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N UME RO 1 – L UGL IO 2 0 0 8 R eg . Trib u na le
NUMERO 1 – LUGLIO 2008 Reg. Tribunale di Cagliari n. 14/08 del 09/06/08
é nata una nuova
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MARIA LAI
la favola, la scuola,
i bambini
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Editoriale
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IN QUESTO NUMERO
MARIA LAI. La favola, la scuola, i bambini
I VINI ARGIOLAS, da Serdiana un’azienda al femminile
Donne e vino
L’Islam a volto scoperto
La seta che viene dal mare, CHIARA VIGO
MICHELA MURGIA. Il mondo lo deve sapere
I fumetti di DANI&DANI
Loro ci sono riuscite
VERONICA MELEDDU, neurochirurgo
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STORIE FUORILEGGE
Le Banditesse di Sardegna
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LA VITA DEL PROSSIMO
Il coraggio di MADRE TERESA - SUOR NICOLI, una vita al servizio degli altri 40
ATTUALITA’ E DIRITTI
Sessant’anni d’intolleranza
DONNA
Rivista al femminile in Sardegna
NUMERO 1 – LUGLIO 2008
Reg. Tribunale di Cagliari n. 14/08 del 09/06/08
TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Un angolo del Giappone dedicato all’incantevole mondo femminile
Non solo belle ma anche tecnologiche
Responsabile Editoriale
Patrizia Floris
Direttore Responsabile
Maria Assunta Serra
Collaboratore Editoriale
Sandra Sulcis
Hanno Collaborato:
Laura Bittichesu, Patrizia Casula, Nunzia Cimino, Valentina Chelo, Alessandra Cocco,
Daniela Cocco, Maria Rita Concas, Dani&Dani, Roberta Floris, Valentina Follesa,
Tatiana Goex, Giovanna Grosso, Barbara Ledda, Nina Ligas, Emanuela Locci,
Gabriella Macis, Paola Orrù, Maria Carla Piras, Silvia Secci, Franca Sini, Sandra Sulcis,
Alessandra Tiddia, Giuseppina Zoppi
Progetto Grafico e impaginazione
MIXEDO
Editore
Associazione AFFUENTE
Stampa
Tipografiche Kalb (Cagliari)
______________________________
DONNA
Direzione, redazione e amministrazione:
via Niccolò Tommaseo, 48 – Cagliari
Tel/Fax: 0703110698
Email: [email protected]
www.affuente.it – www.donnaesardegna.it
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L’ISOLA DA SCOPRIRE
Discover Sardinia 52
Mangiare e bere 58
ARTE E CULTURA
Le madri della Costituzione 62
Mi chiamerò George Sand 66
Libri ed eventi 69
F
ra i tanti nomi possibili abbiamo scelto
Donna. Meglio di altri sottolinea il senso
della nostra iniziativa in cui la donna ha
il ruolo di protagonista. Riteniamo che i
tempi siano ormai maturi perché si guardi alla
donna con occhi diversi dal passato. Nuovi diritti e libertà, gradi più elevati d’istruzione, maggiore visibilità nelle posizioni di lavoro e nelle
professioni, nuovi stili di vita hanno concorso a
mutarne profondamente le condizioni e il ruolo
nella società. Tutto ciò ha posto in crisi i modelli
tradizionali delle sue reti di relazione, e di converso ha fatto sorgere nuovi bisogni di senso e
di comunicazione.
La rivista vuole dar risalto a questo nuovo esserci della donna che di fronte ai mutati orizzonti
di vita e di lavoro, sente il bisogno di interrogarsi su di sé, sul senso della sua esistenza nel
tempo e nella società in cui come persona vive,
pensa, agisce, ama, opera, intraprende. Conosce dal passato i rischi di emarginazione che
incombono se cercasse queste risposte unicamente in un mondo tutto suo, rifugiandosi in un
fantastico altrove in apparenza rassicurante e
consolatorio. Sa di doversi aprire al dialogo con
gli altri. Per cui comunica ed ascolta, interagisce
e coopera e anche grazie agli altri ricrea quei
nodi di senso che si erano perduti nella rete delle sue relazioni e, per quanto le è possibile, ne
migliora l’ordito e progredisce.
La rivista nasce appunto per essere al tempo
stesso spazio e supporto all’agire comunicativo
di questa donna.
Nelle diverse rubriche della rivista abbiamo voluto dare un ampio spazio alle interviste di donne che si sono messe in luce guadagnandosi un
posto in prima fila nei campi in cui si dispiega il
loro impegno di lavoro di vita. Pensiamo infatti
che sia quanto mai utile conoscere non soltanto
cosa pensano ma anche chi sono e cosa fanno
le donne che vivono in Sardegna, ma non solo.
Giova apprendere anche dalle esperienze delle
donne che vivono in contesti sociali e culturali
diversi dal nostro, tanto più che il futuro di società multi-culturale più che essere imminente
è già un presente anche da noi.
e
Ci rendiamo conto che la periodicità di una rivista non è sufficiente a conferire quella fluidità di discorso richiesta dai crescenti bisogni di
comunicazione. Abbiamo, perciò, pensato di
rendere più interattiva la comunicazione mettendo on-line la rivista, corredandola da un
apposito blog destinato a raccogliere in modo
agile e aperto a quanti volessero intervenire,
avanzando opinioni, formulando commenti,
dando suggerimenti anche in ordine a temi
di rilievo meritevoli di attenzione, ed infine,
perché no, manifestando l’interesse a collaborare a specifiche attività in cui si realizza la
pubblicazione della rivista, sia in carta che in
rete.
Presentando gli obiettivi del nostro progetto
editoriale ci auguriamo che esso contribuisca
a colmare una lacuna di comunicazione che è
presente nel panorama della stampa periodica isolana. Se si escludono alcune apprezzabili esperienze di profilo specialistico, di fatto
non è mai esistita in Sardegna una rivista femminile che si ponesse l’obiettivo di concorrere
a formare la pubblica opinione. Si potrebbe
dire, parafrasando un detto di Jane Austen
che una metà del mondo non è riuscita fin qui
né a sentire né a capire ciò dice e pensa l’altra
metà.
Sappiamo di intraprendere un’impresa tutt’altro che facile. Oltretutto la pratica non si adegua tanto docilmente come si vorrebbe agli
ordini della teoria e spesso si ribella contro i
più nobili principi.
Ci auguriamo perciò che il nostro impegno trovi una favorevole accoglienza da parte di una
vasta platea più che di semplici lettori di interlocutori interessati al dialogo che si apre con
voi tutti dalle pagine di questa rivista.
L’editore
Patrizia Floris
fl[email protected]
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MARIA
LAI
La favola,
la scuola i bambini
“Cosa intendevi per arte quando hai scelto la tua strada?”
“Giocavo con grande serietà, a un certo punto i miei giochi li
hanno chiamati arte.”
C
on queste parole Maria Lai parla della
sua arte.
Per lei l’uomo ha bisogno di mettere insieme il visibile e l’invisibile, perciò elabora fiabe, leggende, feste, canti, arte.
Per avvicinate tutti, anche i bambini, al magico
mondo dell’arte, Maria inventa delle storie, dei
giochi, delle fiabe. E’ uno degli stratagemmi usati
da Maria per catturare lo spettatore disorientato
davanti all’arte, e coinvolgerlo, come una fiaba
coinvolge il bambino. Lei dice: “Chiunque io cerchi di sollecitare a un dialogo sull’arte si annoia,
soltanto se è in forma di gioco, anche se impegnativo, mi ascolta”.
La fiaba permette ai bambini di esprimere la propria vita interiore, le proprie emozioni, i propri
sentimenti. Può, quindi, diventare uno strumento
per l’educazione alla vita e all’arte.
Le fiabe indicano tempi e spazi che non esistono, diventano bugie che servono al bambino e
all’adulto per sperimentare la dimensione del sogno e vivere poeticamente la propria esistenza.
Con il racconto di una fiaba si invita chiunque a
percorrere un viaggio nella fantasia e a tentare di
scoprire una nuova storia.
La fiaba non si occupa della realtà ma può essere
un ottimo strumento per descriverla in maniera
semplice e coinvolgente. E’ fuori dal tempo e
dallo spazio, ma mette in luce percezioni profonde, desideri, paure.
Per i bambini, a cui Maria dedica molti dei
suoi lavori, le fiabe sono una necessità insopprimibile, poiché in esse si immedesimano, e
aiutano i piu’ piccini a superare i loro conflitti
interiori.
Il bambino ha bisogno dei racconti fantastici
e della magia, anche se contengono elementi
di paura, perché attraverso queste esperienze
possono sviluppare più facilmente la capacità
di rapportarsi con se stessi e con la complicata realtà che li circonda.
L’arte di raccontare è innata in Maria Lai.
Sin dagli anni Settanta per realizzare le sue
opere utilizza differenti materiali: stoffa, tela
grezza, tela jeans, pellicola trasparente e soprattutto il filo.
Le immagini più ricorrenti sono il sole, il cielo,
la terra, la vita, la morte, la creazione, la felicità e la paura, non mancano i richiami alla
società e alla vita politica.
Da questo punto di vista è molto interessante
la storia di “Curiosape”, dove il Potere, metaforicamente rappresentato dall’ape regina,
viene deleggittimato dall’artista Curiosape, e
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Le tavole dell’opera
“Duemila Natali di guerra”
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si comprende grazie alla sua creatività e
ai suoi insegnamenti che per una comunità è importante non perdere il contatto
con le feste, i riti e l’arte.
Nel racconto si alternano immagini colorate che illustrano la storia, e pagine
contenenti citazioni e libere riflessioni sul
difficile rapporto tra arte e politica.
Il progetto didattico legato alle fiabe è stato realizzato presso alcune scuole con il
fine di sviluppare nei bambini la propria
fantasia e di avvicinarli all’arte tramite
l’ascolto, l’osservazione e la possibile interpretazione.
Nasce a Ulassai il 27 settembre 1919.
Nel 1939 lascia
la Sardegna per iscriversi
al liceo Artistico
di Roma con Marino Mazzacurati.
Dal
1943 al 1945 frequenta il
corso di scultura dell’Accademia di Belle
Arti di Venezia con Arturo Martini e Alberto Viani. Nel 2004 le viene conferita la Laurea Honoris causa in
Lettere dall’Università degli Studi di Cagliari, discutendo la tesi: Sguardo, Opera, Pensiero.
Negli anni Sessanta si verifica un importante mutamento nella ricerca artistica di Maria Lai, la sperimentazione si estende a nuove materie e nuovi linguaggi: telai, libri e tele cucite, pani e terrecotte, fino alla
partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1978. Con gli anni Ottanta la ricerca sui segni e sui materiali
assume una più accentuata connotazione ambientale: 1981, il suo straordinario intervento ambientale:
Legarsi alla montagna, Ulassai (NU); 1983, La disfatta dei varani, Camerino(MC); L’alveare del poeta,
Orotelli (NU). In questo periodo iniziano le collaborazioni con il teatro: 1983, Mare-Muro scenografia del
concerto Strazza-Rizzo La Scaletta, Roma; 1985 Nello spazio di Euclide, Prato; 1986 Lettere al lupo,
Prato, Alessandria, Trieste. Negli anni Novanta partecipa a numerose mostre nazionali e internazionali,
mentre proseguono le sue operazioni sul territorio, come: 1988 Il Telaio nel lavatoio comunale, 1992 La
strada del rito e Le capre cucite, Ulassai; 1993 Su barca di carta m’imbarco, Atelier sul mare, Messina; La
scarpata, Ulassai; 1997 L’albero del miele amaro, Siliqua (CA); Il Tempo dell’arte, Su logu de s’iscultura,
Tortolì (NU); 1999 Olio di parole 1, Museo dell’Olio Della Sabina, Castelnuovo di Farfa (RI); 2003 Quanti
mari navigare, Località Sa Illetta, Cagliari; Il volo del gioco dell’oca; 2004 Libretti murati di terracotta;
2005 La casa delle inquietudini, Ulassai (Ogliastra).
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A
DALLA VITE ALLA TAVOLA
I vini
rgiolas
a Serdiana un’azienda al fe
Ha solo trent’anni ma da cinque si occupa egregiamente della realizzazione e distribuzione dei
prodotti dell’azienda di famiglia.
E
’ dinamica, creativa, esperta di marketing e pubbliche relazioni Valentina Argiolas.
Laureata in economia e commercio all’università di Cagliari,
solo trent’anni ma da cinque si occupa egregiamente della
realizzazione e distribuzione dei prodotti dell’azienda di famiglia. Ama
la letteratura, l’arte, i viaggi e il territorio in cui vive e lavora.
Il suo sorriso in giro per il mondo è una garanzia di qualità.
Cosa vuol dire lavorare in una azienda di famiglia?
E’ stato un percorso naturale dopo la laurea entrare a lavorare in azienda anche se, per lungo tempo, non sapevo di che mansioni mi sarei
occupata.
Ho trascorso un anno e mezzo a cercare di capire le dinamiche azien-
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di Sandra Sulcis
femminile
dali e ho spaziato da un settore all’altro. Poi ho iniziato
ad occuparmi di marketing e pubbliche relazioni.
Di eventi, viaggi e tutto ciò che ruota attorno all’ideazione, alla realizzazione e alla distribuzione di un nuovo prodotto.
Come si realizza un nuovo prodotto?
Per prima cosa bisogna tenere presenti le esigenze del
mercato. In questi ultimi anni si ha la necessità di avere
un prodotto giovane, fresco e tipico, che racconti il territorio. E’ molto di moda l’aperitivo e non mancano le occasioni per gustare un buon vino dolce neppure durante
le cene di lavoro o i convegni. In base a questo pensiamo
e realizziamo i nostri prodotti, che devono contraddistinguersi per origine, solarità e genuinità.
Qual è il pezzo forte della vostra produzione?
Il Turriga è il più famoso dei nostri vini, è caldo, vellutato,
armonico, nasce da uve Cannonau, Carignano, Bovale
con piccole aggiunte di Malvasia Nera. Al Vinitaly di Verona, le annate 1988 e 1992 hanno vinto il premio “Gran
Medaglia d’Oro” mentre l’annata 1991 si è
classificata al terzo posto.In Canada è stato insignito del “Grappolo d’Oro” nel concorso promosso dal governo canadese. Nella
“Guida dei vini d’Italia”, infine, le annate,
dal 1990 al 2001 si sono aggiudicate i tre
bicchieri del Gambero Rosso. Inoltre è inserito nell’annuario dei migliori Vini Italiani, lodato da Luca Maroni e da Robert Parker.
Ci sono altri vini simili al turriga?
Sull’onda del successo del Turriga nel 1999
è nato il Korem, un rosso di stile internazionale, sapiente uvaggio di Bovale, Carignano,
Cannonau. E’ un vino moderno, maturato in
piccole botti di rovere, dotato di straordinaria morbidezza, ricco, che ha raggiunto giudizi lusinghieri da appassionati ed esperti di
tutto il mondo. Mentre ancora il Korem stava facendo il suo ingresso nei mercati del
mondo è stato introdotto nel 2001 un altro
vino, stavolta bianco, il Cerdena prodotto da
uve Vermentino selezionate con piccolissime aggiunte di altri vitigni autoctoni. E’ un
vino dal gusto fine, ampio e persistente con
leggere note di rovere ben unite alle note di
frutta, nelle prime due annate sono state
prodotte appena seimila bottiglie.
Qual è l’ultimo nato in casa Argiolas?
L’ultimo prodotto nato in casa Argiolas è il
Carignano Is Solinas
Nato a Marzo 2007 dopo cinque anni dall’acquisto di un vigneto.
Per ora abbiamo prodotto 30 mila bottiglie
ed è distribuito in tutto il mondo.
Altre vostre specialità?
Il Perdera, Monica di Sardegna, il Costera,
Cannonau di Sardegna, il Costamolino, un
Vermentino, Is Argiolas, Vermentino di Sardegna, S’Elegas, Nuragus di Cagliari, tutti
vini a Denominazione di origine controllata. Anche questo motivo di grande orgoglio.
Dove esportate i vostri prodotti?
