île fournit les meilleurs marins de l’Italie. On y voit un grand nombre de vieillards, qui doivent à la température heureuse et à la salubrité de l’air de vivre, sans toutes les incommodités ordinaires de la vieillesse, jusqu’à un âge très avancé. Il y a à Procida plusieurs églises assez belles, et une, entre autres, qu’on appelle Monastile; c’était autrefois une maison considérable de religieuses; mais la vue et l’apparition des Barbaresques, qui venaient souvent faire des descentes sur les côtes, effrayèrent les religieuses, au point qu’elles ont déserté l’Ile, et se sont retirées à Naples, dans le couvent de Saint-Patrice. L’île de Procida à appartenu en différens temps à de simples particuliers, qui la tenaient probablement comme en fief. On sait que Jean de Procida, qui, en 1282, joua un si grand rôle en Sicile aux fameuses Vêpres siciliennes, en avait été seigneur. Elle fut vendue, en 1339, par un des descendais de ce Procida, à Marino Cossa; depuis, cette île a changé plusieurs fois de maître: enfin elle est rentrée sous la domination du prince. jusqu’aux tuyaux d’orgues, tout était dévoré par les rats. Les provisions des particuliers, les cadavres avant la sépulture, les enfans même dans leurs berceaux, étaient en proie à cette horrible engeance; l’île entière devenait inhabitable. Les paysans se jetèrent aux pieds du roi; ils semèrent six à sept cents de ces animaux sur son passage, et cette terrible défense fut révoquée» (Lalande, Voyage d’Italie, vol. VII, p. 75.). Geografia Medica dell’Italia – Acque Minerali, notizie raccolte dal cav. dott. Luigi Marieni, Milano, s.d. Ischia - Isola del mare Mediterraneo, situata a libeccio del promontorio che divide il golfo di Napoli da quello di Gaeta. I Latini la chiamarono Enaria, Omero Inarime, ed i Greci Pitecusa. (Plin. lib. IlI, c. 6). - Ha poco più di 21 miglia di circonferenza, 3 di larghezza da tramontana al mezzodì, e 5 di lunghezza dalla punta Cornacchia alla punta San Pancrazio, o sia da maestro verso scirocco. - Ed è discosta miglia 2 dall’isola di Procida, 5 e mezzo dal Continente, 10 dalle ruine di Cuma, 17 da Napoli, 18 dall’isola di Capri, e 38 da Gaeta. - Il monte Epomeo (oggi San Nicola), elevato sopra il mare metri 768, torreggia nel suo mezzo, ed è circondato da colline che declinano più o meno lentamente alla marina. Ischia è l’isola più bella, e la più interessante dei dintorni di Napoli. «L’isola d’Ischia, dice Chevalley de Rivaz, vista dal Continente, o a certa distanza in mare, rassembra una piramide che sorge maestosa dall’azzurro piano delle onde, ed alta elevando il doppio vertice in cielo, compone il più grandioso e fantastico prospetto che si possa riguardare; ma varcato il canal di Procida, ti si scopre nel pieno di sua bellezza. A scirocco ed a levante, vestite della più rigogliosa vegetazione gradatamente si estollono (colline) ad anfiteatro fino all’eccelso Epomeo, che fra quei colli grandeggia. Il quale, quasi a piombo stagliato in cima verso settentrione, discende a ponente in un piano declive, finché termini in un piccol cono cosiddetto di Vico. Qui verdi boschi e vigneti, che ammantano i colli e serpono per la montagna, là sterili rocce e bitumi, scemi di ogni splendore, e sopra i due cocuzzoli dell’Epomeo in mirabil contrasto. E come ti avvicini all’isola, qui promontorj, là baje, poi colli, poi monti si aprono ad uno ad uno allo sguardo, sempre nuovi, dilettosi, sparsi qua e là di terre, di casali e di ville, la cui bianchezza sì ben campeggia su quella freschissima verdura. Cotanta varietà di siti, cotale ricchezza di vedute, ti effondono per gli occhi al cuore una dolcezza, una emozione inesplicabile, che al toccar del lido di quest'isola fortunata cresce a mille doppi per la salubrità dell'aere tuttor temperato da soavissimo venticello, fin nei più forti ardori dell'estate. Le quali cose attentamente osservando, non è chi subito non divisi non aver forse al mondo un'altra Ischia, ove in lido sì breve piacquesi la Provvidenza profondere a piena mano tante bellezze ed incanti, che sopra quante contrade non vaglia a ricordare prima la fanno e prediletta di natura». I poeti antichi, per indicare che quest'isola è vulcanica e soggetta ai terremuoti ed ai turbini, dissero che si trovava sepolto sotto di essa il gigante Tifeo o Tifone (Pindaro, Ode Olimpica IX e Pitia I.; Virgilio, Eneid. lib. IX, v. 716)1. - Gli Eretriesi ed i Calcidesi, che furono i primi a popolarla, ed in progresso di tempo anche coloro che vennero colà spediti da Jerone, tiranno di Siracusa, furono costretti di abbandonarla dai terremoti, dalle eruzioni di fuoco, di mare e di acque calde. - Timeo di Taormina scrisse, che poco prima dell’ età sua (cioè nel secolo IV avanti l’E. V.) l’Epomeo, scosso dai terremoti, gettò fuoco e spinse in alto il terreno che si trovava fra esso e il mare. Questo terreno ricadde poi a modo di turbine, e il mare da prima ritirossi per tre stadj, poscia inondò l’isola. Gli abitanti del Continente, 1 Francesco Petrarca scriveva nel Trionfo della Castità : «Non freme così ‘l mar quando s’adira; «Non Inarime allor che Tifeo piagne; «Non Mongitbel ed Encelado sospira. spaventati dal grande frastuono che accompagnò questo turbine, fuggirono addentro nella Campania [Strabone, lib. V, c. 9). - Altri scrittori citano altre eruzioni di questo vulcano avvenute sotto il consolato di Sesto Giulio Cesare e di L. Marcio Filippo (l’anno 91 av. Cristo), ed ai tempi degli imperatori Tito, Antonino e Diocleziano. - L’anno 1228, regnando Federico imperatore, l’Epomeo talmente infuriò, che Riccardo da San Germano scriveva: Eodem mense julii mons Isclae subversus est, et perierunt in casalibus sub eo degentes fere septincentos homines inter viros et mulieres. - Ma più famosa fu la eruzione avvenuta, secondo l’Elisio e il Bacci, l’anno 1301, e secondo Giovanni Villani (Istorie, lib. VIII, c. 53), e Tolomeo Fiadoni di Lucca, citato da Humboldt (Cosmos t. IX, p. 478), nel 1302. Questa eruzione durò due mesi, producendo molti guasti e ruine, e obbligando parte di quegli abitanti a fuggire nelle isole di Procida e di Capri, a Napoli, a Baja ed a Pozzuoli. E vuolsi che allora sia colà rimasta sepolta la città ili Geronda. - Finalmente l’isola d’Ischia soffrì molti danni dal terremoto del 2 febbrajo 1828, che distrusse in gran parte Casa-Micciola, ma il re Francesco I la fece risorgere con larghe elargizioni. Alcuni scrittori accertano che fu nell’isola d’Ischia che venne stabilita la prima fabbrica d’allume in Italia. L’isola d’Ischia è compresa nel circondario di Pozzuoli, e forma due mandamenti che sono quello d’Ischia, e quello di Forio, popolati il primo da 13.416 abitanti, e il secondo da 12.749. - Essa è molto ricca di acque minerali, molto usate anche dagli antichi, che le lodarono spezialmente nella cura della renella (Strabone, 1. c, e Plinio, lib. XXXI, c. 2). E ricuperò con esse la salute anche la vestale Attilia Metella. Sette di queste acque appartengono al mandamento d’Ischia, e quindici a quello di Forio. * La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 25 Ischia porto di sole 160 anni In alto - Luigi De Angelis Al centro - Vincenzo Colucci In basso - Cartolina (1927) 26 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 e di sogni (1854 - 2014) In cartolina e in arte Al centro in alto : Lavori di apertura del porto di F. Mancini (1830-1903) Al centro in basso :Il porto di Giacinto Gigante (1806-1876) Colonna di destra : Cartoline La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 27 Lago - Porto «.... Epperò con questa fertilità di suolo, con questo aere purissimo, con sì svariate genti che vi affluiscono, era veramente sventura che l’isola mancasse di un porto. Ma ciò che desiderarono in tutti i tempi, e sempre indarno, tutti i Dinasti che Ischia signoreggiarono, fu voluto e fatto prestamente al cenno del re Ferdinando II, immegliando così, non è a dir quanto, la sorte di quei popolani non solo, ma e delle vicine isole ancora, e di quanti con esse fan traffico. Eravi a settentrione dell’isola uno stagno ampissimo, originatosi fin dai tempi più remoti dall’ultimo dei tre gran tremuoti, onde quella fu sconvolta, siccome ricorda la storia, il quale appena avrebbe dato adito a qualche navicello peschereccio che vi fosse entrato per via di un angustissimo canale comunicante col mare. Veduto dunque il Re che niun luogo offrivasi più acconcio ad un porto, comandava che vi si fosse aperta nel sito più vicino al mare un’ampia bocca da poter dare agevolissimo passaggio a qualsivoglia più grande piroscafo da guerra, e che il suo fondo si fosse purgato di tutte le materie, che i secoli vi avevano accumulato, affinché anche grandi navigli vi potessero riparare e stanziarvi a loro agio. Acciocché poi la bollente rabbia de’ venti non obbligasse i marosi a spingere le accumulate arene in quella chiostra, e la foga dei cavalloni nuocer non potesse ai legni nel luogo medesimo dove cercan salvezza, volle Sita Maestà che di lunga ed acconcia scogliera si munisse l’entrata del porto. ... Un magnifico spettacolo si vide in quelle acque il giorno 17 settembre dell’anno 1854. ... Quelle acque si popolarono di mimero innumerabile di palischermi, feluche, paranzelli, tortane e trabacche, folte e gremite di festevoli passeggeri. ... Il Re medesimo, a fianco dell’augusta sua 28 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Il porto di Antonio Macrì Il lago di Philipp Hackert (1737-1807) consorte e di tutta la regale famiglia, da una tenda innalzata sul clivo soprastante, gioiva di quella gioia. Fu bello vedere a quanti segni di plauso si esprimesse l’esultanza degli animi, e un bel sentire i replicati e fragorosi Viva il Re, maggioreggianti tra le numerose salve dei piroscafi da guerra, il Tancredi, la Saetta, il Delfino, l’Antilope, della Cristina e degli altri legni erranti nelle vicine acque con le reali bandiere... Mostra bellissima facevano gli abiti paesani e festerecci, quelli soprattutto delle foresi dell’isola e di Procida, che tanto ritraggono delle antiche fogge. Sfavillavano esse per ori e argenti, con indosso quanto possedevano in rubini e perle, e di ogni altra simil cosa di pregio, gravate più che ornate» (da Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol. LIII, 1855). Rassegna LIBRI Filippo Strofaldi il vescovo con la chitarra (a cura) di Ernesta Mazzella Gutenberg Edizioni, Fisciano 2014. Ufficio comunicazioni sociali della diocesi d’Ischia. In copertina: vignetta di Paolo Del Vaglio donata a Mons. F. Strofaldi. Prefazione del Vescovo d’Ischia, Mons. Pietro Lagnese. Ad un anno dalla nascita al Cielo di Sua Ecc. Mons. Filippo Strofaldi, vescovo di Ischia, è stato presentato il 27 agosto presso la Cattedrale di Ischia il volume Padre Filippo Strofaldi. Il vescovo con la chitarra. Il volume si articola in diverse sezioni. Sono raccolti i documenti dell’intero episcopato di Padre Filippo, vescovo di Ischia dal 1998 al 2012, custoditi presso l’Archivio Diocesano di Ischia, partendo dalle numerose Lettere pastorali, disposte secondo l’ordine cronologico originario, proseguendo con i Discorsi, le Omelie per poi giungere alle Preghiere, alla sua Produzione musicale, infine al suo Testamento e ad un’appendice fotografica. Apre il volume la bella e profonda prefazione di Mons. Pietro Lagnese il quale esorta: Ricordatevi di padre Filippo! “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede”: quest’espressione, tratta dalla Lettera agli Ebrei, che la liturgia ci propone nelle memorie dei pastori santi, è citata da papa Francesco nei numeri introduttivi dell’Evangelii Gaudium, ed invita i credenti a fare autentici esercizi di memoria. Infatti Mons. Lagnese scrive che “con il presente volume la Chiesa di Ischia desidera promuovere tale esercizio di memoria per ciò che riguarda la persona di S. E. Mons Filippo Strofaldi. Ad un anno dalla sua dipartita, avvenuta all’alba del 24 agosto 2013, ho inteso promuovere una prima pubblicazione che raccogliesse in un unico testo i documenti più importanti del suo magistero, accanto ad alcune brevi testimonianze riguardanti la persona di padre Filippo, tra le quali sottolineo quella più preziosa fra tutte, anche perché offertaci da un suo amico da sempre, qual è stato Mons. Bruno Forte”. “È dai suoi documenti – dice la Mazzella - che emergono la sua poliedrica personalità e il suo grande carisma di pastore, fratello e padre. Certamente Padre Filippo sarà ricordato per i tanti e storici eventi che hanno segnato il suo intero episcopato: la storica visita del Papa Giovanni Paolo II ad Ischia, la 51a Settimana Liturgica nazionale, il Sinodo, il primo dopo il Concilio Vaticano II (l’ultimo Sinodo si era svolto nella nostra Chiesa di Ischia nel 1938 con il vescovo de Laurentiis), la creazione della ventiseiesima parrocchia oltre Oceano, l’apertura della casa di accoglienza, l’arrivo delle reliquie ad Ischia del più bel fiore di Aenaria: San G. G. della Croce, la visita degli ischitani nelle Americhe e in Australia, i convegni ecclesiali biennali etc.; egli ha inoltre completato e inaugurato i tre enti culturali della diocesi e cioè l’Archivio, la Biblioteca e il Museo. Certo questi eventi hanno riscosso maggiore risonanza e una grande copertura mediatica, ma i suoi scritti hanno avuto, inevitabilmente, una diffusione assai minore. E, come affermava lo storico Le Goff : “il documento è un monumento”, non c’è modo migliore dunque di commemorare, conoscere e approfondire la conoscenza di una persona se non attraverso i suoi scritti, i suoi documenti. Riemerge nella memoria la famosa frase del poeta latino Orazio “exegi monumentum aere perennius”, ovvero ho eretto un monumento più duraturo del bronzo. Così gli scritti di padre Filippo siano un monumento di catechesi …”. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 29 Secondo il presule e teologo Mons. Bruno Forte, l’amico fraterno di Padre Filippo da lui stesso definito nel Testamento “un esemplare compagno di strada”, ci sono tre chiavi di lettura per approcciare i testi, comprese le canzoni, di Padre Filippo: la condivisione, il gioire e il soffrire insieme che si è sostanziato nella quotidianità dei suoi anni ad Ischia; memoria della fede, come continuità viva della tradizione apostolica, e profezia, che dà l’impronta a diversi scritti e testi di canzoni. “Filippo è stato un uomo profondamente libero nella fede … è stato il pastore della compagnia, un Vescovo Padre e Fratello accessibile a tutti, accogliente. È stato Vescovo della memoria, una voce umile e innamorata della fede che la Chiesa custodisce e trasmette. Filippo è stato anche uomo della profezia testimone del futuro di Dio mai ripiegato su se stesso, ma sempre animato da uno sguardo di carità e di speranza. Filippo è stato un uomo profondamente libero per quell’abbandonarsi semplicemente nella braccia del Padre come Maria”. L'ubriaca penna che scorre! La nave gigante inabissa nelle tenebre di Pietro Calise di Pietro Calise Aletti Editore, aprile 2013 Luigi Mazzella Aletti Editore, aprile 2014 Poesie (racconti-poesie) scritte quasi tutte tra la metà dell'estate e la fine dell'autunno 2012 nel primo libro, e nell'inverno 2013 nel secondo. Quali gli argomenti? A chi a volte ha posto questa domanda, l'autore ha risposto: "Di qualunque cosa. Scrivere mi fa stare meglio, soprattutto davanti ad un bicchiere di buon vino". Le poesie sono nate in modo occasionale, senza un vero e proprio filo conduttore; molte hanno valenza narrativa: all'apparenza sono scritte preferibilmente in forma discorsiva, non so se prive di punteggiatura normale o volutamente caratterizzate da un trattino in ogni pensiero, emozione o sensazine. Scrive l'autore: "Una calda sera d'estate, a cena, dopo una giornata stressante, ho preso un vecchio taccuino e ho cominciato a buttare giù alcune parole e pensieri, le prime cose che mi passavano per la testa": "stupendo il mare di notte", "Cielo confuso di stelle", "Pullula la meschina gente"... L'idea: immergere il lettore in un mondo particolare, che è quello di Pietro Calise, nato a Lacco Amenoo nel 1977, dove è ritornato dopo aver girato mezza Europa. 