L`Altro non occidentale

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L`Altro non occidentale
L'Altro non occidentale
Tzvetan Todorov
Noi e gli altri
Edward Said
Contrappunto
Denis Diderot
Invettiva anticolonialista di un vecchio thaitiano
Albero Moravia
Un'idea dell'India
Pier Paolo Pasolini
L'odore dell'India
Arundhati Roy
I fantasmi del capitale
Franco Fortini
Sonetto dei sette cinesi
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Noi e gli altri
Tzvetan Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla
diversità umana, traduzione di Attilio Chitarin, Einaudi, Torino
1991 (prima ed. 1989), pp. 449-453.
Un umanesimo ben temperato
Noi e gli altri, dicevo: come ci si può, come ci si deve comportare nei riguardi di coloro che non appartengono alla nostra stessa
comunità? La prima lezione appresa consiste proprio nel rinunciare a basare i nostri ragionamenti su una distinzione come questa.
Gli esseri umani, tuttavia, l'hanno fatto da sempre, cambiando soltanto l'oggetto del loro elogio. Seguendo la «regola di Erodoto»,
essi si sono giudicati i migliori del mondo e hanno stimato gli altri
cattivi o buoni a seconda che si trovassero più o meno lontani da
loro. Viceversa, servendosi della « regola di Omero », essi hanno
creduto che i popoli più lontani fossero i più felici e i più degni di
ammirazione, mentre non hanno visto nella propria società altro
che la decadenza. Ma si tratta, in entrambi i casi, di un miraggio,
di un'illusione ottica: «noi» non siamo necessariamente buoni, gli
«altri» neppure; tutto ciò che si può dire a riguardo è che l'apertura agli altri, il rifiuto di respingerli senza esame, costituisce in ogni
essere umano una qualità. La separazione che conta, suggeriva
Chateaubriand, è quella tra i buoni e i cattivi, non tra noi e gli altri;
le società particolari mescolano bene e male (in proporzioni ineguali, questo è vero). Al posto di un facile giudizio, fondato sulla
distinzione puramente relativa tra coloro che appartengono al mio
gruppo e coloro che non ne fanno parte, deve subentrare un giudizio fondato su principi etici.
Questa prima conclusione solleva a sua volta due grandi problemi: qual è il significato della nostra appartenenza ad una
comunità? e: come legittimare i nostri giudizi?
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Gli esseri umani non sono soltanto individui appartenenti alla
stessa specie; essi fanno anche parte di collettività specifiche e
diverse, in seno alle quali nascono e agiscono. La collettività più
forte è oggi ciò che si chiama una nazione, cioè la coincidenza
più o meno perfetta (mai totale) tra uno Stato ed una cultura.
Appartenere all'umanità non è la stessa cosa che appartenere ad
una nazione - l'uomo non è il cittadino, diceva Rousseau -, c'è
anzi tra le due un conflitto latente, che può divenire aperto il giorno in cui fossimo obbligati a scegliere tra i valori dell'una e quelli dell'altra. L'uomo, in questa accezione del termine, viene giudicato a partire da principi etici; il comportamento del cittadino
dipende da una prospettiva politica. Non si può eliminare nessuno di questi due aspetti della vita umana e neanche li si può ridurre l'uno all'altro: è meglio restare coscienti di tale dualità a volte
tragica. Allo stesso tempo, la loro separazione radicale, il loro
confinamento in sfere che non comunicano mai tra di esse, possono essere ugualmente disastrosi: lo testimonia Tocqueville che,
se esalta la morale nelle sue opere filosofiche ed erudite, preconizza invece lo sterminio degli indigeni nei suoi discorsi politici.
L'etica non è la politica, ma può elevare delle barriere che la politica non avrà il diritto di oltrepassare; appartenere all'umanità non
ci dispensa dall'appartenere ad una nazione né può sostituirvisi,
ma i sentimenti umani devono poter contenere la ragione di Stato.
Ma si dice spesso: io preferisco i miei figli a quelli del mio
vicino; ecco un sentimento naturale del quale non c'è alcun motivo di vergognarsi. Non è altrettanto naturale preferire i compatrioti agli stranieri e riservare loro un trattamento di favore? Non
è naturale sottomettere l'uomo al cittadino e l'etica alla politica?
Un tale ragionamento poggia su una doppia confusione. La prima
è di ordine psicologico: essa consiste nel trasferire, per analogia,
le proprietà della famiglia alla nazione. Ora, c'è tra queste due
entità una soluzione di continuità. La famiglia assicura l'interazione immediata con altri esseri umani; il suo principio può
estendersi, al limite, all'insieme delle persone che noi conoscia3
mo - ma non oltre. La nazione è un'astrazione, di cui si possiede
altrettanto poca esperienza immediata che dell'umanità. La
seconda confusione è di ordine etico: il fatto che una cosa è, non
significa che debba essere. Del resto, l'individuo opera molto
bene la correzione da sé, e non confonde l'amore con la giustizia:
ama suo figlio più di quello del vicino, ma, quando i due si trovano nella sua casa, dà loro parti uguali di torta. E, dopo tutto, la
pietà non è meno naturale dell'egoismo. È caratteristico dell'essere umano vedere più lontano del suo interesse ed è a causa di ciò
che il sentimento etico esiste; l'etica cristiana come l'etica repubblicana non fanno che sistematizzare e precisare questo sentimento. La «preferenza nazionale» non è più fondata sui fatti che
sui valori.
Ma che cos'è una nazione? A questa domanda sono state fornite numerose risposte, che si possono suddividere in due grandi
gruppi. Da un lato, si costruisce l'idea di nazione secondo il
modello della razza: è una comunità di «sangue», cioè un'entità
biologica, sulla quale l'individuo non ha alcuna presa. Si nasce
francese, tedesco o russo e lo si resta fino al termine della propria
vita. Sono allora i morti che decidono per i vivi, come dicevano
Barrès e Le Bon, e il presente dell'individuo viene determinato
dal passato del gruppo. Le nazioni sono blocchi impermeabili: il
pensiero, i giudizi, i sentimenti, tutto è differente da una nazione
all'altra. Dall'altro lato, l'appartenenza ad una nazione è pensata
secondo il modello del contratto. Alcuni individui, diceva Sieyès,
decidono un giorno di fondare una nazione; e il gioco è fatto. Più
seriamente si può affermare che appartenere ad una nazione
significa, prima di tutto, adempiere un atto della volontà, sottoscrivere un impegno a vivere insieme adottando regole comuni,
avendo dunque in mente un avvenire comune.
Tutto contrappone queste due concezioni, la nazione come
razza e la nazione come contratto: l'una è fisica, l'altra morale;
l'una naturale, l'altra artificiale; l'una è volta verso il passato, l'altra verso il futuro; l'una è determinismo, l'altra libertà. Ora, la
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scelta tra di esse non è semplice: chiunque può sentire, intuitivamente, che l'una come l'altra contengono qualche verità e numerose dimenticanze. Ma come riconciliare due contrari? Il tentativo più celebre, quello di Renan, si è risolto in un insuccesso: non
ci si può limitare ad aggiungere, uno dietro l'altro, due «criteri»,
quando il secondo annulla il primo.
L'antinomia delle due «nazioni» può tuttavia essere superata
se accettiamo di pensare la nazione come cultura. Come la
«razza», la cultura preesiste all'individuo e non si può cambiare
cultura dall'oggi al domani (alla maniera in cui si cambia cittadinanza, con un atto di naturalizzazione). Ma la cultura ha anche
delle caratteristiche in comune con il contratto: essa non è innata, ma acquisita; e, anche se questa acquisizione è lenta, dipende
in fin dei conti dalla volontà dell'individuo e può rientrare nel
campo dell'educazione. In cosa consiste il suo apprendistato? In
una padronanza della lingua, prima di tutto; in una familiarità con
la storia del paese, con i suoi paesaggi e con i costumi della sua
popolazione d'origine, retti da mille codici invisibili (non bisogna
evidentemente identificare la cultura con quello che si trova nei
libri). Un simile apprendistato dura lunghi anni e il numero di
culture che si possono conoscere a fondo è assai limitato; ma non
c'è bisogno di esser nati in un certo luogo per farlo: il sangue non
c'entra affatto e neanche i geni. Del resto, tutti coloro che hanno
la cittadinanza per nascita non possiedono necessariamente la
cultura del proprio paese: si può essere di ceppo francese e tuttavia non partecipare alla comunità culturale.
L'interpretazione della nazione come cultura (che ha la sua
origine in Montesquieu) consente di preservare gli elementi di
verità presenti nella concezione della nazione come contratto o
come «razza» (mentre queste ultime concezioni sono posteriori a
Montesquieu). Essa consente, allo stesso tempo, di aggirare l'antinomia tra l'uomo e il cittadino: qui, l'unica strada verso l'universale è quella che passa per il particolare e solo colui che è padrone di una cultura specifica ha delle possibilità di essere inteso dal
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mondo intero. Occorre precisare, tuttavia, che la cultura non è
necessariamente nazionale (anzi, lo è solo in via eccezionale):
essa anzitutto appartiene alla regione, o anche ad entità geografiche minori; può anche appartenere ad uno strato della popolazione con l'esclusione di altri gruppi dello stesso paese; può infine
includere un gruppo di paesi. Una cosa è certa: la padronanza per
lo meno di una cultura è indispensabile ad una piena crescita di
ogni individuo; l'acculturazione è possibile e spesso benefica; la
deculturazione è invece una minaccia. Come non si deve arrossire di amare più i propri che gli altri, senza che ciò conduca a praticare l'ingiustizia, così non si deve provare vergogna del proprio
attaccamento per una lingua, un paesaggio, una consuetudine: è
in ciò che si è umani.
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Contrappunto
Edward W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, prefazione di Joseph
A. Buttigieg, postfazione di Giorgio Baratta, traduzione di
Stefano Chiarini e Anna Tagliavini, revisione dell'edizione italiana a cura di Maria Antonietta Saracino, Gamberetti, Roma 1998
(prima ed. 1993), pp. 17-18; 33; 40-41; 45.
Dai tempi di Conrad e Dickens il mondo è cambiato in modi
che hanno sorpreso, e spesso allarmato, europei e americani, che
oggi si trovano a confrontarsi con la presenza sul loro territorio
di vaste popolazioni di immigrati non-bianchi, e ad affrontare
innumerevoli voci dotate di una energia del tutto nuova, le quali
esigono che le loro storie vengano ascoltate. Il punto focale del
mio libro è che queste popolazioni e queste voci sono lì ormai da
tempo, grazie al processo di globalizzazione innescato dall'imperialismo moderno; ignorare o sminuire le esperienze, parzialmente coincidenti, di occidentali e orientali, ignorare o sminuire l'interdipendenza dei territori culturali sui quali hanno convissuto e
si sono combattuti colonizzatori e colonizzati, attraverso proiezioni, geografie, narrative e storie tra loro antagoniste, significa
farsi sfuggire l'essenza stessa del mondo negli ultimi cento anni.
Oggi, per la prima volta, la storia dell'imperialismo e della sua
cultura può essere studiata in modo non monolitico, né riduttivamente compartimentato, separato, diviso. C'è stata, è vero, una
preoccupante esplosione di teorie separatiste e scioviniste, in
India, in Libano o in Jugoslavia, così come nei proclami afrocentrici, islamocentrici o eurocentrici, ma lungi dall'invalidare la
lotta per liberarsi dall'imperialismo, queste riduzioni semplicistiche del discorso culturale di fatto dimostrano una tensione di
fondo verso la liberazione che anima il desiderio di essere indipendenti, di parlare liberamente e senza dover sopportare il peso
di un dominio ingiusto. Tuttavia la sola prospettiva che consenta
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di comprendere questa energia è quella storica: da qui la grande
apertura geografica e storica tentata in questo libro. Nel nostro
desiderio di farci sentire tendiamo molto spesso a dimenticare
che il mondo è uno spazio affollato e che, se ognuno insistesse
sull'assoluta purezza o priorità della propria voce, tutto quel che
otterremmo sarebbe lo spaventoso baccano di una contesa infinita e una sanguinosa confusione politica il cui orrore inizia già a
farsi percepibile qui e là, nel riemergere delle politiche razziste in
Europa, nella cacofonia dei dibattiti sul "politically correct" e
sulle politiche delle identità negli Stati Uniti e - per parlare della
parte del mondo cui appartengo - nell'intolleranza dei pregiudizi
religiosi e nelle promesse illusorie del despotismo di stampo
bismarkiano, alla maniera di Saddam Hussein e dei suoi numerosi epigoni e rivali arabi.
Quanto è sano, dunque, e fonte di ispirazione, non limitarsi ad
ascoltare la propria voce, per così dire, ma riuscire a capire in che
modo un grande artista come Kipling (e pochi sono più imperialisti e reazionari di lui) abbia saputo narrare magistralmente
l'India e come, nel far ciò, il suo Kim non soltanto dipendesse da
una consolidata prospettiva anglo-indiana, ma anche (e suo malgrado) anticipasse l'indifendibilità di tale prospettiva proprio con
la sua insistenza che la realtà indiana avesse bisogno, anzi chiedesse a gran voce, la tutela inglese a tempo più o meno indeterminato. Gli autentici investimenti, a livello intellettuale ed estetico, nei domini coloniali sono stati attinti proprio dal grande archivio della cultura. Un lettore inglese o francese della seconda metà
dell'Ottocento, vedrebbe e percepirebbe l'India e il Nord Africa
con un insieme di familiarità e di distanza, ma mai con la sensazione di trovarsi di fronte a paesi con una propria, distinta, sovranità. Nei romanzi, nelle storie, nei racconti di viaggio e di esplorazione, la sua coscienza sarebbe sempre rappresentata come la
principale autorità, come una fonte attiva di energia che dà senso
non soltanto alle attività colonizzatrici ma anche a geografie e
popolazioni esotiche. E soprattutto, 0 sentimento del proprio
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potere difficilmente consentirebbe a questo ipotetico lettore di
immaginare che quei "nativi" che apparivano servili oppure ostinatamente restii a collaborare, sarebbero mai stati capaci di
costringerlo a rinunciare all'India o all'Algeria. E nemmeno di
dire qualcosa, in merito, che potesse forse contraddire, sfidare o
in certo modo incrinare il punto di vista prevalente nella società.
La cultura dell'imperialismo non è stata invisibile, né ha
nascosto le proprie affiliazioni e i propri interessi mondani. Le
principali linee di sviluppo della cultura sono sufficientemente
chiare da permetterci di osservare le annotazioni, spesso scrupolose, in essa registrate e di rilevare quanta poca attenzione queste
abbiano ricevuto. Il fatto che esse suscitino oggi tanto interesse
da generare ad esempio un libro come questo, e come molti altri,
dipende non tanto da una sorta di desiderio retrospettivo di rivalsa, quanto da un rafforzato bisogno di stabilire legami e connessioni. Uno dei risultati raggiunti dall'imperialismo è stato quello
di avvicinare i diversi mondi e, sebbene nel corso di tale processo si sia avuta una separazione ingannevole e fondamentalmente
ingiusta tra gli europei e gli indigeni, la maggior parte di noi
dovrebbe considerare l'esperienza storica dell'impero come
un'esperienza comune. È nostro compito quindi descriverla come
appartenente a indiani e inglesi, ad algerini e francesi, a occidentali e ad africani, ad asiatici, latino-americani e australiani, nonostante gli orrori, gli spargimenti di sangue e il desiderio di vendetta.
[…]
Molti nel cosiddetto mondo metropolitano o occidentale, così
come le loro controparti nel Terzo Mondo o nelle ex-colonie,
condividono l'impressione che l'era dell'imperialismo classico, o
alto, che ha avuto il suo apice in quella che lo storico Eric
Hobsbawm ha giustamente descritto come «l'età dell'impero», e
che più o meno formalmente ha avuto fine con lo smantellamento delle grandi strutture coloniali dopo la II guerra mondiale, con9
tinui ancora oggi, in un modo o in un altro, ad esercitare una considerevole influenza a livello culturale. Per svariate ragioni essi
sentono un nuovo pressante bisogno di comprendere se e in che
misura il passato sia veramente tale, oppure no, e questo impulso
si trasmette alle loro percezioni del presente e del futuro.
Al centro di tali percezioni c'è il fatto, da pochi messo in
discussione, che durante l'Ottocento un potere senza precedenti assai maggiore di quello che avevano avuto ai loro tempi Roma,
la Spagna, Baghdad o Costantinopoli - fosse concentrato in Gran
Bretagna, in Francia e in seguito in altri paesi occidentali (in particolare gli Stati Uniti). Questo secolo ha visto "l'ascesa
dell'Occidente" giungere al suo apice, e il potere occidentale consentire ai centri metropolitani imperiali di acquisire e accumulare territori e sudditi a un ritmo davvero impressionante. Basti
pensare che nell'Ottocento le potenze occidentali rivendicavano
il 55% del territorio mondiale possedendone in realtà circa il 35%
e che nel 1878 tale percentuale era salita al 67%, con un incremento di 83.000 miglia quadrate all'anno. Nel 1914 tale crescita
annuale era salita all'incredibile cifra di 240.000 miglia quadrate,
e l'Europa controllava circa l'85% della superficie terrestre sotto
forma di colonie, protettorati, possedimenti, dominii e commonwealth. Nessun altro insieme di colonie è mai stato così vasto,
così completamente dominato, e così ineguale in termini di potere a favore delle metropoli occidentali
[…]
Con l'approssimarsi della fine del XX secolo abbiamo assistito un po' ovunque al crescere di una nuova consapevolezza dei
confini tra le culture, di quelle divisioni e differenze che non solo
ci consentono di distinguere una cultura dall'altra, ma anche di
vedere fino a che punto si tratti di realtà create dall'uomo, di strutture di autorità e partecipazione, generose verso quel che esse
includono, incorporano e convalidano, e alquanto ostili verso ciò
che escludono e sviliscono.