Il mercato italiano assorbe il 50% delle vendite mentre l’altro 50% è destinato oltre
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il confine italiano: in Germania, Austria,
Olanda, Francia Spagna, Inghilterra, Belgio, Repubblica Ceka, Ungheria, Latvia,
Estonia, Lettonia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Svezia, Svizzera, Grecia, Russia,
Kazakistan, mentre oltre oceano è inserita nel mercato degli Usa, Canada, Brasile,
Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone,
Thailandia, Israele, Filippine, Dubai.
Dove si trovano i vini?
I vini Argiolas sono presenti nella ristorazione e nelle enoteche di tutto il mondo. Ciò
contribuisce a proiettare l’azienda ai più
alti livelli e contribuisce a portare i prodotti
della nostra isola nelle fasce di mercato di
prestigio.
Quali sono le maggiori difficoltà che la vostra azienda deve affrontare?
Sembra incredibile ma paradossalmente la
nostra azienda ha avuto maggiori difficoltà
a far conoscere i nostri prodotti in Sardegna piuttosto che in altre regioni italiane e
nel mondo. Sebbene la nostra sia un’azienda che lavora da anni abbiamo cominciato
ad avere popolarità prima all’estero e poi
qui.
Perché avete trovato questa difficoltà, secondo te?
Perché purtroppo non siamo in grado di
capire il grande potenziale economico che
la nostra isola ci offre con i suoi prodotti e
dovremmo investire più soldi in attività di
tipo turistico ricreativo, creando itinerari e
percorsi guidati alla scoperta della terra e
del vino in questo caso.Ci sono periodi in
cui questa volontà sembra essere presente
nelle amministrazioni ma poi la burocrazia
per raggiungere questi obiettivi è troppo
lunga e in tanti rinunciano a queste iniziative.
Voi come cercate di far fronte a questa
carenza?
Per ora cerchiamo di organizzare degli
eventi che si svolgano all’interno della nostra azienda come le due rassegne “chef
e wine” e “vini ai fornelli” . La prima, rivolta
soprattutto ai turisti con lo scopo di insegnare le basi della nostra cucina, la seconda, destinata ad un pubblico locale, con la
finalità di carpire dai migliori cuochi sardi i
segreti della loro innovativa cucina.
Ma speriamo che presto sia anche possibile avviare nella provincia di Cagliari un vero
e proprio percorso del vino che permetta a
turisti e residenti di conoscere le eccellenti
meraviglie della nostra terra.
S.S.
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“Il buon vino non nasce solo
dalle tecnica.
E’ nutrito con un insieme armonioso di umiltà, amore, passione e cura infinita per le vigne e i
loro frutti. Un segreto semplice
ricevuto come dono di natura
e che ho passato ai miei figli e
a tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa affascinante avventura.”
La famiglia Argiolas si occupa di viticoltura dal
1918 anno in cui Francesco, impiantò il primo vigneto con l’aiuto dei prigionieri di guerra ma è con
il figlio di Francesco, Antonio, che inizia la grande
avventura dei vini Argiolas oggi rinomati in tutto il
mondo.
Uomo di ingegno ed eclettico, impegnato nelle attività agricole, in particolare nella viticoltura e nella
olivicoltura, Antonio destina tutti i suoi guadagni all’acquisto di nuove fattorie con l’obiettivo di creare
un’efficiente e moderna azienda vitivinicola. Quando, alla fine degli anni settanta, la politica comunitaria di invitò agli espianti delle viti, non si lasciò
condizionare come fecero molti suoi colleghi che,
attratti da un immediato sostegno economico, ridussero o addirittura cancellano la superfici vitate,
Antonio fece una scelta coraggiosa. Lui e i figli Franco e Giuseppe con una serie di grossi investimenti
economici e interventi graduali danno inizio ad una
riqualificazione complessiva della filiera produttiva.
Procedono quindi alla ristrutturazione dei vigneti e
della cantina e chiamano a collaborare uno dei padri
dell’enologia nazionale, Giacomo Tachis, affiancato
dall’impegno costante dell’enologo Mariano Murru.
La loro scelta portò i risultati sperati, la produzione aumentò e con essa i guadagni.Attualmente in
azienda sono presenti e operano tre generazioni : il
patriarca Antonio, i due figli e i nipoti.
eVino
Donne
Non solo Bacco.
Bastet era una divinità egizia,
il cui culto ebbe origine nella
città di Per Bast.
Dea della fecondità,
delle danze è del vino,
fu tra le più rispettate e temute
dell’epoca.
I gatti devono sicuramente a lei
l’amore e la cura che oggi
gli vengono dedicati.
In suo rispetto il maltrattamento
dei piccoli felini arrivava ad essere
punito con la morte.
Il nuovo consumatore del vino italiano è donna,
o almeno così sembra, secondo quanto sostiene
Donatella Cinelli Colombini, produttrice di Brunello di Montalcino e di Chianti a Trequanda.
La Colombini, fondatrice del Movimento Turismo
del Vino, ideatrice di Cantine Aperte e Assessore
al Turismo del comune di Siena, ha assegnato
questo primato alle donne durante la presentazione della ricerca “Vino e Turismo al femminile”,
presentata nel convegno “Vino di genere”, organizzato dall’Enoteca Italiana di Siena.
L’identikit delle consumatrici è piuttosto definito
secondo Donatella: se è giovane e colta
beve poco ma bene, mentre, con l’innalzarsi dell’età cresce la sua attenzione al prezzo.
Così seguendo le parole della produttrice che ha
inventato la prima cantina tutta al femminile in
Italia ed il primo vino selezionato da sole donne,
il Brunello “Prime Donne”, si scopre che le donne
sono poco interessate al legame fra il vino e il
suo territorio di origine anzi, tendono ad essere
consumatrici infedeli perché sempre attratte da
nuove specialità anche straniere.
Se guardiamo gli stili di consumo invece, il 32%
delle donne italiane si dichiara pronta a bere una
bottiglia di vino con le amiche. Per il gentil sesso
infatti, il vino è un complemento della socializzazione e uno strumento di relazione interpersonale. Le wine lovers nostrane iniziano a gustare il
vino intorno ai 20 anni. Le donne amano le bol-
licine molto più degli uomini ma il
loro vino preferito è fermo e secco.
In enoteca la frequenza femminile
è aumentata: il 41% degli enotecari milanesi afferma che il proprio
cliente è indifferentemente uomo
o donna. Se una donna e un uomo
comprano insieme, è lei a scegliere (29%) per poi chiedere quale sia
l’abbinamento migliore vino-cibo
(57%).
L’Amministrazione Toscana ha lavorato molto in questo senso individuando i “Vini delle Donne” all’interno della migliore produzione
regionale e proponendoli in degustazioni separate durante tutti gli
eventi promozionali.
C’è poi un argomento a sé stante
connesso alle donne che lavorano
nel settore vino.
La donna è, dunque, il nuovo protagonista del mercato del vino,
ma anche nel turismo è ormai una
grande opinion leader. Crescono le
donne fra i turisti del vino e c’è persino un’agenzia “Women & Wine”
che organizza viaggi, incontri e degustazioni riservate alle donne appassionate di grandi bottiglie.
Abbiamo raccontato alcune biografie di donne coraggiose che
provengono dal mondo islamico.
Donne che, nonostante le restrizioni politiche, le torture, le rigide
regole della religione musulmana
hanno avuto la forza di contrastare la triste condizione femminile
presente nel loro paese.
Non si sono arrese davanti alle
opposizioni, hanno preferito subire una condanna piuttosto che lasciarsi sopraffare da un sistema
ingiusto che nega alla donna e
ai più deboli i fondamentali diritti
umani: non godono della libertà
di spostamento, di espressione,
di parola, non possono procedere
negli studi né tanto meno aspirare a ricoprire cariche o posizioni
di responsabilità in campo civile
o religioso.
Queste donne però, hanno combattuto contro tutto questo e la
loro determinazione nell’attenuare il divario tra oriente e occidente, sarà d’esempio per le nuove
generazioni e per una convivenza
pacifica tra questi due mondi. La
loro è una lotta per la trasformazione radicale delle condizioni generali di esistenza della società,
della famiglia, della casa, della
politica.
Le loro battaglie rimarranno nella
storia e i loro nomi impressi nella
mente.
L
‘Islam
a volto
scoperto
Khalida Toumi Messaoudi, algerina, nata
nel 1958 è ministro
della Comunicazione e
della Cultura dal 2001,
simbolo del movimento
per i diritti e le pari opportunità delle donne
nei Paesi islamici. Scrittrice ed ex insegnante di
matematica, sceglie di dedicare la sua vita alla
lotta per l’affermazione della parità tra i sessi,
fondando nel 1985 “l’Associazione per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna davanti alla legge”,
a seguito dell’approvazione in Algeria del Codice della famiglia che reprime e schiaccia i diritti
delle donne. Nel marzo del 1993 viene condannata a morte dal Fronte Islamico
(F.I.S.), movimento fondamentalista algerino.
Da allora vive in clandestinità nel suo paese,
rifiutando l’esilio per non abbandonare i suoi
compatrioti. Il 12 giugno 1993 una lettera del
Movimento per lo Stato Islamico (MEI) firmata
da Said Makhloufi ufficializza la sua condanna a
morte. L’anno dopo durante una manifestazione
pacifista Khalida viene ferita ad una gamba.
Nonostante la condanna continua a guidare numerosi cortei di donne che accusavano i politici
di legarsi ai fondamentalisti. Nel 1997 Khalida è
stata eletta in Parlamento ed oggi, in qualità di
ministro, fa parte della commissione nazionale
promossa dal Presidente Bouteflika per l’elaborazione di un nuovo Codice di famiglia.
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Amina Wadud
Ayaan Hirsi
Ali
europarlamentare, 33
anni, laureata in scienze politiche, scrittrice,
è nata a Mogadiscio.
Figlia di un politico
somalo, Hirsi Magan,
noto esponente dell’opposizione contro Siad
Barre, Ayaan cresce in un ambiente strettamente
musulmano. Durante l’infanzia subisce la rituale mutilazione genitale cui sono sottoposte tutte le donne
somale. Quando emigra con la famiglia in Arabia Saudita si adatta all’imposizione del velo islamico e alla
proibizione alle frequentazioni esterne. Per sfuggire al
matrimonio combinato per lei dal padre, musulmano
osservante, si allontana dalla famiglia e si rifugia in
Europa. Dal 1992 vive in Olanda, dove è inizialmente
un’esponente della sinistra per poi migrare nelle fila
del partito liberale.
Qui perfeziona la lingua, si iscrive all’Università e lavora presso l’ufficio studi del partito socialdemocratico.
Il suo è un attivismo mirato alla protezione delle donne di religione musulmana. Documenta centinaia di
casi di violenza fisica, pestaggi, incesti, abusi sessuali
e accusa le autorità olandesi di fare troppo poco per
porre fine queste pratiche. Proprio a seguito di queste
denunce giungono le prime minacce di morte. Si nasconde all’estero, poi viene posta sotto la protezione
della polizia.
Ayaan Hisri Ali è nota per avere scritto la sceneggiatura del film Submission Part 1, ritenuto blasfemo
dai fondamentalisti islamici. Anche la giovane scrittrice è colpita da una fatwa, condanna che, secondo il
Corano, può essere eseguita da qualsiasi musulmano nel mondo. Rientrata in Olanda, è stata eletta in
Parlamento, ma si è dimessa nel maggio del 2006,
dopo aver subito la minaccia, da parte del ministro
dell’immigrazione, Rita Verdonk, appartenente al suo
stesso partito, di ritiro della nazionalità olandese per
aver fornito alle autorità dei dati anagrafici imprecisi
al momento del suo ingresso nel paese con lo scopo
di ottenere lo stato di profuga.
Dopo lo scandalo suscitato dalla presa di posizione
della Verdonk, la deputata di origine somala ha deciso di lasciare l’Olanda per emigrare negli Stati Uniti,
anche se il ministro ha fatto marcia indietro e le ha
restituito il passaporto olandese.
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nata negli Stati Uniti nel 1953 è professoressa di
studi islamici presso il Dipartimento di filosofia e studi religiosi dell’Università americana della Virginia.
E’ stata la prima donna a guidare la preghiera comunitaria in una moschea di New York. Per questo
lo sceicco Yussef al-Qarasawi, membro Fratellanza
Musulmana, ha emesso una fatwa, un editto religioso, pubblicato sulla stampa del Qatar, in cui la condannava a morte. La donna, leader del gruppo Muslim Wakeup, aveva condotto il rito nella sala delle
conferenze della Casa del Sinodo della Cattedrale di
St. John the Divine, una chiesa anglicana, dopo che
tre moschee avevano rifiutato di ospitare l’evento.
Circa cento fedeli tra uomini e donne hanno pregato
insieme sfidando i fondamentalisti.
L’attivismo a favore della parità tra i sessi di Amina
Wadud è da tempo sostenuto da diverse associazioni islamiche americane che hanno organizzato diverse manifestazioni pubbliche e campagne di sensibilizzazione. Suoi principali sostenitori sono le due
associazioni Muslim WakeUp e Muslim Women’s
Freedom. Wadud ha pubblicato un libro “Qur’an and
woman. Rereading the
sacred text form a woman’s prospective” (1999,
Oxford University Press), che ha suscitato numerose
polemiche tra i musulmani di tutto il mondo per le
sue posizioni a favore dei diritti delle donne fondato
su argomentazioni teologiche, cioè sulle fonti stesse
dell’Islam.
Nel suo libro Amina Wadud sostiene che “il profeta
Muhammad ha permesso a una donna di guidare la
preghiera”.
Fatima
Mernissi
nata a Fez, in Marocco,
nel 1940 è considerata in tutto il mondo una
fra le più autorevoli e
originali intellettuali dei
paesi arabi, grazie al
suo innovativo lavoro di
sociologa e studiosa dell’Islam. Ha completato la
sua formazione accademica studiando alla Sorbona e
alla Brandeis University negli USA. Attualmente insegna sociologia all’Università Mohammed V di Rabat,
in Marocco. Nota in Italia per i suoi romanzi e in particolare per La terrazza proibita (Giunti, 2005), si è
sempre distinta per le coraggiose prese di posizione
a favore della libertà femminile, che giudica perfettamente compatibile con i precetti del Corano.
I suoi libri sono letti in tutto il mondo e tradotti in
più di venti lingue. Dal 1997 sostiene il programma
“Sinergie Civique” e dal 2000 anima gli incontri che
vanno sotto il nome di “Caravane Civique”, giunti
alla sesta edizione. Il progetto consiste nell’organizzare workshop in alcune delle realtà periferiche del
paese, coinvolgendo professionisti della comunicazione che si prestino ad entrare in contatto con gli
aderenti alle molte, minuscole e spesso finanziariamente inesistenti, organizzazioni non governative
marocchine.
Aung San
Suu Kyi
nata nel 1945, ha conosciuto e apprezzato
la filosofia gandhiana
della non-violenza fin
da bambina, in India,
dove ha vissuto con la
madre dopo la morte
del padre Aung San,
leader del movimento
indipendentista assassinato nel 1947.
Aung ha avuto una formazione cosmopolita: ha
studiato a Oxford, ha lavorato all’Onu e ha sposato un inglese. Il suo interesse per la politica si è
manifestato quando, nel 1988, in Birmania si è
trovata coinvolta nella lotta contro il regime militare. Di fronte alla pagoda di Swe Dagon, nel corso
di una grande manifestazione di protesta, Aung
San Suu Kyi lancia la sua prima sfida alla giunta
militare: chiede libere elezioni per la costruzione
di un governo democratico multipartitico, e rivolge
un appello al popolo per la pacificazione, il dialogo
e l’unità. Un appello importantissimo, che chiede
tolleranza anche nei confronti delle forze politiche di regime. La giunta militare percepisce
immediatamente il rischio politico del suo ruolo nell’opposizione, e cerca subito di mettere a tacere il suo carisma, ponendola agli arresti domiciliari.
Nel 1990, in piena repressione, ha detto “no” all’offerta
di andare in esilio e ha preferito restare nel paese, detenuta nella sua casa, senza possibilità di alcun contatto
con il mondo esterno.