30 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Colligite fragmenta, ne pereant Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro Il Convento e la Chiesa di San Domenico di Ischia III Nel corso del secolo XX sono stati espletati diversi tentativi di dare un assetto diverso da quello tradizionale alla parrocchia di S. Domenico, anche al fine di risolvere i problemi che la posizione particolare del tempio parrocchiale procurava all’attività pastorale del parroco. Il territorio, d’altra parte, era vasto e la popolazione aumentava sempre più di numero. Un primo progetto di risistemazione del territorio parrocchiale, proposto durante l’episcopato del vescovo Ernesto de Laurentiis, prevedeva l’istituzione di una parrocchia nella chiesa dell’Annunziata di Campagnano, mentre a quella di S. Domenico sarebbe rimasto il rimanente territorio, già di per sé abbastanza vasto. Ma l’attuazione di questo progetto fu giudicata impraticabile dal parroco D. Giuseppe Cuomo ritenendo più conveniente spostare la sede parrocchiale di S. Domenico nella chiesa di S. Antonio Abate e lasciare il resto allo «statu quo». Le discussioni e le ipotesi che venivano avanzate non portarono però ad alcun risultato. Il vescovo Dino Tomassini (1962-70) finalmente con la bolla del 26 novembre 1962 istituiva la nuova parrocchia di S. Antonio Abate con sede nella chiesa omonima1 assegnandole il territorio dalla zona di S. Michele fino ai confini con la parrocchia di S. Maria della Porta di Piedimonte e la zona di Fondo Bosso con la nuova chiesetta del Crocifisso, allora non ancora completata. Campagnano e la zona del Cilento continuavano a essere sotto la giurisdizione del parroco di S. Domenico Con il conseguente costante aumento della popolazione e la considerazione che Campagnano restava decentrata rispetto alla propria chiesa parrocchiale il vescovo Antonio Pagano (1984-98)2 pensò di dare una nuova sistemazione pastorale al territorio delle due parrocchie di S. Domenico e S. Antonio Abate. Fu disposto che il titolo parrocchiale della prima venisse 1) Cfr. in ADI, Bollario del vescovo Dino Tomassini. 2) C. d’Ambra, Ischia tra cultura e fede, Torre del Greco 1988. spostato nella chiesa dell’Annunziata di Campagnano e diventasse «Parrocchia di San Domenico nella SS.ma Annunziata». L’ex chiesa parrocchiale passava, con l’intera zona del Cilento, sotto la giurisdizione della parrocchia di S. Antonio Abate; Fondo Bosso, con la chiesetta del Crocifisso, alla parrocchia di Gesù Buon Pastore3. Siamo arrivati alla cronaca dei nostri giorni che se vede la chiesa di S. Domenico non più sede parrocchiale, tuttavia rimane sempre un luogo privilegiato dell’attività pastorale del parroco di S. Antonio Abate, grazie anche all’intensa attività di apostolato svolto dai suoi parroci in una zona che non è più isolata come un tempo, ma che in questi ultimi decenni risulta fortemente incrementata dal punto di vista demografico. Dopo avere esposto le vicende della parrocchia, ora dobbiamo fermare la nostra attenzione sull’edificio della chiesa di S. Domenico. Da quanto affermano i frati nella relazione inviata a Roma in seguito alla costituzione «Inter coetera» di Innocenzo X del 17 dicembre 1649 con la quale si voleva accertare l’entità numerica, le capacità ambientali e le risorse finanziarie dei conventi, soprattutto di quelli più piccoli esistenti in Italia4, il convento sarebbe stato fondato, come sostenevano gli abitanti della zona circostante, da circa trecento anni. I relativi documenti sarebbero andati perduti a causa dei saccheggi operati nella prima metà del secolo XVI da parte dei «Turchi», cioè dai pirati berberi5. La relazione dei frati, datata 25 febbraio 1650, afferma che in quell’anno il convento era abitato da due sacerdoti e due conversi e che al momento della compilazione sulla relazione c’erano: un padre, Angelo Ammirato di Napoli, predicatore generale e vicario, di anni 58, e due conversi: Giuseppe Cortese di Napoli di anni 24, e Tommaso da Sponte da Napoli 3) Cfr. in ADI, Bollario del vescovo Pagano. 4) Bullarium Romanorum Pontificum, Romae MDCCLX, Edizioni Mainardi, tomo VI, parte III p. 201. 5) Per le invasioni berbere e il numero delle persone rapite o vendute come schiavi, cfr: G. Coniglio, I Vicere di Napoli, Napoli 1967 p. 72. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 31 di anni 45, vestito religioso da due anni e mezzo. A quella data il convento risulta ancora situato in una «massaria fuori dell’abitato» e quindi lontano dalle abitazioni, in una posizione isolata. Se dobbiamo credere alle notizie provenienti dalle fonti domenicane, il convento sarebbe stato fondato nell’anno 14696. La chiesa, invece, doveva esistere già a metà secolo XIV. Infatti l’Ughelli, parlando del vescovo fra Bartolomeo Bussolaro, agostiniano originario di Pavia, che resse la chiesa Insulana tra il 23 marzo 1359 e il 4 dicembre 13897 ci descrive la tomba di Giacomo Bussolaro, fratello del vescovo8 che si trovava in questa chiesa. Oggi questa tomba non esiste più e sono perduti anche i marmi e le epigrafi che la ornavano. Tuttavia non possiamo non ricordare quanto egli dice a questo proposito: il vescovo Bartolomeo «de Busulariis ebbe come parente, forse fratello germano, Giacomo Bussolario dell’Ordine dei Predicatori (sic) illustre famoso per la particolare santità, al quale diedero il titolo di Beato, che era stato tumulato in un sepolcro marmoreo nella chiesa di S. Domenico nel sobborgo isclano, dove si vede il ritratto del medesimo beato, che ha un libro aperto nelle mani sul quale sono scolpite questa parole: Libro escusatorio sulle gesta da lui compiute in tutta la sua vita. Sulla fronte del tumulo, sono scritte invece le seguenti parole: Beato fra Giacomo detto Bussolario sotto questo altare fu tumulato il giorno 16 agosto MCCCLXXX. Per quattordici anni dal milanese Giovan Galeazzo ricevette il martirio del carcere a causa della verità. Trasse Pavia e Alessandria da un profondo male, aborrì ogni onore, e non ebbe nulla per sé. Grazie a Dio. A destra del tumulo sono scolpite le insegne della famiglia Busolaria, cioè un leone con sotto tre gigli. A sinistra una gran croce simbolo della città di Pavia, con al centro queste parole C. della 6) Analecta Ordinis Praedicatorum, anno III p. 52. 7) Come si sa, questo vescovo, per motivi che non ancora sono del tutto chiari, ma certamente per il passaggio della chiesa di Ischia all’obbedienza dell’antipapa avignonese Clemente VII, fu processato e privato della diocesi. Alcuni studiosi però prolungano il suo episcopato fino al 1389, anno della sua morte, mentre negli anni 1384-1389 la chiesa Insulana sarebbe stata retta da Paolo Strina nominato proprio da Clemente VII (Hierarchia Catholica Medii et Recentiosis Aevi… Patavii MCMLX vol. I p. 2869). È il caso di ricordare ancora una volta la famosa lapide del vescovo Bussolaro proveniente da Fontana, oggi purtroppo dispersa, che si trovava a Casamicciola nell’androne dell’ex villa del Dott. Carlo Mennella. Paolo Strina deve essere considerato un vescovo illegittimo perché nominato da un papa illegittimo. L’Ughelli, comunque, prolunga l’episcopato del Bussolaro fino al 1389, e mentre colloca Paolo Strina nel 1392 senza alcun cenno alla rimozione del Bussolaro o al periodo di obbedienza della chiesa Insulana all’antipapa avignonese. 8) Su Iacopo Bussolaro, cfr. L. Torelli, Secoli agostiniani, Bologna 1680; Codex Diplomaticus Ordinis Eremitarum Sancti Augustuni Papiae vol. I 1905; A. Balzani, Frate Jascopo dei Busolarii, in La Cultura, anno XII n. 140 32 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 comunità di Pavia: Bartolomeo poi avendo retto questa chiesa per quasi trenta anni, strappato da questo carcere nel 1389 volle essere seppellito presso il tumulo dello stesso Beato, che ora si vede sovrapposto con questo epitaffio. In questa tomba fu riportato Bartolomeo Lombardo di Pavia Busolario vescovo d’Ischia MCCCLXXXIX il giorno 4 dicembre»9. A proposito di fra Jacopo Bussolaro, c’è da notare che l’Ughelli e altri autori ci lo presentano come un frate domenicano, sepolto in una chiesa domenica. Al momento della morte di fra Jacopo, avvenuta a Ischia il 14 agosto 1380, sebbene il convento di S. Domenico non ancora esistesse, esisteva certamente la chiesa. Il motivo per il quale fra Jacopo Bussolaro fu sepolto nella chiesa di S. Domenico non ci è noto. Egli però era agostiniano come il fratello vescovo e non domenicano come affermano alcuni. Inoltre all’epoca esisteva il convento di Santa Maria della Scala degli Agostiniani10 in «burgo maris»11 per cui potremmo immaginare che la chiesa di S. Domenico con la fattoria che la circondava all’epoca fosse proprietà degli agostiniani di S. Maria della Scala. Successivamente la fattoria con la chiesa sarebbero diventate proprietà dei domenicani che vi avrebbero fondato il convento nel 1469. Documenti che potrebbero suffragare tale ipotesi però non ne possediamo per cui resta solo una immaginaria supposizione. «Nel 1384 (sic), il 4 dicembre, il fratello Bartolomeo, vescovo d’Ischia, seguì frate Jacopo nel sepolcro. Come lasciò detto, fu sepolto accanto al fratello in un’urna marmorea. I due sepolcri nel secolo XVII si vedevano nella chiesa a destra entrando. Le memorie del tempo, fino ai principi della seconda metà del secolo XVIII, dicono che non erano più situati a destra entrando, ma nel presbiterio in un vano dalla parte dell’Evangelo e poggiavano su colonne. Ma ora i due sepolcri ed altri ancora che si conservavano in quella chiesa più non sono»12 Dell’antica costruzione che pertanto doveva risalire almeno al XIV secolo, rimangono, a giudizio di Ilia Delizia, «alcuni caratteri primitivi: mi riferisco all’invaso affidato a due coppie di mastodontici e lisci pilastri intermedi che rendono ancora più greve la iterazione delle basse crociere delle navate laterali, ed 9) F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, Venetiis MDCCXVIII vol. VI col.233. 10) Sul convento di S. Maria della Scala, cfr. A. Lauro, La chiesa e il convento degli Agostiniani nel borgo di Celsa vicino al castello d’Ischia, in Ricerche contributi e memorie, atti del Centro di Studi su l’isola d’Ischia per. 1944-1970, vol. I pp. 593-630; A. Di Lustro, Ecclesia Major Insulana (la cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni), Forio 2010. 11) S. Santerano, Codice diplomatico barlettano, Bari 1957, vol. III p. 190-191. 12) A. Balzani, op. cit. p. 39. articolazione dello spazio di sacrestia tutto compreso nello sviluppo della navata»13. La navata centrale è coperta da una bassa volta a tutto sesto, mentre le navate secondarie sono divise in due crociere. La profonda abside oggi appare piuttosto alterata da una struttura poligonale che serve esclusivamente a contenere il tabernacolo. La struttura della chiesa fu interessata a lavori di restauro in seguito alla visita pastorale del vescovo Felice Romano, come già abbiamo detto in precedenza. Questi lavori, insieme con quelli della facciata, furono realizzati su progetto dell’architetto P. Francesconi che lavorò anche alla chiesa di Portosalvo14. Questi pochi elementi individuati dalla Delizia, sottolineano e confermano l’osservazione che il complesso di S. Domenico rivestiva «un ruolo religioso svolto all’interno di qualche piccola comunità, come attesta l’annesso convento, sebbene dalla tipologia insediativa si sia tentati ad individuare anche un carattere rispondente ad esigenze di vita contemplativa»15. Alle notizie tramandateci dall’Ughelli, bisogna aggiungere quelle che troviamo nel «Ragguaglio» di Vincenzo Onorato che le prende dal primo. Infatti anche lui trascrive le iscrizioni latine che si trovavano sulla tombe dei due Bussolaro e aggiunge a proposito di fra Jacopo: «Questo santo sacerdote per sfuggire l’ulteriore persecuzione del duca Giovanni Galeazzo si ritirò in Ischia, presso il fratello vescovo Bartolomeo, e dovè morire nel palazzo (episcopale n.d.r.) dentro il castello dandosi ciò ad intendere dal verbo translatus fuit. Il vescovo morto, dopo nove anni, si per l’amore portava all’anzidetto fratello e si per la nota santità del medesimo, dispone prima di morire che si li fusse costruita una urna di marmo in dove fu riposto, ed indi fu situato al lato del tumulo dell’enunciato fratello colla seguente iscrizione, beninteso che l’accennate urne riposte sopra le rispettive colonnette stavano situate nel vano rimpetto il cornu evangeli dell’altare maggiore. In hoc coemeterio reconditus fuit Bartolomeus Lombardus de Papia de Pesulariis Episcopus isclanus 1389 die 4 mensis dicembris. La differenza che si osserva nel cognome tra la B e la P poté derivare dal disaccordo incisore o dal disaccordo copista, oppure che col tempo poté la lettera per la rosura ricevere alterazione. Levandosi la seconda tirata della lettera B»16. Inoltre l’Onorato fa intendere che ai suoi tempi i monumenti dei due Bussolari già erano scomparsi dal13) I. Delizia, Ischia l’identità negata, SEN Napoli 1987 p. 110. 14) Ibidem, p. 193. La studiosa ricorda la «Relazione di progetto e lo stato estimativo dei lavori bisognevoli per lo restauro della facciata esterna della Parrocchiale chiesa di S. Domenico di Campagnano d’Ischia e di tutti i lavori indispensabili per lo completamento del detto sacro tempio» che si trova in ASN, Amministrativa, Prefettura vol. 559. 15) Ibidem, p. 193. 16) V. Onorato, Ragguaglio istorico-topografico dell’isola d’I- la chiesa di S. Domenico per cui egli non ha avuto l’opportunità di ammirarli. Ed aggiunge: «In tale chiesa si osservava ancora una lapide ingegnosa sepolcrale, con la quale veniva posta in aspetto la pazzia delirante della vana gloria, la stessa lapide che essendosi pure tolta all’intutto della forma e del tenore della iscrizione ci è rimasta solo la memoria dei seguenti due versi: Amat ranam, et dicit esse Dianam: Amat pecus, et dicit esse Decus»17. Da tutto questo e dalle vicende dei vari interventi nella struttura della chiesa che ci vengono documentati dalle varie fonti che abbiamo già esaminato, riusciamo a renderci conto che, purtroppo, questo monumento ha fortemente subito l’affronto del tempo che lo ha privato di quello che di veramente interessante si raccoglieva al suo interno. Per completare il discorso su questo monumento sacro ingiustamente rimasto nell’ombra nella pur variegata presenza sulla nostra Isola di monumenti sacri, dobbiamo trattare alcuni aspetti devozionali di cui nel corso dei secoli si è arricchita la chiesa per nulla messi in evidenza dai pochi scrittori di cose isclane che si sono interessati ad essa: lo sviluppo del culto mariano sotto il titolo del Rosario, sostituito in seguito da quello alla Madonna della Misericordia. In un anno imprecisato, ma certamente quando i domenicani erano ancora qui, fu fondato in questa chiesa la confraternita intitolata al SS.mo Rosario come ce ne sono state diverse sparse sulla nostra Isola18. Questo fatto favorì enormemente e sviluppò il culto alla Madonna del Rosario che venne anche effigiata su una tavola da un ignoto pittore nel secolo XVII19. Legato a questa immagine della Madonna del Rosario troviamo registrata una serie di prodigi che ci sono stati trasmessi da Serafino Montorio in un’opera dal titolo: Zodiaco di Maria ovvero le dodici province del Regno di Napoli , Napoli 1715. Il Montorio, dunque, scrive tra l’altro nella stella XLV del regno di Ariete :«A quella miracolosa effige dunque ricorrendo quel Popolo divoto, da alcuni anni in qua hanno in essa sperimentata la Vergine liberalissima delle sue grazie , come dalli seguenti casi più chiaramente vedesi, e perciò è tenuta in somma venerazione. L’anno 1712 mentre celebravasi solennemente in detta chiesa dedicata al Padre S. schia, in E. Mazzella, L’Anonimo Vincenzo Onorato e il Ragguaglio dell’isola d’Ischia, Fisciano Edizioni Gutemberg 2014, pp. 249-256. 17) Ibidem, p. 250. 18) Oggi questo quadro, che pende sull’altare maggiore, in seguito al restauro effettuato alcuni anni fa, è stato riportato su tela. 19) S. Montorio, Zodiaco di Maria, ovvero le 12 province del Regno di Napoli per Pablo Severini, 1716 p. 216 e ss. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 33 Domenico la festa della I domenica di ottobre, come è solito farsi in tutto il mondo cattolico, avvenne un caso ammirevole. Cadde la campana nel cortile senza ferire alcuno benché i fedeli fossero molto numerosi nell’entrare e nell’uscire. Mentre D. Sabato Schiano celebrava all’altare del Rosario, fu presente un’ossessa. Un giorno il Parroco andava a confessare Mons. Michelangelo Cotignola (vescovo di Ischia dal 1691 al 1699 ) e trovò alla porta del vescovo la madre che gli disse la figlia essere stata da diversi esorcisti ed aver detto di sentirsi bene alla festa del Rosario. «Il Canonico Bartolomeo Manguso stava sul punto di morire ed il Parroco andò a visitarlo. La madre lo pregò di recitare le litanie alla Madonna la sera. Riunì tutti i preti per le litanie ed in quell’ora guarì. Si chiese al parroco a quale ora avesse recitato le litanie e si seppe quando guarì . «Ancora suo fratello Giovan Vincenzo Mancuso prossimo a morire riebbe vita al contatto bacio della Madonna del Rosario ed anche suo figlio mentre il parroco portava il Santissimo andò di notte a S. Domenico e benché le porte fossero chiuse invocò la Madonna e guarì». Se tali prodigi siano continuati anche dopo la pubblicazione nel 1715 del libro del Montorio, non lo sappiamo perché nessuno li ha registrati. Certamente questo contribuì notevolmente alla diffusione della devozione alla Madonna del Rosario e delle varie manifestazioni di culto nei suoi confronti. Tra queste manifestazioni bisogna ricordare la processione con l’immagine della Madonna del Rosario ogni prima domenica del mese come si soleva fare anche in altre chiese o confraternite intitolate al Rosario, anche in diverse chiese della nostra Isola. Oggi queste manifestazioni di culto verso la Madonna del Rosario sono scomparse, almeno nelle chiese della nostra Isola. So con certezza che ancora oggi si svolgono in alcune chiese particolarmente del Nord Italia. Così pure anche l’altra processione mensile che si svolgeva la terza domenica del mese nella quale si recava in processione il SS.mo Sacramento, soprattutto nelle chiese nelle quali vi era una confraternita con questo titolo. Anche queste da noi sono scomparse, ma esistono ancora in alcune zone del Nord. .Agostino Di Lustro Paestum: Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico XVII edizione (30 ottobre - 2 novembre 2014) Tre strutture geodetiche con i lati trasparenti a pochi metri dal Tempio di Cerere di Paestum: questa la suggestiva location che per la prima volta ospiterà il Salone Espositivo e due delle 4 sale conferenze della XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre 2014. La Borsa, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio di Expo Milano 2015, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Unesco e UNWTO, si svolgerà quindi nuovamente nell’area archeologica della città antica: oltre all’area adiacente al Tempio, le iniziative avranno luogo anche nel Museo Archeologico (ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop con i buyers esteri) e nella Basilica Paleocristiana (Conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti). La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti che saranno calendarizzati annualmente: - Social Media & Archaeological Heritage Forum, venerdì 31 ottobre, che ospiterà “Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web”, il secondo incontro nazionale dei blogger culturali: l’obiettivo è promuovere lo sviluppo dei beni culturali sempre più attraverso i social network; - ArcheOpenData Forum. Trasparenza e riuso dei dati in archeologia, venerdì 31 ottobre, momento di discussione dedicato agli open data; - ArcheoStartUp, sabato 1 novembre, presentazione di nuove imprese culturali e progetti innovativi; il Concorso Fotografico “La BMTA ti porta a Paestum!” sulla pagina Facebook. La Mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la più importante Rete di ricerca Europea sui Musei Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR), ospiterà “Digital Museum Expo”, esposizione delle tecnologie più recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre che a Paestum anche ai Mercati Traianei del Museo dei Fori Imperiali in Roma, alla Biblioteca Alessandrina di Alessandria d’Egitto, al Museo Allard Pierwson di Amsterdam, al City Hall di Sarajevo. “Digital Museum Expo” consentirà ai visitatori di vivere il passato, nei suoi edifici, nei suoi paesaggi e nella sua quotidianità, attraverso filmati, sistemi di interazione naturale e applicazioni mobili: contenuti interattivi e multimediali, dunque, al fine di promuovere la ricerca nell’ambito dei nuovi meccanismi di interazione e fruizione dei beni culturali. 34 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Regione Campania Portale dei Musei locali e di interesse locale per la Campania www.regione.campani.it Navigazione Tematica Turismo e Cultura Musei in Campania ******* Museo Civico Archeologico di Pithecusae Indirizzo: Corso Angelo Rizzoli, 210 Cap: 80076 Comune: Lacco Ameno - Ischia Provincia: Napoli Telefono: 081 3330288 - 081 996103 Fax: 081 3330288 e-mail: [email protected] Sito web: http://www.pithecusae.it Social network: Facebok Tipo proprietà: Comune Denominazione proprietà: Comune di Lacco Ameno (Na) Riconoscimento Regionale: no Rete o sistema museale: sì Rete: Complesso Museale di Villa Arbusto Ente competente: Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei Ha sede in Lacco Ameno d’Ischia nell’edificio principale del complesso di Villa Arbusto, costruito nel 1785 da Don Carlo Acquaviva, duca d’Atri, lì dove esisteva la «masseria dell’Arbosto». Divenuta nel 1952 residenza estiva dell’editore Angelo Rizzoli, fu acquistata dal Comune di Lacco Ameno per ospitarvi il Museo Archeologico, destinato ad illustrare la storia dell’isola d’Ischia dalla Preistoria sino all’età romana. Numerosi ed importantissimi sono soprattutto i reperti, recuperati grazie agli scavi condotti a Ischia da Giorgio Buchner a partire dal 1952, relativi all’insediamento greco di Pithecusae, il più antico dell’Italia Meridionale, fondato nelI’VIII secolo a. C. da Greci provenienti dall’isola di Eubea. Tra essi si annoverano il cosiddetto “Cratere del Naufragio” e la kotile nota come “Coppa di Nestore” (VIII sec. a C), che reca inciso in alfabeto euboico, e sicuramente a Pithecusae, un epigramma di tre versi che allude alla celebre coppa di Nestore cantata nell’Iliade. Essa rappresenta una delle più antiche testimonianze di scrittura in lingua greca finora note. Descrizione: Il percorso museale si articola in otto sale espositive, organizzate in ordine cronologico, dal periodo preistorico al periodo romano. Del periodo preistorico (sala I) si hanno testimonianze rilevanti di un villaggio dell’età del ferro riportato alla luce grazie agli scavi dell’archeologo Giorgio Buchner nella località Castiglione (Casamicciola Terme). Le sale più importanti (II, III, IV) relative alla colonia greca di Pithecusa (VIII sec. a.C.) espongono i reperti provenienti dalla necropoli (Valle di San Montano), utilizzata per più di un millennio. Nell’età romana l’Isola, che assunse il nome di Aenaria, fu flagellata da numerose eruzioni vulcaniche, tanto che i Romani non vi si stabilirono in maniera cosi massiccia come, ad esempio, nei vicini Campi Flegrei. Le principali testimonianze di questo periodo sono costituite dai rilievi votivi in marmo dal santuario delle Ninfe, presso Nitrodi (Barano), e dai lingotti in piombo e stagno della fonderia sommersa di Carta Romana (Ischia) . Museo Civico Angelo Rizzoli Indirizzo: Complesso museale di Villa Arbusto - Corso Angelo Rizzoli, 210 Cap 80076 Comune: Lacco Ameno - Ischia Provincia: Napoli Telefono: 081 3330288 - 081 996103 Fax: 081 3330288 e-mail: [email protected] Sito web: http //www museoangelorizzoli.it Social network: ---Tipo proprietà: Comune Denominazione proprietà: Comune di Lacco Ameno (Na) Riconoscimento Regionale: no Rete o sistema museale: sì Rete: Complesso Museale di Villa Arbusto Ente competente: Soprintendenza speciale per i beni archeologici paesaggistici storici artistici ed etnoantropolgici per Napoli e provincia. Il Museo, concepito quale necessario e ideale completamento del Museo Civico Archeologico di Pithecusae, ha lo scopo di far conoscere l’uomo, l’editore, il produttore cinematografico Angelo Rizzoli e l’evoluzione turistico-culturale dell’isola d’Ischia raccogliendo, conservando e tutelando le testimonianze materiali dell’editore e le tracce storiche dello sviluppo territoriale isolano. Il “Commenda”, infatti, oltre ad essere un importante esempio di uomo che, dal nulla, crea un impero finanziario che segna la storia editoriale e cinematografica della nostra nazione, ha anche condizionato fortemente lo sviluppo socio-turistico di Ischia tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. A lui si deve la realizzazione dell’unico ospedale pubblico, di strutture sportive, la spinta allo sviluppo turistico con la costruzione di importanti alberghi e con la grande notorietà che diede all’Isola, sia rendendola crocevia di incontri e luogo di villeggiatura di attori e registi, finanzieri, famiglie reali, sia consentendo alle risorse termali ischitane di acquisire dignità terapeutiche. Descrizione: Il Museo, inaugurato nel maggio 2000 in collaborazione con la RCS, alla presenza del presidente del Senato On. Nicola Mancino e della famiglia Rizzoli, è situato nel Complesso Museale di Villa Arbusto, ex dimora di Angelo Rizzoli, e raccoglie le testimonianze della sua vita eccezionale. Nelle cinque sale sono conservate 500 fotografie storiche che ritraggono Angelo Rizzoli con i maggiori personaggi del suo tempo; documenti originali; premi cinematografici (Palma d’oro, David di Donatello, Biglietto d’oro, Nastro d’Argento), letterari ed editoriali conferiti al La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 35 “commenda”; riconoscimenti originali di capi di stato, le dediche autografe di Gabriele D’Annunzio e Luigi Einaudi, le lettere che il giovane Rizzoli scriveva ai familiari dall’orfanotrofio Martinitt. Fondazione William Walton Giardini La Mortella Indirizzo: Via Francesco Calise, 39 Cap 80075 Comune: Forio - Ischia Provincia: Napoli Telefono: 081 986220 Fax: 081 986237 e-mail: [email protected] Sito web: http //www.lamortella.org Social network: https://www.facebook.com/pages/Giardini-LaMortella-Ischia Tipo proprietà: Fondazione Denominazione proprietà: Fondazione William Walton e La Mortella Riconoscimento Regionale: sì Rete o sistema museale: no Ente competente: Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campani La Mortella è lo splendido giardino creato a partire dal 1956 da Susana Walton, appassionata botanica, moglie argentina del compositore inglese Sir William Walton. Disegnato dal paesaggista Russell Page, è considerato uno dei più bei giardini privati in Italia. Lady Walton, rimasta vedova nel 1983, lo aprì al pubblico nel 1991 e creò la Fondazione William Walton con l’obiettivo di far conoscere la musica del marito e preservare il giardino. Alla sua morte nel 2010 la proprietà è passata alla Fondazione. La Mortella è divisa in due parti: Valle e Collina, ed ha una raccolta imponente di piante esotiche. La Valle, disegnata da Page, subtropicale, ha un’atmosfera intima, punteggiata di fontane e protetta da grandi alberi. La Collina, solare, panoramica, presenta edifici come il Tempio del Sole, la Sala Thai con il giardino orientale, i due memoriali, Ninfeo e Roccia di William, dove sono custodite le ceneri dei Walton, ed il Teatro Greco, incastonato fra le rocce e affacciato sul mare. Nel giardino si trovano il Museo e l’archivio William Walton, che comprende lettere, fotografie, manoscritti, alcuni dei quali in mostra permanente nel Museo. Descrizione: La Mortella ospita nelle diverse zone del giardino molte piante rare ed inusuali, come la Victoria amazonica (ninfea gigante) e lo Strongylodon macrobotrys (rampicante di giada) nella Victoria House, le felci arboree della Nuova Zelanda, le cycadaceae dislocate in vari punti del giardino, alcune di dimensioni imponenti, orchidee, sia in serra che all’aperto, palme, fior di loto e ninfee nelle diverse vasche e fontane, bromeliacee, come la imponente Puya berteroniana dai fiori verde smeraldo, piante delle zone mediterranee di tutto il mondo (dalla California all’Australia passando per il Sudafrica e le aree circum-mediterranee), Agavi ed una ricchissima collezione di Aloe, frutto della donazione di collezionisti. 36 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Museo Luchino Visconti (Fondazione La Colombaia) Indirizzo: Villa La Colombaia, via Francesco Calise130 Cap 80075 Comune: Forio - Ischia Provincia: Napoli Telefono: 081 987115 Fax: 081 987115 e-mail: [email protected] Sito web: http //www.fondazionelacolombaia.it/museo Social network: Facebook Tipo proprietà: Comune Denominazione proprietà: Villa La Colombaia di Luchino Visconti Riconoscimento Regionale: no Rete o sistema museale: no Ente competente: Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e provincia. La Fondazione si propone lo scopo di diffondere la cultura della comunicazione e dello spettacolo, con particolare riferimento alle arti cinematografica e teatrale, e di promuovere la formazione e la specializzazione. La Fondazione “La Colombaia di Luchino Visconti” è stata costituita dal Comune di Forio con delibera n. 69 del 20 settembre 2001 ed ha ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica dalla Regione Campania con decreto n. 315/02 dell’Assessore al Sistema delle Autonomie. Ha sede nella storica residenza estiva di Luchino Visconti, dichiarata di interesse culturale e architettonico dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, al termine di una campagna di sensibilizzazione che ha riunito un vasto movimento di opinione animato da intellettuali, artisti e parlamentari italiani ed europei. Dall’11 agosto 2003 le ceneri del Maestro riposano nel giardino della Villa laddove lui stesso coltivava splendide ortensie: una volontà del regista esaudita a 27 anni dalla sua scomparsa. Dal 27 novembre 2006, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha posto la Fondazione sotto il suo Alto Patronato, per l’intera durata del suo mandato. Descrizione: La Colombaia è oggi il principale luogo della memoria viscontiana. Dal 2004 ospita il primo nucleo del Museo permanente dedicato a Luchino Visconti nella sua dimora, affidato alla progettazione e alla realizzazione di Caterina d’Amico - figlia della sceneggiatrice Suso, preside della Scuola Nazionale di Cinema e Ad di Rai Cinema - e Piero Tosi, il maestro dei costumi che ha legato la sua carriera ai capolavori viscontiani. Oltre 300 immagini, i costumi di scena, cimeli compongono un racconto speciale tra le stanze della villa attraverso una collezione che si arricchisce di documenti di anno in anno. Museo del mare dell’isola d’Ischia Indirizzo: Ass. Amici Museo del mare_Palazzo dell’Orologio, Via Luigi Mazzella, 7 Cap 80077 Comune: Ischia Provincia: Napoli Telefono: 3452305766 Fax: 081 993470 e-mail: [email protected] Sito web: www.museodelmareischia.it Social network: Facebook Tipo proprietà: Associazione riconosciuta Denominazione proprietà: Associazione Amici del mare Riconoscimento Regionale: no Rete o sistema museale: no Ente competente: Soprintendenza per i Beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia. Posta nel cuore del Mediterraneo la nostra isola è inserita nella vita civile dell’uomo da millenni. I nostri antenati non hanno lasciato testimonianze scritte sulla loro esistenza. Ci tocca leggere il passato attraverso l’archeologia e il più recente attraverso la raccolta, l’osservazione e lo studio sia di documenti scritti sia di reperti di materiali rimasti. Il Museo del Mare dell’isola d’Ischia, inaugurato alla fine del 1996, vuole esprimere la peculiarità della storia isolana. La terra nata dal mare, il suolo che da sempre ha trovato nel mare il proprio destino, lavoro e amore, ha il diritto ad una memoria collettiva ben visibile. Né la dimostrazione dell’uomo, né l’azione corruttrice del tempo deve distruggere le testimonianze del nostro passato. Denominazione: Le raccolte Il museo conserva una raccolta di fotografie e cartoline dal 1840 al 1860 tra le quali l’immagine della prima automobile sbarcata sull’isola nel 1958. Vi sono conservate attrezzature nautiche e antichi utensili da pesca: un inclinometro (1930), un solcometro (1935), un fanale di via (1946), cesti, retini, nasse di canna costruite dai pescatori negli anni ‘30 e una tuta da palombaro del 1935. A questi oggetti si aggiungono dei modellini di nave, ex voto dei marinai ed urne antiche. Caratteristica è la collezione di francobolli provenienti da tutto il mondo e raffiguranti elementi e materiali legati al mare, come conchiglie, pesci e coralli. Museo Civico del Torrione Indirizzo: Via del Torrione snc Cap 80075 Comune: Forio Provincia: Napoli Telefono: 081 3332935 Fax: 081 3332952 e-mail: [email protected] Social network: --Tipo proprietà: Comune Denominazione proprietà: Comune di Forio Riconoscimento Regionale: no Rete o sistema museale: no Ente competente: Soprintendenza per i Beni architettonici paesaggistici storici artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia (con esclusione della città di Napoli per le competenze in materia di beni storici artistici ed etnoantropologici). Il Museo, istituito dal Comune di Forio, ha sede in Forio in locali di proprietà dello stesso Comune, ed espone beni entrati a far parte del patrimonio di pertinenza comunale. La collocazione all’interno della Torre costruita nel 1480 quale difesa contro le invasioni saracene rappresenta di per sé un bene