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In ogni cultura definita su base nazionale io credo vi sia una
aspirazione alla sovranità, ad esercitare influenza e a dominare.
In questo la cultura francese e inglese, indiana e giapponese, sono
vicine l'uria all'altra. Al tempo stesso, paradossalmente, mai
come oggi siamo consapevoli di quanto imprevedibilmente ibride siano le esperienze storiche e culturali, di come esse condividano tra loro molte esperienze, spesso contraddittorie, e territori,
di come attraversino i confini nazionali, di come sfidino l'azione
poliziesca dei dogmi semplicistici e dei patriottismi urlati. Lungi
dall'essere entità unitarie, monolitiche o libere da influenze esterne, le culture in realtà assumono più elementi "stranieri", alterità
e differenze di quante consciamente ne escludano. Chi mai, in
India o in Algeria, può oggi tranquillamente distinguere le componenti francesi o inglesi del passato dalle realtà del presente? E
chi mai, in Inghilterra o in Francia, può chiaramente circoscrivere la Londra inglese o la Parigi francese escludendo l'impatto
dell'India o dell'Algeria su queste due città imperiali?
[…]
La questione qui non è molto complicata. Mentre ve ne state a
Oxford, Parigi o New York, provate a raccontare agli arabi o agli
africani che appartengono a una cultura fondamentalmente malata o degenerata: è improbabile che riusciate a convincerli.
Quand'anche doveste riuscirci, non saranno in alcun modo disponibili ad ammettere la vostra superiorità o a riconoscervi il diritto a governarli nonostante la vostra evidente ricchezza e forza. La
storia di questo confronto è ben visibile nelle colonie dove i
padroni bianchi hanno un tempo dominato incontrastati, ma alla
fine sono stati cacciati. Per contro quegli stessi indigeni esultanti hanno ben presto scoperto di aver bisogno dell'Occidente e si
sono resi conto che l'idea di una indipendenza totale era una fantasia nazionalista pensata soprattutto a beneficio di quella che
Fanon definisce «la borghesia nazionalista» che, a sua volta,
spesso governava i paesi di nuova indipendenza con tirannie
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dure e sfruttatrici che richiamavano alla mente i vecchi padroni
di un tempo.
E così, alla fine del XX secolo, in un certo senso si ripropone
il ciclo imperiale del secolo precedente sebbene oggi non vi siano
più grandi spazi vuoti, frontiere in espansione, nuovi insediamenti coloniali da costruire con entusiasmo. Oggi viviamo in un
ambiente globale sottoposto a grandi pressioni di tipo ecologico,
economico, sociale e politico, che ne lacerano la struttura solo
debolmente percepita, fondamentalmente trascurata e incompresa. Chiunque possieda una seppur vaga consapevolezza di tutto
questo, non può che preoccuparsi per il fatto che un egoismo
tanto sordo e interessi così meschini - patriottismi, sciovinismi,
odii etnici, razziali e religiosi - possano condurre a una tendenza
distruttiva di massa. Il mondo semplicemente non può permettersi di sopportare una cosa del genere ancora una volta.
Del resto non si può certo fingere che vi siano a portata di
mano dei modelli per un ordine mondiale armonioso, e sarebbe
egualmente falso supporre che idee di pace e di comunanza
abbiano grandi possibilità di prevalere quando il potere è spinto
ad agire da un'idea aggressiva quale quella dei "vitali interessi
nazionali" o di una sovranità senza limiti. L'ovvio riferimento qui
è allo scontro tra Stati Uniti e Iraq, o all'invasione irachena del
Kuwait a causa del petrolio. Ciò che meraviglia è il fatto che sia
ancora prevalente la tendenza verso un modo di pensare e di agire
così gretto, e che venga accettata passivamente e acriticamente, e
continuamente riproposta dal sistema scolastico generazione
dopo generazione. A tutti noi viene insegnato ad ammirare le
nostre tradizioni e a venerare la nazione cui apparteniamo; ci
viene insegnato a perseguirne gli interessi con forza e nel
disprezzo delle altre società. Un nuovo e, a mio giudizio, spaventoso tribalismo sta frantumando le società, separando i popoli,
stimolando l'avidità, i conflitti sanguinosi e le piuttosto banali
rivendicazioni di interessi particolari di gruppi, anche etnici,
minori. Troppo poco tempo viene dedicato non solo a "conosce12
re altre : culture" - la frase è di una vaghezza scoraggiante - ma a
studiare la mappa delle interrelazioni, con gli scambi reali e generalmente produttivi che avvengono giorno per giorno, ma anche
minuto per minuto, tra stati, società, gruppi, identità diverse.
Nessuno può tenere a mente tale mappa ed è per questa ragione che dovremmo considerare nei loro aspetti essenziali sia la
geografia dell'impero sia la multiforme esperienza imperiale che
ne ha intessuto la trama. In primo luogo, riesaminando la storia
dell'Ottocento, vediamo come la spinta a costruire imperi abbia
portato all'assoggettamento di gran parte della terra ad opera di
una manciata di grandi potenze. Per comprendere almeno parzialmente il significato di tale operazione, suggerisco di esaminare una serie di preziose testimonianze culturali in cui l'interazione tra Europa e America da un lato e il mondo colonizzato dall'altro è vivace, avvertita, documentata e riconosciuta come esperienza comune da ambo le parti. Tuttavia, prima di affrontare
questo aspetto dal punto di vista storico e sistematico, è utile dare
uno sguardo a quel che ancora rimane dell'imperialismo nel più
recente dibattito culturale. Si tratta del residuo di una storia densa
e interessante, paradossalmente globale e locale al tempo stesso,
ed è anche un segno di come il passato imperiale continui a vivere, suscitando discussioni e contro-argomentazioni con sorprendente intensità. Poiché sono contemporanee e facilmente riconoscibili, queste tracce del passato nel presente ci indicano un. percorso di studio delle Storie - il plurale è usato di proposito - create dall'impero, non solo i racconti di bianchi, donne e uomini, ma
anche quelle dei non-bianchi, le cui terre e la cui stessa esistenza
erano in questione, anche quando i loro diritti venivano negati o
ignorati.
Uno dei principali dibattiti oggi in corso su ciò che resta dell'imperialismo - quello sul modo in cui i mezzi di comunicazione
di massa, in Occidente, rappresentano i nativi - illustra il permanere di tale interdipendenza e sovrapposizione, non solo nel contenuto stesso del dibattito ma nella sua
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forma, non solo in ciò che viene detto, ma anche nel modo in
cui viene detto, chi lo dice, dove lo fa e a chi si rivolge. Questo
ci spinge a una ricerca approfondita, anche se la cosa richiede
un'autodisciplina non facile da trovare, in quanto le strategie di
contrapposizione sono ben sviluppate, tentatrici e a portata di
mano.
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Invettiva anticolonialista
di un vecchio thaitiano
Gli addii del vecchio
Denis Diderot, Ritorno alla natura. Supplemento al Viaggio di
Bouganville, a cura di Antonio A. Santucci, Laterza, Roma-Bari
1993 (prima ed. 1796), pp. 13-19.
Parla un vecchio.
Era padre di una numerosa famiglia. All'arrivo degli europei
lasciò cadere su di loro delle occhiate sprezzanti, senza manifestare
stupore, né spavento, né curiosità. Quando gli si accostarono volse
le spalle e sì ritirò nella propria capanna, il suo silenzio e la sua
inquietudine palesavano fin troppo il suo pensiero: rimpiangeva tra
sé i bei giorni andati del suo paese1. Alla partenza di Bougainville,
quando gli abitanti dell'isola accorrevano a frotte sulla spiaggia, si
aggrappavano ai suoi abiti, stringevano fra le braccia i suoi compagni e piangevano, il vecchio si avanzò con aria severa e disse:
«Piangete, poveri tahitiani! Piangete, ma per l'arrivo, non per la partenza di questi uomini ambiziosi e malvagi. Un giorno li conoscerete meglio, un giorno torneranno col pezzo di legno2 che vedete
legato alla cintura di questo in una mano e il ferro che pende al fianco di quello nell'altra, per incatenarvi, sterminarvi, sottomettervi
alle loro stravaganze e ai loro vizi. Un giorno sarete loro servi, corrotti, vili, infelici come loro. Tuttavia mi consolo, sono ormai prossimo alla fine del corso della mia vita, e di certo non vedrò la calamità che vi predico. Tahitiani! Amici miei! Un mezzo per sfuggire
ad un funesto avvenire l'avreste, ma preferirei morire piuttosto che
consigliarvelo. Che si allontanino, e che vivano».
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Rivolgendosi poi a Bougainville aggiunse: «E tu, capo di questi briganti ai tuoi ordini, allontana immediatamente il tuo vascello dal nostro lido. Siamo innocenti, felici, e non puoi che arrecare danno alla nostra fortuna. No! seguiamo il puro istinto della
natura, e tu hai cercato di cancellarne l'impronta dai nostri animi.
Qui tutto è di tutti, e tu ci hai predicato non so che distinzione di
tuo e di mio3. Le nostre ragazze e le nostre donne sono in comune, hai condiviso con noi tale privilegio, e sei venuto ad accendere in loro smanie sconosciute. Sono diventate pazze fra le tue
braccia, sei diventato feroce fra le loro. Hanno incominciato ad
odiarsi, vi siete sgozzati per loro, ed esse sono tornate a noi lorde
del vostro sangue. Siamo liberi, ed ecco che hai sepolto nella
nostra terra l'atto della nostra futura schiavitù. Non sei un dio né
un demonio, chi sei dunque per fare degli schiavi? Orù, tu che
comprendi la loro lingua, dì a tutti noi come hai già detto a me
ciò che questi uomini hanno scritto su quella lastra di metallo:
Questo paese è nostro4. È tuo questo paese! E perché? Perché vi
hai messo piede? Se un giorno un tahitiano sbarcasse sulle vostre
coste e incidesse sopra una delle vostre pietre o sulla corteccia di
uno dei vostri alberi: Questo paese appartiene agli abitanti di
Tahiti, che ne penseresti? Tu sei il più forte! E che importa?
Quando ti è stata sottratta una di quelle bagattelle di nessun conto
delle quali la tua nave è colma, hai protestato, ti sei vendicato, e
nello stesso istante in fondo al tuo cuore hai ideato il furto di un
intero paese! Non sei uno schiavo, sopporteresti la morte piuttosto che esserlo, e ciò nonostante vuoi asservirci! Credi forse che
il tahitiano non sappia difendere la propria libertà fino alla
morte? Il tahitiano di cui vuoi impadronirti come di un bruto è
tuo fratello, siate entrambi figli della natura. Che diritto hai su di
lui che egli non abbia su di te? Quando sei arrivato, ti ci siamo
forse scagliati contro? Abbiamo saccheggiato la tua nave? Ti
abbiamo afferrato ed esposto alle frecce dei nostri nemici? Ti
abbiamo associato al lavoro dei nostri animali nei campi? Noi
abbiamo rispettato in te la nostra immagine. Lasciaci i nostri
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costumi, sono più saggi ed onesti dei tuoi, non vogliamo affatto
scambiare quella che chiami la nostra ignoranza con i tuoi inutili lumi. Possediamo tutto ciò che ci è necessario ed utile. Siamo
da disprezzare per non aver saputo crearci bisogni superflui?
Quando abbiamo fame abbiamo di che nutrirci, quando abbiamo
freddo abbiamo di che coprirci. Sei entrato nelle nostre capanne,
che vi manca a tuo avviso? Inseguì sin dove vorrai quelle che
chiami le comodità della vita, ma consenti a degli esseri sensati
di fermarsi, giacché dalla continuità dei propri dolorosi sforzi
non otterrebbero che beni fittizi. Se ci persuadi ad oltrepassare lo
stretto limite del bisogno, quando avrà fine per noi il lavoro?
Quando godremo? Abbiamo ridotto al minimo la somma delle
nostre fatiche annuali e quotidiane, nulla infatti ci sembrava preferibile al riposo. Va' ne! tuo paese ad agitarti e a tormentarti
quanto vorrai, lasciaci riposare, non turbarci coi tuoi falsi bisogni
o con le tue virtù prive di fondamento. Guarda questi uomini,
vedi come sono diritti, sani e robusti. Guarda queste donne, vedi
come sono diritte, sane, fresche e belle. Prendi quest'arco, è il
mio, chiama in tuo aiuto uno, due, tre, quattro dei tuoi compagni
e cercate di tenderlo. Io lo tendo da solo. Aro la terra, scalo il
monte, attraverso la foresta, percorro una lega di pianura in meno
di un'ora. I tuoi giovani compagni hanno stentato a tenermi dietro, e ho più di novant'anni. Guai a quest'isola! Guai ai tahitiani
presenti ed a tutti i tahitiani venturi, dal giorno che ci hai visitati! Non conoscevamo che una sola malattia, quella a cui l'uomo,
l'animale e la pianta sono stati condannati, la vecchiaia, e tu ce ne
hai arrecata un'altra, hai infettato il nostro sangue5. Forse sarà
necessario sterminare con le nostre stesse mani le nostre ragazze,
le nostre donne, i nostri figli, quelli che hanno avvicinato le tue
donne, quelle che hanno avvicinato i tuoi uomini. I nostri campi
saranno imbevuti del sangue impuro che è trasfuso dalle tue vene
alle nostre, oppure i nostri figli saranno condannati ad alimentare e perpetuare il male che hai procurato ai padri e alle madri, e
che essi trasmetteranno per sempre ai loro discendenti.
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Disgraziato! Sarai colpevole delle sciagure che seguiranno le
funeste carezze dei tuoi o degli omicidi che commetteremo per
arrestarne il veleno. Parli di delitti! Hai idea di un delitto più atroce del tuo? Al tuo paese, qual è la pena per chi ammazza il suo
simile? La morte col ferro. Qua! è la pena per il vile che l'avvelena? La morte col fuoco. Paragona a quest'ultimo il tuo delitto e
dicci, avvelenatore di popoli, che supplizio meriti? Non è molto
dacché la giovane tahitiana si abbandonava con trasporto agli
abbracci de! giovane tahitiano, attendeva con impazienza che sua
madre, autorizzata dal compimento dell'età da marito, le sollevasse il velo e mettesse a nudo il suo seno. Era fiera di destare i desideri e di stuzzicare gli sguardi appassionati dello sconosciuto, dei
genitori, del fratello. Accettava senza timore e senza vergogna, in
nostra presenza, al centro dì un circolo di innocenti tahitiani, al
suono dei flauti e tra le danze, le carezze di colui che il suo giovane cuore e la segreta voce dei suoi sensi le designavano. Con
te sono penetrati in mezzo a noi l'idea del delitto e il pericolo
della malattia. I nostri godimenti, un tempo così dolci, sono oggi
accompagnati dal rimorso e dalla paura. Quest'uomo nero, che ti
è accanto e mi ascolta, ha parlato ai nostri ragazzi, non so cosa
abbia detto alle nostre ragazze, ma i ragazzi esitano, le ragazze
arrossiscono. Rintanati se vuoi nell'oscura foresta insieme alla
perversa compagna dei tuoi piaceri, ma concedi ai buoni e semplici tahitiani di riprodursi al cospetto del cielo e alla luce del
giorno. Quale sentimento più onesto e più elevato potresti sostituire a quello che abbiamo ispirato loro e che li anima? Quando
pensano che sia giunto il momento di arricchire la nazione e la
famiglia di un nuovo cittadino, ne vanno orgogliosi. Si nutrono
per vivere e per crescere, crescono per moltiplicarsi, e non trovano in ciò né vizio né vergogna.
Ascolta il seguito dei tuoi misfatti. Appena sei sbarcato sulla
nostra terra, questa ha fumato per il sangue. Quel tahitiano che ti
corse incontro, ti accolse, ti ricevette gridando: Ta˚o! Amico,
amico, l'avete ammazzato6. E perché l'avete ammazzato? Perché
18
era stato attirato dalle tue piccole uova di serpente7. Ti donava i
suoi frutti, ti offriva sua moglie e sua figlia, ti cedeva la sua
capanna, e l'hai ucciso per un pugno di quei granelli che aveva
preso senza chiedertelo. E questo popolo? Al rumore della tua
arma micidiale, il terrore si è impadronito di lui, ed è fuggito sul
monte. Ma credi che non avrebbe tardato a discenderne. Credi
che in un attimo, senza di me, sareste morti tutti. Eh! Perché li ho
placati? Perché li ho trattenuti? Perché ancora adesso li trattengo?