Il tentativo di tappare la bocca alla Lega Nazionale per
la Democrazia sbaragliandola nelle uniche elezioni che
i generali sono costretti ad indire nel maggio 1990, non
riesce. Aung San Suu Kyi, ed il suo partito, riportano un
successo schiacciante. Invano. La giunta militare ignora il
risultato delle elezioni, e tiene la leader agli arresti domiciliari. Cade il silenzio sulla sua vicenda, e sulla Birmania,
interrotto ogni tanto solo dai riconoscimenti internazionali che le vengono assegnati, come il Nobel per la Pace
nel 1991. Grazie alle pressioni internazionali, nel luglio
del 1995 il governo le revoca gli arresti domiciliari, mantenendo però a suo carico il divieto di
varcare i confini della capitale. Aung San
Suu Kyi viene arrestata nuovamente nel
settembre del 2000, mentre cerca di lasciare la città per portare avanti iniziative
politiche. Liberata qualche tempo dopo,
nel maggio del 2003 si salva a stento da
un attentato, perpetrato contro di lei e i
suoi sostenitori mentre visita un villaggio
nel nord della Birmania. Oggi Aung San
Suu Kyi continua ad essere agli arresti
domiciliari nella grande casa di University Avenue. Arresti domiciliari strettissimi.
In tutto sono ormai dodici, gli anni passati in prigionia nella sua casa, circondata
da sbarramenti e filo spinato, controllata
giorno e notte da agenti dei servizi segreti. Aung San Suu
Kyi è stata l’ottava donna premiata col Nobel per la Pace.
Mehrangiz Kar
nata nel 1944 è avvocato, scrittrice nonché docente all’Università di Harvard, è perseguitata dal regime iraniano per il suo impegno in difesa dei diritti umani, in particolare delle donne. Nata ad Ahvaz, nel sud dell’Iran,
ha frequentato il College of Law and Political Science all’Università di Teheran. Dopo la laurea ha lavorato per
il Sazman-e Ta’min-e Ejtemaii (Institute of Social Security) e pubblicato oltre 100 articoli su questioni sociali e
anche di carattere politico.
Venne arrestata il 29 aprile 2000 per aver partecipato a Berlino, insieme ai più importanti scrittori e intellettuali
iraniani, a una conferenza accademica sul tema della riforma politica e sociale dell’Iran.
Processata a porte chiuse senza le garanzie della difesa fu condannata a quattro anni di reclusione con capi
d’imputazione arbitrari e grotteschi, come “azioni contrarie alla sicurezza nazionale” o “violazione del codice sul
vestito islamico”. Una volta rilasciata, si è recata negli Stati Uniti.
Dopo la sua partenza il marito, il giornalista Siamak Pourzand, anch’egli impegnato nella critica al regime, è
scomparso e Mehrangiz ha ricevuto forti pressioni da Teheran per tacere. I suoi tentativi di avere notizie attraverso istituzioni governative e organizzazioni per i diritti umani sono falliti e gli appelli lanciati insieme alle figlie
Leila e Azadeh alle reti televisive e radiofoniche internazionali non hanno avuto esito. Le forze di sicurezza del
governo hanno tuttavia annunciato, settimane dopo la sua scomparsa, che il Sig. Pourzand si trovava nelle carceri della Repubblica islamica con le accuse di spionaggio e minaccia alla sicurezza nazionale. Il 3 maggio 2002
la Tehran Press Court ha emesso a suo carico una condanna a otto anni di detenzione.
19
E’ uno scrigno pieno di tesori meravigliosi il mare, un vero e proprio mondo nascosto agli occhi degli uomini.Tra i tanti doni che il nostro Mar Mediterraneo ci offre, ve n’è uno, il cui mistero e la cui bellezza può essere
svelato solamente dalle mani di abili artigiani: la Pinna nobilis, la più
grande conchiglia di tutto il Mediterraneo.
INTERVISTA A
C
LA SETA CHE VIENE DAL MARE
HIARA
VIGO
U
di Sandra Sulcis
20
n tempo molto diffusa, è attualmente una specie protetta che si insedia lungo le
regioni costiere della Sardegna, ed in particolare nelle coste settentrionali. Questo mollusco bivalve si
fissa con la sua estremità appuntita nel
fondo marino, mediante dei filamenti di
natura cornea che al contatto dell’acqua si induriscono e, come una sorta
di ancora, evitano di farlo trasportare
dalle correnti marine. Proprio da questi lunghi filamenti, secreti dalla ghiandola denominata bissogena, si ottiene
una fibra tessile grezza, dalla quale si
ricava il bisso marino. Il termine bisso,
derivato dal tardo latino “byssus” e dal
greco “bussos”, a sua volta di origine
fenicia, venne successivamente ad indicare un tessuto particolarmente fine
e pregiato, grazie alla sua duttilità che
permette di ottenere una stoffa morbida, dall’aspetto lucido e brillante molto
simile alla seta e la sua colorazione dorata, che a seconda dell’incidenza della luce, le conferisce una dignità unica.
Un’altra importante peculiarità di questo prodotto è la capacità di trattenere
il calore. Caratteristiche che furono prese in esame da un dottore cagliaritano
del XIX secolo, Giuseppe Basso Arnoux,
quando volle utilizzarla per massaggi
che egli stesso praticava. In realtà egli
si prodigò in maniera assolutamen-
te encomiabile, dedicando tutte le sue energie allo
studio delle caratteristiche del bisso nella speranza
di sviluppare una florida industria ma tutti i suoi tentativi andarono vanificati. Non si tratta quindi di una
semplice conchiglia, ma dell’artefice della cosiddetta “seta marina”, così definita sin dall’antichità, che
riuscì ad alimentare una fiorente industria di tessuti
presso i Fenici, gli Egizi, i Caldei e gli Ebrei.La seta del
mare, da sempre è stata utilizzata per creare vesti
di grande pregio destinate esclusivamente a principi, sovrani o ai grandi sacerdoti: “Con porpora viola e
porpora rossa, con scarlatto e bisso fece le vesti liturgiche per officiare nel santuario. Fecero le vesti sacre
di Aronne, come il Signore aveva ordinato a Mosè”.
Così viene citato il bisso nell’Antico Testamento, ma si
trova menzionato anche nei Vangeli, o in altre opere
più recenti.E’ un materiale pregiatissimo e oggi ancora di più vista la difficoltà di approvvigionamento della
materia prima, causata dall’inquinamento marino e
dai danni provocati dai subacquei.
Inoltre, un ruolo determinante per trasformarla in
una sostanza rara, è la difficoltà della sua lavorazione: innanzitutto la pesca si effettua con l’immersione in apnea del pescatore che, con l’ausilio di uno
strumento costituito da una lunga asta terminante
con un occhiello, riesce a strappare il mollusco dal
suo ancoraggio. Una volta raccolto il bisso, inizia il
processo di lavorazione vero e proprio. I filamenti
vengono pettinati con arnesi in acciaio affinché lo
sfregamento li renda lucidi. Si procede infine, alla
filatura manuale mediante rocca e fuso di legno di
piccole dimensioni; questa è un’operazione molto
delicata. Infatti, solo mani esperte possono ottenere dei filati sottilissimi e di diametro uniforme.
In Sardegna la storia del Bisso ci porta da Chiara
Vigo, le cui mani ostinatamente filano le fragili fibre
della seta del mare come le mani di una fata. E’ lei
l’unica tessitrice di bisso al mondo, preleva personalmente la bava della pinna in apnea ed è l’unica
che plasma questa materia con quella perizia che
imparò da sua nonna e i cui segreti verranno da lei
trasmessi di generazione in generazione.Dal bisso
non si può trarre alcun vantaggio materiale, non si
può lucrare, così stabilisce il giuramento del mare
e così Chiara ha dichiarato la sua fedeltà al mare,
all’acqua, alla terra e all’arte. Il panno di bisso può
essere solo donato perché è un tesoro che viene
dal mare e come il mare è di tutti.
21
INTERVISTA A CHIARA VIGO
Nasce a Calasetta il primo febbraio del 1955. La sua
energia è travolgente. Entrare nel laboratorio di Chiara Vigo rievoca le meraviglie del mare. Si rimane estasiati.
C
ome si diventa maestri dell’arte del bisso?
Io ho appreso quest’arte antica e sconosciuta da
mia nonna. E’ grazie a lei e alla sua maestria che ho
potuto apprendere tutte le nozioni indispensabili per
lavorare il bisso. Ho studiato le fibre marine, quelle
terrestri e ho approfondito le conoscenze per riparare
i tessuti antichi.
Questo sistema di trasmissione della conoscenza
non è rischioso per una continuità dell’arte stabile
e duratura nel tempo?
Tramandare un lavoro di generazione in generazione
è molto bello ma non ci si può limitare a questo. E’ importante che anche i giovani apprendano i vecchi mestieri altrimenti il nostro patrimonio rischia di perdersi. Da 30 anni infatti chiedo alle autorità competenti
22
10 telai di legno e l’attrezzatura utile, oltre allo spazio
adeguato, per poter insegnare ai più giovani l’arte della lavorazione del Bisso, ma purtroppo non ho avuto
alcun risposa positiva. Mi conoscono in tutto il mondo
ma in Sardegna non hanno ancora capito l’importanza
della mia arte.
Che caratteristiche deve avere il Maestro?
Il Maestro deve essere una persona consapevole che
la sua arte non gli appartiene e di conseguenza va
difesa, conservata e tramandata con fatica, tempo e
dedizione.
A quale età ha iniziato a lavorare il bisso?
Ho iniziato a filare a 5 anni quasi per gioco. Per me il
fuso era come una bacchetta magica. A 12 anni di nascosto da mia nonna andavo nel suo telaio e provavo
a tessere.
Come si concilia la raccolta del bisso con l’equilibrio
dell’ecosistema marino?
Basta leggere il testo di ultima edizione intitolato “La
Seta del Mare” di Evangelina Campi, edizione Scorpio-
ne, Taranto, a me dedicato. Questo volume nato da
un progetto di scuola media è l’unico documento
che raccoglie e racconta del bisso nel Mediterraneo
in capitoli dove ogni specialista ha detto la sua in
maniera scientifica, tecnica ed esoterica.
Esistono al mondo altre produzioni di bisso?
Nella Civiltà mediterranea le due città che possono
vantare storia nella lavorazione con origine mesopotamica (lavorazione Hefod ebraico libro dell’Esodo
manifattura Hiram dei Caldei) sono la città di Sant’Antioco e la città di Taranto. I pezzi costruiti a Taranto sono prevalentemente pezzi che vengono dalla
scuola delle Clarisse.
Cosa ne pensa del fatto che uno staff di ricercatori greci starebbe compiendo degli studi per incrementare la produzione di bisso artificiosamente e
su larga scala?
Questo è il risultato della poca sensibilità ai miei ripetuti inviti alle autorità competenti di fare decreti
legge seri di tutela dell’animale, in maniera da salvaguardare il patrimonio italiano impedendo a pazzi di
sovvertire le leggi fondamentali della natura. Ho sempre pensato che il termine Europa è stato costruito
troppo frettolosamente senza avere la coscienza di
tutelare il patrimonio etnico e biologicamente speci-
fico. Penso anche che i nostri figli abbiano dei diritti
che non possono essere tralasciati.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Ho aspettato una vita che le amministrazioni si occupassero di darmi una mano. Oggi sono stanca.
Se non avrò gli aiuti che mi servono sarò costretta
a rendere all’acqua quello che è suo e lasciare che
gli uomini percorrano le strade che hanno scelto. Gli
scrigni dei maestri stentano a chiudersi, ma se si
chiudono è impossibile riaprirli. Quello che io ho in
mano è un bene dell’umanità e come tale va salvaguardato da tutti, ognuno secondo la propria capacità e la propria responsabilità. Demandare ad altri
la salvaguardia dei beni dei propri figli è permettere
che le loro cose vadano in rovina. Forse abbiamo dimenticato che siamo responsabili e risponderemo
a Dio di quanto ricevuto e quindi ognuno di noi ha il
dovere di leggere, capire ed eventualmente rispondere in piena libertà.
23
La storia di Michela Murgia
dal call center
al successo editoriale
Ilol mondo
deve
sapere
Trentacinque anni, nata
e cresciuta in provincia
di Oristano, Michela ha lo
sguardo curioso e attento.
Non le sfugge nulla e non
ha paura di parlare. Per lei
il lavoro, l‘onestà e la lealtà
vengono prima di tutto.
24
A
bolisce lo sfruttamento in tutte le sue forme e
non ha paura di combatterlo.
Con questo spirito ha scritto un libro “ il mondo lo deve sapere”, presto diventato un vero
best seller. Un successo davvero enorme a cui si è
ispirata la trama di uno spettacolo teatrale e un film
diretto da Paolo Virzi “Tutta la vita davanti”.
Come ti definisci in poche parole?
Feroce, fertile,concreta.
Quanto hanno inciso nella tua vita gli studi di Teologia?
Molto. Gli studi di teologia ti permettono di svolgere
un percorso critico. Hai la possibilità di studiare su
testi che analizzano la storia, la cultura, le tradizioni,
la religione di altre società e puoi sviluppare un’ampia capacità critica e anche molto relativa sull’intera
realtà che ti circonda
Qual è la tua più grande soddisfazione?
La mia più grande soddisfazione è potermi trovare
nelle condizioni di aiutare altre persone. Creare opportunità perché chi vale, per chi ha le capacità per
potersi realizzare al meglio.
La tua più grande delusione?
Non ho delusioni ma revisioni di prospettiva.
Progetti futuri?
Il mio più grande desiderio per il futuro è molto semplice. Ciò che più mi preme è essere felice. Crearmi
una famiglia e avere un figlio.
Cosa vuol dire essere una donna per te?
Vuol dire tanto, forse tutto, non sono una femminista
ma, al massimo, una nuova femminista che pensa
che la vera lotta che devono fare ora le donne non
è la stessa che hanno portato avanti le ragazze del
’68 per la parità e l’emancipazione. Quella odierna
è una battaglia per mantenere la propria identità di
donna.
Per cercare di poter conciliare il lavoro e la famiglia
senza dover scegliere una cosa piuttosto che l’altra.
C’è stata una critica che ti ha messo in discussione?
Sì. Una ragazza di 16 anni un giorno mi disse che io
voglio che gli altri siano come me. Mi ferì molto, ma
riflettendoci, capì che un po’ aveva ragione e adesso sto molto più attenta a non condizionare troppo il
pensiero delle persone che incontro.
Come ti sei convertita?
Ho conosciuto persone che mi hanno trasmesso serenità. Ho desiderato essere come loro.
Hai scritto un libro dal titolo “il mondo lo deve sapere”. Cosa deve sapere il mondo?
Il mondo deve sapere che esistono dei luoghi di lavoro come i call center dove si sfruttano tantissimo
le persone e che ci sono delle realtà troppo ingiuste
contro le quali bisogna combattere.
Non è stato facile decidere di scrivere e far pubblicare questo libro. Parlare del mondo del lavoro quando
questo manca e raccontare una storia che hai vissuto, fa affiorare dei sentimenti contrastanti e ti espone
ancora di più alle critiche. Devi essere molto convinta
delle motivazioni che ti hanno portato a denunciare tutto questo per poter superare gli ostacoli che ti
mette di fronte la verità. Il mio però, non è un libro di
denuncia. E’ solo una protesta contro il precariato,
un male della nostra società contro cui bisogna combattere per il bene dei giovani e del paese.
I
DALLA SARDEGNA AGLI STATI UNITI
CON LA FORZA DELLA FANTASIA
fumetti
di Dani
&
Dani
Q
uando avete iniziato a disegnare Fumetti?
Da un punto di vista professionale, abbiamo cominciato a scrivere
e disegnare fumetti una decina d’anni fa. La nostra però è una passione
che ci accompagna da sempre.
Vi ispirate a qualche fumettista in
particolare?
Le nostre fonti di ispirazione sono
molteplici e, anche se può sembrare
un paradosso, la maggior parte è slegata dal fumetto. Cinema, letteratura
e musica sono per noi fonti inesauribili. Per non parlare poi della storia.
Questo non toglie che abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, tanto da
imparare dall’esempio di grandi autori, soprattutto Giapponesi, essendo
il nostro stile di disegno decisamente filo-nipponico. Takehiko Inoue e
Naoki Urasawa sono gli ultimi due in
ordine di tempo. Giapponesi a par-
28
Daniela Serri e Daniela Orrù, in arte Dany&Dany,
vivono e lavorano a Cagliari, loro
città natale. Amano disegnare e raccontare storie, una passione diventata un lavoro. Sono loro
infatti, le ideatrici dei testi dei loro fumetti, storie
uniche di originalità e avventura.