architettonico monumentale, attribuisce valore aggiunto a quello delle singole raccolte di opere, di altra provenienza, che vengono ivi esposte. II patrimonio del Museo Civico è costituito dai beni artistici mobili di proprietà comunale, provenienti dall’artista Giovanni Maltese costituite da sculture e disegni che fotografano la vita popolare dell’ottocento. Le opere sono indicate nell’inventario del 2004, Denominazione: Museo Civico del Torrione Una testimonianza serena dell’umanità Foriana e isolana dell’epoca. I personaggi sono popolani, borghesi, uomini della politica e della cultura del tempo, con preziosi riferimenti alle sventure umane (es. il naufrago, alle attività: il pescatore, alle aspirazioni dell’uomo dell’epoca. I volti e gli atteggiamenti riprodotti nelle opere del M° Maltese dimostrano la partecipazione al pathos dell’esistenza umana riprodotto con amore pietoso - Il naufrago, il naufragio di Agrippina , il contadino, il volto dell’uomo morto le opere suddette mostrano la vita del tempo in cui non era possibile fotografare. Museo Diocesano d’Ischia Indirizzo: Palazzo Vescovile Via Seminario 29 (sez. Arte Sacra) – Basilica S. Restituta, Piazza S. Restituta (sez. Archeologia) Cap 80077 Comune: Ischia Provincia: Napoli Telefono: 081 991706 – 081 982708 Fax: 081 3330935 e-mail: [email protected] Sito web: ---Social network: --Tipo proprietà: Ente ecclesiastico o religioso Denominazione proprietà: Diocesi di Ischia Riconoscimento Regionale: sì Rete o sistema museale: no Ente competente: Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campania Il Museo, istituito il 5 Marzo 1997 dal Vescovo Antonio Pagano, è articolato in due sedi: la prima, che include la se- zione dedicata all’arte sacra, è esposta nei locali del Palazzo del Seminario, sito nel Comune di Ischia e la seconda, che raccoglie la sezione archeologica fa parte del complesso della Basilica Pontificia di S. Restituta, sito nel Comune di Lacco Ameno. Sezione Arte Sacra Suddiviso in cinque sezioni (marmi, sculture, dipinti, argenti e manufatti vari); gli oggetti provengono dalle chiese della diocesi e in particolare dall’odierna Cattedrale che raccoglieva gli arredi della Cattedrale sul Castello Aragonese, bombardata nel 1809. Notevole è un fronte di sarcofago paleocristiano con 5 scene vangeliche (IV e il V sec. d.C). Sezione Archeologica. - Esempio di valorizzazione di area di scavo archeologico poi musealizzata, illustra le vicende dell’insediamento di Pithecusae dall’età arcaica all’epoca medievale. L’area (1000 mq), distribuita tra l’edificio annesso alla Basilica e la zona sottostante, si esplica in tre sale e nei quattro settori dell’area di scavo. Di particolare interesse l’area identificata con il quartiere artigianale(Kerameikos) dell’antica Pithecusae e l’area della Basilica paleocristiana del IVsec. d.C. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 37 Sezione Arte Sacra. I marmi La maggior parte dei marmi provengono dal Castello Aragonese, in modo particolare dall’antica Cattedrale Si tratta di opere che vanno dal XIV al XVIII sec., per lo più frammenti di monumenti funebri o commemorativi. Tra essi degno di nota la fronte di un sarcofago risalente alla fine del IV secolo o all’inizio del V, e appartenente al gruppo detto Bethesda. Raffigura cinque scene evangeliche: Gesù che guarisce i due ciechi; Gesù che guarisce una donna; la guarigione del paralitico a Gerusalemme presso la piscina Bethesda (donde il nome di tutti i sarcofaghi che riproducono questa scena evangelica ); Zaccheo sull’albero; entrata di Gesù in Gerusalemme. Sezione Arte Sacra e sculture La sezione dedicata alle sculture accoglie statue lignee provenienti da diverse chiese, particolarmente dall’attuale Cattedrale, da Barano e altre località; sono opere comprese tra il XVIII e il XIX secolo. Si tratta spesso di statue devozionali, eseguiti da scultori di non grande rinomanza di ambito napoletano. L’isola d’Ischia sebbene patria di due fratelli scultori Patalano, non possiede loro opere di sicura attribuzione. Infatti, le due statue di Gaetano, un Crocifisso e un'Assunta, citati da Antonio Parrino nel 1704 nell’antica chiesa del Rosario di Lacco distrutta dal terremoto del 28 luglio 1883, sono scomparse. Sezione Arte Sacra. I dipinti La Quadreria del Museo comprende sia tavole che tele databili tra il XVI e il XIX secolo, anch’esse provenienti da diversi luoghi sacri della diocesi. In particolare, si segnalano alcune tavole provenienti dall’attuale Cattedrale e prima ancora da quella del Castello, per le quali si può supporre una committenza aristocratica, forse da parte della famiglia d’Avalos, che fino al 1730 circa ha esercitato su Ischia un potere feudale. Notevole è un san Tommaso d’Aquino, attribuibile allo spagnolo Pedro de Aponte, che risulta attivo a Napoli all’inizio del XVI sec. e un San Giorgio e il drago attribuibile al pittore Ippolito Borghese (1598). Sezione Arte Sacra. Gli argenti Notevole per ricchezza e bellezza dei pezzi esposti, si presenta anche la parte riservata agli argenti, che vanno dal XVIII al XX secolo. Anch ‘essi sono di varia provenienza, ma in modo particolare spiccano quelli provenienti dalle due cattedrali come ad esempio la Croce capitolare e il pastorale dell’Assunta, veri capolavori dell’argenteria napoletana del Settecento. Ma particolarmente notevoli dal punto di vista storico sono il calice di papa Pio IX e quello del Cardinale Luigi Lavitrano. Gli oggetti esposti sono solo un piccolo campionario degli arredi d’argento sparsi nelle varie chiese dell’isola, che talvolta costituiscono veri capolavori sia dal punto di vista artistico che catechetico. Ma bisogna almeno ricordare che nel 1798, in seguito alla requisizione degli argenti ordinata da Ferdinando IV, andò perduto il parato di dodici candelieri con croci e dodici frasche d’argento realizzato da vari argentieri del XVIII secolo per la chiesa dello Spirito Santo, e le sei statue d’argento dei fratelli del Giudice su bozzetto del Sanmartino, e altri arredi sacri di argento esistenti nella cappella Regine a Forio. Sezione Arte Sacra. Manufatti vari In questa sezione sono esposti oggetti di varia natura, sacri e profani, alcuni dei quali abbastanza rari e di grande bellezza artistica, suppellettile liturgica con pezzi veramente rari, come la “pace” proveniente dall’arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli, che costituisce un raro oggetto di uso liturgico e, nel caso specifico, un pezzo unico di argenteria. Vi sono esposti anche anelli episcopali e canonicali, tra cui un prezioso cammeo appartenuto al canonico Onofrio Bonocore. Notevoli sono ancora alcuni tessuti di particolare pregio per la stoffa e i preziosi ricami che li ornano. Tra questi alcune pianete dei secoli XVIII - XIX provenienti dalla 38 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 Cattedrale. Gli oggetti musealizzati costituiscono solo un piccolo campionario del patrimonio artistico e liturgico, che ancora si può trovare in tante chiese dell’isola. Sezione Archeologica. Sale I-II-III Sala I e II Oltre ad oggetti votivi di diversa provenienza e cronologia, nelle vetrine sono esposti numerosi tipi di corredi liturgici e maioliche del settecento e ottocento napoletano; tra le ceramiche, di particolare interesse sono le produzioni invetriate a bande che coprono un periodo che va dal VI al XIV sec. d. C e che continuano a testimoniare il coinvolgimento dell’Isola d’Ischia nei traffici commerciali del Mediterraneo anche in età Tardoantica e Medievale. Le restanti vetrine ospitano frammenti di ceramica, per lo più di fabbricazione locale, provenienti da diversi siti dell’isola: produzioni greco-arcaiche provenienti da Cava Grado, presso Sant’Angelo, materiali di età romana rinvenuti in località Toccaneto (Barano), Noia (Serrara Fontana) e Cilento (Ischia). Sala III L’ambiente, che funge pure da sacrestia alla basilica di S. Restituta, ospita diverse statue lignee di santi e preziosi corredi liturgici (paramenti sacri, ostensori, messali, ecc.). Sezione Archeologica. Settore I Identificato come il quartiere artigianale dell’antica Pithecusae, comprende 6 fornaci, attribuibili all’età ellenistica, forse con fasi di epoca precedente. La n. 1, n. 2 e la n. 3, site sotto la sacrestia della Basilica, hanno restituito un mortaio cilindrico e due vaschette rettangolari per decantare l’argilla e uno spazio per l’asciugatura delle tegole. La n. 4 e la n. 5 si trovano sotto il cortile della chiesa; resta un paramento murario della n. 6. Dall’area di scavo provengono ceramica a vernice nera, ceramica comune, anfore di tipo greco-italico, spesso bollate. Numerosi gli strumenti connessi con la produzione. Accanto una necropoli di età romano-imperiale con sepolture di tipo alla “cappuccina” (tegole a doppio spiovente), e del tipo a “enchytrismos” (per la sepoltura di bambini). Le vetrine espongono ceramica, terrecotte architettoniche, strumenti litici, utensili in metallo… Sezione Archeologica. Settore II Vi si accede attraverso uno stretto passaggio su un lato del quale è visibile una tomba ad “arcosolio” (tipo di sepoltura caratterizzata da un ampio arco a sesto ribassato, generalmente attribuibile all’età tardo-antica). In questa zona si conservano i resti di un muro in opera reticolata, di alcuni sepolcri ricavati sul piano di calpestio e di una piccola struttura in pietra locale in cui sono conservate le reliquie attribuite a S. Restituta; gran parte di queste strutture sembrano essere pertinenti alla basilica paleocristiana del V sec. d. C. dedicata alla martire cartaginese. Sezione Archeologica. Settore III e IV Settore III: Nelle vetrine si trovano strumenti preistorici in selce e ossidiana e ceramiche del neolitico, scodelle e ciotole dell’età del bronzo. Numerosi i frammenti di ceramica grecoarcaica della prima fase coloniale euboica e frammenti di coppe di imitazione corinzia e frammenti di ceramica attica a figure nere e rosse, anse di anfore rodie con bollo; terrecotte figurate (testine femminili, statuette, busti), louteria e sostegni di bracieri, matrici per decorazioni, ceramiche a vernice nera del tipo “Campana A”. Si segnalano fibule in bronzo, aghi, punteruoli in metallo. Nel settore IV si apre un’ultima area caratterizzata da una necropoli con più livelli di frequentazione: le sepolture più antiche del tipo alla “cappuccina” (II-III sec. d. C.), mentre le più recenti sono intagliate nel piano di calpestio e coperte da tegole di scarto datate tra sesto e ottavo secolo d.C. Francesco Cenatiempo Ischia nell'Odissea Prolusione all'Accademia tenuta in occasione della solenne distribuzione dei premi nel Seminario d'Ischia - 1907 Fra i genii che furono più maltrattati e ad un’ora più onorati di culto e di ammirazione dalla critica di tutti i tempi, il primo posto tocca esclusivamente ad Omero, la più grande anima poetica dei secoli passati. Intorno all’esistenza, al luogo di nascita, al tempo ed alle opere che la tradizione ha sempre attribuite al suo meraviglioso ingegno, si accese, fin dalla più remota antichità, un gran dibattito fra gli eruditi; dibattito che, ingrossatosi nel progresso degli anni man mano che si son venute evolvendo e perfezionando le discipline filologiche, sempre lungi da una soluzione decisiva, dura oggi più che mai vivo ed ardente sotto il famoso titolo di questione omerica. A partire dai primi attacchi mossi, nell’epoca alessandrina, dai cosiddetti separatisti, fino alle ardite negazioni del Casaubon, del Perrault e di G. B. Vico; dalla guerra mortale dichiarata da Augusto Volf fino alle generose difese del Nauk e del Bérard, per tacere di moltissimi altri, chi potrebbe dire quante tonnellate di carta e fiumi d’inchiostro si sono consumati intorno a questa eterna questione, non dico senza utilità, ma certo senza esito alcuno? Per cui, nei tempi che volgiamo, prevale fra i dotti una larga vena di salutare scetticismo a riguardo delle strampalate e spesso contradittorie conclusioni della critica omerica; cotalché anche a voi potrebbe ormai sembrare un perditempo l’occuparsi più oltre di cose così lungamente e profondamente discusse, ed intanto insolute tuttora. Eppure, Signori, il vespaio omerico, permettetemi 1’espressione, oggi è stato ridesto da un’opera che vide la luce, mesi fa, per i tipi del Leroux, in Parigi, e di cui giova tener informata la parte colta della cittadinanza ischiana. E, notate, dissi giova, non perché il nuovo volume ci abbia portato, finalmente, la soluzione del complesso problema, che è e sarà ancora per un pezzo l'espettazione del mondo letterario; ma bensì perché il contenuto di esso, ove mai fosse riconosciuto vero, sarebbe un monumento parlante della più antica e gloriosa storia di questa nostra isola incantata. Io parlo del lavoro di Filippo Champault1, nel quale questo geniale scrittore, contro quella critica che presume l’opera d’Omero sia tutta una poetica invenzione, sostiene che la seconda parte dell’Odissea, cioè il Nostos, oltre ai meriti impareggiabili di opera d’arte immortale, ha altresì un grandissimo valore documentario, studiato dal triplice punto di vista geografico, storico e sociale. In termini più precisi, egli pretende dimostrare che la terra dei Feaci, la loro città Scheria ed i Feaci stessi non sono già degli esseri immaginari, vissuti, un momento solo, nella sola visione del poeta; ma che sono invece esseri tolti dal reale e che si identificano con la nostra isola d’Ischia, col Castello e con quella colonia di fenici ellenizzati che vennero primi a stabilirsi da noi. Naturalmente per questa identificazione occorreva che l’autore conoscesse l’isola nostra non solo nella sua configurazione generale, ma anche nei suoi minimi particolari topografici; ebbene 1 Ph. Champhault — Phéniciens et Grécs en Italie d’après l’Odyssée. Paris. Leroux Éditeur, 1906. (Di detta opera La Rassegna d'Ischia ha anche pubblicato una completa traduzione dal francese in italiano, a cura di Raffaele Castagna). lo Champault nel 1904 non trascurò di venire a studiare sul luogo quello che servir doveva al suo scopo. Ora, se il suo studio meni ad una dimostrazione scientifica della tesi predetta, ovvero raggiunga solo un grado di maggiore o minore probabilità, o si debba piuttosto ritenere come un germoglio anch’esso poetico rampollato sul vecchio tronco del Nostos, giudicherete voi, dopo che io ve ne avrò sintetizzato, nel miglior modo possibile e quasi con le sue stesse parole, le parti più rilevanti : solo vi dico che, nella speciosità e novità della cosa, noi abbiamo visto una ragione sufficiente per accademizzare quest’anno appunto il Nostos omerico. Signori, tutti si sa che oggi l’Odissea dai critici è generalmente divisa in tre grandi parti : la Telemachia, cioè la lotta di Telemaco, figlio di Ulisse e la sua dichiarazione di vendetta contro i greci divoratori delle sostanze del padre; il Nostos, o «ritorno di Ulisse» con le strane avventure dei suoi errori, ed infine la Mnesterophonia, cioè la strage dei Proci per mano di Ulisse, che compie la vendetta intimata eroicamente dal figlio. La seconda di queste tre parti forma 1’oggetto del nostro breve trattenimento il suo contenuto può riassumersi così: «Calipso, figlia di Atlante, la quale per anni parecchi ha ritenuto Ulisse prigioniero nella sua isola di Ogigia, riceve da Giove, La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 39 padre dei numi, l’ordine di lasciarlo partire. Il Laerziade s’imbarca solo sur una zattera da lui stesso costruita, ed, assalito per via da una tempesta, arriva naufrago al paese dei Feaci. Quivi è accolto da Nausicaa, giovanetta regale, che lo guida alla reggia del padre Alcinoo, dove questi e sua moglie Arete gli fanno festa unitamente ai più nobili di tutti i Feaci. Ulisse racconta loro le prove senza numero che l’hanno travagliato dopo la partenza da Troia, il suo andar ramingo tre anni per il mar Tirreno e la sua prigionia di sette anni presso Calipso. Ottiene quindi di essere ricondotto ad Itaca, sua patria, dove finalmente approda». Orbene, alla prima lettura di questa parte, una cosa fra tutte colpisce il lettore, ed è l’importanza grandissima che il poeta dà al piccolo popolo dei Feaci, importanza ben notata sotto il duplice aspetto: materiale e morale. Difatti, tolto il brevissimo preambolo del libro quinto, che necessariamente preparar doveva l’arrivo di Ulisse alle loro coste, e tolta del pari la non meno breve conclusione che segue alla sua partenza da Scheria nei XIII, tutto il resto si svolge in mezzo a loro. Essi a volte sono dati dal poeta come uditori dei racconti dell’eroe, più spesso da uditori divengono attori ed attori principali. La sorte del Laerziade, eversor