Lo ignoro, non meriti infatti alcun senso di pietà, perché hai un
animo feroce che mai ne ha provata. Hai percorso insieme ai tuoi
compagni la nostra isola, sei stato rispettato, hai goduto di ogni
cosa, non hai trovato sulla tua strada né barriere né divieti; ti invitavano, ti sedevi, dinanzi a te si esponeva la ricchezza del paese.
Hai voluto delle fanciulle? Tranne quelle che non hanno ancora il
privilegio di mostrare il viso ed il seno, le madri ti hanno presentate le altre completamente nude. Eccoti padrone della tenera vittima del dovere di ospitalità. La terra è stata cosparsa per lei e per
te di foglie e di fiori, i musicisti hanno accordato gli strumenti,
niente ha turbato la dolcezza o ha molestato la libertà delle vostre
carezze. Hanno cantato l'inno, l'inno che ti incitava ad essere
uomo, che esortava la nostra fanciulla ad essere donna, e donna
compiacente e voluttuosa. Hanno danzato intorno al vostro letto,
ed uscendo dalle braccia di quella donna, dopo aver provato sul
suo petto l'ebbrezza più dolce, hai ucciso suo fratello, il suo
amico, forse suo padre. E hai fatto di peggio. Guarda da quella
parte, osserva quel recinto irto di frecce. Quelle armi che avevano minacciato solo i nostri nemici le vedi ora rivolte contro i
nostri figli, osserva le sfortunate compagne dei vostri piaceri,
osserva la loro tristezza, osserva il dolore dei padri e la disperazione delle madri, è lì che sono condannate a morire, per nostra
mano o per il male che hai arrecato loro. Allontanati, a meno che
i tuoi occhi crudeli non si compiacciano di spettacoli di morte,
allontanati, va', e possano i mari, colpevoli di averti risparmiato
durante il tuo viaggio, riscattarsi e vendicarci inghiottendoti
19
prima del tuo ritorno! E voi, tahitiani, rientrate nelle vostre
capanne, rientrate tutti, e che alla partenza questi indegni stranieri non odano che l'onda che mugghia e scorgano solo la schiuma
che imbianca con la sua furia una riva deserta!».
Appena ebbe finito, la folla degli abitanti sparì, un profondo
silenzio regnò sull'intera isola e, lungo tutta la costa, si udì solo
l'acuto sibilo dei venti e il sordo rumore delle acque. Si sarebbe
detto che l'aria e il mare, sensibili alla voce del vecchio, si disponessero ad obbedirgli8.
Note
1
«Un uomo venerabile parve appena accorgersi del nostro arrivo...»
(Bougainville, Viaggio intorno al mondo, Novara 1966, p. 121). Non è difficile individuare il personaggio a! quale Diderot affida la sua invettiva anticolonialistica.
2 II crocifisso del cappellano.
3 «Sembrava che, per le cose di prima necessità, non ci sia proprietà e che tutto
sia di tutti» (Bougainville, Viaggio, cit., p. 141}.
4 Il 14 aprile 1768, sulla spiaggia di un'insenatura dell'isola, Bougainville sotterrò «un atto di presa di possesso scritto su una tavola di quercia con una bottiglia ben sigillata di luto con tenente i nomi degli ufficiali delle due navi»
{Viaggio, cit., p. 131). Anche stavolta l'esploratore non ebbe fortuna: dieci
mesi prima l'inglese Wallis aveva preso possesso di Tahiti in nome di Giorgio
III. Precedentemente, nel 1763, la spedizione organizzata da Bougainville con
i navigatori di Saint-Malo per colonizzare le Falkland, aveva suscitato le rimostranze della Spagna che vantava un diritto di priorità su quelle isole. Alla fine
del '66 Bougainville dovette restituirle agli agenti spagnoli.
5 Nei 1769, al suo sbarco a Tahiti, James Cook trovò l'isola infettata dalla sifilide (cfr. Bougainville, Viaggio, cit., pp. 154-5). Giacché l'equipaggio della
spedizione di Wallis, precedente a quella di Bougainville, era sano, Cook
accusò i francesi dì essere responsabili del contagio. Bougainville era invece
persuaso della endemicità del male sull'isola (cfr. ivi, p.139). Del suo stesso
parere erano il chirurgo Vivès e Saint-Germaìne (cfr. il Routier pour le voyage de Saint-Germaine, embarqué pour faire fonctions d'écrivain sur la frégate
du Roy La Boudeuse, riportato in appendice a D. Diderot, Supplément au
Voyage de Bougainville, a cura di H. Dieckmann, Genève-Lille 1955, p. 84).
6 Furono due i fatti di sangue verificatisi durante il soggiorno tahitiano dì
Bougainville. Un isolano fu ucciso il 10 aprile, altri tre il 12 (cfr. Viaggio, cit.,
pp. 127-8). Entrambi gli episodi trovarono origine in futili contese.
20
7
Le perline usate dagli europei negli scambi con gli indigeni.
Nella realtà Bougainville e i suoi compagni salparono in mezzo alla commozione generale (cfr. Viaggio, cit., p. 133).
8
21
Un'idea dell'India
Alberto Moravia, Un'idea dell'India, Bompiani, Milano 2000 (prima
ed. 1962), pp. 75-81.
Spesso gli indiani ci domandano quale sia l'aspetto del loro
Paese che ci ha colpiti di più. Dobbiamo notare che gli indiani
fanno questa domanda in una maniera quasi triste, come se prevedessero in anticipo la risposta. La quale, infatti, non può essere che una sola: "La povertà." A questa risposta gli indiani scuotono il capo come a dire: "Lo sapevamo." Nessuno protesta o
cerca di suggerire altri aspetti più degni di nota. E sì che in India
molte sono le cose, alcune delle quali bellissime, che possono
fermare l'attenzione del viaggiatore. Ma la povertà, almeno oggi,
è veramente il motivo dominante.
Fare, per esempio, un soggiorno anche distratto a Calcutta e a
Bombay, che sono le due massime città industriali dell'India, è
come fare un involontario e accelerato studio sociologico sul pauperismo. Già il fenomeno dell'accattonaggio suggerisce il sospetto che la povertà in India non sia un fatto contingente e rimediabile bensì addirittura un tratto costituzionale così che modificarla
o cercare di annullarla vorrebbe dire cambiare addirittura il carattere del popolo indiano. Ciò infatti che colpisce di più nei mendicanti di questo Paese non è tanto il loro numero che pure è grandissimo, quanto la maniera tutta naturale e necessaria con la quale
essi si inseriscono nell'ambiente sociale, quasi membri di diritto di
una società che ne giustifica e richiede l'esistenza.
Mendicanti alle porte dei templi, accovacciati nei loro stracci,
per lo più malati di lebbra o mutilati o deformi, allineati in duplice fila come simboli viventi del dolore, in età che vanno dai sette
anni fino agli ottanta, di ambo i sessi, con i volti improntati ad
un'espressione talmente intensa da rendere inutile la traduzione in
lingua europea delle loro invocazioni; mendicanti alle partenze in
taxi dai negozi o dagli alberghi, dei quali non si vedono le facce
22
bensì soltanto le mani tese freneticamente, attraverso i finestrini
aperti, fino a sfiorarvi il viso, cinque, dieci mani, scure sul dorso,
rosee sulla palma, alcune piccole di bambini, altre minute e graziose di donne giovani, altre grandi e forti di lavoratori, altre
grinzose e nodose di vecchi; mendicanti dei bazar che offrono
cento servizi minimi e inutili e, in mancanza di meglio, formano
un codazzo che vi segue da una bottega all'altra, mentre uno di
loro, più fortunato perché più deforme e miserabile e degno di
pietà, vi precede trionfante portando in cima alla testa un paniere nel quale via via getterete i pacchi e pacchetti dei vostri acquisti; mendicanti per fame pura e semplice, come quel contadino
alto, inagrissimo, dal volto nobile e bello che, alla porta del tempio di Madurai, si avvicinò a noi reggendo in braccio una piccola bimba tutta nuda e spingendo avanti altri tre figlioletti in bassa
età parimenti nudi, evidentemente un vedovo, senza casa, senza
moglie, senza lavoro, forse morente di fame almeno a giudicare
dalla lentezza languente dei passi e dalla maniera con la quale
mendicava, muovendo appena le labbra nella faccia stralunata e
infelice; mendicanti dovunque, insomma, e spesso improvvisati
e, per così dire, creati lì per lì dalla vostra sola presenza, come un
colore, in una pittura, crea o ravviva un altro colore. Ora l'accattonaggio non è che la punta estrema della povertà indiana. Esso
non ci sarebbe se non ci fossero, come sappiamo che ci sono,
salari bassissimi, disoccupazione cronica, mancanza di assistenza sociale, scarsità di alloggi e deficiente educazione.
La povertà indiana, come abbiamo detto, si può osservare
soprattutto nelle tre città principali, Bombay, Calcutta e Madras.
Non è forse un caso che queste enormi città siano state tutte e tre
fondate dagli inglesi cioè siano, in realtà, tre città di tipo occidentale nelle quali l'antico male della povertà indiana assume un
aspetto moderno. Per dipingere i quartieri poveri di Calcutta,
Bombay e Madras ci vorrebbe la penna di un Dickens o di un
Balzac ossia di due scrittori contemporanei della rivoluzione
industriale in Europa, la cui fantasia non era impari al carattere in
23
certo modo fantastico della realtà che descrivevano. Dunque le
tre grandi città summenzionate sono città vittoriane, intendendo
con questa parola l'infame mescolanza di eclettismo stilistico, di
tetraggine industriale e di condizione subumana che ancora oggi
si può notare nei quartieri di "slums" di Londra o di Glasgow.
Ma il richiamo all'Inghilterra non basta; bisogna immaginare
che cosa possono diventare certe stradacce commerciali o certi
agglomerati operai inglesi nel clima fermentante, afoso, fantasticamente umido dei tropici. Ecco per esempio una grande strada di
Calcutta che da lontano appare quasi maestosa benché bruttissima,
proprio alla maniera di certe strade di Londra, con il suo profilo di
cupole, di guglie, di pinnacoli, tra gotico e orientale, disegnato contro il cielo sereno. Ma andate a guardare quegli edifici più da vicino e vedrete che ogni cosa, mattone, stucco, legno, pietra, cemento, intonaco, metallo, è ammuffito, lebbroso, corrotto e decrepito.
E se vi ficcate nelle straducce trasversali, formicolanti di una folla
febbrile e levate gli occhi alle stamberghe sbilenche che le fiancheggiano, vi sembrerà non già di guardare a delle facciate, bensì
a delle facce, nelle quali una psicologia di specie sociale ed economica è stata espressa involontariamente coi mezzi dell'architettura.
Sono proprio facce devastate dall'età, dalle malattie e dalle
privazioni, queste facciate: le pareti scalcinate e tinte di tutte le
infinite sfumature dell'umidità e della decomposizione, le balconate traforate e crollanti, cariche di masserizie e brulicanti di
umanità, le stanze sordide e affollate che si intravedono attraverso le finestre aperte, raccontano tutte la stessa storia di una degradazione tanto antica da essere diventata ormai normalità. Quando
furono nuove queste dimore? Forse mai, nacquero decrepite,
come tante altre cose in questo Paese senza freschezza. E davvero, alla fine, viene fatto di domandarsi se le due affermazioni fondamentali del pensiero indiano, che la realtà non è che apparenza cioè incubo, e che la vita è dolore, piuttosto che ad una riflessione filosofica, non siano dovute all'osservazione oggettiva di
situazioni fisiche proprie all'India.
24
Le cause della povertà indiana sono state naturalmente indagate e studiate a fondo così dagli inglesi come dagli indiani. E la
prima conclusione alla quale si è arrivati, è che non è mai esistita l'India patriarcalmente prospera, ordinata, serena quale la
dipingono i nazionalisti fautori del ritorno all'economia del villaggio. In realtà, nelle sue cause profonde, la povertà dell'India
risale ad un'epoca anteriore così al dominio inglese, che pure se
ne servì e in certo modo l'aggravò, come all'invasione musulmana che vi aggiunse caratteri propri dell'Islam. La prima di queste
cause, antica quanto l'India, va ricercata senza dubbio nel sistema
delle caste, oggi legalmente abolito ma ancora vivo nel costume
e nella pratica. Sulle caste ne sono state dette tante; e naturalmente non mancano indiani che ve ne tesseranno un cauto elogio
sostenendo che avrebbero assicurato all'India la sua fenomenale
stabilità sociale e respingendo in tutti i casi la spiegazione razzista. Ma l'utilità delle caste, certo un minor male in paragone dello
sterminio dei popoli asserviti, è ormai evaporata da tempo; né
d'altra parte bisogna confondere immobilità sociale con stabilità.
E quanto al razzismo, non vi sono dubbi che le caste hanno una
remota origine razzista; basterebbe a dimostrarlo il fatto che casta
in sanscrito si dice "varna" che vuol anche dire colore, ossia colore della pelle.
Come è noto le caste originariamente erano quattro delle quali
tre (i brahmana, i ksatriya, i vaysya, cioè i sacerdoti, i guerrieri e
i mercanti e agricoltori) costituivano la classe dirigente e la quarta (i sudra, ossia i servi della gleba) il proletariato. Come è altresì noto, la casta era un gruppo al tempo stesso razziale, professionale e sociale dai limiti invalicabili: non ci si poteva sposare fuori
della casta, né aver rapporti sociali, né esercitare un mestiere.
Com'è infine notissimo le caste corrispondevano ad una precisa
situazione storica: l'asservimento dei popoli aborigeni di pelle
scura da parte degli invasori indoafghani di pelle chiara. Le quattro caste originarie col tempo proliferarono in centinaia e migliaia di sottocaste, moltiplicando così all'infinito, in infinite sfuma25
ture di disprezzo e di invidia, di odio e di ripugnanza, di rinunzia
e di superbia, l'originario razzismo. Tutto questo, in teoria, come
abbiamo detto, è stato abolito dalle leggi. Ma in pratica, ancora
oggi, in India, sarà difficile che in una conversazione un bramino, per esempio, non vi faccia notare più volte che è bramino; e
che un cameriere intoccabile non accolga la mancia con gli atteggiamenti di eccessiva soggezione che erano propri alla sua casta.
Ci pare del tutto inutile sottolineare quanto questa specie di
camicia di forza applicata al corpo del popolo indiano abbia contribuito e contribuisca tuttora a creare la povertà, uccidendo completamente l'ambizione personale e il desiderio di migliorare se
stessi e gli altri e inducendo la gente ad una concezione di vita
pessimistica, rassegnata e inerte. Davvero l'argomento principale
contro il razzismo di ieri e di oggi è la situazione sociale
dell'India.
Il secondo motivo storico, anch'esso remoto, dell'arretratezza
e miseria indiana va ricercato nelle religioni o meglio nella degenerazione superstiziosa di concezioni religiose altrimenti profondissime quali il brahmanesimo, il buddismo e il jainismo, L'India,
probabilmente a causa del sistema ferreo e immobile delle caste,
è forse il Paese più conservatore che ci sia al mondo. Per questo
la vita indiana è piena di credenze oscure e irrazionali che sono
state conservate anche quando non avevano più alcuna funzione
neppure religiosa; un po' come certe massaie pigre o avare conservano negli armadi gli stracci e le bottiglie vuote dalle quali
non hanno il coraggio di separarsi. Quest'immensa congerie di
credenze fossili paralizza la vita indiana producendo un danno
economico ingente (si calcola che un terzo del raccolto sia divorato dalle vacche, dagli uccelli e dalle altre bestie che per motivi
religiosi non si possono toccare) e ostacolando i progressi dell'educazione e della cultura. Da notarsi che non soltanto politici
agnostici come Nehru ma anche uomini profondamente religiosi
deplorano questo stato di cose. Naturalmente caste e superstizione sono legate da un nesso di simpatia patologica. Anzi si potreb26
be dire addirittura che la prima e maggiore delle superstizioni è
proprio la credenza nelle caste.
Terza causa della povertà indiana, a detta di quasi tutti gli
indiani, è stata la dominazione inglese. La quale certamente contribuì in maniera massiccia ad accrescere la miseria del subcontinente, distruggendo gli artigianati locali e ostacolando l'industrializzazione allo scopo di creare e conservare un mercato ai propri
prodotti. Ma questo terzo motivo in realtà non è distinguibile da
quello che fa capo al sistema delle caste; e verrebbe quasi fatto di
esclamare: chi di casta ferisce, di casta perisce. Chi erano infatti
gli inglesi se non una supercasta a cui riuscì facile assoggettare
trecento milioni di indiani (non più di centodiecimila erano gli
inglesi in India) perché questi, a loro volta, erano stati in precedenza ipnotizzati dai bramini con la fissazione delle caste? In
realtà i colonialisti inglesi non fecero che accettare una situazione coloniale preesistente. Naturalmente il fatto che questa volta
la classe dirigente aveva la sua sede in una lontana isola europea
portò, specie nei primi tempi, a durezze talvolta disumane.