Debuttano come autrici di fumetti nel 2002 con
la graphic novel e dalla Sardegna sbarcano in
America. Inoltre, dal 2003, tengono ‘lezioni
di manga’ per i corsi di fumetto organizzati da
“Gruppo Misto Comunicazione” e, dal 2006, per
i corsi della scuola di fumetto “Fare Fumetto”.
te, c’è un’importante eccezione:
Neil Gaiman, autore inglese della serie a fumetti “Sandman” e
di tante altre bellissime storie a
fumetti e non.
Di cosa parlano i vostri fumetti?
Le nostre graphic novel raccontano storie diverse tra loro. Sono
romanzi a fumetti tra le 100 e le
150 pagine, ciascuno con una
trama autoconclusiva a sè stante. In generale però, possiamo
dire di aver sviluppato soprattutto due generi: il gotico d’azione
da una parte e un tema più quotidiano, erotico-sentimentale, dall’altra. Quest’ultimo rappresenta
la maggior parte della nostra
produzione con pubblicazioni in lingua italiana,
inglese e tedesca. A prescindere dal discorso sul
genere, comunque, cerchiamo sempre di realizzare storie che diano un posto centrale ai personaggi e alle loro psicologie.
Quanto tempo impiegate per realizzarli?
Attualmente riusciamo a produrre una tavola al
giorno, completa di inchiostri, grigi, balloons e
lettering. “The lily and the rose”, il fumetto che
è uscito un paio di mesi fa negli USA, è lungo
140 pagine e l’abbiamo realizzato in meno di sei
mesi, durante i quali abbiamo anche scritto e
tradotto in inglese il soggetto e la sceneggiatura,
oltre realizzato l’illustrazione di copertina.
Come mai qui in Sardegna non siete riuscite a
farvi conoscere?
Se il problema qui in Sardegna fosse farci conoscere, non potremmo davvero lamentarci. I nostri
lavori sono sempre andati esauriti nelle fumetterie isolane e ogni mostra o presentazione a cui
abbiamo partecipato ha sempre attirato un pubblico
numeroso e affettuoso. Tuttavia, il nostro obiettivo non
è farci conoscere, ma fare. E qui in Sardegna, purtroppo, c’è davvero poco da fare... in tutti i sensi.Neppure
nel resto dell’Italia ci sono molte occasioni di lavoro. Si
parla spesso della crisi decennale che affligge il fumetto
italiano, ma non si fa nulla per modernizzarlo: i giovani
autori purtroppo,non vengono considerati una risorsa
su cui investire. Se poi hanno uno stile poco “tradizionale” come il nostro, allora il trattamento è anche peggiore. E triste che l’Italia debba sempre essere l’ultimo
vagone traballante del treno… In Francia, in Germania
e in Spagna la situazione è completamente diversa, per
non parlare degli Stati Uniti. E’ stato solo grazie ad internet che siamo riuscite a trovare una strada alternativa all’estero, come anche molti nostri colleghi italiani.
Com’è la vostra esperienza in America?
Fantastica! Siamo davvero entusiaste di essere entrate nel mercato statunitense. Un mese fa siamo state a
San Francisco in occasione di una fiera di fumetto e ab-
29
la quale abbiamo in progetto una serie a fumetti. Per quanto riguarda riviste e giornali,
finora le nostre collaborazioni si sono limitate
alla pubblicazione di singole illustrazioni, per
lo più per correlare articoli sul fumetto in generale o su di noi come autrici.
Qual è il fumetto che vi è riuscito meglio? E
il meno riuscito?
Siamo molto affezionate a tutti i nostri lavori e
sappiamo di averli fatti nel modo migliore possibile rispetto ai mezzi e alle capacità che possedevamo nel momento della realizzazione. A
livello affettivo sono tutti sullo stesso piano;
a livello tecnico-qualitativo per fortuna vanno
migliorando col passare del tempo e speriamo possa essere sempre così.
biamo potuto toccare con mano la vitalità e il calore sia degli addetti ai lavori, che del pubblico. Gli
editori investono molte risorse per lanciare nuovi
talenti e sono in grado di garantire una distribuzione e una campagna promozionale che purtroppo in Italia neanche ci sogniamo. Certo la crisi c’è
anche là, ma la si affronta in modo radicalmente
opposto: non ripiegandosi su se stessi come in
Italia, ma aprendosi alle novità e sperimentando.
Questo dinamismo incoraggia le nuove produzioni
e queste stimolano il mercato.
Per quale rivista, giornale lavorate?
I nostri fumetti sono albi di oltre 100 pagine e non
potrebbero essere contenuti all’interno di riviste
e giornali, perciò vengono pubblicati come libri
a fumetti singoli. Escono nelle librerie e nelle fumetterie. Attualmente pubblichiamo con la casa
editrice americana “Yaoi Press” e con la tedesca
“Wild Side”. Inoltre abbiamo appena concluso le
trattative con un’altra casa editrice americana, di
cui però non possiamo ancora fare il nome, con
30
QUANDO L’IMPERATIVO È:
MANTENERE I NERVI SALDI
Dal 1989 all’ospedale Brotzu di Cagliari, da Pavia
a Cagliari è una delle poche donne specializzata
in neurochirurgia. Sposata, con due figli, riesce a
conciliare gli impegni di lavoro con quelli della famiglia. La passione per quello che fa, lo studio e
le cure che riserva ai suoi pazienti sono una garanzia per la buona riuscita dei suoi interventi.
32
Veronica
Meleddu
IN SALA OPERATORIA
CON DEDIZIONE E AMORE
neurochirurgo
di Sandra Sulcis
C
ome è iniziata la passione per il suo lavoro?
Da sempre è un lavoro che ho nel sangue.
Sin dalle scuole elementari sono rimasta affascinata dal sistema nervoso. Il fatto che un
organo potesse coordinare tutti gli apparati mi ha veramente colpita, è straordinario.
Così mi sono iscritta alla facoltà di medicina e, a Pavia, mi
sono specializzata nella conoscenza di questo apparato.
Cos’è in poche parole la neurochirurgia?
E’ la disciplina per la terapia chirurgica delle malattie del
sistema nervoso. Richiede una profonda preparazione
perché intervenire sul sistema nervoso senza un’adeguata conoscenza può essere molto rischioso per il paziente.
L’intervento del neurochirurgo deve essere delicato, è necessario rispettare le strutture aggredite e rimuovere definitivamente la lesione. Bisogna perciò conoscere bene
l’anatomia e verificare scrupolosamente i rapporti della
lesione con le strutture funzionali.
Ricorda il suo primo intervento?
Fu nel 1985 durante la scuola di specializzazione che ho frequentato a Pavia.
Feci da ausilio al chirurgo, dovevo drenare le cavità ventricolari. . Comunque una
soddisfazione, anche se il mio fu solo un
compito di routin.
Lavora all’ospedale Brotzu di Cagliari
dal 1989. Che tecniche utilizzate nel
reparto di neurochirurgia per gli interventi?
Le tecniche chirurgiche moderne si basano sul rispetto massimo del tessuto nervoso. Per realizzare questo scopo sono
necessari strumenti sofisticati, sia per
l’accesso, sia per la manipolazione chirurgica. L’accesso viene studiato in base
alle caratteristiche della lesione ed alla
33
sua localizzazione. Per le lesioni vascolari e per taluni tumori risulta indispensabile anche la conoscenza
della struttura vasale normale e patologica.
Normalmente l’esperienza e la perizia del chirurgo
permettono di localizzare e trattare la lesione con minimo danno del tessuto sano. Sono state sviluppate
a questo proposito tecniche chirurgiche attraverso la
base cranica il cui scopo è quello di retrarre il cervello il meno possibile e giungere all’area di interesse
attraverso la via più breve. L’uso del neuroendoscopio agevola fortemente questo proposito. In aree cerebrali particolarmente critiche (area motoria o del
linguaggio) è necessario un monitoraggio clinico e
soprattutto elettrofisiologico, per delimitare i confini
chirurgici. Col paziente spesso sveglio o risvegliabile
si stimola l’area di interesse, localizzando la zona corticale che controlla la funzione da salvare.
E’ indispensabile un lavoro d’equipe e una conoscenza approfondita del paziente e dei macchinari che ci
supportano durante l’intervento.
Quanti interventi effettuate lei e la sua equipe?
In media tre alla settimana.
Quanto dura ogni intervento?
34
Dipende dalla patologia per cui interveniamo. Il paziente può rimanere sotto i ferri venti minuti, un’ora
ma anche un’intera giornata se è necessario.
Che età hanno i suoi pazienti?
Tutte le età. Ho dovuto operare anche dei bambini.
Molti comunque sono pazienti che hanno subito un
trauma cranico in seguito a un incidente stradale.
La maggior parte delle persone che entrano nelle
sale operatorie, purtroppo, arrivano in ospedale con
dei gravi traumi cranici che richiedono un intervento
urgente.
Quanto tempo impiegano i suoi pazienti per riprendersi e tornare a una vita normale?
In genere se l’intervento è riuscito dopo 7 giorni il paziente può tornare a casa e dopo 15 è in grado di
riprendere a lavorare.
Cosa vuol dire essere una donna neurochirurgo?
E’ una scelta di vita importante. Essere neurochirurgo
vuol dire non dimenticarsi mai che la vita degli altri
è nelle tue mani. Non puoi permetterti di sbagliare,
tanto meno se sei una donna.
Questo lavoro è da sempre stato prerogativa degli
uomini, sono ancora poche le donne neurochirurgo
in Italia e non è facile competere.
La determinazione è indispensabile.
Non ci si deve lasciar abbattere delle
sconfitte, bisogna superarle. Inoltre è
necessario mettersi in discussione,
mai pensare di aver raggiunto l’apice
della conoscenza.
Lei è moglie e madre di due figli.
Come fa a conciliare il suo lavoro
con gli impegni della sua famiglia?
E’ molto difficile. Il mio lavoro non mi
permette di avere una giornata scandita da dei ritmi costanti. Ogni giorno
so a che ora prendo servizio ma mai
quando torno a casa. I miei figli sanno
che nel mio lavoro non esiste nulla di
certo, devo essere sempre reperibile
perché possono chiamarmi in ogni
momento.
Ma parlo molto con loro, sanno che
il dovere e la responsabilità è molto
importante.
Quando erano piccoli li ho portati con
me in ospedale perché vedessero
con i loro occhi e capissero cosa vuol
dire lavorare nel mio reparto e salvare vite umane.
E’ stato difficile e spesso ancora lo è
ma per i miei figli ci sono sempre anche quando
entro in sala operatoria.
Cosa pensano i suoi colleghi di lei?
Credo che mi stimino. Sono molto determinata, so
farmi rispettare.
Quale è il suo prossimo obiettivo?
Specializzarmi nel cura dei tumori al Basicranio.
Che consiglio vuole dare alle altre donne che
come lei vogliono fare questo mestiere?
Non si devono mai lasciar abbattere da nulla. Il
nostro è un lavoro che richiede un forte senso
di umanità. Devono ricordarsi che prima di tutto
hanno a che fare con persone non con malati.
E’ fondamentale instaurare un rapporto di stima
e fiducia tra loro e il paziente, devono accompagnarlo in ogni istante, prima, durante e dopo l’intervento.
Non arrendersi davanti alle difficoltà e ricordarsi
che sbagliare è umano. L’importante è sapere di
aver fatto tutto il possibile.
Quale è la sua più grande soddisfazione?
Sono due le mie più grandi soddisfazioni: la prima,
quando ricevo i ringraziamenti dai miei pazienti e
dai loro familiari, e la seconda è quando torno a
casa e i miei figli mi chiedono come stanno i miei
pazienti.
35
L
E BA
“C’è in questo regno di Sardegna una
famiglia divisa, chiamata Delitala. paragonabile agli antichi Guelfi e Ghibellini.
Due di loro sono in prigione, due condannati a morte in contumacia. Altri due, con
molti parenti, sono a capo dei banditi... Si
può dire che sono i piccoli sovrani della
Gallura: e non c’è possibilità di arrestarli,
perche ci sono montagne. boschi e luoghi
dove non ci si può servire di guide. “
(Tratto da Banditi di Sardegna – Franco Fresi)
Paska Devaddis :
immagine tratta da un disegno di Piero Masia
36
Lucia, Paska e Sa Reina
Storia di donne d’altri tempi e d’altri luoghi tra mito e storia
ANDITESSE
DI SARDEGNA
“E
di Valentina Follesa
’ una giovane di circa quarant’anni che
non si è voluta sposare per non dipendere da un uomo, secondo quanto lei
stessa afferma. Ha due mustacchi da
granatiere e usa le armi e il cavallo come un gendarme”.
Siamo nella prima metà del 1700. Il ritratto è di una
donna sarda d’altri tempi, femminista certamente no,
emancipata sicuramente si. Forte dei suoi ideali, decisa, indipendente, nonostante, come ben sappiamo, la
figura femminile nel passato fosse relegata a ben altre
faccende, pur ricoprendo un ruolo di spicco e di potere
secondo le leggi non scritte di una radicata e ben funzionante società matriarcale. Integra. Ma ‘fuorilegge’.
Una banditessa, esponente di quella piaga sarda, il
banditismo appunto, che nato per contrastare il ‘dominio dello straniero’ in Sardegna, ha poi finito per
diventare un metodo violento di protesta, causa di
omicidi e lotte senza esclusione di colpi. Riporta il
grande storico Giuseppe Manno, di cui leggiamo
nel libro di Paolo Fresi, Banditi di Sardegna, preziosa fonte in questa nostra ricerca storica: “La
Sardegna era in quel tempo tribolata da varie
bande di malviventi, che, formicando per ogni
dove, non solo turbavano la quiete comune,
ma faceano anche vista di voler sopraffare lo stesso governo, andato
il piu’ delle volte a rilento
nel combatterli”.
Ma torniamo alla ‘banditessa’, cercando di fotografare questo curioso
personaggio da un angolo
diverso da quello che la parificherebbe ai suoi colleghi
uomini banditi. Non vogliamo
certo, d’altro canto, proporre un
modello di donna, ma soltanto fare
qualche considerazione e riflessione su
37
una delle figure femminili,
a suo modo speciale, di cui
la Sardegna del passato ci
ha lasciato memoria, ben
consapevoli di parlare di un
ruolo politicamente non imitabile.
La donna di cui si parla nell’incipit, in realtà parte di
una lettera che il vicerè di
Sardegna scriveva verso il
1735 al re Carlo Emanuele
III, è Donna Lucia Delitala,
appartenente ad una delle
più ricche casate di Nulvi,
spezzata in due fazioni avverse, dove a combattere
erano anche le donne. “Ed
una gentildonna di quel casato – ci suggerisce il Manno – donna Lucia Delitala,
dava loro l’esempio dello
stare immota in su l’arcione
e del lanciarsi con il cavallo
tra i balzi e dell’affrontare
gagliardamente l’inimico e
dell’imbroccare da lunge
collo schioppetto. Non perciò solo d’animo virile; poichè sentendo di sè meglio
di quello che fosse disdicevole a femmina, ricusò, finchè visse, le nozze e l’amore
d’un sesso di cui non sapeva sofferire la superiorità”.
Personaggio scomodo per
il governo piemontese, ma
una sorta di eroina per la
gente comune. La tradizione popolare la ricorda infatti come l’amazzone di Nulvi,
donna dal fascino straordinario, illuminata da un bel
sorriso, dotata di grande
coraggio, abile nei combattimenti a cavallo e amante
della vita e della libertà. Il
suo volto diveniva accigliato
e duro solo quando doveva
affrontare una battaglia.