di città, è nelle loro mani; da essi dipende la sua vita ed il suo ritorno in patria: in una parola si può bene affermare che il Nostos è il poema di Ulisse presso i Feaci. Ma il posto morale che essi occupano nell’animo dei poeta è molto più considerevole di quello materiale dai medesimi occupato in tutta l’opera. In verità i Feaci non costituiscono che un minuscolo popolo quale potevasi contenere nella loro minuscola e sola città: Scheria la deliziosa. Non per questo però rimpicciolisce la loro importanza agli occhi del poeta, che scorge in essi una razza superiore e si studia in mille modi di far lampeggiare questo suo sentimento. A sentirlo, i Feaci sono prossimi parenti degli Dei, illustri, irreprensibili, magnanimi, gloriosi in mare: le loro navi sono mirabili e 40 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 come stral veloci varcano il mar pescoso, in densa avvolte impenetrabil nube, né paura mai d’arrenare o d’affondar le coglie. (Masp.) Così fra ammirazione a getto continuo e lodi più o meno sincere ed iperboliche, il poeta seguita ad esaltare di quel popolo meraviglioso, il paese, i costumi, il reggimento, ogni cosa insomma. Dall’importanza cosi manifesta di questo popolo agli occhi di Omero, dall’atteggiamento che il poeta prende dinanzi ad esso, noi siamo indotti a credere, prima di qualsiasi esame, che questo popolo occupi un posto ben noto nella storia e che la sua città, di cui il poema fornisce sì minuto e preciso ragguaglio, si possa agevolmente identificare sulla carta geografica. Eppure, notate combinazione, questo popolo è perfettamente sconosciuto agli storici, come è perfettamente ignorata dai geografi la loro città. Di ambedue non esiste traccia alcuna: un ricordo ne sopravvive nell’aria: il paese, la vita e la storia di questo popolo è tutta e solo nel nostro poema. Questo bastò ai critici leggeri e superficiali per proclamare i Feaci un popolo non mai esistito e di pura immaginazione. Il Rieman, nel 1879, asseriva che «nessuno aveva mai sognato di prendere sul serio i racconti di Omero sui Feaci: solo ammettersi che marinai della jonia avessero potuto diffondere la notizia di un’isola, molto lontana, molto fertile e ridente, popolata di marinari impareggiabili, e questi racconti fossero trasformati dall’immaginazione popolare in una leggenda meravigliosa: in questo solo senso potersi far questione di Feaci e della loro isola fortunata ». Peggio ancora i fautori di miti ormai screditati, come il Velcher ed il Decharme, i quali sostennero il carattere mitico dei Feaci, fondandosi sulle genealogie riportate dall’Odissea, per dimostrare che «quegli esseri meravigliosi erano personificazioni del mare e dei suoi furori». Ma non era questo il pensamento dei Greci, i quali, convinti che i Feaci dovessero essere vestiti di carne e di ossa, e che i luoghi visitati da Ulisse dovessero essere i dintorni delle loro principali colonie italiane, vedevano in essi gli antichi abitanti dell’isola di Corcira, oggi Corfù; ipotesi che, nonostante qualche voce in contrario, come Eratostene, Aristarco e Didimo, fece fortuna nei tempi antichi. Anch’oggi, salvo qualche leggera modificazione, è stata rimessa in onore per opera di un altro scrittore anch’esso francese, il Bérard, il quale con un diligente studio dei raffronti topografici, ha preteso dimostrare che la terra dei Feaci è la più settentrionale delle isole Ionie, sulle coste Albanesi. Signori, con gran fede nel testo omerico e con ferma persuasione del suo valore documentario, Filippo Champault, entra a combattere le conclusioni di quella critica che presume fare dell’opera d’Omero un tessuto d’invenzioni fantastiche o mitologiche, e, scrollando la identificazione corfiotta del suo connazionale, dimostra che Scheda, la terra dei Feaci, non è immaginaria: è anzi veramente esistita e si identifica con la nostra ridente isola d’Ischia. Vediamo come. Tutte le avventure contenute nel Nostos hanno per teatro, secondo l’opinione più comune e meglio fondata, le coste d’Italia bagnate dal mar Tirreno e precisamente quelle che dalla Sicilia vanno a tutta l’Etruria, anzi più propriamente ancora il centro di questa. Che debba essere così, appare dal testo; poiché la tempesta del Capo Malè e la conseguente apparizione di Ulisse al paese dei Lotofagi, nell’ intendimento del poeta, hanno per fine assai riconoscibile di condurre l’eroe nel Tirreno per l’Ovest della Sicilia. E voi già avete intuito, che ove mai le localizzazioni fossero certe, si avrebbe, dal punto di vista delle ricerche del nostro autore, un fatto di considerevole importanza. Ne seguirebbe, invero, che il poeta ebbe delle ragioni tuttaffatto speciali per raccontare le leggende ed il passato meraviglioso di questa regione, in cui egli fa soggiornare il suo eroe così a lungo; e se cerchiamo d’indagarle queste ragioni, una se ne presenta subito alla nostra considerazio- ne come un’ipotesi non disprezzabile, cioè che i Feaei, i quali sono tanto a cuore al poeta, abitano appunto questa regione. Cotalché il Nostos, eccezion fatta del viaggio presso Calipso, nella sua interezza avrebbe per teatro e per obbietto un’unità geografica assai ristretta. La terra dei Feaci, alla quale il poeta consacra dei libri interi ed una serie di scene desunte dalla vita reale, sarebbe agli occhi dello stesso il punto più importante, il centro morale, se non forsanco il centro materiale di questa unità geografica; laddove le regioni cantate negli episodi, sarebbero le regioni circonvicine, di secondario interesse. Senonché il viaggio presso Calipso, che trasporta Ulisse lontano, molto in fuori del Tirreno, pare che spezzi questa unità geografica. Eppure non e cosi; questo viaggio stesso, giustamente esaminato, ne conduce perfettamente al centro del Tirreno. Infatti, secondo l’Odissea, Ulisse, nell’ ora che molte liti il giudice composte esce dal foro e a cena s’incammina, (Masp.) parte dal Nord di Cariddi e dopo nove giorni di navigazione, alla decima notte, arriva all’isola di Ogigia, ove è raccolto da Calipso, figliuola d’Atlante. I commentatori son tutti d’ accordo nell’ammettere che l’isola suddetta si debba ritrovare nei dintorni di Gibilterra. Ora la distanza che c’è dallo stretto di Messina a Gibilterra è considerevole, mentre il tempo che v’ impiega Ulisse evidentemente è molto corto. Questo doppio rilievo ci fa pensare che i nove giorni e le nove notti e mezza, indicati da Omero con tanta precisione, rappresentino secondo lui il tempo utile a raggiungere quel limite per la linea marittima più diretta. La quale linea marittima più diretta è un itinerario costiero quasi in linea retta, che, correndo parallelo alle spiagge della Sicilia settentrionale, raggiunga la costa africana verso 1’antica Cartagine e la persegua, senza perderla mai di vista, fino a Ceuta. Ora, se consultiamo il viaggio di circumnavigazione attribuito a Scjlax, troviamo che esso indica sette giorni e sette notti da Cartagine a Ceuta. Valutiamo il tempo necessario a correre, con la stessa velocità, lo spazio tra Messina ed il capo Bianco, deducendo il tragitto divenuto naturalmente inutile tra Cartagine ed il capo, e noi troviamo due giorni e due notti e mezza: sommando, avremo i nove giorni e le nove notti e mezza, indicati da Omero. Né meno matematicamente precise sono le cifre che questi ci dà del ritorno di Ulisse dall’Isola di Calipso alla terra dei Feaci. Difatti, nel libro quinto, Giove, mandando Mercurio alla ricciuta ninfa Calipso per comunicarle l’ordine di far partire l’eroe, dice: Non l’accompagni degli Eterni alcuno o dei mortali :ma su ferma zatta, da lui stesso allestita, il nero golfo ei solchi, e dopo venti dì pervenga alla fertile Scheria, ove soggiorno hanno i Feaci dagli Dei discesi. (Masp.) Prima di dimostrare 1’esattezza di questa cifra, è necessario premettere che la navigazione contemporanea di Scjlax ed a più forte ragione quella omerica, non potevano perdere di vista le coste. Cotalché per andare da Gibilterra in Grecia, gli antichi non avevano già quel numero indefinito di linee che hanno oggi i marinari moderni, Due sole vie erano aperte: o quella meridionale costeggiante l’Africa, ed è quella che in parte abbiam visto percorsa da Ulisse in andare, o quella settentrionale, che per le coste della Spagna, della Francia e dell’Italia raggiungesse la Grecia. Poteva il poeta fare che il suo eroe, ricalcando i passi, scegliesse la prima ma poteva benanco fargli preferire la seconda per trarne motivo d’apprenderci ch’egli conosceva non meno delle coste africane, le coste europee. Anzi il poeta sapientemente volle che cosi fosse. Difatti, Ulisse, sulla zattera da lui stesso costruita, parte da Calipso, avendo 1’Orsa sempre a sinistra, cioè ad Occidente, e dopo aver navigato felicemente 17 giorni e 17 notti, al mattino del 17° giorno, si vide innanzi coi primi raggi mattutini i foschi monti apparir della Feacia terra. Se non che il possente Nettuno, ritornando dalle genti etiopi, lo scorge già in vista della terra fatale dove è stabilito che debbano terminare i suoi mali; epperò, come per dargli un ultimo addio, gli suscita contro un’orribile tempesta, che lo travaglia per altri due giorni, finché, il mattino del terzo, può finalmente mettere piede a terra. Orbene, se mettiamo a riscontro l’itinerario di Ulisse col giro di navigazione riconosciuto a Scjlax, noi troviamo che per un viaggio lungo le coste della Spagna occorrono sette giorni e sette notti; per quello lungo le coste IberoLiguri fino al Rodano due giorni e una notte : due giorni e due notti per le Liguri: quattro giorni e quattro notti per le coste tirrene fino all’imboccatura del Tevere; un giorno e una notte fino a Terracina ed in ultimo con altri due giorni si tocca il golfo di Napoli. Tirando la somma, troviamo 18 giorni e 15 notti. Ma, notate, si tratta di giorni d’està, dappoiché non si naviga affatto d’inverno, e questi giorni sono presso a poco due volte più lunghi che le notti corrispondenti: ora i nostri tre giorni in più delle notti valgono dunque circa 48 ore, per cui abbiamo, con una soddisfacente approssimazione, 17 giorni e 17 notti. Aggiungete a questi gli altri tre giorni che la tempesta trattenne l’eroe in vicinanza delle coste senza fargli toccar terra, ed avrete appuntino i 20 giorni predetti da Giove. Come dunque è manifesto, l’itinerario che il poeta fa seguire al suo eroe, partendo dall’isola di Ogigia, si arresta proprio nel Golfo di Napoli, che è molto sensibilmente il centro del nostro bacino marittimo tra l’Elba e la Sicilia. Cotalché, o signori, la terra dei Feaci si deve per necessità trovare nel golfo di Napoli. Ma dove? sul continente o fra le isole? A prima vista, la risposta sembra un po’ difficile. Omero a proposito della terra dei Feaci adopera questa espressione a doppio senso: la terra dei Feaci. Intanto, se la terra dei Feaci è sulla costa occidentale d’Italia, conviene senza esitazione ricercarla in un’ isola. Ed ecco perché. Quando Ulisse, a cavalcioni sur una La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 41 trave della sua zattera spezzata, è gettato su queste rive, esso è ridotto allo stato di naufrago: secondo l’espressione consacrata è lo zimbello dei venti o, nella circostanza, di un vento solo, che gli ha inviato la sua protettrice Minerva. Questo vento scelto a posta per lui è Borea, che soffia da nord-est, e, l’Odissea lo dice chiaramente, soffia con violenza per 48 ore. Ulisse e la sua trave debbono per conseguenza seguire la direzione che loro imprime il vento. Ora, sopra le coste occidentali d’Italia, Borea allontana i resti del naufragio dal continente, ed è solo su di un’isola che si può trovare una costa orientata a Nord, come è evidente. Moltissime espressioni del testo sono interamente nel medesimo senso. Qua e là esso indica che gl’illustri navigatori di Alcinoo abitano lungi dagli uomini, ch’essi sono in mezzo ai flutti risonanti, che non hanno vicini e che nessuno può venire ad inquietarli. Tutto questo s’intende più verosimilmente di un’isola, ed anche meglio di un’isola poco lontana dal continente. Ma a quali segni riconosceremo noi quest’isola? Omero ce ne dà moltissimi. La terra dei Feaci è dapprima montagnosa. Il mattino del 17° giorno di navigazione, Ulisse, che durante la notte si è avvicinato a questa terra, la vede, ai primi bagliori antelucani, levarsi dinnanzi a sé coi suoi monti ombrosi. La terra dei Feaci inoltre è vulcanica. Difatti, i Feaci per aver ricondotto in patria Ulisse, incorrono l’ira di Posidone, il quale, sotto gli occhi della cittadinanza e del re, afferra con una mano la navicella già di ritorno da Itaca e la trasforma in uno scoglio profondamente abbarbicato nel sottosuolo marino, indi si allontana. Il fenomeno naturale che Omero descrive sotto forma poetica e misteriosa, colpisce di stupore i cittadini scherioti: è una emozione generale. Alcinoo accorre e grida: «Gran Dio! son dunque per realizzarsi le profezie di mio padre? Egli mi annunziava che Posidone, irritato contro di noi un giorno avrebbe fatto arrenare in mezzo ai flutti una delle nostre navi ed avrebbe coperta la città d’un’immensa montagna. Corriamo dunque a placare con sacrifizi l’ira 42 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 del nume»! I commentatori, a questo punto, si danno una gran pena a cercare nel mare uno scoglio che presenti più o meno la figura di un naviglio, e sulla terra una montagna che ingombri veramente l’orizzonte. Vane ricerche, poiché non era certamente questo il pensiero del poeta. Dapprima lo scoglio e la montagna che essi indicano, sarebbero esistiti in ogni tempo; per converso Omero in termini molto espliciti dichiara che la trasformazione della navicella in scoglio avviene al cospetto del popolo. Quanto a la montagna, è anche chiaro che essa non esiste ancora, tanto vero che i Feaci corrono a scongiurarne la formazione con preghiere e sacrifizi. Dippiù, per Alcinoo tra l’apparizione dello scoglio ed il disastro che teme, v’ha un legame stretto ed importante. Manifestamente nel suo pensiero il primo fenomeno, già spaventevole per se stesso, è foriero presso a poco certo d’un secondo fenomeno ben altrimenti temibile, cioè che quella eruzione sottomarina già incominciata od almeno annunziata dall’emersione di quell’isolotto vulcanico, può svilupparsi, aggravandosi, e costituire una seria minaccia per le abitazioni del suo popolo. Né faccia specie il veder posti i fenomeni vulcanici alla dipendenza di Nettuno, mentre per diritto spetterebbero a Plutone. Nettuno per Omero è il nume che scuote la terra (enosigeo) e la fa tremare: nel 20° libro dell’Iliade un altro passo dice questo stesso. Ancora: il Nostos ci dà un’altra indicazione non meno precisa sulla costituzione geologica del paese dei Feaci. Il nome che esso dà alla loro città, e forse per estensione a tutta l’isola, è « Scheria ». Questa parola non greca, ma semitica di origine, ha una radice che significa esser nero. La città dunque dei Feaci è la nera; ed ecco un colore nettamente vulcanico. Scheria dev’essere fondata sopra un masso di trachite, od almeno in una regione, ove la lava e le scorie sono a fior di terra. Ma v’ha di più: il terzo segno a cui dobbiamo riconoscere la terra in questione, secondo Omero, è che essa dev’essere assai grande per nutrire i suoi abitanti. Questa nota non è certa, ma la è probabilissima. Trasferendosi a Scheria, loro novo possedimento, come dice il poeta, i Feaci hanno voluto sottrarsi alla dipendenza ed al contatto dei popoli vicini, che erano loro nemici. Essi si vantano e si felicitano di non aver vicini e di essere al sicuro dagli uomini; il che induce a credere che essi non debbano negoziare con altri la loro sussistenza e che tutto ricavino dal suolo. Scheria dev’essere altresì famosa per la sua stragrande fecondità e per lo splendore del suo clima: dev’essere un paesaggio da idillio, pieno di freschezza e di mistero. Secondo il Nostos, essa è la fertile, la deliziosa. La descrizione che il poeta fa del giardino di Alcinoo, da cui tolse il Tasso le linee per il suo giardino di Armida sulle isole fortunate, ci mette innanzi agli occhi una vera arcadia chinese, tutta piccoli nascondigli e piccole sorprese, e ci dà una sufficiente idea della immensa ricchezza della sua vegetazione. Ecco dunque brevemente compendiati i segni, da cui dobbiamo riconoscere l’isola dei Feaci. Orbene, fra le isole del gruppo partenopeo (perché, giova ricordarlo, Scheria dev’essere nel golfo di Napoli a pochi chilometri dalla terraferma) fra le isole partenopee tre sono le principali, che meritino veramente tal nome: Ischia, Procida e Capri. — Capri evidentemente non è vulcanica, epperò non può convenire; Procida, che viene