Tuttavia bisogna riconoscere che gli inglesi, in un secondo
tempo, sia pure per i loro fini, crearono vari organismi unitari
come l'ordinamento giudiziario, la rete stradale e ferroviaria, la
burocrazia, l'esercito, la polizia, che permisero all'India di affrontare senza scosse la crisi dell'Indipendenza. Ma il problema della
povertà che essi avevano contribuito ad estendere, rimase inalterato; e soltanto oggi, grazie ai progressi industriali ed educativi
dell'India, si può dire che esso venga davvero affrontato.
Da ultimo ci sarebbero le cause naturali della povertà, vogliamo dire il clima e la situazione geofisica dell'India. Ma non
vogliamo estenderci su questa causa, che pure è stata addotta
spesso, perché non la reputiamo veramente valida. Civiltà prospere si svilupparono in passato in climi sfavorevoli; civiltà miserabili languirono in climi favorevoli. Il clima effettivamente può
aver contribuito a formare la mentalità dell'indiano, persino la
sua filosofia; ma non la sua povertà. Le idee negative circa il
27
mondo e la vita che sono proprie al pensiero indiano, trovarono
tuttavia, nei tempi delle origini, una espressione positiva in meravigliose opere d'arte traboccanti di realismo e di vitalità. Sono gli
uomini che creano il male degli uomini; la natura non fa che
secondarli, qualsiasi direzione essi prendano.
28
L'odore dell'India
Pier Paolo Pasolini, L'odore dell'India, Guanda, Parma 2000
(prima ed. 1962), pp. 44-56.
Eravamo da due giorni a Cochin, una città del Kerala,
nell'India del Sud. Il Kerala è la più povera regione dell'India, ma
nel tempo stesso, la più bella e la più moderna. Per alcuni anni il
governo è stato comunista, e, ancora, i comunisti sono molto
forti. I porti del Kerala sono quelli che hanno avuto i più antichi
contatti con l'Europa. I primi cristiani, si dice convertiti da san
Tommaso, sono antichi come quelli europei: gli arabi, i portoghesi, gli olandesi sono stati qui come di casa (massacrando, sfruttando, convertendo). Infatti a Cochin, che è un porto stupendo,
alla cui imboccatura, tra pacifiche lagune si allungano delle isole
che sembrano il Paradiso Terrestre, non si ha molto l'impressione
di essere in India: la gran dolcezza indiana è un po' meno incombente, e così la sporcizia. Il modo di annuire non ha quel meraviglioso dondolio della testa di giovinetta appena comunicata, che
è il gesto di tutta l'India. C'è una grande percentuale di cattolici
antichi e nuovi, molti mussulmani: e gli indù si sono un po' incalliti ai lunghi contatti. Ogni giorno arrivano due o tre navi, e ne
sbarcano marinai di tutte le nazioni. C'è la durezza e la corruzione dei grandi porti internazionali. In questa atmosfera abbastanza moderna, i lati orrendi dell'India sono ancora più orrendi. Ci
sono ancora i ricsò portati a mano: ho dovuto prenderne uno a
Cochin a notte alta, per tornare all'albergo, il Malabar, che si
trova in una isola in mezzo al porto, in una distesa di docks e
depositi lunga otto miglia. Non ho avuto però il coraggio di farmi
trasportare: così mi sono fatto tutte le otto miglia a piedi, chiacchierando con Josef, l'uomo dei ricsò, attraverso la paurosa notte
del porto deserto. Josef era stato marinaio, e aveva girato tutto il
mondo: conosceva Genova e Napoli, e la città del mondo che preferiva era Nuova York. Adesso era malato: certamente tisico.
29
Aveva sette, otto figli da mantenere, e si era ridotto così a fare il
cavallo, tra quelle due orribili, ripugnanti stanghe del suo carretto.
Eravamo dunque da due giorni a Cochin: era domenica. Io
avevo voglia di stare solo, perché soltanto solo, sperduto, muto,
a piedi, riesco a riconoscere le cose. Lasciai perciò Moravia e
Elsa Morante, che andarono a fare un giro con la Ford guidata dal
dolce Tayaram, per la città: e io uscii a piedi dall'albergo.
Subito il solito mucchio di straccioni, di malati, di ruffiani, mi
si avventò intorno, come un nugolo di mosche. Io scelsi subito
Josef, il vecchio Josef, sbarbato, con la camicia domenicale,
accanto al suo lugubre ricsò.
Feci finta di salire, e come fummo un poco più in là, in mezzo
alla distesa dei magazzini, scesi, e dissi a Josef che avrei preferito andare a fare un giro in barca, sulle lagune davanti al porto.
Ma intanto, dal mucchio degli straccioni, dei malati, dei ruffiani, si era staccato Revi, e, alla lontana, ora, ci stava seguendo.
Era laggiù, vestito di bianco, con le sottane lunghe che svolazzavano alle caviglie e la tunichetta attorno al corpo che gli svolazzava sui fianchi, in mille pieghe, che da vicino erano sporche,
ma, da lontano, erano del più puro candore.
L'avevo conosciuto appena arrivato a Cochin: era Fora del tramonto, e, con Moravia e Elsa, eravamo usciti a far due passi fuori
dal Malabar Hotel, lungo il porto: deserto, solo con qualche facchino, bianco contro le sagome aggrovigliate delle navi, rosse e
nere. Revi era lì, con un suo compagnetto, su un po' di sabbia
sporca, tra due tetri magazzini e alcuni recinti cadenti. Mi chiamare no, così, per attaccare discorso: mi chiesero se ero un marinaio, di dov'ero, quanto stavo a Cochin. Poi si avvicinarono due
gaglioffi avvolti nei loro lenzuoli, anche loro ospitali, ma con
qualcosa di sinistro nello sguardo. Infine, saltò fuori, da non so
dove, un ananas, che mi fu offerto in vendita: lo comprai, diedi i
soldi a Revi, ma allontanandomi, ebbi modo di vedere che gli
altri glieli prendevano di mano.
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Da allora avevo sempre intravisto Revi nei dintorni dell'albergo, col suo faccino allegro, e i suoi stracci svolazzanti. Anche la
sera che ero tornato tardi, a piedi, con Josef e il ricsò, lui era comparso in mezzo all'infinita, mortuaria distesa dei docks, sorridente, ma poi si era subito dileguato, perché, in fondo alla strada,
erano comparsi dei gendarmi coi loro altissimi cappelli rossi a
cono...
Adesso era là, alle nostre spalle, che guardava con un sorriso
arguto e dolce: di sbieco, ogni tanto correndo obliquamente, con
un palpitare intorno dei suoi abiti di angelo.
Ci seguì, mentre, lasciato il ricsò, andavamo attraverso dei
magazzini verso la banchina sul mare, ci osservò mentre contrattavamo con un barcaiolo, e, quando fummo per salire sulla barca,
era lì anche lui, guardandomi col bianco degli occhi e dei denti,
in un sorriso di zucchero. Gli dissi di saltare dentro; la cosa non
fu malvista da Josef, e piano piano il barcaiolo cominciò a remare lungo il braccio di mare oltre il quale, in fondo, si spiegava in
tutta la sua lunghezza Cochin, coi miti tetti olandesi.
Andammo verso il mare aperto: a sinistra l'estrema punta di
Cochin, a destra, oltre l'altro braccio di mare, Enarkulàm, dietro,
sulla punta dell'isola in mezzo al porto, il Malabar, solo tra i gridi
delle cornacchie, e, di fronte, le lingue di terra, cariche di palmizi, del Paradiso Terrestre.
Navigando, feci un po' di conoscenza con Revi: ma di lui,
povero bambino, non c'era quasi niente da sapere: era di
Trivandrum, un altro porto del Kerala a un centinaio di chilometri più a sud, sua madre, Àppawali, era morta, suo padre,
Appukutti, non sapeva più niente di lui. Viveva così, alla ventura, sui docks di Cochin.
Io volevo raggiungere la più vicina delle isole ammassate
davanti al porto coi loro paradisiaci palmizi: e camminarci un po'
sopra, solo, perder-mici per qualche tempo.
La prima isola, quella proprio lì davanti al Malabar, aveva una
riva sassosa, e, subito dietro, distese di erba gialla, luogo ideale
31
per i cobra, con qualche ciuffo spelacchiato di piante qua e là. Le
altre isole erano troppo lontane, per la barchetta. Scesi lì, dicendo a Josef e agli altri di aspettarmi. Revi, invece, libero come lo
sono i fanciulli e le donne, non mi obbedì, e mi venne dietro,
sicuro che bastasse sorridermi per convincermi a scusarlo.
Quando sorrideva ficcava i suoi occhi nei miei e pareva che iniettasse tutta la dolcezza di cui era carico dentro di me.
Andai a fare il mio giro, per l'isola che era totalmente arida e
deserta: e lui dietro. A un certo punto, osò perfino prendermi per
mano. E, benché avesse detto che non sapeva l'inglese, cominciò
un po' a chiacchierare: del resto ci capivamo più che altro coi
gesti, con gli sguardi. Aveva piccole, misere cose da dirmi. E
quando alla fine, tornando al posto dove avevamo lasciato la
barca (che non c'era: si era allontanata un po' lungo la riva pietrosa) feci per dargli qualche rupia, lui non le volle prendere. Io non
capivo perché, e insistevo: per me non era proprio nulla, poteva
prendere quelle poche rupie tranquillo. E lui continuava a dire di
no, con quel suo sorriso felice. Riuscii faticosamente a capire la
ragione: era inutile che gli dessi quei soldi, perché, poi, i grandi
glieli avrebbero presi. « They are not good men » diceva. Gli
dissi di nasconderli. Ma dove? Nella manica arrotolata. Era un
ben misero nascondiglio. Ma tant'era. Meglio tentare. Intanto
arrivarono Josef e l'altro, neri sotto i loro turbantelli bianchi e,
lentamente, cominciarono a navigare verso il Malabar, lontano,
tra i gridi dei corvi.
Approdati vicino all'albergo, Revi mi lasciò subito, correndo
via; ma nell'ultimo sguardo che mi diede, non c'era più sorriso;
c'era quel nudo colore bruciato che dà un improvviso dolore: volò
via in fondo al funebre vialetto del dock, con un estremo sventolio dei suoi lunghi stracci bianchi.
La sera, a cena, all'albergo, tormentai Moravia e Elsa coi miei
scrupoli: eravamo ormai verso la fine del nostro viaggio in India,
ed eravamo mezzi dissanguati dalla pena e dalla pietà. Ogni volta
che in India si lascia qualche persona, si ha l'impressione di
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lasciare un moribondo che sta per annegare in mezzo ai rottami
di un naufragio. Non si può resistere a lungo a questa situazione:
ormai tutta la strada dell'India dietro a me era seminata di naufraghi che non mi tendevano neanche la mano. Revi mi faceva più
pietà degli altri: perché era l'unico lieto, di una lietezza cristiana.
Una pietà, che in quel momento, sotto le luci lugubremente scintillanti del Malabar Hotel, mi sembrava insostenibile.
E più ancora dopo, nel prato ben raso davanti all'albergo, sul
mare, con intorno i corvi che gracchiavano, e, lontano, la fila
delle lingue di terra in fondo al porto.
Decisi che dovevo tentare qualcosa: era assurdo, ma non potevo farne a meno. Moravia con la sua esperienza resa asciutta e
priva di ogni sentimentalismo dal suo fondo romano e cattolico,
mi consigliava virilmente di seguire le ragioni della mia coscienza: Elsa, invece, aggressiva e dolce, mi si volle unire, attratta dall'assurdo. Io mi ricordavo che, il giorno prima, girando per
Cochin, ci eravamo fermati davanti a una chiesa cattolica, e avevamo conosciuto il prete di quella chiesa, un allegro indiano scuro
come un negro. Pensai che forse anche a Cochin, come in Italia,
c'era qualche organizzazione cattolica che si occupava dei ragazzi abbandonati. E vero che ci sono milioni di ragazzi abbandonati in India: ma ci sono anche milioni di lebbrosi, e come c'era Suor
Teresa a Calcutta, qui ci poteva essere qualcuno che avesse anche
lui come ideale della vita quello di svuotare con un ditale il mare...
Chiamammo Tayaram, e filammo verso Cochin. La sera era
già abbastanza tarda: i docks erano deserti. A Cochin invece tutti
i bazar erano ancora aperti, la luce scintillava dappertutto, e la
folla stracciata coi suoi abiti fantastici si aggirava ancora per le
piccole strade, sotto i muretti e le case olandesi.
La chiesa che cercavamo era spenta, deserta: ma lì vicino c'era
una di quelle file di negozietti che stanno in un pugno, dentro i
quali si vede accoccolato il proprietario, come una gallinella nella
stia. Lì ci dissero che il prete era andato a una festa, non lontano:
e uno si offrì di accompagnarci.
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La festa si svolgeva oltre un alto muretto di cinta: attraverso il
cancello si scorgevano dei padiglioni gremiti di gente, e, in
fondo, un piccolo palcoscenico, su cui, accompagnata dai soliti
selvaggi strumenti, cantava una donna, che pareva caricata, a
ricantare sempre la stessa straziante e dolciastra melodia.
Al di qua del cancello, nella luminaria, c'era una gran ressa di
passanti e curiosi: era una festa maomettana, e le facce erano per
lo più di muslim, astute e moderne: e il solito caos di bambini, di
mendicanti.
Qualcuno andò a chiamare il prete, che comparve, tutto allegro. Non fu tanto facile spiegargli il fatto, perché gli indiani percepiscono le cose un po' lentamente, hanno coordinazioni complicate. Ma quando ebbe compreso, ci disse con tutta semplicità:
« Sì, vi porto da Father Wilbert! »
Filammo allora a lungo con la macchina tra i villini e le casupole sparsi sotto i palmizi sbilenchi, e arrivammo davanti a una
piccola casa da cui trapelava ancora della luce. Scendemmo ed
entrammo. Father Wilbert stava ascoltando della musica classica,
mi pare Bach, e leggendo dei giornali, in una stanzetta fumosa,
piena di mobili molto incolori, da salottino buono di povera
gente. Era ancora giovane, e aveva, anche lui come i santoni, una
gran barba e una gran chioma: solo che, anziché esser nere, erano
rosse, d'un bel rosso fiammingo. Era infatti olandese. Come si
alzò, si vide che era alto almeno il doppio di tutti noi.
Cominciammo a parlamentare: e Elsa, che parla inglese meglio
di me, cominciò a spiegargli la cosa; Fu molto semplice: Father
Wilbert era olandese e non indiano: e ci capivamo anche facendo
qualche salto di parole. Potevamo andare a prendere Revi anche
subito: egli l'avrebbe ospitato senz'altro nella sua « St. Francis'
Boys' Home ». Ma io mi chiedevo (e gli chiedevo) se non ci fosse
stata qualche contropartita religiosa... No, sicuramente no: nessuna opera di convinzione: solo l'esempio. L'occhio ridente tra il
pelo rosso di Father Wilbert mi convinse. Oh, egli disse che non
tutti quelli che andavano da lui ci rimanevano; molti scappavano,
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tornavano sulla strada: ma però ogni tanto, poi, si rifacevano
vivi... Parlava dei suoi ragazzi come di strani fenomeni un po'
buffi, con un sorriso smarrito tra il gran pelame rosso.
Con Tayaram, dolce come una giovinetta, col suo sì dondolante, che non capiva niente, tornammo veloci, giù lungo i docks e i
magazzini, in fondo al porto deserto, dove splendevano abbandonate le luci del Malabar.
Non mi fu difficile ritrovare Revi: era là, tra il gruppo di straccioni e manigoldi, fresco, col suo sorriso penetrante e radioso,
come se fame, sonno, malattia, corruzione, orrore non esistessero o non facessero alcuna presa su lui. Venne, tra lo sventolio dei
suoi stracci, gonfiati dal vento contro il corpo, come quelli di un
piccolo Tobia, e mi ascoltò.
Gli dissi che lo portavo nella casa di un mio amico europeo, un
mio vero amico, che gli avrebbe dato da mangiare e da dormire; e gli
avrebbe anche insegnato un lavoro; oppure gli avrebbe fatto scuola;
così avrebbe potuto scrivermi, in Italia, e leggere le mie lettere. Io
poi, se fosse stato buono, dall'Italia gli avrei mandato dei regali.
Ma non c'era bisogno che gli facessi tanti discorsi: sarebbe
bastato che gli dicessi: «Andiamo »: ed egli sarebbe corso, come
infatti fece, a infilarsi nella grande Ford accanto a Tayaram, fiducioso e allegro, guardando ogni tanto indietro, oltre la spalliera,
con quel suo occhio che iniettava un sorriso pronto, bianco, dolce
come un flash di miele.