Era molto apprezzata e sti-
38
mata per la sua lealtà anche dai
suoi ‘colleghi uomini’, con cui lavorava a stretto contatto. Lei capeggiava infatti, insieme al Bandito di
Chiaramonti Giovanni Fais e a sua
moglie Chiara Unani, una banda
di sprezzanti guerriglieri che contrastava l’autorità Piemontese. E
non si risparmiava, era sempre in
prima linea con la sua ‘spericolata irruenza’ ci riferisce il Fresi. Abbandonò la sua posizione dopo la
rivolta di Chiaramonti che le costò
una condanna a 15 anni in contumacia per dedicarsi alla guerriglia,
rifugiandosi poi probabilmente in
Corsica. Sulla sua morte non si sa
molto, le voci che arrivano dalla
tradizione orale si rincorrono fino
a sfociare nella più fantastica delle storie popolari. Probabilmente
morì tra il 1755 e il 1767. Dove
e come non si sa. Nel cimitero di
Nulvi, dove ci sono le tombe dei
Delitala, nessuna lapide ha inciso il suo nome. Potrebbe essere
morta in seguito ad una caduta
da un dirupo, o uccisa in Corsica
da alcuni pastori transumanti. Ma
Donna Lucia “era ... uomo da farsi
sorprendere così facilmente”? Una
cosa è certa. Morì nubile e ricchissima e lasciò tutti i suoi averi alla
chiesa.
Ma non è l’unica banditessa di cui
si hanno notizie in Sardegna. Altre
due donne, entrambe provenienti
da ricche famiglie, si sono distinte in questo ruolo: Maria Antonia
nota come Sa Reina di Nuoro e
Paska Devaddis di Orgosolo.
Sa Reina visse a Nuoro a cavallo
tra l’Ottocento e il Novecento. Era
una donna un pò diversa da Lucia.
Non scelse la latitanza, ma ne fu
fiera sostenitrice. Apparteneva ai
Serra-Sanna, una temutissima famiglia povera di origini, divenuta
proprietaria di case, terreni e molti
capi di bestiame, grazie anche all’impegno di Maria Antonia. “Lei
incedeva altera – ci racconta il
Fresi - le forme robuste nascoste
dal ricco costume smagliante di
ori, candore di lini e rosso sangue
di porpora. Il viso eretto, bello di
un’ardita bellezza, era come abbrunito dal nero profondo degli occhi”. Capace però di imbracciare
il fucile e di assumere sembianze
maschili per girare liberamente
nelle campagne circostanti dove
agivano indisturbati i suoi due fratelli latitanti, Giacomo e il temibile
Elias, a cui forniva informazioni e
riserve d’armi. Fu lei l’eccellente
tramite tra il paese e i territori
circostanti dove la legge non si
poteva applicare. Il governo piemontese la definiva “un accidente mandato da Dio sulla terra per
dannazione del genere umano”.
La sua attività cessò giocoforza
nella notte tra il 14 e il 15 maggio,
meglio conosciuta come notte di
San Bartolomeo, nella quale l’autorità regia, grazie ad un’azione a
sorpresa, riuscì a compiere arresti eccellenti, tra cui quello de La
Regina di Nuoro, che nel 1900 fu
condannata a 18 anni di carcere.
Infine Paska, una giovane donna
divenuta banditessa in seguito
al coinvolgimento della sua famiglia nella faida tra due casate di
spicco della Barbagia di allora, i
Cossu, vicini al governo piemontese, e i Corraine intolleranti verso tale autorità. Orgosolo, 1912:
Paska, piuttosto che rimettersi
ad un mandato di cattura, decide
di darsi alla macchia, rinunciando anche ad una fuga in America insieme al fidanzato Michele
Manca, che mai riuscì a sposare
perchè lui scontava una pena per
omicidio.
“Una giovinetta costretta anche
lei a prendere la via della montagna – ci riferisce Fresi riprendendo un testo di Brigaglia - capace
di cavalcare e sparare come i suoi
compagni di latitanza: quando muore, di tisi e di stenti, in
montagna, i suoi compagni la
trasportano di notte nel paese silenzioso e la depongono nella sua casa vuota, sul
tappeto più bello, vestita con
il costume da sposa che non
potrà più indossare; l’autopsia sul cadavere la dichiarerà
vergine, e Paska diventerà un
personaggio di leggenda».
Avrebbe potuto avere un futuro assicurato ed una vita
agiata, ma scelse invece di
seguire un destino duro e incerto volto ad eliminare i propri nemici. La tradizione orale
la vuole vergine amazzone,
selvaggia e fortissima, mentre invece nella realtà era una
giovane donna dalla salute
cagionevole, stretta da una
società le cui le leggi, benchè
non scritte, dovevano essere
rispettate. Moriva nel 1913 in
latitanza.
Tre storie, tre personaggi,
accomunati da una scelta di
vivere come ‘fuorilegge’. Condannate dal governo piemontese o considerate partigiane
dal popolo, a torto o a ragione, furono comunque donne
forti, indipendenti, tenaci nell’animo e nelle idee. Contraddistinte da quell’inconfondibile orgoglio e carattere fiero
che appartiene alle donne
sarde.
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I
l coraggio
di Madre Teresa
L
a figura minuta di Madre Teresa, il suo fragile
fisico piegato dalla fatica, il
suo volto solcato da innumerevoli rughe sono conosciuti in tutto il mondo.
Chi l’ha incontrata, non ha più potuto dimenticarla:
la luce del suo sorriso, i suoi occhi profondi, amorevoli, limpidi riflettevano la sua immensa carità.
Lei amava definirsi “la piccola matita di Dio”, un
piccolo semplice strumento fra le Sue mani. Riconosceva con umiltà che quando la matita sarebbe
diventata un mozzicone inutile, il Signore avrebbe
affidato ad altri la sua
missione apostolica.
Alla base della spiritualità di Madre Teresa
c’era il tabernacolo. , la
preghiera, l’abbandono
a Dio. E’ dal tabernacolo, infatti, che lei le sue
suore attingono forza e
fede per il servizio loro
affidato.
Per condurre una vita
d’amore al servizio degli ultimi bisogna innanzitutto pregare, ripeteva
spesso Madre Teresa.
Senza la preghiera, infatti, la carità non sarebbe carità, ma semplice filantropia o generico
buonismo. “ Ricordatevi che non siete assistenti
sociali – soleva ripetere loro Madre Teresa – ma
contemplative nel cuore del mondo “.
Lei stessa aveva sempre in mano la corona del Rosario e così tante volte l’hanno
immortalata i fotografi e le TV di tutto il mondo. Anche quando andò a Oslo a ritirare il premio Nobel,
in una terra rigidamente luterana, portò con se la
sua corona di grossi grani ben in vista tra le sue
dita nodose.
Era convinta che la santità è possibile a chiunque
s’impegni seriamente nel seguire Gesù, e si affidava a Maria.
“Ricorrere a Lei con confidenza come di bambini
in tutte le proprie gioie e
pene”, non mancava mai di raccomandare ogni
giorno alle sue suore.
Una delle sue preghiere più belle, tradotta dall’inglese, dice così:
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“Maria, Madre di Gesù,
dammi il tuo cuore,
così bello,
così puro,
così immacolato,
così pieno d’amore e umiltà:
rendimi capace di ricevere Gesù
nel Pane della Vita,
amarlo come tu lo amasti
e servirlo
sotto le povere spoglie
del più povero tra i poveri...”
Madre Teresa è scomparsa a Calcutta la sera del venerdì 5 settembre 1997, alle 21.30. Aveva 87 anni, la
sua morte creò un profondo vuoto.
Il 26 luglio 1999 si è aperto, per volontà di Giovanni Paolo II, il suo processo di beatificazione. Per tutti
Madre Teresa è già Santa.
Il suo messaggio è sempre attuale, la sua vita un
esempio da seguire. Il suo era un linguaggio semplice,
comprensibile, che penetrava nel profondo del cuore.
Per lei ognuno deve cercare la sua Calcutta, perché è
presente anche sulle strade del ricco Occidente, nel
ritmo frenetico delle nostre città.
“Puoi trovare Calcutta in tutto il mondo – lei diceva
– se hai occhi per vedere.
Dovunque ci sono i non amati, i non voluti, i non curati, i respinti, i
dimenticati…”
Nella casa-madre nella Lower Circular Road di Calcutta, c’è una semplice cappella, dove dal 13 settembre 1997, riposa la piccola suora che ha dedicato la sua vita agli altri.
Pellegrini da tutto il mondo vengono ogni giorno a
visitarla. Persone di ogni credo e ceto sociale giungono qui, nel cuore di Calcutta, per pregare e trovare
pace e amore.
Nicoli
SUnauorvita
al servizio
degli altri
“I
l cuore è una meraviglia della creazione. Dal
cuore viene la capacità di amare, di gioire, di
sacrificarsi. Esso è capace di atti eroici è più grande
dell’uomo stesso ma diventa cieco se non si lascia
guidare dalla ragione”. La dolcezza esigente di una
madre dalla fede solida e l’animo generoso, questo
caratterizzava Suor Giuseppina Nicoli, salita alla gloria
degli altari il 3 Febbraio scorso. Nata a Casatisma il 18
Novembre 1863, piccolo borgo vicino a Voghera Giuseppina Nicoli sentì fin da bambina la sua vocazione.
A vent’anni entrò in seminario, abbandonò tutto per
seguire la vocazione di figlia della Carità e nel Natale del 1884 partì per la Sardegna, dove cominciò la
sua avventura al servizio dei poveri e in particolare dei
bambini.
Sbarcò a Cagliari il primo gennaio 1885. Rimase affascinata dagli splendidi colori della città e del mare.
“Davvero dà un’idea dell’infinito” scrisse al padre in
una lettera.
Nel 1886 si dedicò ad assistere le famiglie povere della città, conobbe i bambini e gli abbandonati a se stessi. Li riunì all’asilo Umberto e Margherita insegnò loro
il catechismo attribuendogli il nome di “Luigini”.
Inoltre ridiede slancio all’associazione delle figlie di
Maria, riunì le dame della carità e le guidò nel servizio
verso i poveri, incentivò la scuola di catechismo raggiungendo ogni domenica circa 800 bambini e bambine, costituì la scuola di religione per le giovani delle
scuole superiori ed universitarie per aiutarle a diventare maestre nella fede.
A Cagliari e in tutta la Sardegna però, Suor Nicoli è
amata e conosciuta soprattutto per le amorevoli cure
che dedicò ai ragazzi poveri del quartiere della marina. Erano vagabondi ai margini della comunità, orfani, abbandonati a se stessi. Ragazzetti fra i 10 e 15
anni affamati, scalzi, magri, oziavano tutto il giorno
nel quartiere, dormivano per strada. Per sopravvivere
trasportavano i bagagli e i pacchi della spesa delle signore sopra delle larghe ceste (corbule) portate sulla
testa.
Li chiamavano per questo i “Is picioccus de crobi” i
ragazzi della cesta.
La loro condizione non poteva lasciare indifferente
Suor Nicoli che, senza sottrarli al loro ambiente, cominciò a conquistarsi la loro simpatia. Riuscì a portarli
alla messa, a istruirli nel catechismo, a insegnare loro
a leggere e a scrivere. A poco a poco da ragazzi magri
e poveri divennero “Marianelli” i monelli di Maria che
si affidavano all’affetto e alle cure delle suore della Carità. Suor Nicoli poi, divenne per loro come una madre.
Nella sua vita Suor Nicoli non si stancò mai di dedicarsi ai più poveri e ai bisognosi, per lei la solidarietà e
l’altruismo erano alla base di tutti i rapporti umani. La
sua vita era intrisa di carità e amore.
Morì il 31 dicembre 1924.
Suor Teresa Tambelli, continuatrice della sua opera
l’ha definita una santa, La santa della Carità.
Il 28 Aprile 2006 Papa Benedetto XVI ha autorizzato
la promulgazione del decreto di eroicità delle virtù di
Suor Nicoli, dichiarandola venerabile. Il 3 febbraio
2008 è stata Proclamata Beata.
“Non diciamo: ‘Sono sempre la stessa!’. Noi navighiamo contro la corrente di un fiume. Non
riusciamo ad andare avanti. Non diciamo: ‘Non
faccio niente’. Se facessi niente sarei trasportata
dalla corrente. Se sono sempre qui è perché lotto
contro la corrente, mi sostengo, mi arricchisco di
meriti.”
“Il segreto per divenire grandi santi è praticare
le piccole virtù, facendo tutto bene, nel tempo e
nel luogo, nella maniera con cui Dio vuole. Quale
cosa da il vero valore alle nostre azioni? L’intenzione e l’affetto del cuore. Fare tutto conformemente al volere di Dio è aver trovato il segreto
per cambiare in oro e diamante la piccola moneta della vedova del Vangelo. La pratica delle
piccole virtù ci libera dall’orgoglio, dalla pigrizia,
dall’ambizione.”
Tina Merlin
DALLE
CASE CHIUSE
AI QUARTIERI
A LUCI ROSSE
A sessant’anni dalla legge che
ne decretò la chiusura, si torna a
parlare di case chiuse. E’ in corso in questi mesi infatti un appassionato dibattito sulle misure
più efficaci da adottare nella lotta contro la prostituzione, ma soprattutto spostare dalle strade il
sesso mercenario a disposizione
24 ore su 24 festivi compresi.
Tra le varie ipotesi quella di riaprire le case quelle che un tempo venivano chiamate con vari nomi:
case di tolleranza, postriboli, bordelli, e in termini
più popolari casini.
Giusta o sbagliata che fosse, la legge stabiliva di
abolire la regolamentazione della prostituzione in
Italia e, allo stesso tempo, avviava la lotta contro
lo sfruttamento della prostituzione. La conseguenza fu quella della chiusura delle case di tolleranza.
In sessant’anni cosa ha prodotto dunque la tanto
contestata legge Merlin? Tanti, dai politici agli intellettuali, oggi tirano oggi le somme. Sicuramente ha
spostato nelle strade quello che è considerato dall’opinione pubblica il mestiere più antico del mondo. Un grande mercato del sesso a pagamento che
non conosce crisi, globalizzato insieme ai consumi
e ai mercati.
Meglio conosciuta come “legge Merlin” per via della
prima firmataria, la famosa legge 75 del 20 febbraio
1948, fu promossa dalla senatrice socialista Lina
Merlin, che affrontò all’epoca la forte opposizione
di molti parlamentari, compresi diversi compagni di
partito.
Una legge non molto condivisa all’epoca in un’Italia attaccata alle più intime tradizioni del periodo
preunitario, e fortemente criticata in Parlamento da
singoli esponenti di diversi partiti, di destra e sinistra. In un periodo storico dove, secondo il pensiero
essant’anni
Sd’intolleranza
di Maria Assunta Serra
42
dominante, la prostituzione era considerata certamente un male morale, ma in
ogni caso necessaria alla società. Utile
per soddisfare i bisogni sessuali maschili e per salvaguardare l’onore delle
donne per bene. Ma nonostante fosse
considerata necessaria, la prostituzione era ritenuta anche pericolosa, sia
per le eventuali malattie contagiose, sia
per l’impatto visivo che potevano avere
in particolare le donne e i bambini nell’assistere a trattative e commerci non
merce in esposizione. Ecco dunque il
dovere dello Stato di regolare le attività
di meretricio e renderle invisibili agli occhi innocenti.
Già ai tempi di Cavour vi fu una prima regolamentazione. Una prostituzione legalizzata dove le donne che esercitavano il
mestiere dovevano iscriversi sui registri
di polizia, sottoporsi a visite mediche
due volte alla settimana e restare all’interno delle case per la maggior parte del
tempo, sotto la sorveglianza delle forze
dell’ordine. Il mestiere non poteva essere abbandonato senza il permesso delle
forze dell’ordine e le donne non potevano allontanarsi o cambiare residenza.
Diversi anni più tardi arrivarono anche
le teorie di alcuni studiosi che, dati
scientifici alla mano, arrivarono alla teoria della donna delinquente, della natura criminale della prostituta, avvallando
così atteggiamenti sempre più intransigenti da parte dello Stato nel controllo
delle attività . Le case chiuse diventavano quindi un necessario compromesso
fra i desideri sessuali degli uomini e la
vergogna morale rappresentata invece
dalle prostitute. Il commercio del sesso
diventava perciò legittimo all’interno dei
bordelli, reso dunque invisibile al pubblico e subordinato al potere dello Stato.