dopo, è certamente vulcanica, ma non è montagnosa, e d’altronde risponde male ad altre condizioni che pur si richieggono per la esatta identificazione del testo. Non rimane adunque, che Ischia, e qui la via all’identificazione è facile e piana. Ischia non è che un vulcano fiancheggiato da un certo numero di coni secondari: dovunque son crateri dalle vaste muraglie circolari, domi dalle cupole arrotondate, larghe correnti di lava e massi di trachite. Il suolo in più parti ha nero: nere le rocce delle montagne, neri altresì gli scogli e le sabbie delle spiagge. Fin dalla più remota antichità a tutto l’evo medio, è stata teatro di eruzioni spaventevoli; il suo suolo, continuamente interrotto dal mare e dai monti, come tutti i terreni vulcanici, è di una fertilità prodigiosa; è la più grande delle isole partenopee, dista pochi chilometri dalla terra ferma; insomma Ischia risponde mirabilmente a tutte le esigenze del testo. Signori, eppure, ve lo leggo sul viso, voi non siete soddisfatti ancora; vi mantiene perplessi e dubbiosi il pensiero che forse per mera combinazione del caso l’isola nostra riproduca la situazione geografica e tutti i caratteri e tratti generali della terra dei Feaci. Voi, per dare il vostro assenso, vorreste riscontrare nell’isola nostra, oltre ai tratti generali, tutti i particolari topografici attribuiti dal poeta a questa terra istessa. Ebbene Filippo Champault non ha trascurato di passare a rassegna tutte le più piccole indicazioni topografiche del testo per ricostruire qui ad Ischia lo stato antico dei luoghi. Seguiamolo nelle sue ardite ed ingegnose ricerche. La scena dell’approdo alla terra dei Feaci si svolge tutta nel 5° e 6° libro. Ulisse, il mattino del 17° giorno di navigazione dall’isola di Calipso, vede drizzarsi innanzi gli ombrosi monti della Feacia terra, quasi uno scudo in mezzo a l’oceàno; e dopo di essere stato travagliato per due giorni e due notti dalla tempesta scatenatagli contro di Nettuno, finalmente perviene ad un verde lido, cui spera di raggiungere nuotando con tutta forza. Ma come presso ne fu quanto d’un uom si sente il grido, un gran fragore udì lungo la riva; ed era il flutto che dagli irti scogli ripercosso muggia terribilmente, spargendo intorno le canute spume. Ivi porto non era o seno adatto a ricettar le navi, ma sporgenti scogliere e pietre. (Masp.) Corre serio pericolo di essere sfracellato contro queste da una terribile ondata, poi, sempre a nuoto, devia e giunge alla foce di un limpido fiume. Questo luogo riparato dai venti e senza scogli gli piace: vuole mettere finalmente piede a terra, ma si accorge che la corrente del fiume è grossa. Prega quindi il Dio del fiume che si mova a compassione di lui: è esaudito e dal fiume stesso è deposto salvo sulla riva. Per la stanchezza forse o forse per la gioia, se non per l’una e l’altra insieme, 1’eroe sviene; ma quando gli tornano i sensi e la lena, si prostra, bacia la terra, indi per timore che la brezza e la rugiada non rechino offesa alle sue membra affralite, s’avvia ad un bosco vicino, entra nel vano di due frondosi ulivi, insiem cresciuti e avviticchiati fra loro, e si addormenta sopra uno strame di foglie inaridite. Il giorno seguente, verso tardi, è svegliato da un grido femminile: esce fuori della macchia, si recinge di un frondoso ramo di ulivo e, tutto intriso di melma e ignudo, prende dalla parte donde il grido è venuto. Scorge ivi un gruppo di vispe giovanette, che al mirare quella stranissima figura di uomo, di qua di là per lo sporgente lido atterrite fuggir. (Masp.) Una di esse però, coraggiosa quanto bella, la gentile Nausicaa, il tipo più soave di fanciulla che vanti la poesia ellenica, aspetta l’eroe, attacca con lui discorso e, dopo averlo fatto lavare in un seno del fiume ed ungere il corpo di olio odoroso; dopo averlo donato di tunica e manto, lo invita a seguirla alla reggia del padre, discosta un bel tratto da quel sito. In effetto, riposte le biancherie già lavate al fiume ed asciugate sulla tersa biga, ed attaccati i cavalli, la fanciulla dalle bianche braccia vi monta e si fa seguire dall’eroe e dalle compagne, a patto che, finché andranno tra le macchie ed i campi, egli sarà in loro compagnia; ma giunti in vista della città così vicino ch’udir ne possa il grido, (Masp.) e propriamente al bosco dei pioppi sacro a Minerva, nel cui confine verdeggia un prato che bagna coi sui rivi argentea fonte, (Masp.) egli vi si dovrà arrestare e non salire insieme alla città, perché altrimenti ecciterebbero il malizioso motteggio dei concittadini. E l’eroe esegue fedelmente le prescrizioni della regale giovanetta, arriva al bosco dei pioppi, vi si ferma e, dato il tempo utile alla fan- ciulla di raggiungere la città, vi move anche lui ma inosservato, perché avvolto in una nube da Pallade Minerva, la quale gli cammina innanzi sotto le sembianze di una donna che porta giovanilmente un’urna sul capo. Attraversa le vie affollate di popolo, contempla il porto, le navi schierate, il foro, le sublimi vaste muraglie ed infine sale alla città di Alcinoo. Ciò posto, vediamo se il nostro scrittore riesce ad identificare in Ischia tutti questi particolari topografici di cui si fa cenno nel racconto omerico, che vi ho testé riassunto. Dapprima nel Nostos si dice che Ulisse, scendendo da Nord-Ovest, vede, il mattino del 17° giorno di navigazione, levarsi dinnanzi l’isola dei Feaci, che nella parte più vicina disegna ai suoi occhi come uno scudo al disopra del mare nebbioso. - Orbene, secondo un dotto autore che ha fatto uno studio profondo dei documenti archeologici contemporanei dell’Iliade e dell’Odissea, lo scudo più usato al tempo dei poemi presenta una forma ovale, fortemente convessa in fuori, e verso il suo centro porta una o più sporgenze dette Omphaloi. Se, dopo aver adagiato sur un piano uno scudo costruito secondo le predette indicazioni, lo si situa in modo da guardarlo di profilo, della superficie convessa non si potrà vedere che una sola metà, la quale termina, nella sua parte inferiore, con una silhouette disegnata orizzontalmente. Ora se voi vi trasportate nel mare d’Ischia, di fronte al Capo Zale, il quale, a Nord-Ovest dell’isola, presenta la sua larga faccia ai naviganti che, come Ulisse, discendono dal Lazio, si disegna precisamente quella massa rotonda e schiacciata molto della montagna principale, che corona la linea della scogliera. Due curve quasi simmetriche partono a destra ed a sinistra, a più centinaia di metri l’una dall’altra, e s’elevano lentamente verso un punto culminante quasi centrale. Esse si sono appena riunite ad un’altezza approssimativa di 100 metri, quando tornano ad elevarsi bruscamente in un cono definitivo di una decina di metri: questo cono è la guardiola di Zale. La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 43 Passato il largo del capo Zale, dopo la costa settentrionale della nostra isola, Ulisse lascia sulla sua destra successivamente Monte Vico e Lacco Ameno; e se il destino lo spinge verso l’imboccatura del fiume, è tra Lacco Ameno e detta imboccatura che trovar si deve la scogliera, dove fece il primo tentativo di prender terra e dove corse il rischio di esser sfracellato. V'ha, difatti, in quel luogo e propriamente nel declivio di Lédomada, una scogliera lunga un dugento metri, la quale, salvo in un punto, presenta dappertutto una muraglia a picco alta una ventina di metri e guarnita alla base di blocchi smottati, sui quali le onde si frangono in una nebbia bianca di spume. Essa è del tutto inabordabile e risponde benissimo alla descrizione omerica. Più difficoltosa potrebbe sembrare l'identificazione del fiume, sulla cui riva avviene l’incontro con Nausicaa, mancando evidentemente l’isola nostra di un corso d’acqua, cui possa competere un tal nome. Ma giova far notare che nella lingua omerica ed anche nella lingua greca di tutti i tempi, con la parola fiume si vuol indicare tutt’altra cosa che noi popoli occitanici indichiamo con essa. Il più piccolo ruscelletto che si scarichi al mare, risponde sufficientemente al vocabolo greco potamòs. Posto ciò nell’isola nostra, sur una costa orientata a Nord e ad una distanza di 6 chilometri circa dal castello, v’è un corso di acqua che risponde molto bene alle nostre due condizioni essenziali, ed è la Lava che, scendendo dall’Epomeo, va a gettarsi a mare in un punto quasi centrale tra Perrone e Pozzo. È vero che presentemente questo corso di Lava è molto povero di acqua e potrebbe sembrare una cosa addirittura irrisoria; ma convien ricordare che la sua sorgente principale di Buceto, verso la fine del 500, fu in parte deviata per alimentare la città d’Ischia, e che ad altre quattro sorgenti, provenienti dalla stessa regione, toccò alla loro volta la sorte istessa, un venti anni fa, per provvedere ai bisogni di Casamicciola. Restituite col pensiero alla Lava attuale le acque perdute e che un tempo mettevano in movimento un mulino; 44 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 riconducetela nel suo letto antico senza trasformarla in fogna coperta nel suo corso inferiore e senza biforcarne l’imboccatura negli edifizii del Monte della Misericordia e dell’Orfanotrofio; restituite alle sue rive le fresche ombre e le verzure, e voi avrete un bel fiumicello corrispondente alle esigenze molto limitate del testo. Né meno consona a queste è la identificazione del bosco dei pioppi sacri a Minerva, nel cui confine è un prato irrigato dall’acqua di una fontana. Difatti, da Casamicciola ad Ischia oggi v’ha meno di 6 chilometri di distanza : ma ai tempi di Nausicaa la via doveva essere molto più breve: le lave dell’Arso e i contrafforti del Montagnone, del Rotaro e del Tabor, che vi si sono formati dopo, non esistevano ancora per imporre alla via dei Feaci tante sinuosità. Comunque sia, certo è che sulla strada che da Casamicciola per Bagno conduce al castello, a 700 metri da questo, incontriamo l’acqua Pontano, così detta dal famoso poeta e letterato quattrocentesco che vi aveva una casa di campagna. Siccome lo spazio intermedio è occupato in gran parte dal mare che trasmette mirabilmente i suoni, è facile farsi sentire di là fino al castello: epperò nulla impedisce di supporre che in quelle circostanze appunto si trovassero il bosco di pioppi ed i poderi del re di cui nell’Odissea. Ma, notate, quest’acqua ormai riconosciuta salutare e di gran valore curativo, allora non doveva essere utilizzata dalla cittadinanza per gli usi domestici: perché, se cosi non fosse, la fontana sarebbe stata frequentata e per conseguenza sarebbe non consentaneo al fine il consiglio di Nausicaa all’eroe, quando gli raccomandava di fermarsi a quella fontana perché rimanesse inosservato. Se non che il poeta ci parla di una fanciulla che sale alla città con sul capo un’urna piena di acqua: questo fatto da una parte ci fa sapere che il Castello difetta di acqua, ci mette dall’altra nella necessità di trovare nei dintorni medesimi un’altra fontana più utilizzabile. Orbene, la riva dell’isola, nella parte vicina al ponte d’imbarco, offre l’acqua quasi a fior di terra, ed il De Rivaz nota in particolare una fontana che il mare invase proprio al suo tempo e che aveva servito ai bisogni del castello in tutto il medio evo. Signori, arrivato a questo punto, io ardisco domandarvi: non vi pare che la cosa presenti tutti i caratteri di una grandissima probabilità? E se lo Champault riesce ad identificare l’ultima parte della sua tesi, la Scheria cioè dei Feaci e suoi dintorni col castello nostro e coi dintorni dello stesso, persisterete voi a non partecipare la sua fiducia? Ebbene; quest’ultima identificazione, benché alquanto più spinosa, non manca, né è meno felice delle altre. Il passo del Nostos che tocca della Scheria dei Feaci è il seguente, tradotto a parole: «noi ascendiamo alla città cui circonda un’alta muraglia: ai due lati si apre un bel porto con una entrata stretta: vi si fa penetrare le navi con precauzione e tutte vi trovano sicuro asilo. E là, ed intorno al bell'altare di Posidone, che si spazia l’agorà, lastricata di enormi blocchi saldamente messi - come pure è là che si riparano gli attrezzi dei neri navigli, le gomene, i cordami, ed è là che si fabbricano i remi» - Il testo, come si vede, non è molto preciso, anzi, specie nella prima parte, si presta ad interpretazioni varie; ma, tenuto conto che i Fenici avevano in orrore le rade a gola e che preferivano gl’istmi, i quali offrivano una marina a destra ed un’altra a sinistra con due orientazioni opposte, possiamo precisarlo cosi: «noi ascendiamo alla città situata sur un promontorio peninsulare che si distacca nettamente dalla linea generale della riviera: questo promontorio è legato alla costa da un istmo stretto: i porti sono tra la città ed il continente a sinistra ed a destra dell’istmo». Come è chiaro, padrone della situazione è qui l’istmo, quell’istmo che or son tre mila, anni era là, mentre oggi è scomparso a causa di un lento ma considerevole abbassamento di suolo. E che questa asserzione sia dalla, parte del vero, non è, credo, chi lo metta in dubbio, se la moderna geologia ha dimostrato un lento ma generale abbassamento di tutto il suolo italico, eccezion fatta per la Sardegna, la Sicilia ed il promontorio Calabro. Prove indiscutibili di questo bradisismo tellurico in Italia si hanno sul fianco nord dell’Argentaro, tra Civitavecchia e Santa Severa, a Roma, a Ostia e Fiumicino, al capo Circeo, a Capri, Pozzuoli e ad Ischia stessa. All’est della cittadina di Casamicciola, e propriamente di fronte al nuovo edifizio del Monte della Misericordia, si veggono tuttora, a livello del mare o poco al disopra di esso, delle muraglie che si elevano dal bassofondo ed appartengono certamente ad un edifizio sommerso. Né mancano scienziati di valore riconosciuto, i quali appoggino di loro autorevole opinione l’esistenza dell’istmo tra il castello e l’isola. Il professore Issel dell’Università di Napoli cosi scriveva allo Champault: «Secondo tutte le verosimiglianze, la rocca del castello, secoli fa, era unita all’isola a mezzo di un istmo naturale, sparito in seguito sotto l’azione d’una sommersione, lenta». — «Noi abbiamo ogni ragione di credere, scrive un altro illustre geologo, che, mille anni prima dell’era cristiana, l’istmo naturale era al di fuori delle acque. Questo risultato si avrebbe, se noi sollevassimo Ischia al livello che occupava dapprima il pavimento inferiore del tempio di Serapide a Pozzuoli. L’istmo una volta sommerso, ha dovuto essere attivamente corroso dalle correnti marine». Dopo di che, o Signori, noi potremmo ancora questionare sul suo modo di formazione, se cioè sia dovuto ad importazioni delle onde provenienti da nord e da sud, e che vi costrussero una diga con le sabbie che deposero nella zona comune ove si neutralizzavano i loro sforzi: ovvero sia stato la risultanza della erosione di una zona di terra preesistente ed anticamente assai larga; ma questionare sulla sua esistenza non è più lecito, dopo sì autorevoli pareri e dopo la constatazione dell’abbassamento del suolo isolano e della poca profondità del braccio di mare che lo ricopre. Se, dunque, l’istmo è esistito, noi per ricostruire la rada che ai tempi omerici circondava il castello, non dobbiamo fare altro che richiamarlo a galla con la nostra immaginazione: con questa stessa spazzare via la gittata di scogli su cui fu costruita la strada attuale, ed allora la topografia del Nostos rivivrà innanzi ai nostri occhi. Vedremo dapprima la linea sinuosa delle case che, dopo alquanti secoli, delimita la città odierna sulla riva dell’isola principale, allontanarsi di una certa distanza dal mare e lasciare dinanzi a sé lo spazio necessario per ricostruirvi la marina tradizionale delle piccole città italiane: vedremo l’istmo, largo dalla parte dell’isola, avanzarsi, restringendosi in punta, verso il castello, saldarvisi con essa e per essa dare accesso al medesimo: per conseguenza vedremo il doppio porto, disegnato dall’istmo e dallo stesso rifatto sul mare, aprirsi al nostro sguardo, tal quale ce lo hanno indicato il testo e le analogie storiche. Rivedremo altresì a destra ed a sinistra in doppia fila le navi tirate a secco: dietro di esse il luogo dove si facevano le riparazioni, ove si curavano gli attrezzi e si fabbricavano i remi: dirimpetto alla strada che viene dalla città, vedremo risorto l’altare a Posidone, circondato dall’Agorà, piazza lastricata con dei sedili di pietra per i maggiorenti. Dietro si aprirà il luogo destinato ai giuochi pubblici, e poi, senza dubbio, alcune costruzioni, embrione del sobborgo medioevale. Ed ecco ricostruito il porto; ma e la città? — Situata sul Negrone, la città feacia era la città a cui