Tornammo così da Father Wilbert, e gli presentammo il ragazzo: egli si chinò fin quasi a terra, tanto era alto, e, mettendo il suo
barbone rosso all'altezza della faccina mora di Revi, cominciò
con lui un discorso fitto fitto in tamil. Revi rispondeva tranquillo, illuminandosi ogni volta, timido e ardito. E Father Wilbert:
paparaparatarapara, come un nastro magnetico inciso e fatto
scorrere a rovescio, dondolando la testa vezzosamente com'è il
dolce uso degli indù.
« Well », disse alla fine, promuovendo Revi al rapido esame.
Revi poteva restare. Tutto era fatto. Io avrei mandato ogni tanto
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un po' di soldi dall'Italia. Non ci restava che andare. Sì, non ci
restava che andare. Diedi un ultimo sguardo, un ultimo saluto a
Revi, eretto tra i mobili e le scartoffie del padre, strinsi l'enorme
mano di Father Wilbert, che ci accompagnò alla porta, alto come
un lanzichenecco, ridente.
Ma quando fummo a metà strada, sul ponte che congiunge
Cochin all'isola in mezzo al porto, Elsa s'accorse che aveva
dimenticato un suo prezioso libro nel salottino del padre: dovevamo per forza, perciò, tornare indietro.
Era già tutto buio intorno alla casetta. Suonammo, incerti, e
accorsero dei cani, i poveri, terrorizzati cani indiani, poi si accese una luce, e ricomparve Father Wilbert, ridente. Ma, come Elsa
riprese il suo libro dalle grosse mani del padre, io, timidamente,
chiesi se, già che eravamo tornati, potevamo dare un'occhiata alla
sua Casa; egli alzò le braccia al cielo, felice, e ci fece rapidamente strada.
Lasciammo il salottino, dove aveva ripreso a suonare la musica di Bach, e uscimmo. Ci trovammo di fronte a una piccola
costruzione a un piano, dietro il corpo centrale della casa, che si
spingeva in un piccolo cortile verso l'incombente palmizio. Era
tutto. Ci avvicinammo e, sotto la loggetta di legno che circondava questa specie di piccolo magazzino, vedemmo tanti corpi
distesi. Father Wilbert ci faceva vistosamente cenno di tacere,
portandosi il grosso dito al naso, rossiccio sulla gran barba rossa
biondeggiante alla luna, e ridendo piano. Quando poi fummo
sopra quell'ammasso di corpi distesi, gli scappò proprio da ridere forte, quasi da sghignazzare: si vergognava, un poco per la
povertà della sua casa, un poco per loro, i suoi ragazzi, lì distesi
a dormire come tante bestioline, a pancia all'aria, nei loro poveri
vestiti coloniali, tutti neri, così indifesi e buffi nel sonno.
Ci guidò attraverso quei piccoli corpi appena adolescenti, che
dormivano in disordine, evidentemente colti dal sonno nell'ultima posizione in cui si trovavano, frescheggiando verso sera,
chiacchierando o giocando: sembravano dei trucidati, se non
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fosse stato per il loro respiro molle e intenso. Father Wiìbert ci
sussurrò che erano abituati a dormire così, che non sarebbero stati
capaci di abituarsi al letto: e che lui gli voleva lasciare le loro abitudini, anche quella di vagabondare, se volevano, anche quella di
fumare: ogni cambiamento improvviso sarebbe stato pericoloso
per il suo rapporto con loro. Parlava piano piano, e ogni tanto
ridacchiava, raccogliendosi tra le spalle. In quegli occhi c'era una
bontà angelica. Aggiunse sussurrando che sperava di cominciare
entro pochi giorni la costruzione del secondo piano della casa.
Mentre parlava, entrammo dentro lo stanzone disadorno e buio.
Anche lì una strage di innocenti, assorbiti da un sonno potente.
Revi era in un an-goletto accanto alla porta, forse in un posto
riservato agli ospiti, perché non era disteso sulla nuda terra, ma
su una specie di stoffa bianca. Appena entrammo, ci sentì e si
rialzò. Subito si accese il lampo del suo sorriso, ma era come un
po' affannato, spento. Quando gli passammo davanti, per uscire
dall'altra parte, mi guardò, fisso, e come impaurito. Io gli dissi
qualcosa, balbettando: che se fosse stato buono dall'Italia gli
avrei mandato dei regali, che ci saremmo scritti, che Father
Wilbert era buono. Ma lui mi mise una manina sul brac-ciò, e
sempre guardandomi con quel faccino che ora non sembrava più
quello di un ragazzetto ma quasi di un adolescente, mi chiese: «
Tu tornerai dall'Italia? » « Ma sì », balbettai, « tornerò, tornerò...
» Non riuscivo più a guardarlo nel viso, non c'era niente, niente
da fare, se non sperare in Father Wilbert. Father Wilbert era là,
alto nella sua tonaca, contro i palmizi, storti e inanimati, che sorrideva con la sua gran barba, sotto la luna, perduta nel cielo come
in una notte di pestilenza.
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I fantasmi del capitale
Arundhati Roy, «Internazionale» n° 943, 6 aprile 2012
L'India è controllata da poche famiglie di industriali che si
sono arricchite con gli espropri, la corruzione e le privatizzazioni. Ma il capitalismo è al collasso ed è arrivato il momento per
gli sfruttati di riprendersi il futuro. Un articolo di Arundhati Roy.
Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Ha vinto il Booker
prize con Il dio delle piccole cose (Guanda) nel 1997. Il suo ultimo libro è In marcia con i ribelli (Guanda 2012)). Ha scritto questo articolo, con il titolo Capitalism. A ghost story, per il settimanale indiano in lingua inglese Outlook uscito il 26 marzo 2012.
Ma non ero preparata per il prato verticale: una parete di erba
sostenuta da un'enorme rete metallica. In alcuni punti l'erba è
secca, in altri si è staccata lasciando delle zone vuote.
L'irrigazione a goccia, che rappresenta bene la teoria economica
del trickle-down (secondo cui i guadagni dei ricchi aiutano l'economia e quindi indirettamente anche i poveri), non ha funzionato.
La teoria del gush-up (in base alla quale la concentrazione di
ricchezza va a danno dei poveri) invece sì. Ecco perché in un paese
di 1,2 miliardi di abitanti, le cento persone più ricche possiedono
l'equivalente di un quarto del prodotto interno lordo del paese.
Da queste parti (e sul New York Times) gira voce che, malgrado tanto lavoro, gli Ambani non vivano ad Antilla. Nessuno può
dirlo con certezza. Si mormora che qui ci siano fantasmi e sciagure, vastu e feng shui. Forse è tutta colpa della maledizione di
Karl Marx. Il capitalismo, "che ha evocato come per incanto così
potenti mezzi di produzione e di scambio, somiglia allo stregone
che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate",
diceva Marx.
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In India trecento milioni di persone che appartengono alla
nuova classe media - la classe sociale che è stata prodotta dalle
riforme del Fondo monetario internazionale - vivono fianco a
fianco con gli spiriti degli inferi, i poltergeist dei fiumi morti,
delle faide acquifere asciugate, delle montagne e delle foreste
spoglie; i fantasmi dei 250mila contadini indebitati che si sono
tolti la vita e degli ottocento milioni che sono stati espropriati per
fare spazio a noi. E che sopravvivono con meno di venti rupie al
giorno (trenta centesimi di euro).
Mukesh Ambani, da solo, vale venti miliardi di dollari. È azionista di maggioranza della Reliance Industries Limited (Ril),
un'azienda con un fatturato di 47 miliardi di dollari che produce
petrolio e derivati, gas naturale e fibre di poliestere, e si occupa
inoltre di vendita di alimenti freschi, istruzione superiore, ricerca
biomedica e conservazione delle cellule staminali. Di recente
l'azienda ha comprato il 95 per cento di Infotel, un consorzio televisivo che controlla 27 emittenti tra cui Cnn-Ibn, Ibn Live, Cnbc,
Ibn Lokmat ed Etv, in quasi tutte le lingue del paese. Infotel ha il
monopolio per la banda larga 4G, una rete ad alta velocità che, se
funzionerà, potrebbe essere il futuro dell'informazione. Ambani
ha anche una squadra di cricket.
La Ril fa parte di quelle poche grandi imprese che governano
l'India, insieme a Tata, Jindal, Vedanta, Mittal, Infosys, Essar e
l'altra Reliance (Adag), di proprietà del fratello di Mukesh, Anil
Ambani. Nella loro corsa per espandersi sono arrivate anche in
Europa, in Asia centrale, in Africa e in America Latina. Gettano
grandi reti, visibili e invisibili, in superficie e sotto terra.
La famiglia Tata, per esempio, dirige oltre cento aziende in
ottanta paesi, tra cui una delle più grandi e antiche compagnie
energetiche private indiane. Possiede miniere, giacimenti di gas,
industrie siderurgiche, compagnie telefoniche, tv via cavo e reti a
banda larga, oltre ad amministrare intere città. I Tata producono
auto e camion, sono proprietari della catena di alberghi Taj Hotel,
di Jaguar, Land Rover, Daewoo, Tetley, di una casa editrice, di
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una catena di librerie, di una grande marca di sale iodato e del
gigante della cosmetica Lakame. Il loro slogan potrebbe essere:
"Non potete vivere senza di noi". Secondo il vangelo del gushup, più hai e più puoi avere. L'era della Privatizzazione Totale ha
portato l'India in testa alle economie in crescita.
Tuttavia, come in ogni colonia vecchio stile, uno dei principali prodotti d'esportazione è rappresentato dalle ricchezze minerarie. I nuovi colossi aziendali del paese - Tata, Jindal, Essar,
Reliance, Sterlite - si sono fatti strada fino al rubinetto che vomita soldi dalle viscere della terra. Per gli imprenditori è un sogno:
vendere quello che non hai comprato. L'altra grande fonte di ricchezza per le imprese è la speculazione sui terreni agricoli. In
tutto il mondo i governi locali, deboli e corrotti, hanno aiutato gli
agenti di Wall Street, le grandi aziende dell'industria agroalimentare e i miliardari cinesi ad accumulare terre (e le risorse idriche
di quelle terre). Le autorità indiane stanno cedendo i terreni di
milioni di persone a società private, in nome "dell'interesse generale", per creare le cosiddette zone economiche speciali, infrastrutture, dighe, autostrade, fabbriche di automobili, poli chimici
e circuiti di Formula uno (il principio sacro della proprietà privata non vale mai per i poveri). Come al solito i legittimi proprietari si sentono dire che l'espropriazione di tutto quello che hanno
servirà a creare lavoro. Oggi sappiamo che il rapporto tra crescita del pil e occupazione è un mito. Dopo vent'anni di "crescita" il
60 per cento dei lavoratori indiani è composto da lavoratori autonomi e il 90 per cento della popolazione attiva si guadagna da
vivere nel settore informale.
Dall'indipendenza fino agli anni ottanta, i movimenti popolari
- dai naxaliti alla "rivoluzione totale" di Jayaprakash Narayan si sono battuti per ottenere una riforma agraria e la ridistribuzione delle terre dai proprietari feudali ai contadini senza terra. Oggi
qualunque appello alla ridistribuzione delle terre 0 delle ricchezze sarebbe considerato non solo antidemocratico, ma folle.
Perfino i movimenti più agguerriti ormai si limitano a difendere
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le poche terre non ancora espropriate. I milioni di senza terra, in
gran parte dalit (i fuori casta) e adivasi (le popolazioni indigene),
che sono stati allontanati dai loro villaggi e oggi vivono nelle
baraccopoli delle grandi città e delle megalopoli, sono scomparsi anche dai discorsi politici più radicali.
Il gush-up concentra la ricchezza nelle mani di pochi. E mentre i miliardari fanno piroette sulla nostra testa, enormi quantità
di denaro corrompono le istituzioni democratiche (i tribunali, il
parlamento, i mezzi d'informazione), che non funzionano più
come dovrebbero. E più si avvicinano le elezioni, meno siamo
sicuri che la democrazia esista davvero.
In India ogni nuovo scandalo per corruzione mette in ombra
quello precedente. Nel 2011 è scoppiato il caso delle licenze di
telefonia mobile di seconda generazione (2G). Abbiamo scoperto
che qualche anno fa alcune grandi aziende hanno sottratto fondi
pubblici per 40 miliardi di dollari mettendo a capo del ministero
dell'informazione e della comunicazione una persona di fiducia,
che ha generosamente svenduto le licenze per il 2G appaltandole
illegalmente ai suoi compari. Come hanno rivelato le intercettazioni telefoniche ottenute dalla stampa, questa rapina è stata opera
di una rete di industriali, ministri, giornalisti e di un presentatore
televisivo. Ma le registrazioni sono solo la risonanza magnetica
che ha confermato una diagnosi nota a tutti da tempo.
La privatizzazione e la vendita illegale delle licenze telefoniche non comporta guerre, profughi e danni ambientali. Invece la
privatizzazione delle montagne, dei fiumi e delle foreste, sì. Ma
la classe media s'indigna di meno, dato che questa privatizzazione non è evidente come uno scandalo finanziario e viene fatta in
nome del "progresso". Nel 2005 i governi del Chhattisgarh,
dell'Orissa e del Jharkhand hanno firmato centinaia di accordi
con aziende private. Sfidando perfino la logica del libero mercato, hanno ceduto risorse minerarie che valevano miliardi (bauxite, ferro e altri minerali). In cambio di royalties irrisorie, dallo 0,5
al 7 percento.
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Nel 2005, pochi giorni dopo la firma di un accordo tra il
governo del Chhattisgarh e la Tata Steel per la costruzione di
un'acciaieria nel distretto di Bastar, è nata la milizia di vigilantes
Salwa judum. Il governo ha detto che il gruppo paramilitare si era
formato spontaneamente per contrastare la "repressione" dei
guerriglieri maoisti nelle foreste. Si è scoperto, invece, che era
finanziato dal governo con l'aiuto delle aziende minerarie. Anche
in altri stati sono nate milizie come questa. Il primo ministro
Manmohan Singh una volta ha detto che i maoisti sono la "più
grave minaccia per la sicurezza del paese". È stata una dichiarazione di guerra.
II 2 gennaio 2006 a Kalinganagar, nel vicino stato di Orissa,
forse per dimostrare la serietà del governo, dieci reparti di polizia hanno sparato contro un gruppo di abitanti del villaggio che
protestavano davanti a un impianto della Tata Seel. Secondo i
manifestanti i risarcimenti per l'esproprio delle loro terre erano
inadeguati. Ci sono stati tredici morti, tra cui un poliziotto, e trentasette feriti. Da allora sono passati sei anni e la protesta non si è
placata, anche se i villaggi rimangono sotto assedio.
Utopia negativa
Intanto in Chhattisgarh gli uomini del Salwa judum sono
entrati nella foresta, incendiando tutto quello che trovavano
lungo il cammino, stuprando e uccidendo. Seicento villaggi sono
stati sgombrati, 50mila persone costrette a trasferirsi nei campi
profughi controllati dalla polizia, 350mila persone sono state
sfollate. Il governatore dello stato ha dichiarato che chi non
abbandonava la foresta sarebbe stato considerato un "terrorista
maoista". Così in alcune zone dell'India arare e seminare i campi
è diventata un'attività terrorista. Le atrocità commesse dal Salwa
judum sono servite a rafforzare la resistenza e a ingrossare le file
dell'esercito maoista. Nel 2009 il governo ha annunciato l'opera42
zione Green hunt (caccia verde). Duecentomila paramilitari sono
stati inviati negli stati del Chhattisgarh, dell'Orissa, del Jharkhand
e del Bengala Occidentale.
Dopo tre anni di "conflitto a bassa intensità", che ha "spazzato via" i ribelli dalle foreste, il governo ha annunciato che avrebbe schierato l'esercito. In India questa non si chiama guerra. Si
chiama "creare un clima favorevole agli investimenti". Migliaia
di soldati sono già pronti a intervenire. Presto saranno ultimati il
quartier generale delle forze armate e le basi aeree.
Uno degli eserciti più grandi del mondo sta mettendo a punto
le regole di ingaggio per "difendersi" dalle persone più povere e
malnutrite del pianeta. Aspettiamo solo la proclamazione
dell'Armed forces special powers act (Afspa), un provvedimento
che garantirà all'esercito l'impunità e la licenza di uccidere le persone "sospette". A giudicare dalle decine di migliaia di tombe
senza nome e di cremazioni anonime in Kashmir, Manipur e
Nagaland, l'esercito indiano sembra piuttosto "sospettoso".
Mentre procedono i preparativi per l'operazione militare, le foreste dell'India centrale sono sotto assedio. Gli abitanti dei villaggi
hanno paura di uscire, di andare al mercato per comprare cibo e
medicine. Centinaia di persone sono state incarcerate in base a
leggi antidemocratiche. Le prigioni sono piene di adivasi, che
spesso non capiscono perché sono finiti dentro. Qualche tempo fa
Soni Sori, una maestra adivasi dei distretto di Bastar, è stata arrestata e torturata dalla polizia. Per spingerla a "confessare" dì essere un corriere dei maoisti, le hanno infilato dei sassi nella vagina.
Soni Sori è stata ricoverata in un ospedale di Calcutta in seguito
allo scalpore scatenato dalla vicenda. A una recente udienza della
corte suprema, alcuni attivisti hanno mostrato ai giudici un sacchetto di plastica che conteneva i sassi usati per la tortura.