La senatrice Merlin già nel 1948 aveva
promosso un progetto di legge contro lo
sfruttamento sessuale e l’uso dello Stato di riscuotere la tassa di esercizio e la
percentuale sugli incassi della vendita
del corpo delle donne. Ma fu determinante per la sua iniziativa l’adesione dell’Italia all’ONU. In virtù di questo evento,
il governo dovette infatti sottoscrivere
diverse convenzioni tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
43
Una scena dal film di Lina Wetmuller
“Film d’amore e d’anarchia
44
che obbligava tra l’altro, gli Stati firmatari di porre in atto la
repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento
della prostituzione. Le leggi che fino ad allora avevano quindi
regolamentato la prostituzione vennero abolite, senza che il
Parlamento trovasse una soluzione diversa o quanto meno
alternativa alla questione che, come si sa, non fu assolutamente eliminata.
La legge restituì la libertà ad oltre duemila schiave del sesso, fino ad allora sfruttate sia dai loro lenoni (o protettori) e
sia dallo Stato che contava incassi ad ogni prestazione.
La legge Merlin segnò una svolta nel costume italiano del
secondo dopoguerra, anche se in tanti intravedevano gravi
conseguenze come epidemie di malattie veneree ed il dilagare delle prostitute nelle strade delle città.
La legge Merlin e la chiusura della case di tolleranza non
ha certamente portato alla scomparsa della prostituzione,
né alla diminuzione del numero delle donne costrette per
ricatto o per necessità a prostituirsi. Tanto più con gli anni è
aumentato il fenomeno criminale legato a racket anche stranieri che hanno in mano lo sfruttamento di giovani donne
dell’est europeo e del sud Africa.
Di questi tempi il dibattito è in corso.
Riaprire o no le case chiuse, organizzare quartieri a luci rosse, come
le vetrine del sesso ad Amsterdam,
o Artemis a Berlino. In Germania,
Svizzera e Olanda la prostituzione è
legalizzata, l’attività è oggetto d’imposta, esiste anche il sindacato che
tutela le professioniste del sesso. In
Francia e in Gran Bretagna invece è
solo tollerata, ma il mercato è molto
attivo... In Italia un referendum potrà
decidere le opzioni possibili. Repressione o legalizzazione? Lasciamo
alle donne l’ardua sentenza.
Un angolo del Giappone
dedicato all’incantevole
mondo femminile
Nel mondo dello spettacolo le donne che vestono ruoli maschili sono
una rarità ma, Takarazuka, rappresenta un’eccezione. Dal 1924 la
cittadina nipponica di Takarazuka
ospita il primo e più grandioso
esempio di compagnia stabile tutta femminile, in cui i ruoli maschili
sono rigorosamente riservati alle
donne. Questo teatro però non
rappresenta una scappatoia per
attricette che vogliono dare spettacolo e farsi pubblicità, bensì un
rigido e impegnativo percorso formativo, che soprattutto negli ultimi anni è diventato un’icona per
le giapponesi e non solo.
Questa compagnia non recluta
attrici “esterne”, ma solo fra le
allieve dell’annessa scuola di recitazione, estremamente selettiva,
che si occupa della crescita delle
aspiranti “takarisiennes” (questo
è il soprannome delle attrici del
Takarazuka). Le ragazze studiano
per otto ore al giorno, sotto una ferrea disciplina, vivono nei dormitori
e nelle infrastrutture annesse al
teatro, e per stimolare la resistenza e la forza di volontà non sono
loro concessi elettrodomestici.
Dopo un anno in comune le studentesse si separano a seconda delle
proprie inclinazioni: le “musumeyaku” si specializzeranno in ruoli
femminili, mentre le “otokoyaku” in
quelli maschili seguendo un addestramento supplementare che dovrà farle diventare “veri uomini”.
Terminata la preparazione, le attrici verranno assegnate a una delle
cinque troupes (luna, neve, stella,
fiore e cielo) che compongono la
compagnia, e inizieranno a tenere
le loro rappresentazioni presso il
teatro principale a Takarazuka, al
distaccamento di Tokyo o in tournèe nazionali ed internazionali.
Ogni troupe è organizzata gerarchicamente in base all’anzianità e
quando l’attrice principale si ritira,
o non è più adatta ai ruoli principali, viene sostituita da chi la segue
nella “piramide” della propria troupe. Recentemente si è costituito un
gruppo speciale composto da takarisiennes ultraquarantenni, i cui
membri possono andare a sostenere le varie troupes, in base alle
loro varie esigenze. Quando capita
che una takarisienne abbandona
questa vita troppo impegnativa,
spesso decide di diventare una
cantante o, più di frequente, apre
un locale.
Il repertorio del teatro Takarazuka
è estremamente vario e va dai
musical più gettonati come “Grease!”, “Kiss me Kate” e “West Side
Story” a “L’Opera da Tre Soldi” di
B.Brecht, dal teatro romantico di
“Cyrano de Bergerac” ai classici di
Shakespare, nonchè a rielaborazioni originali come la biografia di
Rodolfo Valentino. Questa particolare propensione alla commistione
di generi, inoltre, ha spesso aperto le porte al mondo dei manga caratterizzati da contenuti più “adulti”, e la rappresentazione di “Lady
Oscar” è stata una conseguenza
quasi automatica.
Sicuramente la realtà giapponese
è un microcosmo ma certamente il
Teatro Takarazuka è stato capace
di ritagliarsi spazio e popolarità in
una società maschilista e tradizionalista come quella nipponica.
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NON SOLO BELLE
ma anche creative e tecnologiche ecco le donne
che amano la scienza e hanno contribuito
al progresso scientifico mondiale
E’ ancora lunga la strada da percorrere per una reale parità tra
uomo e donna. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni,
le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con
l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari
diritti di esseri umani.
Malgrado le difficoltà incontrate però, non sono poche le donne che
hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La
storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate che, in tutto il
mondo, con i loro studi hanno contribuito allo sviluppo della scienza
e della tecnologia.
Donne determinate, curiose, disposte a combattere i pregiudizi di
inferiorità che da sempre sono stati loro attribuiti. Donne uniche,
esempio per le nuove generazioni che non hanno nulla da invidiare
ai colleghi uomini.
africa
Annie Easley (1933)
Madame C.J. Walker (1867 - 1919)
Fu una delle prime donne, appartenente a una famiglia di schiavi ad
avere successo economico grazie alla sua capacità creativa e innovativa. Nel 1905 mise a punto un trattamento per lisciare i capelli. La
sua invenzione le permise di accumulare una fortuna grazie alla vendita del prodotto porta a porta. Nel 1910 riuscì ad aprire una azienda
e organizzò numerosi convegni per promuovere la sua invenzione.
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MIXEDO
america
Alexandra Illmer Forsythe (1918 - 1980) Matematica
Alexandra Illmer Forsythe ha condotto diversi studi in campo informatico. Dal 1960
al 1970 è stata co-autrice di una serie di testi di informatica.
Emily Roebling (1844 - 1903) Ingegnere
Il marito fu l’ingegnere che seguì i lavori per la costruzione del Ponte di Brooklyn.
Paralizzato a causa di un incidente, i lavori di completamento vennero continuati da
Emily Roebling.
Kate Gleason (1865 - 1933) Ingegnere
Nel 1918 divenne la prima donna ad entrare nella American Society of Mechanical
Engineers.
asia
Si Ling-Chi (c. 2640 AC) Imperatrice
Leggendaria prima Imperatrice della Cina. Mentre era seduta nel suo giardino capì
il segreto della seta osservando il baco da seta. Sviluppò il processo per rimuovere
il filo dal bozzolo e stabilì dove
tessere la seta e fare nuovi tessuti.
Wu, Chien Shiung (1912 - 1997) Fisico
Chien Shiung Wu nacque in China nel 1912 ed emigrò negli Stati Uniti dopo essersi laureata alla Nanking Central University. All’Università di Berkeley ottenne
un Dottorato ed insegnò allo Smith College prima di iniziare a lavorare presso la
Columbia University. Partecipò al Progetto Manhattan, e tra i risultati ottenuti il più
importante fu la dimostrazione che il “principio di parità” fino ad allora ritenuto intoccabile, non è sempre valido in campo subatomico. Grazie a questa scoperta il
Nobel fu vinto dai suoi colleghi Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang.
Vandana Shiva (1952) Fisico quantistico
Considerata la teorica più nota di una nuova scienza: l’ecologia sociale. Oltre ad essere un fisico, Vandana Shiva è anche economista e dirige dal 1982 il Centro per la
Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India. Fa parte
del movimento “Donne” che in Asia, Africa e
America Latina critica le politiche di aiuto allo sviluppo.
europa
Maria Gaetana Agnesi (1718 - 1799) Matematica
Bambina prodigio, all’età di nove anni, scriveva leggeva e parlava italiano, francese, latino, greco, tedesco, spagnolo ed era conosciuta come “l’oracolo delle sette
lingue”.
Herta Marks Aryton (1854 - 1923) Fisico
Agli inizi del XX secolo lavorò nel campo dell’elettricità e scrisse quello che divenne
lo “standard textbook”. Columbia University.
Partecipò quindi al Progetto Manhattan, di cui tra i risultati ottenuti il più importante
fu la dimostrazione che il “principio di parità” fino ad allora ritenuto intoccabile, non
è sempre valido in campo subatomico.
Grazie a questa scoperta il Nobel fu vinto dai suoi colleghi Tsung Dao Lee e Chen
Ning Yang.
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D ISCOVER
SARDINIA
viaggio tra mare, chiese e storia
L
a Sardegna, collocata nel centro del Mar Mediterraneo,
coi suoi circa 1800 chilometri di coste rappresenta, per
la posizione geografica e per la sua storia, una delle destinazioni più ambite per chi usa trascorrere le proprie
vacanze al mare. E non solo.
Proviamo ad intraprendere, pur con tutti i limiti delle righe che
abbiamo a disposizione per presentarvi la Sardegna, un piccolo
tour, sfiorando le coste piu’ suggestive e spingendoci poi verso
l’interno tra i nuraghi e le antiche chiese.
Punto di partenza e poi di approdo, il capoluogo sardo: Cagliari.
Merita molto piu’ di due parole veloci che il nostro spazio tiranno ci
impone. Di sicuro una visita di qualche giorno.
Addossata ad un piccolo colle, sulla cima del quale si trova
la cittadella medievale con le due Torri di San Pancrazio e
dell’Elefante, la capitale della Sardegna si è sviluppata poi verso
il mare coi suoi quartieri moderni ed il porto commerciale tra i
più importanti del Mediterraneo. La città, forse di origine fenicia
ma certamente cartaginese, è anche il principale centro politico,
economico e culturale della regione sarda; con i centri più vicini
di Quartu, Pirri, Monserrato o Selargius ospita quasi un terzo
dell’intera popolazione isolana.
Spostiamoci verso occidente, ci imbattiamo immediatamente
nella ex città punico romana di Nora, vicino al ridente centro
estivo di Pula. Che ospita la spiaggia e la pineta di S.Margherita
di Pula, che ospitano alcune tra le migliori strutture alberghiere
52
della Sardegna. In questa località si possono effettuare escursioni
nelle vicine zone montagnose coperte da folti boschi, o passare una
giornata rilassante sul percorso di golf di Is Molas che, grazie al clima
mite, rimane aperto per tutto l’anno, ospitando gare internazionali.
Obbligatorie le visite a alla lunga striscia di rena bianchissima di Chia.
Poi i porti di Calasetta o Sant’Antioco da cui si parte in traghetto per
arrivare alle vicine Isola di San Pietro e Carloforte. Famosisima per la
pesca del tonno, che viene lavorato ed inscatolato negli stabilimenti
locali e dal quale si ricava la prelibata bottarga e il musciame.
Inizia poi la costa occidentale con i suoi fondali più ampi e inesplorati:
Nebida e Masua, che hanno un grande faraglione chiamato ‘”Pan di
Zucchero” per le sue pareti candide, che spunta dall’acqua come un
fungo dalla terra.
Qualche miglio ancora e si trova Cala Domestica, una delle perle
di questa parte della costa sarda, posta in fondo ad un fiordo il cui
ingresso sembra sorvegliato dall’alto da una bella torre aragonese.
Veduta di Castello
quartiere storico di Cagliari.
A seguire Buggerru. Circondato da gallerie minerarie scavate nella
montagna, in quanto vecchio centro minerario ormai solo turistico. Poi,
Fluminimaggiore nelle cui vicinanze si trovano le Grotte di Su Mannau,
visitabili per un lungo tratto, ed il Tempio di Antas dedicato ad una
divinità locale: il Sardus Pater. Si entra, così, nella cosiddetta “Costa
Verde” e nella Marina di Arbus che sono preceduti dalla spettacolare
“colata” di sabbia di Ingurtosu, le cui dune con folti ginepri degradano
a mare in grandi spazi ancora quasi deserti dove l’uomo per fortuna
non è ancora riuscito a mettere nè mano nè mattoni.
Chiude a Nord il Golfo di Oristano dove è stata ritrovata la città punicoromana di Tharros, i cui scavi archeologici hanno riportato alla luce non
solo i monumenti di quelle civiltà ma anche numerosi e preziosi oggetti.
Qualche miglio più a nord, si arriva alla cittadina di Bosa, costruita sulla
foce del fiume Temo, collegata ad Alghero da una strada panoramica
bellissima. Antica città catalana, una volta chiamata Barceloneta (cioè
la piccola Barcellona) Alghero è la pioniera delle destinazioni turistiche
della Sardegna: oltre al suo mare e alle sue spiagge, gode di un clima
temperato in ogni mese dell’ anno ed ha attrezzature adeguate per
rendere un soggiorno estremante piacevole.
Lontano dalla città l’ imponente e austera Punta di Capo Caccia che
contiene al suo interno le famose Grotte di Nettuno, cui si accede
con tempo buono via mare, oppure da terra percorrendo la “escala
del cabirol” (ovvero la scala del capriolo), lunga ben 650 gradini. Poi
Stintino, per chi ama fare il bagno in acque limpide dai fondali di sabbia.
53
Da qui si arriva al Golfo dell’ Asinara dove si trova Porto Torres
importante scalo tra l’isola, lo stivale, la Corsica e la Francia.
Poi la costa riprende a salire sino a Castelsardo, piccolo borgo
medioevale fondato dai Doria nel XII secolo, oggi una destinazione
turistica molto frequentata assai rinomato per il suo artigianato,
soprattutto quello legato alla realizzazione di cestini con foglie di
palme selvatiche.
Da qui ci dirigiamo verso Capo Testa, la punta più a nord della
Sardegna, con le sue enormi rocce di granito modellate dal vento.
Vicina è Cala di Luna che ci introduce al villaggio dei pescatori
di Santa Teresa di Gallura, oggi diventato una ridente cittadina
turistica; d’estate il suo porto naturale (ricavato in un lungo fiordo)
si riempie di tante imbarcazioni da diporto. Da qui ci si puo’
imbarcare nel paradiso dell’Arcipelago di La Maddalena: 23 isole,
tra piccole e grandi, che rappresentano per ogni amante del mare
una meta obbligata per il fascino e il profumo della vegetazione
mediterranea, per la trasparenza delle acque e la finissima rena
delle spiagge. Un ponte la lega a Caprera che ospita la casa e il
Museo di Giuseppe Garibaldi, l’ eroe dei due Mondi.
E’ breve il passo nel fantastico mondo della Costa Smeralda
chiamata cosi’ per il suo mare che ha il colore di un prezioso
smeraldo. Le sue piu’ note perle, conosciute in tutto il mondo
sono Porto Cervo (uno dei più attrezzati e moderni porti turistici
del Mediterraneo ) in cui si possono ammirare le ville prestigiose
di uomini d’ affari, artisti e personaggi del cinema o della
televisione, la lunga e sabbiosa Liscia Ruja, Cala di Volpe, che
ospita uno degli alberghi più raffinati e originali del mondo e a
chiudere, Porto Rotondo, luogo molto mondano cresciuto attorno
al suo porto dove si affacciano le boutique e i negozi delle firme
più prestigiose della moda e della oreficeria.
Appena fuori dal Golfo di Olbia percorriamo la costa appartenente
alla provincia di Nuoro e citiamo S. Teodoro e Budoni, Posada che
ha davanti una bellissima spiaggia e alle spalle un antico borgo
medievale e il Castello della Fava, certamente abitato da Eleonora
D’Arborea.