conveniva salire, la città alta del testo. La roccia, ond’essa aveva incoronata la cresta, era già naturalmente a picco; ma fu solo nel 1440 che la cinta di difesa, costruita da Alfonso d’Aragona, la rese inaccessibile. In quel torno, questo principe scavò nelle visceri della roccia un tunnel in pendio, per cui oggi si accede alla fortezza, e contemporaneamente, come affermano di molte testimonianze storiche, egli distrusse la via antica che vi si inerpicava all’aria aperta. Laonde a noi ora torna assolutamente impossibile determinarne le tracce, come del pari impossibile è il precisare di che natura si fosse, se cioè, solamente mulattiera od anche carrozzabile, e se realmente il carro di Nausica l’ascenda o non si debba piuttosto ritenere quell’ascensione come una libertà che il poeta si pren- de con la topografia per una esagerata deferenza agl’ingegnosi Feaci. Certo è pero che la piattaforma del Castello risponde assai bene alle esigenze del testo. Il suo colorito è nero, onde a ragione fu detto il gran nero, il Negrone, dappoiché la parola, «Ischia» radicalmente vuol dire: «isola della rocca nera». Presenta una superficie di 8 ettari ed intorno alla sua cattedrale ed alle altre chiese più piccole, albergava nel medio evo ben 182 famiglie, 8000 anime circa, come si ricava dai papiri pubblici di quell’epoca. Poteva quindi ai tempi di Omero, contenere la città dei Feaci, di certo meno considerevole. Vero è però che noi sul castello non troviamo, nei pressi del palazzo di Alcinoo, le due fontane del testo, di cui una serve ad innaffiare il giardino del re, l’altra per fornire di acqua gli abitanti. Ma evidentemente Omero, che vede tutto con occhio di poeta, dovette trasformare in sorgenti d’acqua viva quelli che erano dei semplici serbatoi, se pure questa trasformazione non si debba attribuire all’opera dei commentatori; perché la parola del testo si accomoda a significare anche bacino o serbatoio d’acqua. In ogni caso, queste pretese fontane dovevano essere, ed è il poeta che lo dice, di minima importanza per gli abitanti, se i vicini stessi di Alcinoo vanno ad attingere l’acqua fuori di città, alle sorgenti dell’isola principale. Signori, senza procedere più oltre a discutervi altri particolari di secondaria importanza, noi possiamo anche qui convenire col nostro scrittore che il castello ai tempi d’Omero aveva tutti i caratteri dallo stesso attribuiti alla Scheria dei Feaci. Così io dovrei por fine senz’altro al mio lavoro; ma non posso, senza rispondere ad una difficoltà, la quale potrebbe mandare per aria il castello di carta pesta della fatta dimostrazione, e senza aggiungere qualche cenno storico sulla origine e sulla costituzione di questi gloriosi Feaci. Esaminiamo quindi prima brevemente la difficoltà. Omero nel Nostos afferma che Scheria non è separata da Itaca che La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 45 di alcune ore di navigazione, ed Itaca, come tutti sanno, è sulle coste della Grecia, cotalché Scheria non può trovarsi nel mar Tirreno. Difatti, ecco il passo omerico donde emerge la suddetta difficoltà: «Verso la fine del giorno dell’addio passato in festini, Ulisse vede cadere con gioia il sole. Egli rivolge i suoi ringraziamenti e i suoi voti ai Feaci e ad Alcinoo. Si fa una libazione solenne. Dopo un ultimo complimento alla regina, il nostro eroe si accommiata. Si discende al porto: s’imbarcano le provvigioni e gli ultimi doni. I marinai seggono in ordine ai loro banchi e sciolgono i ritegni. Si parte finalmente. Ulisse si addormenta subito d’un sonno profondo. In questa stessa notte, al levarsi della stella più lucente, quella che annunzia l’aurora, la nave già tocca l’isola d’Itaca. Ulisse, sempre addormentato, è deposto a, terra prima della levata del sole». Signori, questa difficoltà è mossa dai sostenitori dell’ipotesi tradizionale che Scheria sia l’isola di Corfù. Questa ipotesi è oggi insostenibile per varie ragioni: prima perché la costa Ermones, dove si fa avvenire l’approdo di Ulisse, è orientata ad occidente, mentre come abbiamo dimostrato, la dev’essere a NordEst, dovendo 1’eroe seguire la direzione di Borea: poi perché Corfù è bensì montagnosa, ma non è punto vulcanica e tanto meno è nera, come pure essa per la vicinanza con i popoli barbari e feroci dell’Albania, non poteva offrire quella sicurezza che i Feaci si compiacciono di avervi trovata. Ma Corfù si presta evidentemente meglio che Ischia a spiegare il fatto della distanza, per essere quasi vicina ad Itaca, ed ecco perché i critici corrotti cercano di confortarne la loro tesi vacillante. Se non che a costoro potremmo rispondere che la loro difficoltà, più che confortare, smantella anzi sempre più la loro tesi. Difatti, se Scheria s’identificasse con Corfù, non si saprebbe spiegare come un vascello omerico potesse percorrere i 170 chilometri da Corfù ad Itaca in una notte sola, d’està o d’autunno per giunta, cioè in 8 o 9 ore al più ! Un calcolo fatto su questa base ci condurrebbe ad un minimum di 450 chilometri in 24 ore, laddove la velocità media della navigazione antica non ol46 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 trepassava i 150. Ma Omero ci premunisce lui stesso contro questa difficoltà; egli ci dice, infatti, e ci ripete più volte che, allorché si tratta di navigazione feace, la parola distanza perde il suo significato ordinario: per i vascelli feaci le distanze non contano: sono come se non esistessero. Sentite quel che dice Alcinoo, rispondendo ad Ulisse: «Sulla nave che io ti darò, tu arriverai alla tua patria e dovunque ti piacerà andare, anche al di là dell’Eubea. Quelli del nostro popolo che l’hanno visitata, dicono che essa è moltissimo lontana, eppure essi vi sono andati e ritornati facilmente nello stesso giorno». Come vedete, da Scheria all’Eubea, andata e ritorno in una giornata, questo importerebbe, sia detto con modestia, 1800 chilometri solo nel mare della Grecia senza tener conto della distanza dalla Grecia a Scheria! — In un altro passo, Alcinoo dice: «Esse ti ricondurranno in patria le mie navi intelligenti! Perché non hanno piloti uè timoni come le altre; ma hanno lo spirito ed il pensiero degli uomini, e conoscono tutte le città e tutte le terre. Attraversano rapidamente l’abisso del mare, circonfuse di nebbia!» Signori, non siamo innanzi a navi incantate, a vascelli magici? Non siamo dinanzi a creature di quella meravigliosa arte corbellatrice degli antichi? No. Alcinoo ha delle ragioni speciali per farci di simili racconti. All’epoca in cui Omero colloca il suo eroe, la via di Scheria è ancora un mistero severamente custodito. Si verificava presso i Feaci quello che si è verificato in tutti i tempi presso i navigatori che hanno fondate delle stazioni in paesi nuovi; nascondevano cioè, gelosamente, spesso anche ferocemente, il loro itinerario per conservarne il monopolio commerciale. È una delle leggi storico-sociali di questa specie di trasporti marittimi: né scarseggia di esempi in tempi relativamente recenti. Le rivalità delle repubbliche italiane nel medio evo, che si disputavano il commercio dell’Europa meridionale: la lega monopolizzatrice del Nord detta Hanseatica e le guerre che ne derivarono: le gelosie commerciali dei Portoghesi e degli Olandesi per l’Insulinde, che altro sono se non una riproduzione di questa legge? Ma chi sono i Feaci? donde vengono? che cercano dalle nostre parti ? — Signori, a compimento delle cose fin qui dette, permettete che io dia una brevis- sima risposta a queste tre domande, ed avrò finito. I Feaci sono un rampollo di quel popolo forte che, per la sua immensa attività, dall’ angusta sua culla alle falde del Libano e dell’Antilibano, seppe distendere le sue propaggini coloniali su tutte le coste del Mediterraneo e farsi maestro di civiltà al mondo con la diffusione del suo alfabeto. Io parlo di quel glorioso popolo di mercanti che furono i Fenici. Sappiamo dalla storia che la prima colonia che essi fondarono fu quella di Tebe, rappresentata dall’eroe leggendario Cadmo, la quale seppe ben presto conquistare nella Grecia un’importanza commerciale e politica tra grandi e farsi centro di altre colonie che rapidamente rampollarono intorno al suo giovine tronco, quali furono Calcide ed Eretria. Molti secoli prima della guerra di Troia, Tebe già aveva relazioni commerciali con tutto l’arcipelago greco specialmente con le isole di Lemno, Delo ed Egina. Poi, o sola o con la sua alleata Eretria, fondò degli stabilimenti che in prosieguo divennero molto numerosi, nella penisola settentrionale, la Calcidica, ove 1’attiravano le miniere di rame ed anche d’argento. Contemporaneamente le sue vicine attraversavano di comune accordo l’istmo della Beozia e si dirigevano ad Ovest, discendendo il golfo di Corinto. Caminin facendo, stabiliscono sulla costa meridionale dell’Egeo, e precisamente sulla costa etolica, un’altra Calcide figlia della città eubea omonima. Di poi si avanzano sulle isole seminate innanzi a quel golfo e lungo la costa settentrionale, donde allacciano relazioni commerciali con la penisola italica. Numerosissimi furono gli stabilimenti tebano-fenici in questa regione: uno dei più antichi fu quello dei Messapii, che dette poi il nome alla Messapia italiana, e che il Pais riguarda come non solamente venuto dalle coste greche, ma dalle regioni tebano-eubee. In tempi un po’ più. vicini a noi, leggende storiche attestano stabilimenti di origine lebana anche nel golfo di Taranto: fra questi, principali furono: Metaponto, la Tebe lucana dei vecchi autori secondo lo stesso Pais, ed, a fianco a questo, Taranto, il cui eponimo fu forse originario delle coste della Beozia, dirimpetto alla punta Nord dell’Eubea. Diligentissimi nell’evitare i passi difficili e nel ridurre la navigazione al minimum, questi commercianti si servivano senza dubbio assai poco dello stretto di Messina, specialmente sul cominciare delle loro peragrazioni ; più volentieri si avvalevano di vie terrestri per trasferirsi da una in un’ altra regione. Ora. dinnanzi ai loro primi stabilimenti fondati, come abbiam detto, nel golfo di Taranto, si apriva una strada naturale che, risalendo la vallata del Bradano o quella del Basento, a Potenza passava nel bacino del Sele, e per Salerno, Nocera e Napoli toccava il centro del Tirreno presso Cuma. Niente di più facile quindi che questa colonia di Fenici ellenizzati del golfo di Taranto, seguendo la strada suddetta, siasi venuta a stabilire a Cuma. Più tardi, ai tempi di Nausitoo, padre di Alcinoo, una rottura definitiva coi giganti, cioè cogli Enotrii della regione di Napoli, venne a tagliare la strada di terra nella sua parte Nord, e privò la città delle sue comunicazioni con l’oriente. La strada dovette però raggiungere il mare più giù delle montagne che chiudono il golfo di Napoli, per conseguenza più in là di Salerno, cioè a mezzodì dell’imboccatura del Sele, arrivando cosi a portata di Licosa, unico isolotto costiero. Nel tempo stesso Nausitoo si vide costretto ad abbandonare Cuma e trasferirsi ad Ischia, dove egli si orientò verso le provenienze marittime di Licosa. Eccovi come si spiega il fatto che i Feaci, secondo il Nostos, vengono da Cuma, e l’altro che essi si stabilirono sul castello a preferenza di ogni altro punto dell’ isola Questa trasmigrazione, per chi avesse vaghezza di saperlo, avvenne una generazione prima della guerra di Troia, cioè verso la fine del secolo XIII. - Ma che volevano essi da noi ? Erano forse quei nostri antichi progenitori così barbari ed incolti, da dovere attendere da essi i beneficii della civiltà? Tutt’altro: l’evoluzione successiva etrusca e romana induce a credere che, all’arrivo dei Feaci, l’Italia centrale fosse già formata alla cultura. Ciò non toglie però che essa fosse presso a poco vergine dal punto di vista delle relazioni straniere da una parte, delle fabbriche e delle arti meccaniche dall’altra. Sotto questo rispetto essa era di molti secoli indietro alla Grecia. In ciò che concerne i prodotti fabbri- cati, la, sua capacità di assorbimento era in ragione diretta del suo sviluppo culturale ed urbano. I paesi nuovi non attirano certo il commercio che a condizione di offrire ai civili delle materie prime di gran valore, donde promanino grossi guadagni. I diamanti delle Indie, le perle di Golgonda, l’oro degli Atzechi o degli Incas, ecco l’ideale: in mancanza di questo, le specie delle regioni tropicali, l'avorio d’ Africa, i cautchoues del Brasile, i profumi dell’ Arabia e del Giappone, l'ambra del Baltico, le pellicce del Canada, ecco gli elementi preziosi e meravigliosi per il commercio contemporaneo. Tutto questo si trova a buon mercato nei paesi nuovi, e poi si rivende nei civili con vantaggi rilevanti. Ma il mar Tirreno non offre niente di simile: che cercano dunque i Fenici nel nostro mare? Chiedono alle nostre ridenti contrade mercanzie allora preziosissime a cagione della loro rarità e soprattutto indispensabili ai fabbricanti della madre patria ed a tutta la loro clientela d’Oriente: quelle stesse che i loro compatriotti avevano dapprima domandate all’Asia ed al mar Egeo, alla Tunisia ed all’Algeria: quelle che li avevano costretti a scandagliare i fiumi del mar Nero ed i recessi dell’ Adriatico, e che in seguito li menarono in Sicilia, nella Sardegna, a Marsiglia e nell’Atlantico fino alle Cassiteridi: io intendo dei minerali di diverse specie, principalmente lo stagno, il piombo, lo zinco, fors’anco il ferro, ed a volte prodotti naturali più stimabili ancora, come l'ambra e la porpora. Tale era il commercio che questo popolo attivissimo esercitava presso di noi, fra mille cautele per evitare straniere concorrenze, e che era fonte inesausta per esso di agi e di ricchezze. Strabone tocca in più d’un punto della fortuna rapida dei primi coloni greci d’Ischia a causa del loro traffico di metalli. Quando, in seguito all’invasione dei Dori nel Peloponneso, si ebbe a verificare la crisi metallurgica in Grecia, una colonia di Greci, venuti dalla Calcide e simboleggiati nel Nostos da Ulisse, si stanziò in Ischia ove, secondo la vecchia tradizione sarebbe stata chiamata od almeno accolta amichevolmente dai Feaci, per la loro valentia metallurgica; della quale immigrazione od alleanza degli Eubei coi nostri Feaci , è per molti capi testimonio il poema istesso, sorto appunto nel seno di quella Società per opera di un poeta venuto in- sieme ai coloni Eubei, e composto proprio sotto il nostro bel cielo, al sorriso influito delle onde tirrene. Queste sono le conclusioni a cui, nel suo poderoso lavoro, viene lo Champault: conclusioni che, singolarmente considerate, potranno forse non meritare tutta la fiducia dei critici; ma che nel loro insieme sono di tanta speciosità ed evidenza da non potersi giustificare in alcun modo un assoluto scetticismo. A quanti isolani poi amino davvero la piccola patria loro e ne desiderino magnificate le origini, non potrà non arridere il sogno dello scrittore e critico francese, il quale intese ogni sua forza intellettiva a fare del Nostos l’anima d’Ischia nella storia, l’anima d’Ischia nell’eternità della vita. Qual legittimo orgoglio, qual gloria per noi poter dire: siamo tardi ma genuini rampolli e portiamo nel sangue la maschia gagliardia di quel popolo forte che fu cantato dalla gigantesca fantasia del primo pittor id le memorie antiche?! Sì d’oggi innanzi, noi leggeremo il Nostos come il poema nostro: voi vecchi riconoscerete nei venerandi padri dei Feaci i vostri prototipi: noi giovani riabbracceremo nei giovani feaci i nostri antichissimi fratelli: voi giovanette bacerete in Nausicaa una soavissima antica vostra sorella. Tutti insieme ci sforzeremo, con la semplicità dei nostri costumi, con la fecondità e bontà delle nostre azioni, di perpetuare le gloriose tradizioni dell’isola nostra, memori che il passato è un peso incommodo e rincrescioso, quando il presente non si sente capace di continuarlo preparando l’avvenire. * La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 47 Rassegna STAMPA Gazzetta Azzurra Genova, giornale del turismo, anno VI, 13 gennaio 1928) ll problema turistico nella Campania e le comunicazioni con le isole del Golfo Il «Giornale d’Italia», prendendo lo spunto da una nostra pubblicazione, pubblica il seguente articolo di Libero Lo Sardo sul problema turistico nella Campania: Tutti si occupano di Napoli, delle sue bellezze, dei dintorni divini, dell’opera formidabile che vi compie il Regime, attraverso una serie di lavori pubblici che hanno trasformato il volto della città, niuno però considera la necessità di valorizzare appieno questo nostro paese sotto il punto di vista turistico. Il problema è stato altra volta da noi sfiorato, allorché prospettavamo