L'unico risultato è che Soni Sori è rimasta in carcere mentre
Ankit Garg, l'ufficiale di polizia che l'ha interrogata, ha ricevuto
una medaglia al valor militare in occasione della festa della
repubblica.
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Se sappiamo qualcosa dei progetti del governo per la trasformazione del territorio e della società in India centrale, è solo grazie alle proteste della popolazione. Infatti il governo non rilascia
informazioni. Gli accordi tra le autorità e le aziende sono segreti. Alcuni giornali hanno cercato di raccontare quello che sta succedendo nella regione, ma i mezzi d'informazione indiani sono
vulnerabili, perché dipendono dalle inserzioni pubblicitarie delle
grandi aziende. Come se non bastasse la linea che separa il
mondo dell'informazione da quello dell'industria sta diventando
sempre più labile. Per esempio la Reliance Industries Limited
controlla ventisette emittenti televisive. Alcuni gruppi editoriali,
al contrario, controllano il mondo degli affari. Uno dei principali quotidiani della regione, Dainik Bhaskar, ha 17,5 milioni di lettori ed è diffuso in tredici stati indiani, in quattro lingue, tra cui
l'hindi e l'inglese. Lo stesso gruppo editoriale è presente, con sessantanove aziende, anche nei settori minerario, immobiliare, tessile e dell'energia. Le leggi indiane permettono questo pesante
conflitto d'interessi. Ci sono alcune zone del paese di cui non sappiamo nulla. Nell'Arunachal Pradesh, uno stato del nordest, poco
popoloso, ma molto militarizzato, si stanno costruendo 168 grandi dighe, quasi tutte controllate da privati. Dighe simili sorgeranno anche nel Manipur e in Kashmir, e sornmergeranno interi
distretti. Il Manipur e il Kashmir sono militarizzati e chi protesta
contro le interruzioni di energia elettrica rischia la vita.
Il progetto più folle è quello di Kalpasar, nel Gujarat. Si tratta
della costruzione di una diga lunga 34 chilometri, dove passerà
anche una ferrovia e un'autostrada a dieci corsie, attraverso il
golfo di Khambat.
L'idea è di creare una riserva d'acqua dolce fermando lo sbocco al
mare dei fiumi del Gujarat. Il progetto alzerebbe il livello del mare e
stravolgerebbe l'ecosistema di centinaia di chilometri di coste. Già
dieci anni fa era stato bocciato. Ma ora è stato rispolverato, perché
permetterebbe di rifornire d'acqua la regione speciale d'investimento
(Sir) di Dholera, una delle zone con maggiore difficoltà di approvvi44
gionamento idrico dell'India e del mondo. "Regione speciale d'investimento" è un altro modo dì chiamare le zone economiche speciali:
un'utopia negativa industriale fatta di "zone produttive, città e megalopoli". Dholera sarà collegata al corridoio industriale DelhiMumbai (Dmic), lungo 1.500 chilometri e largo trecento, con nove
enormi zone industriali, una linea ferroviaria ad alta velocità, tre
porti, sei aeroporti, un'autostrada a sei corsie e una centrale elettrica
da quattromila megawatt. Questa speculazione nasce da un accordo
tra i governi di India e Giappone, e tra i loro rispettivi partner privati, su un'idea del McKinsey global institute.
Sul sito del Dmic si legge che il progetto "interesserà" circa
180 milioni di persone, ma non specifica in che modo. Sì costruiranno nuove città e la popolazione della regione passerà dagli
attuali 231 milioni di abitanti a 314 milioni entro il 2019. In appena sette anni. Quand'è l'ultima volta che uno stato o un dittatore
ha ordinato il trasferimento di milioni di persone?
Ingegneria sociale
L'esercito indiano potrebbe aver bisogno di nuove reclute per
non trovarsi impreparato quando gli verrà chiesto di occupare
tutto il paese. In vista della spedizione nell'India centrale, per
esempio, ha pubblicato la versione aggiornata della sua dottrina
in materia psicologica che spiega come "trasmettere un messaggio a un gruppo preciso di destinatari, in modo che susciti i comportamenti desiderati, connessi al raggiungimento di obiettivi
politici e militari nel paese". Questo processo di "gestione delle
percezioni" sarà messo in atto "usando i mezzi a disposizione".
L'esercito ha abbastanza esperienza da sapere che la sola
repressione non basta per gestire un processo di ingegneria sociale vasto come quello immaginato dai leader politici indiani. La
guerra contro i poveri è una cosa. Mentre con gli altri - la classe
media, i colletti bianchi, gli intellettuali - bisogna "gestire la per45
cezione". Per questo è arrivato il momento di parlare della filantropia come politica aziendale. Ormai tutti i grandi gruppi minerari hanno investito sulla cultura. Il cinema, le mostre, l'ossessione dei festival letterari ha sostituito quella degli anni novanta per
i concorsi di bellezza. La Vedanta, che in questo momento sta
strappando il cuore alle terre dell'antica tribù dei dongria kondh
per trovare la bauxite, sponsorizza un festival cinematografico
chiamato Creating happiness, in cui gli studenti di cinema sono
invitati a presentare dei film sullo sviluppo sostenibile.
Lo slogan della Vedanta è Mining happiness, una miniera di
felicità. Il Jindal Group pubblica una rivista di arte contemporanea
e sostiene alcuni dei più noti artisti indiani. La Essar era lo sponsor
principale del Think Fest, organizzato dai settimanali Tehelka e
Newsweek, che prometteva "dibattiti esplosivi" con le più grandi
menti del mondo, tra cui scrittori, attivisti e perfino l'architetto
Frank Gehry. Tutto questo a Goa, dove attivisti e giornalisti stavano denunciando scandali legati alle miniere illegali e dove cominciava a emergere la responsabilità della Essar nella guerra a Bastar.
Tata Steel e Rio Tinto (che in quanto a sordide bassezze non
scherzano) erano tra i principali sponsor del festival di letteratura di Jaipur, a detta degli intenditori "l'evento letterario più bello
del mondo".
Counselage, l'agenzia di comunicazione che cura il marchio
Tata, ha finanziato l'ufficio stampa dei festival. Molti degli scrittori più brillanti del mondo sono arrivati a Jaipur per parlare di
amore, letteratura, politica e poesia sufi. Alcuni hanno provato a
difendere Salman Rushdie e la libertà di parola leggendo brani
dei suo libro proibito, I versi satanici. Su ogni immagine spiccava come una presenza benevola il logo della Tata Steel (e la frase
"valori più forti dell'acciaio").
I nemici della libertà di parola erano le folle di musulmani, presunti assassini, che avrebbero potuto ferire le scolaresche presenti ai
festival, come ci hanno spiegato gli organizzatori. È vero, la scuola
islamica Darul Uloom di Deoband ha protestato contro l'invito a
46
Rushdie. È vero, alcuni islamisti si sono dati appuntamento al festival per manifestare. La notizia della lotta contro il fondamentalismo
islamico è arrivata sui giornali di tutto il mondo, e questo è un fatto
importante. Ma non si è parlato quasi per niente del ruolo degli
sponsor del festival nella guerra in corso nelle foreste, dei cadaveri
che si accumulano, delle prigioni che si riempiono. Come non si è
parlato della legge sulla prevenzione degli atti illegali né della legge
speciale sulla sicurezza pubblica del Chhattisgarh, secondo cui perfino pensare qualcosa contro il governo è un reato.
Nessuno ha detto che giornalisti, studiosi e registi che lavorano su temi sgraditi al governo indiano - come il suo ruolo nel
genocidio dei tamil durante la guerra in Sri Lanka o le fosse
comuni scoperte di recente in Kashmir - non hanno avuto il visto
per entrare in India o sono stati espulsi dal paese. Ma chi di noi
scaglierà la prima pietra? Non certo io, che incasso i diritti d'autore di un importante editore. Guardiamo tutti Tata Sky, navighiamo in rete con Tata Photon, prendiamo i Tata taxi, dormiamo nei
Tata hotel, sorseggiamo il nostro tè Tata in tazze di ceramica Tata
girandolo con cucchiaini di acciaio Tata. Compriamo libri Tata
nelle librerie Tata. Hum Tata ka namak khate hain: mangiamo
perfino il sale fatto dai Tata. Siamo sotto assedio.
Se la purezza morale è il criterio per scagliare una pietra, allora gli unici che possono permettersi di farlo sono quelli già ridotti in silenzio. Quelli che vivono fuori dal sistema: i fuorilegge
nelle foreste o quelli che protestano ma sono ignorati dalla stampa, o gli espropriati, che passano da un tribunale all'altro per raccontare la loro storia.
Il festival di Jaipur, però, ci ha regalato un momento magico. È
venuta la star della tv statunitense Oprah Winfrey. E ha detto che
l'India le piace tantissimo e che ci tornerà sicuramente. Ne siamo
fieri. E con questo abbiamo assistito al lato farsesco della cultura.
Anche se i Tata si dedicano alla filantropia da quasi un secolo, assegnando borse di studio e dirigendo alcuni ottimi ospedali e scuole,
le altre grandi aziende indiane sono entrate da poco nella camera
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stellata, il radioso universo del governo globale gestito dalle grandi
aziende multinazionali. Un governo mortale per i suoi avversari, ma
così abile che non ci si accorge della sua esistenza.
La maschera delle fondazioni
Ad alcuni questa potrebbe sembrare una denuncia troppo
severa. Ma la tradizione impone di onorare il proprio nemico, e
in un certo senso questo è un riconoscimento dell'intuito, della
maestria e dell'incrollabile determinazione di rutti quelli che
hanno dedicato la loro vita a difendere il capitalismo.
Questa storia affascinante è cominciata negli Stati Uniti nei
primi anni del novecento, quando la filantropia, indossando la
maschera delle fondazioni, sostituì l'attività dei missionari. Era il
nuovo strumento del capitalismo (e dell'imperialismo) per spianare strade e assicurare il funzionamento del sistema. Due delle
prime fondazioni furono la Camegie corporation, creata nel 1911
da Andrew Camegie grazie ai profitti delle sue acciaierie, e la
fondazione Rockefeller, creata nel 1913 da John Davison
Rockefeller, il fondatore della Standard Oil Company. Erano i
Tata e gli Ambani dell'epoca. La lista delle istituzioni finanziate,
sostenute e lanciate grazie a un investimento iniziale della fondazione Rockefeller comprende le Nazioni Unite, la Cia, il Council
on foreign relations, il meraviglioso Museum of modem art di
New York e, naturalmente, il Rockefeller center di New York
(dove un irritante murales di Diego Rivera fu rimosso a martellate perché raffigurava dei dissoluti capitalisti accanto a un valoroso Lenin. Quel giorno la libertà di espressione si era assentata).
Rockefeller fu il primo miliardario degli Stati Uniti ed era
l'uomo più ricco del mondo. Astemio e abolizionista, era un grande sostenitore di Abraham Lincoln. Era convinto che i suoi soldi
fossero un dono di Dio. Ecco alcuni versi di una delle poesie giovanili di Pablo Neruda, La Standard Oil Company.
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I suoi obesi imperatori
vivono a New York, sono mansueti
e sorridenti assassini
che comprano seta, nylon, sigari,
tirannucoli e dittatori.
Comprano paesi, villaggi, mari,
poliziotti, consigli provinciali,
remote regioni dove
i poveri guardano il loro mais
come gli avari il loro oro:
la Standard Oil li sveglia,
fa indossar loro l'uniforme, indica
chi è il fratello nemico,
e il paraguaiano fa la sua guerra
e il boliviano si fonde
con la sua mitragliatrice nella giungla.
Un presidente assassinato
per una goccia di petrolio,
un'ipoteca di milioni
di ettari, una fucilazione
rapida in una mattina
mortale di luce, pietrificata,
un nuovo campo di prigionieri
sovversivi in Patagonia,
un tradimento, una sparatoria
sotto la luna petroliata,
un abile cambio di ministri
nella capitale, un mormorio
come una marea di olio,
e poi il colpo d'artiglio, e vedrai
come brillano, sopra le nubi,
sopra i mari, nella tua casa,
le lettere della Standard Oil
illuminando i suoi dominii.
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Negli Stati Uniti la nascita delle prime fondazioni finanziate
dalle grandi aziende scatenò un vivace dibattito sulla loro legittimità e trasparenza. Si diceva che se le aziende avevano tutti
quei soldi da spendere, avrebbero dovuto aumentare i salari dei
lavoratori (all'epoca si facevano proposte del genere, perfino
negli Stati Uniti).
L'idea delle fondazioni, che oggi sembra banale, in realtà fu
una grande trovata degli imprenditori dell'epoca. Enti legali esentati dal pagamento delle tasse, con grandi risorse, poco trasparenti e senza nessun obbligo di rendere conto delle loro attività.
Quale modo migliore di far fruttare la ricchezza sotto forma di
capitale politico, sociale e culturale e di trasformare i soldi in
potere? Quale modo migliore per gli strozzini di usare un'infima
parte dei loro guadagni per governare il mondo? In che altro
modo sarebbe riuscito Bill Gates, che s'intende di computer, a
suggerire politiche sull'istruzione, la salute e l'agricoltura non
solo al governo statunitense, ma ai governi di tutto il mondo?
Con il passare degli anni e il moltiplicarsi di alcune buone iniziative (biblioteche, campagne sanitarie), il rapporto diretto tra
grandi imprese e fondazioni cominciò a indebolirsi. Alla fine
sparì del tutto. Ora perfino chi si considera di sinistra non si fa
scrupoli ad accettare i generosi contributi delle fondazioni.
Il buon governo globale
Negli anni venti il capitalismo statunitense cominciò a guardarsi intorno in cerca di materie prime e nuovi mercati oltreoceano. Le fondazioni formularono l'idea della global corporate govemance (il governo globale delle multinazionali). Nel 1921 le fondazioni Rockefeller e Camegie crearono il Council on foreign
relations (Cfr), un gruppo di pressione sulla politica estera del
paese più potente del mondo. In un secondo momento anche la
fondazione Ford entrò nel progetto. Nel 1947 il Cfr sosteneva e
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collaborava strettamente con la Cia, appena nata. Fino a oggi
hanno fatto parte dei Cfr ventidue segretari di stato degli Stati
Uniti. Nel comitato direttivo che nel 1943 istituì le Nazioni Unite
c'erano cinque membri del Cfr, e il terreno di New York su cui
oggi sorge la sede dell'Onu fu comprato grazie agli 8,5 milioni di
dollari donati da John Davison Rockefeller. Dal 1946 tutti gli
undici presidenti della Banca mondiale - tutti paladini dei poveri, a sentir loro - erano membri del Cfr (tranne George Woods,
che però sedeva nel consiglio di amministrazione della fondazione Rockefeller ed era vicepresidente della Chase Manhattan
Bank). Alla conferenza di BrettonWoods, i fondatori della Banca
mondiale e dell'Fmi decisero che il dollaro statunitense sarebbe
diventato la valuta di riserva del mondo intero, e che per aumentare la penetrazione del capitale nei mercati globali bisognava
definire degli standard comuni per il commercio in un mercato
aperto. Per questo investirono tanto nella promozione del buon
governo, del concetto di legalità (ma a patto di poter dire la loro
sulle leggi) e di lotta alla corruzione (per rendere più efficiente il
sistema). Due delle organizzazioni meno trasparenti del mondo
vanno in giro a pretendere trasparenza dai governi dei paesi più
poveri.
Dato che la Banca mondiale ha diretto le politiche economiche del terzo mondo, costringendo un paese dopo l'altro ad aprire i propri mercati alla finanza globale, potremmo dire che la
filantropia si è rivelata l'affare più lungimirante della storia. Le
fondazioni aziendali amministrano, scambiano e usano il loro
potere come vogliono, piazzando i loro uomini nei posti chiave
attraverso una rete di circoli e think tank esclusivi, e le persone
che ne fanno parte girano, entrano, escono e sono sempre le stesse. A dispetto delle teorie del complotto diffuse soprattutto in
certi ambienti di sinistra, tutto questo non ha nulla di segreto,
satanico o massonico. Ricorda il modo in cui le aziende usano le
società di facciata e i conti offshore per trasferire e amministrare
i loro soldi. Solo che qui la valuta non è il denaro, ma il potere.
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L'equivalente transnazionale del Council on foreign relations
è la Commissione trilaterale, creata nel 1973 da David
Rockefeller, dall'ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Zbigniew Brzezinski (membro fondatore dei mujahidin
afgani, i predecessori dei taliban) e dalla Chase Manhattan Bank.
Il suo obiettivo era dar vita a un rapporto di amicizia e di cooperazione tra le classi dominanti di Nordamerica, Europa e
Giappone. Oggi la commissione è diventata "pentalaterale", perché comprende rappresentanti dell'India e della Cina. L'Aspen
institute è un circolo intemazionale di élite locali - imprenditori,
burocrati, politici - con succursali in vari paesi. Molti funzionari
del McKinsey global institute, ideatore del corridoio industriale
Delhi-Mumbai, fanno parte del Cfr, della Commissione trilaterale e dell'Aspen institute.