I fondali, sabbiosi per la presenza di spiagge, continuano con La
Caletta di Siniscola e la tranquilla Marina di Orosei. L’unico centro
con un piccolo porto sempre molto affollato della zona è quello di
Cala Gonone che rappresenta la “dependance” marina di Dorgali.
La zona , ricca di insediamenti risalenti alla civiltà nuragica, ci
propone la visita alle Grotte di Ispinigoli, chiamata del Bue Marino
perché’ ha sempre ospitato la foca monaca. Proseguendo verso
Sud Cala Luna, un raro gioiello della natura costituito da una
Una panoramica della costa
di Buggerru - Flumini Maggiore,
comprendente le spiagge
di San Nicolò e di Portixeddu
spiaggia di grande bellezza chiusa da
uno stagno e da una folta macchia di
oleandri che fanno da sfondo ad uno
scenario che tutto il mondo invidia alla
Sardegna. A contorno, Cala Sisine, la
successiva Cala Mariuolu composta
da piccole insenature dove la spiaggia
è formata da piccole pietre rotonde
che vanno sempre più rimpicciolendosi
man mano che si arriva alla battigia.
Nelle vicinanze Baunei, villaggio che
vive soprattutto dell’ allevamento di
bestiame che ha come centro turistico
sul mare Santa Maria Navarrese.
Poi Arbatax, che è anche punto di
arrivo del trenino che corre sopra la
montagna verso Lanusei e Arzana.
La costa dell’Ogliastra sembra
improvvisamente
addolcirsi
con
spiagge di rena finissima come quelle
di Orri e Tortolì. Ai buongustai: fate
rifornimento, prima di lasciare questa
zona, di alcuni prodotti del mare come
le prelibate uova di muggine che qui si
chiamano “bottarga” oppure i freschi
pesci di peschiera come anguille,
capitoni. spigole, orate o ancora i
saporiti mitili.
Ultima tappa della zona, Marina di
Gairo, da cui ci dirigiamo verso il
Sarrabus, che ci accompagnerà sino
alle porte di Villasimius, passando per
Capo Carbonara e giuardando all’isola
dei Cavoli, il cui nome deriva forse dal
nome cagliaritano del granchio.
Capo Boi, Solanas, Torre delle Stelle
e Capitana ci riconducono alla lunga
spiaggia del Poetto (ben otto chilometri
di sabbia finissima) che ci annuncia
l’arrivo a Cagliari.
ALLEGATI
TORICI
Alghero
E a questo proposito è senz’altro
da consigliare la visita di alcune
delle migliaia di sepolture ipogeiche
disseminate nell’isola, le Domus
de Janas, case delle fate o delle
streghe per la tradizione popolare,
scavate nella roccia, nelle pareti
delle montagne in luoghi spesso
inaccessibili. Ad Alghero la necropoli
di Anghelu Ruju offre la possibilità
di esplorare agevolmente decine di
grotticelle funerarie, alcune delle
quali decorate con veli di pittura
rossa e teste di toro stilizzate, simbolo
maschile di fertilità e perciò di
continuità della vita, molto frequente
in questo tipo di sepoltura.
la necropoli di Montessu
Per chi è disposto ad affrontare
un certo tratto di cammino a piedi,
spostandoci nella provincia di Cagliari,
nelle campagne di Villaperuccio la
necropoli di Montessu offre, in un
anfiteatro naturale di grande bellezza,
uno degli esempi più suggestivi di
questo tipo di architettura funeraria.
Pranu Mutteddu - Menhirs
a Goni nel Gerrei
Da non perdere la spettacolare
concentrazione di Pranu Mutteddu
a Goni nel Gerrei, che accanto ad
un ricco complesso tombale del III
millennio a.C. vede una cinquantina
di “pietre fitte”, una ventina delle
quali allineate lungo l’asse Est-Ovest
in apparente riferimento quindi al
corso celeste del sole.
Fluminimaggiore Tempio di Antas
L’edificio, ristrutturato sotto Caracalla
nel 213 d.C., era prima un sacello
punico, e prima ancora
forse un luogo di culto
di un dio indigeno,
come testimonierebbero
piccoli bronzi di età
nuragica
e un fregio nel quale si
legge la dedica latina a
Sardus Pater, divinità
tradizionale
della
Sardegna antica.
I NURAGHI
Nella sua espressione
più semplice il nuraghe
presenta la figura di
una torre rotonda, dal
profilo verticale a tronco
di cono, sormontata da
un terrazzo sporgente,
costruita con muratura
molto spessa, composta
a secco con grosse
pietre, talora grezze,
talora lavorate, disposte
in
filari
orizzontali
sovrapposti a cerchi
sempre più stretti dal
basso verso l’alto.
Nuraghe Palmavera Alghero
Su Nuraxi - Barumini
Nuraghe
Losa
Abbasanta
Villaggio nuragico Tiscali
LE CHIESE
Cagliari - S. Alenixedda
S. Pietro Extramuros
presso Bosa
S. Gavino a Porto Torres
S.S. Trinità di Saccargia
m
Virtù
ANGIARE E BERE
di patata
di Patrizia Floris
Beati i poveri di spirito. Riferito alla patata, il richiamo all’antica sapienza non deve suonare irriverente dal momento
che i riflettori delle Nazioni Unite si sono accesi proiettando la loro luce sull’umile tubero. Per iniziativa del Perù, che
rivendica al proprio territorio andino le sue antiche origini,
l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e
l’Agricoltura (FAO) ha proclamato il 2008 Anno Internazionale della Patata. Non si tratta di un’idea balzana. Dopo il riso,
il frumento e il mais, la patata occupa nel mondo il quarto
posto tra i prodotti agricoli più importanti per l’alimentazione
umana.
Lo scopo dell’Anno internazionale è duplice. In primo luogo
si vuole richiamare l’attenzione sull’importanza della patata
come fonte ulteriore di cibo per i paesi in via di sviluppo, soprattutto per quelle regioni del mondo dove il dramma della
fame colpisce ancora circa un miliardo di persone. In secondo luogo, si mira a promuovere la ricerca e lo sviluppo di sistemi di coltivazione adeguati alle specifiche realtà agricole
58
regionali. Si stima che nei prossimi
vent’anni della popolazione mondiale aumenterà di oltre 100 milioni di
persone all’anno e che più del 95%
di questo incremento demografico
interesserà i paesi in via di sviluppo. Gli esperti delle Nazioni Unite,
calcolano che per alleviare la fame
nel mondo la produzione di derrate
alimentari dovrebbe aumentare del
60% rispetto alle attuali disponibilità. In questa impresa che si configura come una vera e propria lotta
contro la fame nel mondo non v’è
dubbio che la patata abbia un ruolo importante da giocare. Esistono,
infatti, tutte le condizioni propizie al
riguardo, sia dal punto di vista nutrizionale sia dal punto di vista dei requisiti e dei costi di produzione.
Le patate sono ricche di carboidrati per cui sono in grado di dare un
buon apporto di energia; possiedono, inoltre, vitamina C e potassio. Rispetto agli altri tuberi e radici hanno
un quantitativo maggiore di proteine
(2,1%), di alta qualità e ben bilanciate con le esigenze dell’alimentazione umana. Rispetto a qualunque
altra coltivazione, la patata produce
Vincent Van Gogh, “I mangiatori di patate” 1885
una maggiore quantità di cibo in minor tempo,
su una superficie minore e può adattarsi ai
climi più disparati. La sua coltivazione risulta
perciò particolarmente adatta per quelle aree
dove la pressione demografica rende scarsa la
terra ed abbondante il lavoro, condizioni che si
ritrovano nella maggior parte dei paesi in via
di sviluppo. Anche dal punto di vista dei costi,
la sua produzione risulta abbordabile: un chilo
di patate costa meno di un terzo un chilo di
frumento. In aggiunta, la patata può contare
su un potenziale di espansione della domanda che è ancora elevato. Nonostante i consumi
pro capite nei paesi in via di sviluppo si siano
più che raddoppiati negli ultimi quarant’anni,
passando da meno di 10 kg a quasi 22 kg per
abitante, il livello raggiunto in questi paesi resta ancora al di sotto di un quarto dei consumi
che si registrano in Europa.
Ma, al di là dell’evidenza offerta da questi dati,
è la stessa storia della patata a fornirci le prove più decisive. Questa storia ha inizio 7-8000
anni fa nei pressi del lago Titicaca situato a
3.800 metri sul livello del mare nella catena
delle Ande, quando gruppi di cacciatori e di raccoglitori si insediarono sulle terre circostanti.
Da prima incominciarono a cibarsi con le patate selvatiche che vi crescevano in abbondanza,
mentre in seguito impararono a selezionare e
a coltivare le varietà più adatte per usi comme-
stibili. In effetti, ciò che oggigiorno conosciamo
come “patata” (solanum tuberosum) contiene
soltanto un frammento della diversità genetica presente nelle sette specie riconosciute e
nelle 5000 varietà che tutt’ora crescono sulle
Ande. È interessante rilevare che fu proprio in
virtù della disponibilità di cibo ottenuta mediante un’alimentazione basata sul mais e le patate
che la civilizzazione indigena del Sud America
poté espandersi raggiungendo il culmine del
suo sviluppo con l’ascesa degli Inca, il cui impero si estendeva tra l’Argentina e la Colombia dei
nostri giorni. L’invasione spagnola iniziata nel
1532 e culminata nel
1572 mentre da un lato
segnò la tragica fine di
questo vasto impero,
dall’altro lato diede un
impulso del tutto nuovo alla diffusione della
patata in Europa e nel
mondo.
Le prime testimonianze
dell’introduzione della
patata in Europa risalgono al 1565, nelle isole Canarie, mentre si ha
notizia solo dal 1573
della sua iniziale presenza sulla terraferma
59
spagnola. Ben presto, però, la patata incomincerà a girare per le corti d’Europa inviata quale dono esotico da prima al Papa in
Roma, da qui spedita all’Ambasciatore pontificio a Mons in Belgio per poi essere recapitata ad un botanico di Vienna. Tra la fine del
secolo e gli inizi del settecento la patata raggiungerà in rapida successione l’Inghilterra,
la Francia e i Paesi Bassi. Arriverà negli Stati
Uniti nel 1719, passando dall’Europa anziché
dal Sud America da dove era iniziato il suo
viaggio. Tuttavia, per molti anni l’aristocrazia
europea si sarebbe limitata ad ammirarne i
fiori, mentre le classi più umili erano distolte dal suo consumo dalle credenze popolari, che annoveravano la patata tra le piante
velenose. Tra primi ad apprezzarla, oltre gli
irlandesi, furono i marinai che incominciarono ad includerla tra le provviste di bordo
nei lunghi viaggi oceanici. Attraverso loro, la
patata raggiungerà nel XVII secolo l’India, la
Cina e il Giappone. La vera svolta nella diffusione della patata come cibo di massa su
scala europea si avrà con la Rivoluzione industriale e con i fenomeni di urbanizzazione
che ad essa si accompagnarono. Di quegli
anni in cui lo sviluppo economico si intrecciava ancora con la più nera povertà, e le strabilianti fortune
accumulate dai pochi si contrapponevano ai morsi
della fame patiti dai più, la maestria di Vincent Gogh
ci ha lasciato un’eloquente testimonianza dipingendo lo squallore e la bruttezza della miseria nei volti
di una povera famiglia contadina riunita intorno a un
tavolo dove è posto soltanto un piatto di patate. Per
quanto frugale, quel pasto rappresentò nondimeno
per milioni di europei un valido spartiacque tra la vita
e la morte per fame. La riprova di ciò si ebbe nelle
drammatiche conseguenze derivanti da un’epidemia
di peronospora che si diffuse tra il 1845 e il 1848 soprattutto in Irlanda quando la perdita di interi raccolti
causerà la morte di 1 milione di individui che traevano dal consumo di patate l’80% delle loro fabbisogno
giornaliero di calorie. La lezione fu durissima ma servì ad introdurre varietà più resistenti alle malattie e
più produttive. Da allora in poi la patata si affermerà
progressivamente in Europa e in molti paesi extra-europei diventando grazie alla facilità di coltura anche
in piccoli appezzamenti, al basso prezzo, alla rapidità
di cottura, il primo tra i moderni prodotti alimentari di
larga “convenienza”. Altro non resta da dire se non
che l’umile e spesso sbeffeggiata patata possa portare a compimento la sua missione alimentare iniziata migliaia di anni orsono. L’auspicio è, dunque, che
quest’Anno Internazionale giovi a dare nuovo slancio
alla sua storia, questa volta a vantaggio di quella parte dell’umanità che ancora soffre e muore di fame
nel mondo.
Superficie coltivata
Ettari
Quantità
Rendimento
Tonnellate
Tonnellate per ettaro
1.
Cina
4 901 500
2.
Fed. Russa
2 962 420
38 572 640
13.02
3.
India
1 400 000
23 910 000
17.08
4.
USA
451 430
19 712 630
43.67
5.
Ucraina
1 463 684
19 467 000
13.30
6.
Germania
274 300
10 030 600
36.57
7.
Polonia
597 230
8 981 976
15.04
8.
Belarussia
433 922
8 329 412
19.20
9.
Olanda
156 000
6 500 000
41.67
158 084
6 354 333
40.20
10.
Francia
70 338 000
14.35
MIXEDO
Fonte: FAOSTAT
60
virtù
di patata
Pane e patate
cotto sulle foglie di cavolo
Ingredienti:
Farina di grano duro, lievito,
acqua, sale, patate
Preparazione:
Preparare la pasta lievitata
come per il pane. Lessare le
patate con la buccia, in abbondante acqua salata; pelarle, schiacciarle, farle assorbire
dalla pasta ben gramolata, aggiungendovi dell’acqua tiepida
che la renderà morbidissima.
Lasciare lievitare in luogo ben
caldo per circa tre ore.
Cuocere le focacce nel seguente modo: prendere le foglie più
larghe dei cavoli (private del
gambo) e usarle come teglia;
spruzzarle d’acqua e stender-
Agnolotti di patate alla sarda
Ingredienti per la pasta:
250 g di farina, 1 uovo intero e 1
tuorlo
per il ripieno:
500 g di patate, 30 g di burro,
150 g di caciocavallo, 1 spicchio
d`aglio
qualche foglia di menta secca2 cucchiai di olio extravergine
d`oliva
per la salsa:
600 g di pomodori S.Marzano, 1
cipollina, basilico, un pizzico di
zucchero, sale
Preparazione:
Lessate le patate, sbucciatele e
passatele nello schiacciapatate.
In una terrina mescolate al passato di patate il burro, l`olio, il caciocavallo grattugiato. l`aglio tritato,
la menta finemente sbriciolata.
Mescolate accuratamente e regolate di sale. In un robot da cucina
preparate la pasta con la farina, il
vi sopra piccole quantità di pasta dello spessore di due o tre
centimetri. Infilare le spianate
a due a due nel forno a legna
a temperatura molto alta.
Quando la pasta si rapprende
raggiungendo una certa consistenza, togliere dal forno per
eliminare le foglie. Capovolgendole, rimetterle nel forno
per completarne la cottura. La
colorazione dorata iindica che
occorre sfornarle, spazzolarle
e inumidirle con acqua perchè
conservino la morbidezza. Le
focacce si mangiando preferibilmente calde.
tuorlo, l`uovo intero, il sale e pochissima acqua.
Lavorate bene l`impasto, poi tiratelo in una sfoglia sottile; con
un tagliapasta ricavate dei dischi
di 6-7 cm di diametro. Mettete al
centro di ogni disco una pallina
di ripieno di patate, poi ripiegate
la pasta a mezzaluna, chiudendo
bene i bordi perché il ripieno non
esca durante la cottura. Preparate la salsa: lavate i pomodori e
spezzettateli, poi metteteli in una
casseruola con cipolla finemente tritata e lo zucchero. Salate
e cuocete a fiamma bassissima
per circa mezz`ora, poi frullate la
salsa e unite il basilico.
Lessate gli agnolotti in acqua
bollente salata per 4-5 minuti,
scolateli e conditeli con la salsa
preparata, poi servite subito.
61
Da sinistra,
Nadia Gallico Spano.