la opportunità di organizzare un programma di attrazioni che fosse valso a trasformare Napoli da stazione di transito pei forestieri in città di svernamento, come taluni centri della Riviera Ligure, ove albergatori ed autorità comunali sono in continua gara per rendere agli stranieri più gradito il soggiorno. Qui tutto tace, niuno si occupa dell’industria turistica, che pur renderebbe alla città, al Comune, fior di quattrini, mentre d’altra parte il Governo Nazionale tende in uno sforzo costante al miglioramento dei servizi marittimi e ferroviari, alla costruzione di nuove, rapide vie di comunicazione, l’autostrada NapoliPompei insegni. Assai di recente, in «Gazzetta Azzurra» che si occupa con passione del problema turistico in Italia, ecco quanto a proposito della nostra città si scrive: «Napoli, la città dei sogni, dei canti, del sole, degl’innamorati del bel48 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 lo, è da secoli la meta dei forestieri. Arricchita ora dalle nuove poderose opere del Regime: la Litoranea, la Direttissima, ecc. richiama con i suoi dintorni meravigliosi frotte numerose e cosmopolite di personalità e di turisti. Intenso è dunque il movimento dei forestieri e degli italiani, facilitato il primo dalle comode e sempre più rapide comunicazioni transoceaniche, determinato il secondo dall’affetto e dall’ammirazione, sempre crescente, che tutti i nostri connazionali nutrono per questa nostra bella e prosperosa terra, che delle bellezze italiane è sempre stata ed ora più che mai è la regina dominatrice ed incantatrice. Ma i forestieri che scendono nel porto di Napoli rimangono in città e nei dintorni il tempo veramente necessario ed indispensabile per visitare tutte le sue bellezze? Non possiamo affermarlo. A Napoli e negli altri importantissimi centri turistici del Mezzogiorno d’Italia si continua a fare dell’escursionismo e non del vero e proprio turismo. I forestieri che scendono a Napoli visitano con grande rapidità la città, fanno qualche breve ed affrettatissima escursione nei dintorni partendo al mattino e ritornando la sera. Dopo tre o quattro giorni al massimo ripartono alla volta di altre città comprese nei loro itinerari di viaggio». Osservazioni perfettamente vere, e di cui i nostri albergatori si rendono conto, ma nulla vale a rimuovere tale stato di cose che si risolve in un danno per la città. In questo inverno una quarantina di grandi navi approderanno nel nostro porto, trasformato dall’opera dell’ammiraglio Solari in uno dei più belli e disciplinati del Mediterraneo; a bordo di essi circa 40 mila turisti, ma quanti sosteranno in città per alcuni giorni o per svernarvi? Pochissimi, di sicuro, poiché la stragrande maggioranza permarrà, nel breve periodo di sosta, a bordo dei transatlantici con cui giungeranno dall’America o dalla nebbiosa e gelida Inghilterra. Le prime due navi non turistiche venute a Napoli, sono state il Carinthia e l’Empress of Australia. Permanenza in porto 36 o 48 ore, rapida escursione al Vesuvio, Pompei, Capri, quindi partenza per Atene ed Alessandria d’Egitto. Hanno cioè guadagnato due sole categorie di lavoratori, guide e noleggiatori di auto. Ora tutto ciò costituisce un andazzo deplorevole e che non può continuare, senza creare danno alla città ed alla nazione tutta. Alla inerzia degli enti locali, si contrappone la fervida opera del Governo, in tutti i campi. Napoli, come dicevamo, acquista un aspetto sempre più malioso, essa può raffrontarsi ad una bellissima donna in ancor più seducenti toilettes; la Litoranea da via Cesareo Console alla Rotonda di Posillipo, costituisce il più superbo lungomare del mondo. Montagna spaccata sarà tra breve congiunta al Capo da un ponte monumentale; la grande via dei Campi Flegrei sarà posta in completo riassetto; l’autostrada con Pompei ci congiungerà in 20 minuti alla città morta, che indubbiamente costituisce una delle attrattive maggiori in tutto il mondo; gli scavi di Ercolano rappresentano uno dei posti di maggiore interesse, per il forestiero; la strada per Amalfi e Vietri è stata completamente riattata; a Capri si costruisce il porto, così pure a Massalubrense; Ischia si va man mano mettendo a posto, mercé l’opera attivissima del Podestà e dei Fasci. Tutto un rifiorire di attività, un fervore di opere che serve sempre meglio a mettere in valore questa nostra regione, così ricca di attrattive, di vestigia della latinità, ubertosa, ridente, in una perenne primavera, circonfusa da un barbaglio di luci, di sole che altrove è difficile trovare. Uno dei problemi che sembrava insolubile era fra l’altro la rapida comunicazione tra Napoli e le isole del golfo; questione lunga, annosa, che per lo passato era stata costantemente dibattuta, senza mai giungere ad una pratica soluzione. Problema di duplice aspetto, in quanto che investiva gl’interessi locali e quelli del turismo. Una delle maggiori difficoltà era costituita dal- la mancanza di approdi sicuri, specialmente ad Ischia, ove il piroscafo era costretto, in base ad un erroneo concetto, a rimanersene all’ancora in mare aperto. Di recente la questione degli approdi verso l’Isola d’Ischia è stato risoluto in pieno, poiché nella stagione invernale i postali faranno scalo direttamente a Porto d’Ischia, il grazioso rifugio naturale fatto costruire dai Borboni, tra il verde delle campagne ubertose. Da Porto d’ Ischia si dirama, per tutti i centri dell’Isola, un rapido servizio automobilistico, cosa che metterà in grado i forestieri di visitarne la parte meno conosciuta, cioè la parte occidentale così caratteristica e ricca di paesaggi A ciò occorre aggiungere che la Società Partenopea di Navigazione ha acquistato in Inghilterra un ottimo piroscafo da 500 tonnellate, con 15 miglia di velocità; questa nave, che giungerà fra alcuni giorni a Napoli, sarà adibita alla linea di lusso Napoli-Capri. Il Ministero delle Comunicazioni ha poi approvato di recente la modifica alla Convenzione pei servizi sovvenzionati nel Golfo di Napoli, sicché la società esercente sarà in grado di affrettare la costruzione di navi celeri da 250 tonnellate, che faranno servizio diretto tra Napoli e tutti gli scali della Penisola Sorrentina, impiegando nel percorso poco più di un’ora. Capri ed Ischia avranno nuove comunicazioni rapide con la nostra città. La prima isola, centro turistico di mondiale importanza, oltre alla linea diretta di lusso avrà due altre comunicazioni con toccata a Sorrento. Per Ischia, con la primavera sarà istituita un servizio diretto, ed una seconda linea con scalo a Procida. Le più vecchie unità della Partenopea, quali il Gaiola ed il Corriere di Salerno, saranno finalmente radiate e la Compagnia assuntrice dei servizi del golfo fra qualche anno, con le nuove unità celeri, coi piroscafi attualmente esistenti ed utilizzabili potrà pienamente rispondere alle esigenze turistiche e locali, ai servizi con la penisola sorrentina, con Amalfi e le isole partenopee, contribuendo alla loro piena valorizzazione (Franco Luigi). Archeo - attualità del passato Monografie n. 2/1996 Pitecusa (…) … Sull’attuale golfo di Napoli era stata fondata dai Cumani la città di Partenope, nel corso del VII secolo: essa si rese successivamente autonoma e, dislocandosi più a est, si dette il nome di Neapolis (Città nuova), in opposizione alla precedente. A tale nuovo insediamento, verificatosi intorno alla metà del V secolo, gli Ateniesi in cerca di un’espansione verso occidente contribuiscono a dar nuova e regolare forma, favorendone l’espansione fino alla punta della Campanella, sulla quale un più antico luogo di culto fu dedicato ad Athena, dea protettrice di Ate- I Greci in Italia di Pier Giovanni Guzzo ne. Il «navarco», ossia ammiraglio, Dirtimo fu il propulsore dell’intera operazione diplomatica: egli è ricordato inoltre come promotore di un rito notturno, una corsa di portatori di fiaccole in onore di una divinità femminile, forse Demetra. Neapolis fu collocata nella pianura digradante, a est della collina di Pizzofalcone, sede di Partenope: l’attuale centro storico fa vedere quasi immutato l’antico schema urbanistico, costituito dall’incrocio ortogonale di vie rettilinee. Quelle po- ste in pendenza, più strette, sono gli stenopòi; quelle ortogonali, più ampie, le plathiai. La continuità di vita della città fino a oggi ha sovrapposto continui rifacimenti e adattamenti ai monumenti pubblici antichi, lasciandone tuttavia immutato lo schema. Ad esempio, del teatro si indovina la localizzazione anche solo grazie al profilo arrotondato degli edifici moderni che gli si sono sovrapposti, mentre resti delle sue strutture originarie sono state recentemente riportati in luce nei cortili e nelle cantine; La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 49 del tempio dei Dioscuri, oggi occupato da una chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo, rimane un alto podio. Negli spazi liberi di piazza Bellini e delle Cliniche Universitarie sono stati scavati tratti delle mura di difesa. Esse sono costruite con blocchi parallelepipedi disposti su due fronti, il cui spazio intermedio è rafforzato da muri di collegamento e da riempimenti; le mura presentano nu- merose fasi di rifacimento, in specie nel corso del IV secolo. Ancora, si sono rinvenuti alcuni depositi votivi, costituiti per lo più da terrecotte figurate. Poco sono conosciute le sepolture riferite al V secolo, poste nella zona di cerniera tra Partenope e Neapolis. Nel periodo successivo erano in uso sepolture a camera, scavate nel tufo: se ne ricorda quella detta «dei Cristallini», dal convento che la ricopre, composta da più camere con letti funebri e decorazioni a rilievo e dipinte. Le fonti attribuiscono al santuario di Athena sulla punta della Campanella, del quale poco si conosce, la fondazione in un periodo mitico, ma i ritrovamenti finora effettuati non risalgono al di là della fine del VI o dell’inizio del V secolo. Il santuario, che costituiva un importante punto di riferimento per la navigazione, venne probabilmente rafforzato in concomitanza con la sconfitta navale degli Etruschi del 474 a.C. Cuma e Pithecusa sono le più antiche colonie calcidesi in Ita- Terracotta raffigurante un carro agricolo tirato da cavalli o muli, da Ischia. Fine del VII secolo a. C., dalla località Pastola (Lacco Ameno) 50 La Rassegna d’Ischia n. 5/2014 lia meridionale: la prima era posta sulla terraferma, su di una collina, isolata e fornita di un ottimo porto, ora scomparso, che si apriva ai suoi piedi. La collina era stata sede di uno stanziamento indigeno, frequentato almeno fino a poco dopo la metà dell’VIII secolo. Per Cuma arcaica conosciamo esclusivamente le necropoli, formate da sepolture a inumazione, frammiste a gruppi di incinerazioni, le sepolture degli individui dominanti. Queste strutture sono costituite da dadi in tufo, nella cui massa sono state deposte le ceneri del defunto, raccolte in bacili in bronzo coperti da scudi in bronzo decorati a sbalzo di produzione etrusca. Il corredo era composto, oltre che dalle armi da lancio, da recipienti preziosi per il simposio e, oltre che da fibule in argento, da ornamenti in oro, anch’essi di produzione etrusca, usati per trattenere la veste sulla spalla. Le donne erano, invece, inumate, e sono distinte da una serie di gioielli personali. I Cumani si impadronirono delle rive del golfo di Napoli con i propri stanziamenti di Pozzuoli, dove nel 531 giunsero gruppi di esiliati da Samo che le dettero il nome di Dicearchia («Città della giustizia»), e con la fondazione di Partenope (Napoli). Di quest’ultima è stata scavata la necropoli di via Nicotera, sulla collina di Pizzofalcone, attiva dalla prima metà del VII secolo. Entro il VI secolo prodotti greci sono frequenti negli insediamenti indigeni, da Pompei a Sorrento, frammisti a quelli etruschi, costituiti particolarmente da recipienti in bronzo e da anfore da trasporto. Gli indigeni campani mutuarono l’alfabeto da quello etrusco, come testimonia l’alfabetario graffito sulla parete di un vaso in bucchero dalla necropoli di Vico Equense. Le ricerche arche- ologiche condotte durante l’ultima generazione hanno permesso di acquisire conoscenza del più antico stanziamento greco, in epoca storica, verificatosi in Italia meridionale: si tratta di quello messo in luce da Giorgio Buchner sull’isola di Ischia. Le fonti letterarie tramandano che Cuma era considerata come la più antica colonia greca: ma, grazie alle recenti indagini archeologiche, possiamo affermare che questa deriva dal più antico stanziamento insulare, al quale i Greci hanno dato il nome di Pithecusa. L’apparente contraddizione dipende dal fatto che quando i Romani strinsero i primi rapporti con Cuma, Pithecusa era ormai subordinata ai Cumani, quasi sul punto di scomparire. Ambedue gli stanziamenti sono dovuti ai Calcidesi, originari della grande isola di Eubea, quasi un trampolino tra la Grecia propria e l’Asia Minore, e da sempre abituali navigatori dell’Egeo. I Calcidesi si stanziarono entro la metà dell’VIII secolo sull’isola nel golfo di Napoli, cosi da poter intrattenere rapporti proficui con le popolazioni che abitavano le pianure campane e, via mare, con i popoli etruschi posti più a nord. I coloni erano impegnati in fiorenti attività economiche: conosciamo sia le fonderie metallurgiche di località Mazzola, nelle quali si forgiava anche il ferro proveniente dall’isola etrusca d’Elba, sia numerosi recipienti ceramici di fabbrica pithecusana provenienti dalle sepolture indigene di Pontecagnano, della valle del Sarno e di Capua. La presenza di uno stanziamento greco come Pithecusa ebbe funzione di stimolo per il popolamento indigeno della Campania e non si può escludere che esso abbia contribuito ad accelerare anche lo stanziamento etrusco di Capua. Accanto ai coloni calcidesi, vissero famiglie di origine e cultura semitica, provenienti dall’Asia Minore, come documentano sia i recipienti ceramici adoperati nei corredi tombali sia i graffiti alfabetici. La nostra conoscenza di Pithecusa dipende soprattutto dalla necropoli di San Montano, datata da poco prima della metà dell’VIII secolo al primo quarto del VII secolo. La zona è posta ai piedi di Monte di Vico, sulla cui cima, attualmente erosa completamente dall’azione dei venti, sorgeva l’abitato, del quale purtroppo rimane ben poco. La necropoli è costituita da sepolture a incinerazione sotto cumuli di pietrame. Lo scavo archeologico ha permesso di individuare la «stratigrafia orizzontale» delle sepolture, ossia l’esatta successione temporale (o cronologia relativa) secondo la quale le tombe sono state erette e adoperate. Le sepolture più antiche sono diffuse nell’area della necropoli, e attorno a esse si aggruppano quelle progressivamente più recenti; sembra che la zona destinata a necropoli fosse stata divisa in lotti per ogni famiglia, rimasti in uso a ogni distinto gruppo parentelare per lunghi periodi. Tale divisione degli spazi e delle proprietà era analoga sia per la città sia per la campagna, a ulteriore dimostrazione del carattere organizzato e «politico» dello stanziamento di Pithecusa, in quanto l’attuazione dei diritti di proprietà e d’uso deriva solamente da una precedente istituzione e da un potere riconosciuto. Ai margini delle sepolture incinerate si sono rinvenute sepolture di inumati, sprovviste di corredo, nelle quali si è proposto di riconoscere la deposizione degli indigeni adibiti a lavori servili. I corredi funerari sono per lo più costituiti da vasi ceramici; il loro studio permette di seguirne lo sviluppo morfologico e l’evoluzione delle decorazioni geometriche dipinte. Si hanno importazioni dalla madrepatria e dal Mediterraneo orientale: importanti, tra queste ultime, sono gli scarabei egizi, gli amuleti in pietra dura con incisioni ascritte alle botteghe glittiche siriane, dette «del Suonatore di Lira», dalla raffigurazione incisa sui primi esemplari studiati. L’insediamento calcidese sull’isola di Ischia si componeva, inoltre, del già ricordato centro produttivo di località Mazzola: accanto alle fornaci metallurgiche sono stati ritrovati resti di lavorazione di fibule in ferro, chiaro indizio di manifatture locali, e alcuni dischetti in bronzo, che sono stati convincentemente interpretati come prova di una produzione orafa locale. A quest’ultima vanno probabilmente ascritti gli ornamenti in argento, come fibule, pendenti ad anelli, diademi a fascia decorati a sbalzo, frequenti nei corredi funerari. La fondazione di Cuma avvenne entro l’ultimo quarto dell’VIII secolo: a essa Pithecusa sopravvisse solo per una generazione. Quest’ultima lasciò solo un’altra generazione di sopravvivenza alla più antica colonia. (---) * Forio - Spiaggia