La fondazione Ford è nata nel 1936, è progressista, ed è stata
creata come contrappeso alla fondazione Rockefeller, che è più
conservatrice. Spesso è sottovalutata, ma la fondazione Ford ha
un'ideologia molto chiara e lavora a stretto contatto con il dipartimento di stato statunitense. La sua missione - rafforzare la
democrazia e la govemance globale - è in linea con il progetto di
Bretton Woods di creare degli standard commerciali comuni e
promuovere il libero mercato.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando i comunisti diventarono il nemico numero uno del governo statunitense,
si sentì il bisogno di creare istituzioni nuove, capaci di affrontare
la guerra fredda. La fondazione Ford finanziò la Rand corporation, un think tank militare che fece delle ricerche sulle armi per
il ministero della difesa statunitense. Nel 1952, per contrastare
"l'incessante tentativo comunista di espandersi", la fondazione
istituì il Fund for the republic, che in seguito sarebbe diventato il
Center for the study of democratic institutions. La sua missione
era condurre la guerra fredda in modo intelligente, senza gli
eccessi del maccartismo. È attraverso questa lente che bisogna
esaminare l'attività della fondazione Ford in India, dove l'istituto
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investe milioni di dollari per sostenere artisti, registi e attivisti e
assegna generose borse di studio e finanziamenti alla ricerca.
ra gli obiettivi dichiarati dalla fondazione Ford c'è anche l'intervento nei movimenti politici di base, sia locali sia internazionali. Negli Stati Uniti la fondazione ha sborsato milioni di dollari in donazioni e prestiti per sostenere il movimento del credito
cooperativo lanciato nel 1919 da Edward Filene, un proprietario
di grandi magazzini. Filene voleva creare una società di consumo
di massa facilitando l'accesso ai credito per i lavoratori. Per l'epoca era un'idea radicale, anzi, una mezza idea radicale, perché l'altra metà del progetto di Filene prevedeva una ridistribuzione più
equa del reddito. I capitalisti adottarono solo la prima metà:
distribuendo ai lavoratori milioni di dollari in prestiti "agevolati",
trasformarono la classe lavoratrice statunitense in una popolazione perennemente indebitata che si affanna per mantenere il proprio stile di vita. Molti anni dopo la stessa idea ha raggiunto le
zone rurali del Bangladesh, quando Moharnmed Yunus e la sua
Grameen bank hanno portato il microcredito ai contadini affamati, con conseguenze disastrose. I poveri dei subcontinente sono da
sempre indebitati, in balìa degli usurai locali, i baniya. Con l'arrivo della microfinanza anche questo è diventato un grande business. Gli istituti di microfinanza in India sono responsabili di
centinaia di suicidi (duecento in Andhra Pradesh solo nel 2010).
Qualche tempo fa un quotidiano ha pubblicato il biglietto scritto
da una diciottenne prima di suicidarsi. Gli impiegati di un istituto di microfinanza l'avevano costretta a consegnare le sue ultime
150 rupie (la sua retta scolastica). Il biglietto diceva: "Lavorate
duro e guadagnate. Non accettate prestiti".
Con la povertà si fanno un sacco di soldi, e si vince anche
qualche premio Nobel. Negli anni cinquanta le fondazioni
Rockefeller e Ford, che finanziavano varie ong e istituzioni scolastiche intemazionali, cominciarono ad agire quasi come estensioni del governo statunitense, impegnato a rovesciare i governi
democraticamente eletti in America Latina, Iran e Indonesia. In
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quello stesso periodo le due fondazioni fecero il loro ingresso in
India, all'epoca non allineata, ma chiaramente orientata verso
l'Unione Sovietica. La fondazione Ford aprì un corso di economia simile a quelli statunitensi all'università dell'Indonesia di
Jakarta. Addestrati alla controinsurrezione da ufficiali dell'esercito statunitense, alcuni studenti dell'élite indonesiana ebbero un
ruolo determinante nel colpo di stato appoggiato dalla Cia che nel
1965 portò al potere il generale Haji Mohammad Suharto.
Quest'ultimo si sarebbe sdebitato con i suoi mentori massacrando
centinaia di migliaia di ribelli comunisti.
Otto anni dopo un gruppo di giovani studenti cileni, passati
alla storia come i Chicago boys, fu mandato negli Stati Uniti a
studiare economia con Milton Friedman. Questo gruppo dell'università di Chicago (finanziata da J.D. Rockefeller) preparò il
clima che portò nel 1973, con l'appoggio della Cia, al golpe contro Salvador Allende. Il generale Augusto Pinochet prese il potere e fu l'inizio di diciassette anni di squadroni della morte, desaparecidos e terrore. Il crimine di Allende era quello di essere un
socialista democraticamente eletto e di aver nazionalizzato le
miniere cilene. Nel 1957 la fondazione Rockefeller creò il premio
Ramón Magsaysay per i leader asiatici, una specie di Nobel asiatico. Ramón Magsaysay era il presidente delle Filippine, un alleato fondamentale degli Stati Uniti nella lotta contro il comunismo
nel sudest asiatico.
Nei 2000 la fondazione Ford ha creato il premio Ramón
Magsaysay per le leadership emergenti. In India artisti, arrivisti e
operatori sociali considerano il premio un riconoscimento prestigioso. È stato assegnato a M.S. Subbulakshmi, Satyajit Ray, Jaiprakash
Narayan e a P. Sainath, uno dei migliori giornalisti del paese. Ma
tutte queste persone hanno fatto per il premio molto più di quanto il
premio non abbia fatto per loro. Ormai è diventato l'arbitro che
decide se una forma di attivismo è "accettabile" 0 no.
Tra i promotori della campagna contro la corruzione lanciata
da Anna Hazare nell'estate del 2011 c'erano due vincitori del pre54
mio Magsaysay: Arvind Kejriwal e Kiran Bedi. Una delle tante
ong fondate da Arvind Kejriwal è sponsorizzata dalla fondazione Ford. L'ong di Kiran Bedi riceve fondi dalla Coca-Cola e in
passato ne ha ricevuti dalla Lehman Brothers.
Anche se Anna Hazare si definisce un gandhiano, la legge per
cui si è battuto - il Jan Lokpal bili (una legge contro la corruzione) - è antigandhiana, elitaria e pericolosa. Un'imponente campagna dei mezzi d'informazione finanziata dalle grandi aziende lo
ho proclamato "voce del popolo", ma a differenza del movimento Occupy Wall Street negli Stati Uniti, il movimento di Hazare
non ha mai denunciato le privatizzazioni, il potere delle multinazionali o le "riforme" economiche. I suoi principali sostenitori nel
mondo dell'informazione sono anzi riusciti a spostare i riflettori
dagli scandali di corruzione legati alle grandi aziende (scandali in
cui erano coinvolti anche giornalisti di primo piano) e hanno
usato il linciaggio pubblico dei politici per chiedere più riforme e
più privatizzazioni. In un comunicato la Banca mondiale ha
dichiarato che il movimento di Hazare era "in piena sintonia" con
le sue politiche (nel 2008 Anna Hazare aveva ricevuto un premio
della Banca mondiale per il suo impegno sociale).
La diplomazia delle borse di studio
Da bravi imperialisti, i filantropi volevano creare e formare
una classe dirigente convinta che abbracciare il capitalismo - e
quindi l'egemonia degli Stati Uniti - fosse nel loro interesse.
Persone pronte a partecipare al global corporate government
come in passato le élite locali avevano contribuito al colonialismo. E' cominciato così l'interesse delle fondazioni per il mondo
dell'istruzione e della cultura, la loro terza sfera d'influenza dopo
la politica economica nazionale e quella internazionale. Hanno
speso (e continuano a spendere) milioni di dollari per finanziare
progetti pedagogici e istituzioni accademiche. Nel suo splendido
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libro Foundations and public policy: the mask of pluralism (State
University of New York Press 2003), Joan Roelofs racconta come
le fondazioni abbiano riformulato le scienze politiche, dando vita
a nuove discipline come gli studi internazionali. I servizi di intelligence e di sicurezza statunitensi avevano formato un bacino di
esperti di lingue e culture straniere da cui potevano attingere per
trovare nuovi agenti. Ancora oggi la Cia e il dipartimento di stato
collaborano con studenti e docenti universitari, una consuetudine
che solleva dei dubbi sull'etica delle borse di studio.
Ogni potere ha bisogno di raccogliere informazioni sulle persone che controlla. E poiché le proteste contro la vendita delle
terre e contro le nuove politiche economiche del governo indiano
stanno aumentando, le autorità hanno reagito adottando una tecnica di contenimento. Hanno lanciato un programma di schedatura biometrica della popolazione, il cosiddetto Numero unico di
identificazione (Uid), forse uno dei più ambiziosi e costosi progetti di raccolta dati del mondo. Gli indiani non hanno acqua
potabile, servizi sanitari, cibo e mezzi di sostentamento, però
avranno la tessera elettorale e l'Uid. Il programma, diretto dall'ex
amministratore delegato di Infosys, Nandan Nilekani, oltre a
"fornire servizi ai poveri", immetterà grandi quantità di soldi in
un settore in difficoltà come l'informatica. Una semplice coincidenza?
Secondo una stima per difetto, i fondi stanziati per l'Uid superano quelli per l'istruzione. Digitalizzare un paese con un numero così grande di persone illegittime e "illeggibili" - quasi tutti
abitanti di baraccopoli, venditori ambulanti, adivasi assenti da
qualunque registro catastale - significherà criminalizzare queste
persone, trasformandole da irregolari in illegali. Lo scopo è creare una versione digitale delle recinzioni delle terre comuni
nell'Inghilterra del settecento, le enclosures, dando enormi poteri
a uno stato di polizia sempre più rigido.
All'ossessione tecnocratica di Nilekani per la raccolta dei dati
corrisponde l'ossessione di Bill Gates per gli archivi digitali.
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Come se la fame nel mondo fosse causata dalla mancanza di dati
e non dal colonialismo, dall'indebitamento e dalle politiche
aziendali orientate al profitto. Le fondazioni sono i principali
finanziatori nel campo delle arti e delle scienze sociali.
Finanziano corsi e borse di studio in varie discipline, "cooperazione e sviluppo", "cultural studies", "scienze comportamentali",
"diritti umani". Quando le università statunitensi si sono aperte
agli studenti stranieri, centinaia di migliaia di giovani, figli delle
élite del terzo mondo, si sono riversati nei campus. Chi non poteva permettersi di pagare le rette ha ricevuto una borsa di studio.
Oggi in paesi come l'India e il Pakistan quasi tutte le famiglie
della borghesia medio-alta hanno un figlio che ha studiato negli
Stati Uniti. Alcuni di questi ragazzi sono diventati ottimi studiosi e docenti, ma anche capi di governo, ministri delle finanze,
economisti, avvocati esperti di diritto societario, banchieri e
burocrati, e hanno contribuito ad aprire le economie dei loro
paesi alle multinazionali. I ricercatori con una visione dell'economia vicina a quella delle fondazioni sono stati premiati con fondi,
borse di studio, assegni di ricerca e posti di lavoro. Quelli con
idee diverse sono stati rnarginalizzati, non hanno ricevuto fondi,
hanno dovuto rinunciare ai loro corsi. Un unico punto di vista è
diventato dominante: una parvenza superficiale di tolleranza e
multiculturalismo (che da un momento all'altro possono diventare razzismo, nazionalismo fanatico, sciovinismo etnico o islamofobia), inglobate in un'ideologia economica molto poco plurale.
E questo discorso è diventato dominante al punto che l'ideologia
non è stata più percepita come tale: è la posizione di default, l'atteggiamento naturale. Ha impregnato la normalità, colonizzato la
quotidianità. Sfidare questa posizione è diventato un gesto assurdo o misterioso quanto sfidare la realtà. A quel punto il passaggio
all'idea che "non c'è alternativa" è stato rapido.
Solo oggi, grazie al movimento Occupy Wall Street, un nuovo
linguaggio è apparso nelle strade e nei campus statunitensi. In
queste circostanze, vedere degli studenti portare striscioni con le
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scritte "Lotta di classe" o "Il problema non è che siete ricchi, ma
che comprate il nostro governo" è già quasi una rivoluzione.
Un secolo dopo la sua nascita, la filantropia delle aziende fa
parte della nostra vita quotidiana come la Coca-Cola.
Un settore "non profit"
Oggi esistono milioni di organizzazioni non profit, molte delle
quali sono legate alle grandi fondazioni da un labirinto di intrecci finanziari. Nel complesso questo settore "indipendente" vale
450 miliardi di dollari. Al vertice ci sono la fondazione Bill &
Melinda Gates (21 miliardi), il Lilly endowment (16 miliardi) e
la fondazione Ford (15 miliardi). Quando il Fondo monetario,
mettendo in atto i suoi aggiustamenti strutturali, ha costretto i
governi a tagliare la spesa pubblica per la salute, l'istruzione, l'assistenza all'infanzia e lo sviluppo, le ong si sono fatte avanti.
Privatizzazione Totale vuol dire anche Ong-zzazione Totale.
Con la graduale scomparsa del lavoro e dei mezzi di sostentamento, le ong sono diventate un'importante fonte di impiego,
anche per chi è consapevole della loro vera natura. Certo, non
tutte sono dannose. Tra i milioni di ong ce ne sono alcune che
fanno progetti importanti, radicali, e sarebbe sbagliato metterle
tutte sullo stesso piano. Tuttavia le fondazioni finanziate dalle
aziende sono il mezzo attraverso cui la finanza globale paga il
suo ingresso nei movimenti di resistenza, proprio come gli azionisti comprano le azioni di una società e poi cercano di controllarla dall'interno. Le ong sono nodi periferici di un sistema nervoso centrale, lungo il quale circola la finanza globale. Hanno il
ruolo di trasmettitori, ricettori, ammortizzatori, attente a ogni
impulso e a non disturbare i governi dei paesi che le ospitano. La
fondazione Ford per esempio chiede alle organizzazioni che
finanzia di firmare una dichiarazione in cui si impegnano a non
entrare in conflitto con nessun governo. Involontariamente (a
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volte volontariamente) le ong servono a sorvegliare. Le loro attività alimentano gli archivi di un sistema di sorveglianza sempre
più aggressivo in stati sempre più repressivi. Il colmo è che per
lanciare una campagna diffamatoria contro un movimento popolare spontaneo - come il Narmada Bachao Andolan, che si batte
contro la costruzione della diga di Sardar Samovar, 0 come le
proteste contro il reattore nucleare di Koodankulam - il governo
e la stampa al servizio delle grandi aziende accusano questi
movimenti di essere ong "che ricevono fondi stranieri". Ma sanno
benissimo che la missione di molte ong, in particolare quelle più
ricche, è di portare avanti il progetto della globalizzazione, non
di ostacolarlo.
Con la loro ricchezza queste ong si sono fatte largo, trasformando dei potenziali rivoluzionari in attivisti stipendiati, sostenendo artisti, intellettuali e registi e distogliendoli dal conflitto,
spingendoli verso il multiculturalismo, le questioni di genere e
altri temi collegati ai diritti umani.
La trasformazione dell'idea di giustizia nell'industria dei diritti umani è stata un'impresa concettuale in cui le ong e le fondazioni hanno avuto un ruolo fondamentale. L'ambito ristretto dei
diritti umani consente un'analisi delle atrocità in cui diventa possibile astrarsi dal contesto e biasimare entrambi le parti di un conflitto - i maoisti e il governo indiano, l'esercito israeliano e
Hamas - perché violano i diritti umani. L'accaparramento delle
terre da parte delle aziende minerarie 0 l'annessione israeliana dei
territori palestinesi si riducono così a dettagli irrilevanti rispetto
al discorso dominante. Non sto dicendo che i diritti umani non
contano. Sono importanti, ma non sono la lente adatta per capire
le grandi ingiustizie del mondo in cui viviamo. Un altro bel colpo
riguarda la partecipazione delle fondazioni al movimento femminista. Oggi la maggior parte delle organizzazioni femministe
indiane prende le distanze da movimenti come il Krantikari adivasi mahila sanghatan (Kams, l'associazione rivoluzionaria delle
donne adivasi) e le sue novantamila iscritte, che si battono con59
tro il patriarcato nelle loro comunità e la presenza delle miniere
nella foresta del Dandakaranya. Perché l'allontanamento di
migliaia di donne dalle terre che coltivano non è considerato un
problema femminista?
La distanza delle femministe liberal dai movimenti popolari di
base antimperialisti e anticapitalisti non è dovuta ai diabolici piani
delle fondazioni. La separazione è cominciata negli anni sessanta e
settanta, quando questi movimenti non hanno saputo affrontare e
abbracciare la rapida radicalizzazione delle femministe.