Maria Federici
e Nilde Iotti
La Costituzione italiana ha sessant’anni. Il progetto di Costituzione fu approvato dall’Assemblea costituente il 22 dicembre
1947. Riportò 214 voti a favore
e 145 contrari. Il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola appose la sua firma per la
promulgazione il 27 dicembre
1947, e sempre nello stesso
giorno il testo fu pubblicato in
una edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale.
62
La Costituzione italiana ha sessant’anni. Il
progetto di Costituzione fu approvato dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947.
Riportò 214 voti a favore e 145 contrari. Il
Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola appose la sua firma per la promulgazione
il 27 dicembre 1947, e sempre nello stesso
giorno il testo fu pubblicato in una edizione
straordinaria della Gazzetta Ufficiale. Cinque
giorni dopo, la Carta costituzionale entrò in
vigore. Era il 1° gennaio 1948. Si chiudeva
così quella fase di transizione che a partire
dalla caduta del fascismo (25 luglio 1943),
attraverso il referendum istituzionale e la
concomitante elezione dell’Assemblea costituente (2 giugno 1946), giunse infine a
fondare la Repubblica italiana dotandola di
una propria Carta costituzionale, condizione indispensabile per la piena ripresa della
vita democratica nel Paese.
In quest’anno in cui ricorre il sessantesimo
anniversario della Carta costituzionale, può
essere interessante ricordare tra i diversi aspetti che rendono importante questa
ricorrenza il ruolo svolto dalle donne. Per-
ché se da un lato è divenuto usuale rendere
omaggio ai membri dell’Assemblea costituente riconoscendo a essi per l’opera meritoria
svolta il titolo di «padri fondatori» della Repubblica, dall’altro lato ciò non deve far dimenticare che in quell’Assemblea era presente a
pieno titolo anche un gruppo di donne. Con
pensiero di non minore riconoscenza meriterebbero anch’esse di essere ricordate a buon
diritto come le «madri fondatrici» della nostra
costituzione. Furono infatti 21 le donne elette
il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente:
9 appartenevano alla Democrazia Cristiana,
9 al Partito Comunista Italiano, 2 al Partito
socialista e una all’Uomo Qualunque. Cinque
di loro entrarono nella «Commissione dei 75»
incaricata di scrivere la Carta costituzionale:
Maria Federici e Angela Gotelli per la Democrazia Cristiana, Teresa Noce e Nilde Iotti per
I
italiana dopo un ventennio di assenza forzata
dalle consultazioni elettorali.
Sebbene i leader dei due maggiori partiti politici,
Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, fossero stati tra i più tenaci sostenitori del voto femminile,
i timori sulle scelte elettorali delle donne erano
assai diffusi anche all’interno delle due maggiori
compagini: i comunisti temevano l’influenza della
Chiesa sul voto femminile, i democristiani paventavano il contrario. I partiti minori, dal canto loro,
erano più che certi che il voto delle donne avrebbe premiato soprattutto i grandi partiti di massa.
Tra le incertezze e i timori della vigilia elettorale
aleggiava il vecchio pregiudizio sull’immaturità
delle donne a prendere parte alla vita politica del
Paese.
L’affluenza alle urne delle donne superò ogni previsione. Si trattò di una vera partecipazione di
massa. Votarono oltre 12 milioni di elettrici, con
e madri
della Costituzione
il Partito Comunista, Tina Merlin per il Partito
Socialista.
E’ comprensibile che durante la campagna
elettorale del ’46 si guardasse al voto delle
donne con misto di interesse e di apprensione.
Era la prima volta che le donne partecipavano
ad una votazione politica generale. Avrebbero
votato in massa o si sarebbero per lo più astenute? Come si sarebbe indirizzato il loro voto
tra i diversi partiti e, all’interno di questi, a quali
canditati avrebbero affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale? Domande
che riflettevano non soltanto l’incertezza ma
anche l’importanza attribuita al voto femminile.
Non foss’altro perché le donne rappresentavano la maggioranza degli aventi diritto al voto.
L’elettorato femminile contava, infatti, più di 14
milioni di elettrici, pari al 53% del totale degli
iscritti nelle liste elettorali. La posta in gioco
era, inoltre, molto alta: non si trattava soltanto
di scegliere la forma di Stato, con il voto sul referendum tra Monarchia o Repubblica, ma anche di misurare con l’elezione dell’Assemblea
costituente, la reale forza dei singoli partiti che
si presentavano di nuovo sulla scena politica
63
una percentuale superiore a quella degli uomini:
l’89,2% contro l’89%. Le cronache del tempo descrivono le lunghe file di donne ai seggi elettorali. Le
mogli e le madri, perlopiù accompagnate dai bambini, come raccontava un giornale del tempo, si erano
recate alle urne di mattina presto, per essere poi
libere all’ora di pranzo, mentre più tardi giungeranno le ragazze «con l’abito della festa e le scarpette
nuove».
Il numero delle elette, però, sarà notevolmente al di
sotto di quanto avrebbe meritato una così elevata
partecipazione al voto. Delle 226 candidate solo il
9,3% (21) fu eletto all’Assemblea costituente. Dal
punto di vista anagrafico «le costituenti» appartenevano a tre diverse generazioni, numericamente
equivalenti tra loro: la prima, nata alla fine dell’Otto-
64
cento, e la seconda, nata nel primo quindicennio del
novecento, avevano avuto modo di partecipare alla
vita politica e sindacale negli ultimi anni dello stato
liberale, mentre la terza generazione ricomprendeva
le più giovani che erano nate sotto il fascismo e che
solo da poco avevano ultimato gli studi.
Geograficamente venivano tutte dalla penisola, in
prevalenza dalle regioni del Centro-Nord. Ma una
di loro, Nadia Gallico, nata a Tunisi, rappresenterà
idealmente la Sardegna, la terra in cui era nato il marito, Velio Spano. Quanto al grado d’istruzione, hanno
titoli di studio sensibilmente più elevati rispetto alla
media delle italiane di quel tempo: in maggioranza
sono laureate, sposate e con figli a carico. Ma di là
delle differenze di provenienza geografica, di stato civile, d’istruzione e di appartenenza partitica ciò che
più di ogni altro aspetto sarà decisivo nella formazione politica delle donne dell’Assemblea costituente è la partecipazione di quasi tutte alla Resistenza:
un’esperienza vissuta sia pure in forme diverse che
alimenterà di valori e d’idealità civili quell’impegno
generoso che le indusse a superare non poche difficoltà pur di contribuire a gettare le basi del nuovo
ordinamento repubblicano.
Come ha scritto di recente Barbara Pezzini («Studi e
ricerche di storia contemporanea», 2007, fasc. 68,
pp. 163-187) il rapporto tra donne e costituzione è
certamente «un luogo privilegiato nel quale osservare sia le “radici” che il “cammino” della Costituzione
italiana del 1948». E questo per almeno tre buone
ragioni. In primo luogo, perché il suffragio universale
unito all’eleggibilità delle donne in seno all’Assemblea costituente diede vita ad un potere costituente
interamente nuovo rispetto al preesistente ordinamento monarchico-statutario in quanto ha posto
l’uguaglianza tra uomini e donne direttamente alle
radici dei processi decisionali che hanno portato alla
formulazione e alla promulgazione della Costituzione repubblicana. In secondo luogo, perché queste
stesse radici hanno di fatto plasmato l’impianto delle
norme costituzionali volte sia alla non discriminazione fra i sessi sia al riconoscimento della differenza di
genere. Da questo punto di vista la Costituzione repubblicana era e resta tuttora fortemente innovativa,
soprattutto quando introduce la differenza di sesso
direttamente tra i «principi fondamentali» all’articolo 3 (in cui si vieta ogni discriminazione fondata sul
sesso) e quando conferisce un fondamento giuridico
di valore costituzionale alla differenza di genere, riconoscendo in numerosi articoli una posizione differente degli uomini e delle donne (in forma esplicita,
negli art. 36, 37, 31, e, in forma più indiretta, negli
articoli 29, 48 e 51). Infine, perché l’ingresso delle
donne nei luoghi della rappresentanza politica se da
un lato ha posto i principi di una democrazia consapevolmente declinata rispetto al genere, capace,
cioè, di riconoscere le differenze tra i sessi e di assumerle in modo non discriminatorio — dall’altro lato
ha reso possibile misurare il cammino compiuto in
tal senso nell’arco dei sessant’anni di vita della Costituzione. Un cammino che consente, per converso,
di valutare quanta strada resta ancora da percorrere per dare compiuta attuazione a quei principi mediante le leggi ordinarie nelle quali siano definite le
posizioni relative degli uomini e delle donne nei vari
ambiti della vita sociale – dalla famiglia, al lavoro,
alla sfera politica.
Dall’avvio del processo costituente, non si può fare a
meno di osservare quanto l’attuazione di questi principi fondamentali sia stata faticosa e lenta, e lungi
dal potersi dire pienamente realizzata. La distanza
tra le norme costituzionali e la legislazione ordinaria
rivela, inoltre, il potenziale di trasformazione sociale
Giulio Aristide Sartorio; particolare dell’affresco
“la Gioavane Italia e le doti spirituali” 1913
Aula di Montecitorio
che resta ancora incorporato nella Costituzione. Soprattutto da un’idea di quali e quante opportunità
questa può ancora offrire per orientare al meglio i
mutamenti che riguardano la posizione degli uomini
e delle donne nella società del nostro tempo: dalle
libertà personali alle relazioni sociali tra i sessi, dalla bioetica al pieno sviluppo di quella democrazia
duale, formata da uomini e da donne, alla quale
seppero guardare con lungimiranza «i padri» e «le
madri» della nostra Costituzione repubblicana.
P.F.
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M
i chiamerò
GeorgeSand
Nei primi mesi del 1832 un editore parigino contattò Madame Dupin: intendeva pubblicare al più
presto un nuovo romanzo di Jules Sand. Con questo
pseudonimo erano già apparsi l’anno prima due romanzi che avevano riscosso un certo successo. Il
nome di Jules Sand aveva così incominciato a circolare tra il pubblico dei lettori e l’editore intendeva
trarre profitto da questa circostanza, ben sapendo
che per promuovere le vendite di un libro, il nome
dell’autore è tutto. La richiesta inaspettata giungeva tanto più gradita in quanto Madame Dupin
aveva già pronto il manoscritto di un suo romanzo
e aspettava l’occasione propizia per pubblicarlo.
Questa sembrava finalmente giunta. Bisognava,
però, rispettare la clausola del nome dell’autore,
che agli occhi dell’editore rivestiva un interesse
commerciale nient’affatto trascurabile. Qui sorgeva una difficoltà, perché Madame Dupin non era
l’unica titolare di quel nom de plume. Jules Sand
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era, infatti, il nome d’arte che lei e il suo giovane
amante, Jules Sandeau, avevano scelto di comune
accordo per firmare i due ultimi romanzi che erano
nati dalla loro collaborazione letteraria. Interpellato
al riguardo, Sandeau si rifiutò di firmare un’opera alla
cui redazione non aveva minimamente partecipato.
Non è ben chiaro se oltre le invocate ragioni d’onore
vi fosse qualche altro recondito motivo di disappunto
derivante dal fatto che anche Sandeau mirava a farsi
un nome in campo letterario; ma sta di fatto che il
suo rifiuto impediva il buon fine del contratto.
La piega che veniva ad assumere la questione non
andava del tutto a genio a Madame Dupin. Era venuta a Parigi per rifarsi una vita, lasciandosi alle spalle
un matrimonio fallito. Non potendo divorziare perché
il divorzio era stato abolito dal codice civile di Napoleone, aveva però ottenuto dal marito, Casimiro Dudevant, il consenso per quella che allora si chiamava
la «separazione dei corpi». L’intesa oltre l’affidamento
Jules Sandeau
dei loro due piccoli figli, Maurizio e Solange, regolava anche i loro rapporti economici. Convinta che
nessuno dovesse subire danno dalle sue scelte di
vita, aveva lasciato al marito l’amministrazione delle terre e di tutte le altre proprietà immobiliari che
aveva ereditato dalla nonna paterna. Per lei si era riservata una rendita assai modesta insieme al diritto
di alternare ogni tre mesi la sua residenza tra Parigi
e il “castello”Nohant, residenza della sua famiglia.
Finalmente libera dai suoi impegni coniugali, non
voleva più sottomettere la propria vita dal volere di
nessun altro, anche se si trattasse, come in questo
caso, del suo amante. La sua vera passione, la più
grande fra tutte, era scrivere ed era fermamente decisa a seguire questa sua vocazione. Perdere quel
contratto era assai più costoso della perdita dei proventi monetari che da esso potevano derivare: significava rinunciare alla propria autonomia di scrittrice.
Prima o poi la sua vocazione l’avrebbe spinta a scrivere un altro romanzo, ma con che nome l’avrebbe
pubblicato? Più ci pensava e più le doveva apparire
chiaro che continuare a scrivere in collaborazione
col suo amante non era un investimento utile a
quel “mestiere di scrittore” che desiderava intraprendere. Si rivolse perciò per un consiglio al suo
conterraneo Henri de Latuoche che a quel tempo
dirigeva Le Figaro. Era stato lui che incontrandola a
Parigi le aveva spalancato le porte del giornalismo
impegnandola come notista. Il consiglio di Latuoche
fu all’altezza della fama di uomo navigato nel mondo
degli affari editoriali. Il contratto non doveva essere
perso: Madame Dupin avrebbe conservato il cognome
Sand, ma avrebbe cambiato il nome. Rincuorata da un
giudizio che sembrava salomonico, scelse il nome di
George perché, come scriverà in seguito nelle sue memorie, il suono le ricordava la regione del Berry, dove
aveva trascorso gran parte delle sua vita.
L’editore accettò la soluzione di compromesso. Il romanzo intitolato Indiana poté essere pubblicato il 18
maggio 1832 con la firma “G. Sand”. E’ verosimile pensare che l’abbreviazione del nome dell’autore fosse
l’ultimo tocco di un’astuzia editoriale. Il primo dei due
romanzi che la coppia Sandeau-Dupin aveva firmato
col cognome Sand era apparso anch’esso preceduto
dalla sola iniziale del nome. La differenza tra “J.Sand”
e “G.Sand” è così lieve da far presumere che sarebbe
passata del tutto, o quasi, inosservata alla maggioranza dei lettori. Oltretutto si sa che è più facile ricordare
il cognome che non il nome di un autore.
Anche se l’equivoco fosse stato intenzionalmente voluto, si trattò di un veniale espediente commerciale,
da cui tutti in fondo trassero un vantaggio. Il romanzo
ebbe infatti un successo strepitoso. Nonostante l’epidemia di colera che in quei mesi affliggeva Parigi, le
vendite non ne soffrirono e l’editore poté ricavare un
profitto maggiore di quello preventivato. A loro volta, i
lettori sebbene all’oscuro di come si era giunti alla pubblicazione, furono ampiamente ripagati dalla lettura di
un romanzo di gran lunga migliore tra quelli apparsi in
precedenza sotto il nome di Sand. Appassionati dalle
vicissitudini della protagonista, una giovane creola, il
cui nome era appunto Indiana, maltrattata dal marito
e ingannata dall’amante, ebbero modo di riflettere sulle deplorevoli condizioni della donna nella società dei
primi decenni dell’Ottocento, contro le quali il romanzo
elevava una vibrante denuncia. Quanto a Madame Dupin, ottenne quanto di meglio può mai sperare un autore al suo esordio. Divenne celebre nello spazio di un
mattino. In men che non si dica acquistò fama e notorietà di autentica scrittrice. Come tanti parigini anche
lei fu raggiunta, per fortuna in forma lieve, dal colera:
una vera inezia di fronte all’accoglienza che il pubblico
riservò al suo romanzo, alle recensioni della critica, e
soprattutto alle numerose proposte di contratto che le
pervennero.
La vita di Madame Dupin cambiò d’un colpo: da oscura notista che scriveva per Le Figaro e La Revue de
Paris si trovò trasportata nel luminoso mondo delle
lettere, in compagnia dei più grandi romanzieri del suo
tempo. Il successo fu tale che il suo vero nome, che
all’anagrafe era Amandine Lucille Aurore nata Dupin,
fu completamente soppiantato dal nuovo nome d’arte. Il primo usciva dalla scena, quando Aurore aveva
28 anni. Era nato George Sand.
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