Le fondazioni sono state molto abili nel riconoscere e sostenere, anche finanziariamente, l'insoddisfazione delle donne verso la
violenza e il patriarcato, non solo nelle società tradizionali, ma
anche tra i leader apparentemente progressisti dei movimenti di
sinistra. In un paese come l'India, questa frattura si sovrapponeva a quella tra città e campagne. La maggior parte dei movimenti radicali e anticapitalisti si trovava nelle aree rurali, dove il
patriarcato continuava a dominare la vita delle donne. Le femministe delle zone urbane che si unirono a questi movimenti (per
esempio ai naxaliti) erano state influenzate dai movimento femminista occidentale. Molte attiviste non erano disposte ad aspettare la "rivoluzione" per mettere fine alla discriminazione che
subivano ogni giorno, anche dai loro compagni. Volevano che
l'uguaglianza di genere fosse un elemento prioritario e non negoziabile del processo rivoluzionario, e non solo una promessa
post-rivoluzionaria. Molte donne intelligenti, arrabbiate e deluse
cominciarono ad allontanarsi e a cercare sostegno altrove.
Ecco perché, verso la fine degli anni ottanta, quando furono
aperti i mercati indiani, il movimento femminista del paese era in
gran parte "ong-izzato". Molte di queste ong hanno fatto un lavoro fondamentale su temi come i diritti queer, le violenze domestiche, l'aids e i diritti delle lavoratrici del sesso. Ma le femministe
non sono state in prima linea nella contestazione della nuova
politica economica di New Delhi, anche se le donne ne sono le
vittime principali. Usando l'arma dei finanziamenti, le fondazio60
ni sono riuscite a circoscrivere l'ambito dell'attività politica. I
regolamenti per l'assegnazione dei fondi alle ong oggi determinano se una questione è "femminile" oppure no. L'ong-izzazione
dei movimenti di donne ha inoltre trasformato il femminismo
liberal occidentale - il "marchio" più finanziato - nell'archetipo
del femminismo. Come sempre il campo di battaglia è diventato
il corpo delle donne, stretto tra i due estremi che sono il Botox e
il burqa (ma ci sono anche le donne doppiamente schiave, del
Botox e del burqa). Quando, com'è successo di recente in
Francia, si prova a vietare il burqa - invece di creare un contesto
in cui le donne siano libere di scegliere cosa fare - non si sta cercando di liberare le donne, ma solo di spogliarle. Costringere una
donna a togliersi il burqa è come costringerla a indossarlo. Il
punto non è il burqa, il punto è la costrizione. Concepire così il
genere, estrapolandolo dal contesto sociale, politico ed economico, lo trasforma in una questione d'identità, in una battaglia di
manichini e vestiti. Ed è questo che ha permesso al governo statunitense di usare i gruppi femministi liberal come scudo morale
dell'invasione dell'Afghanistan nel 2001. Le donne afgane erano
e rimangono in una condizione terribile sotto il governo dei taliban. Ma non è certo bombardandole che si risolverà il problema.
Una vecchia storia
Nell'universo delle ong, che ha dato vita a un suo strano linguaggio, ogni cosa è diventata un "campo", un tema distinto,
legato a gruppi di interesse specifici. Sviluppo della leadership,
diritti umani, salute, istruzione, diritti riproduttivi, aids, orfani
con l'aids: ognuno deve rispettare un preciso regolamento per
ricevere i suoi fondi. Il finanziamento ha frammentato la solidarietà molto più di quanto avrebbe potuto farlo la repressione.
Anche la povertà, come il femminismo, è spesso inquadrata come
un problema d'identità. Come se i poveri non fossero prodotti
61
dall'ingiustizia, ma un gruppo che, semplicemente, esiste, e che a
breve termine potrà essere salvato da un sistema di risarcimenti
(grievance redressal, il sistema gestito dalle ong), mentre, sul
lungo periodo, la sua risurrezione sarà garantita dalla globalizzazione capitalista. La povertà indiana è prima sparita, poi riapparsa nel mondo della cultura come ingrediente di un'identità esotica, raccontata da film come The millionaire. In queste storie sui
poveri e sulla loro incredibile forza di volontà non ci sono cattivi, tranne qualche personaggio minore che serve a creare colore
e tensione narrativa. Gli autori di queste opere sono gli equivalenti contemporanei dei primi antropologi, celebrati e ammirati
perché lavoravano "sul campo" e si lanciavano in coraggiose
esplorazioni dell'ignoto. E' raro che i ricchi siano studiati con la
stessa attenzione.
Dopo aver preso il controllo dei governi, dei partiti politici,
dei tribunali, dei mezzi d'informazione e dell'opinione pubblica
liberal, l'establishment doveva affrontare un'ultima sfida: riuscire
a gestire la minaccia del "potere popolare". Come si trasformano
dei contestatori in docili creature? Come si risucchia la rabbia
delle persone per dirigerla verso strade senza uscita?
Anche in questo campo le fondazioni e le organizzazioni non
profit hanno illustri antenati. Pensiamo al movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti degli anni sessanta e a come le
fondazioni contribuirono a disinnescare il conflitto, trasformando
il Potere nero in Capitalismo nero. La fondazione Rockefeller,
fedele agli ideali di J. D. Rockefeller, aveva collaborato con
Martin Luther King Senior (padre di Martin Luther King Junior).
L'influenza di King, però, diminuì con l'affermarsi di organizzazioni più militanti, il Comitato di coordinamento degli studenti
non violenti (Sncc) e le Pantere nere. Le fondazioni Ford e
Rockefeller reagirono. Nel 1970 donarono quindici milioni a
organizzazioni "moderate", distribuendo assegni di ricerca e
borse di studio, offrendo programmi di formazione per chi aveva
abbandonato gli studi e capitale di avviamento per le attività
62
gestite da neri. La repressione, le lotte interne e la trappola dei
finanziamenti portarono alla graduale atrofìzzazione delle organizzazioni nere più radicali.
Martin Luther King Junior aveva messo in relazione capitalismo, imperialismo, razzismo e guerra nel Vietnam. Dopo che fu
ucciso perfino il suo ricordo diventò pericoloso, una minaccia
all'ordine pubblico. Fondazioni e grandi aziende s'impegnarono
per plasmare la sua eredità in un formato compatibile con le logiche di mercato. Tra i promotori del Centro Martin Luther King
Junior per il cambiamento sociale non violento, lanciato con un
fondo di due milioni di dollari, c'erano Ford, General Motors,
Mobil, Western Electric, Procter & Gamble, Us Steel e
Monsanto. Il centro gestisce la King Library e gli archivi del
movimento per i diritti civili. In alcuni dei suoi progetti il centro
ha "collaborato strettamente con il dipartimento della difesa statunitense, il consiglio dei cappellani militari e altri enti". Ha cofinanziato una serie di conferenze intitolate "Il sistema di libera
impresa: un agente di cambiamento sociale non violento". Amen.
L'ascesa del Potere nero negli Stati Uniti fu una fonte d'ispirazione importante per i dalit (i fuori casta), che diedero vita a un loro
movimento radicale e progressista in India. Organizzazioni come
le Pantere dalit erano ispirati alle Pantere nere. Anche il Potere
dalit, però, seguendo un'evoluzione simile a quella del Potere
nero, è stato frammentato e disinnescato.
Oggi, con l'aiuto delle organizzazioni di destra indù e della
fondazione Ford, ha avviato la sua trasformazione in Capitalismo
dalit. Come spiegava un consigliere della camera del commercio
e dell'industria dalit: "Far venire il primo ministro a un incontro
di dalit non è difficile. Ma, per gli imprenditori dalit, farsi fotografare a pranzo con Tata e Godrej è il massimo, è la dimostrazione che ce l'hanno fatta". Vista la situazione attuale in India,
dire che gli imprenditori dalit non dovrebbero sedere ai tavoli che
contano sarebbe discriminatorio e reazionario. Ma se questa è
l'aspirazione della politica dalit, allora è davvero un peccato. Non
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è così che si aiuterà quel milione di dalit che per vivere raccoglie
a mano gli escrementi della gente.
Non è giusto criticare i giovani dalit che accettano le borse di
studio della fondazione Ford. Chi altro gli offre la possibilità di
tirarsi fuori dal pozzo nero delle caste? Se le cose sono andate
così, la colpa è in gran parte del movimento comunista indiano,
ancora guidato dalle caste alte. Per anni ha cercato di inserire
l'idea di casta nell'analisi marxista delle classi sociali. Ha fallito
miseramente, sul piano teorico e pratico. La spaccatura tra la sinistra e la comunità dalit risale allo scontro tra il leader visionario
dalit Bhimrao Ambedkar e il sindacalista S. A. Dange, membro
fondatore del Partito comunista indiano. Per Ambedkar la prima
delusione arrivò nel 1928, durante lo sciopero degli operai tessili a Mumbai. Ambedkar si rese conto che, nonostante la retorica
sulla solidarietà del proletariato, il Partito comunista approvava il
fatto che i dalit non fossero ammessi a lavorare nel reparto orditura (e potessero svolgere solo la mansione, meno retribuita, della
filatura). Il lavoro implicava l'uso della saliva sui fili, che per le
altre caste era "contagiosa". Ambedkar capì che in una società in
cui le scritture indù istituzionalizzavano l'ineguaglianza, la lotta
in difesa dei "senza casta", dei diritti civili e sociali, era troppo
urgente per aspettare la rivoluzione comunista. La rottura tra il
movimento di Ambedkar e la sinistra ha danneggiato entrambe le
parti. La grande maggioranza della popolazione dalit, spina dorsale del proletariato indiano, ha riposto le sue speranze di liberazione e dignità nel capitalismo e in partiti come il Bahujan samaj
party, che difendono un certo tipo di politica identitaria, importante ma, alla lunga, inutile.
La notte del capitalismo
Negli Stati Uniti, come sappiamo, le fondazioni legate alle
grandi aziende hanno prodotto la cultura delle ong. In India la
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filantropia ha preso piede negli anni novanta. Il gruppo Tata ha
donato cinquanta milioni di dollari a un'istituzione bisognosa
come la Harvard business school e altri cinquanta alla Cornell
university. Nandan Nilekani di Infosys e sua moglie Rohini
hanno donato cinque milioni di dollari per l'avvio dell'india initiative alla Yale university. L'Harvard humanities centre si chiama Manindra humanities centre da quando ha ricevuto la sua
donazione più cospicua, dieci milioni di dollari, da Anand
Mahindra della multinazionale Mahindra. In India il gruppo
Jindal, presente nel settore minerario, metallurgico ed energetico,
gestisce la Jindal global law school e inaugurerà a breve la Jindal
school of govemment and public policy.
La New India foundation, finanziata da Nandan Nilekani grazie ai profìtti di Infosys, assegna premi e borse di ricerca agli studiosi di scienze sociali. La Sitararn Jindal foundation, sostenuta
dal presidente e amministratore delegato di Jindal Aluminium, ha
annunciato cinque premi annuali di dieci milioni di rupie (2oomila dollari), riservati a chi si occupa di sviluppo rurale, lotta alla
povertà, istruzione, ambiente e pace. L'Observer research foundation (Orf), attualmente sostenuta da Mukesh Ambani, è un
calco della fondazione Rockefeller.
Tra i suoi membri e consiglieri ci sono ex agenti dei servizi
segreti, analisti strategici, politici (che fingono di litigare in parlamento) e giornalisti. Gli obiettivi dell'Orf sembrano abbastanza
chiari: "Creare consenso intomo alle riforme economiche", oltre
che influenzare l'opinione pubblica attraverso "la creazione di lavoro nelle zone arretrate e strategie per contrastare la minaccia delle
armi nucleari, biologiche e chimiche". All'inizio non avevo capito il
senso di quest'ultimo punto. Poi ho capito, dopo aver guardato la
lunga lista di partner "istituzionali", che comprende la Raytheon e
la Lockheed Martin, due dei principali fabbricanti di armi del
mondo. Nel 2007 la Raytheon aveva detto di essere interessata
all'India. Mi chiedo se parte del bilancio annuale della difesa indiano (32 miliardi di dollari) sarà speso per comprare armi, missili,
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aerei, navi e sistemi di sorveglianza prodotti dalla Raytheon e dalla
Lockheed. Abbiamo bisogno di armi? O abbiamo bisogno di guerre per creare un mercato delle armi? Dopotutto le economie di
Europa, Stati Uniti e Israele dipendono molto dall'industria delle
armi, l'unica che non hanno esternalizzato in Cina.
Nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, l'India è destinata a diventare l'alleata degli Stati Uniti, come il Pakistan ai tempi
della guerra fredda con l'Unione Sovietica. Molti degli opinionisti
e "analisti strategici" che enfatizzano le tensioni tra India e Cina
sono legati in qualche modo a centri studi e fondazioni indo-statunitensi. Essere un "partner strategico" degli Stati Uniti non vuoi
dire che i capi di stato si scambiano telefonate cordiali.
Vuol dire collaborazione (interferenza) a ogni livello. Vuol
dire ospitare le forze armate statunitensi sul suolo indiano. Vuol
dire condividere i servizi d'intelligence, cambiare le politiche
agricole ed energetiche, aprire il settore della sanità e dell'istruzione agli investimenti internazionali. Vuol dire aprire il mercato
delle vendite al dettaglio. Vuol dire un rapporto squilibrato in cui
l'India è stretta in una morsa fatale, sotto la pressione di un partner che l'annienterà appena lei si rifiuterà di seguirlo.
Trai "partner istituzionali" dell'Orf troverete anche la Rand
corporation, la fondazione Ford, la Banca mondiale e la
Brookings institution. E troverete una fondazione tedesca, la
Rosa Luxembourg Stiftung (povera Rosa, morta per la causa
comunista e oggi finita su questa lista!). Anche se il capitalismo
dovrebbe basarsi sulla concorrenza, chi è in cima alla catena alimentare a volte sa essere aperto e solidale. I grandi capitalisti
occidentali hanno fatto affari con fascisti, socialisti e dittatori
militari. Si adattano e innovano continuamente. La loro mente è
rapida, astuta e incredibilmente strategica. Eppure il capitalismo
sta attraversando una crisi di cui non cogliamo ancora la gravità.
La borghesia "produce prima di tutto i suoi becchini", scriveva Marx. "Il suo declino e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili". Come aveva previsto Marx, il proletariato è
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sotto attacco. Fabbriche chiuse, lavori che spariscono, sindacati
che si sciolgono. I proletari sono stati aizzati gli uni contro gli
altri, in tutti i modi. In India abbiamo visto indù contro musulmani, indù contro cristiani, dalit contro adivasi, casta contro casta,
stato contro stato. Eppure, in tutto il mondo, il proletariato sta
reagendo. In Cina non si contano gli scioperi e le rivolte. In India
popolazioni poverissime si sono ribellate contro alcune delle
grandi aziende più ricche del pianeta. Il capitalismo è in crisi.
L'effetto cascata del trickle-down non ha funzionato. Ora anche
il gush-up, l'accumulazione, è in difficoltà.
Il collasso finanziario internazionale si sta avvicinando. Il tasso
di crescita dell'India è sceso al 6,9 per cento. Gli investitori stranieri se ne stanno andando. Le grandi multinazionali sono sedute su
montagne di soldi, incerte su come investirli, incerte su come evolverà la crisi finanziaria. E' una crepa importante, strutturale, nel
colosso del capitale globale. I veri killer del capitalismo alla fine
potrebbero essere i suoi illusi sacerdoti, che hanno trasformato
l'ideologia in fede. Nonostante la loro intelligenza, sembrano non
cogliere un semplice dato di fatto: il capitalismo sta distruggendo
il pianeta. I due trucchi che lo hanno tirato fuori dalle crisi precedenti - la guerra e lo shopping - non funzioneranno.
Rimango a lungo davanti ad Antilla mentre il sole tramonta.
Mi immagino che quel palazzo affondi ventisette piani di radici
sotto terra, succhiando il nutrimento, trasformandolo in fumo e
oro. Perché gli Ambani hanno deciso di chiamare questo edificio
Antilla? È il nome di un arcipelago di cui parla una leggenda iberica dell'ottavo secolo dopo Cristo.
Quando i mori conquistarono la Spagna, sei vescovi visigoti e
i loro parrocchiani fuggirono in nave. Dopo giorni, 0 forse mesi,
sbarcarono sulle isole di Antilla, dove decisero di stabilirsi e di
fondare una nuova civiltà. Bruciarono le navi per tagliare ogni
legame con la loro patria, ormai in mano ai barbari. Forse chiamando la loro casa Antilla, gli Ambani sperano di tagliare ogni
legame con la povertà e la miseria della loro patria e di fondare
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una nuova civiltà. È una secessione delle classi medie e dominanti verso lo spazio cosmico?
Mentre la notte cala su Mumbai, alcune guardie appaiono
davanti ai cancelli di Antilla, con le loro camicie di lino impeccabili e le radiotrasmittenti crepitanti. Le luci si accendono
all'improvviso, forse per scacciare i fantasmi. I vicini si lamentano perché le luci accecanti di Antilla hanno rubato la notte.
Forse è ora di riprenderci la notte.
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Sonetto dei sette cinesi
Franco Fortini, Versi scelti 1939-1989, Einaudi, Torino 1990,
p. 332.
Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l'Uomo Del Dubbio, una stampa cinese.
L'immagine chiedeva: come agire?
Ho una foto alla parete. Vent'anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io
so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.
A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.
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