Disfarsi di Sé. Angoscia borderline e uso di sostanze
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Disfarsi di Sé. Angoscia borderline e uso di sostanze
Disfarsi di Sé. Angoscia borderline e uso di sostanze ANTONELLO CORREALE Introduzione La stretta interdipendenza tra disturbo borderline e abuso di sostanze è universalmente nota e così significativa da essersi conquistata un posto di rilievo tra i sintomi caratteristici di questo quadro clinico nella nosografia psichiatrica contemporanea. È meno chiaro però quale sia il nesso più preciso e costante che induce questa relazione, così facile a verificarsi e così frequente da riscontrarsi. Molti Autori sottolineano la funzione di sollievo e quasi di medicazione che le sostanze svolgerebbero, in un quadro caratterizzato da emozioni e stati d’animo, da un lato indefiniti e vaghi, ma comunque penosi e quasi insopportabili. Altri sottolineano la tendenza all’agire tipico di questa personalità. Il pensiero trova difficoltà a operare sulla sua materia specifica, cioè le rappresentazioni e i collegamenti tra elementi mentali diversi, e questa difficoltà si scaricherebbe, se vogliamo usare questo termine, in un atto, anziché in una produzione di elementi mentali. Tali atti – l’uso e poi l’abuso di sostanze – costituirebbero una via di deflusso di una specie di ingorgo di pensieri e di idee che appunto, non potendo prendere forma, si indirizzerebbero verso una specie di «scarica» immediata. Altri ancora sottolineano le intolleranze alla frustrazione e quella tipica impazienza che caratterizza il borderline, poiché l’attesa equivale alla non presenza e il tempo non viene vissuto come svolgimento e processo ma solo come dialettica statica piacere-dolore, assenza-presenza. La sostanza offrirebbe una via di uscita a questa necessità di non permanere nell’attesa e nell’anticipazione di qualcosa che ancora non è avvenuto, attesa e anticipazione che per il borderline equivalgono a un soggiorno in una terra di nessuno. In una prospettiva più radicale ancora, la sostanza costituirebbe un elemento distruttivo, una sorta di radicale destrutturazione del mondo, un modo per azzerare non solo emozioni e fantasie ma anche differenze e distinzioni nel mondo esterno, in modo da placare la fatica consistente nel differenziare, ordinare, distinguere la diversità insita in se stessi e nel mondo esterno. Sarebbe possibile ordinare queste varie ipotesi in senso cronologico, a partire dalla sostanza come sostituito masturbatorio in Freud, per passare poi alla distruttività mortifera della Klein, al bisogno di alleviare sofferenze e dolori insopportabili sostenuto dagli Autori più attenti alla definizione degli stati del soggetto, fino alle difficoltà di simbolizzazione, così ben sottolineate da Bion e dagli Autori e che a lui preferibilmente si riferiscono. Possiamo forse operare una sintesi, per quanto sicuramente arbitraria, ma forse utile in prima istanza, per tirare le fila di un argomento così vasto e affermare che l’uso e poi l’abuso di sostanze viene invocato come risposta a qualcosa che, potremmo definire un malessere, o, sulla scia di Rossi Monti (2012) una disforia, anche se i due termini non sono del tutto assimilabili. 1 Intendiamo per malessere uno stato di profonda incertezza e precarietà e, per così dire, friabilità, un sentirsi esposti a traumi ed eventi pericolosi di ogni tipo, non ultime le suggestioni, di carattere quasi ipnotico, che possono derivare dall’incontro con figure sentite come dotate di maggiore forza e vitalità, almeno per qualche tempo iniziale del rapporto. Questo complesso non è riferibile del tutto all’ansia, anche se spesso i borderline la definiscono così. È come un’inquietudine, un attesa di qualcosa che non arriva mai e che può assumere il carattere della noia, non a caso definita come un’attesa senza speranza. Altrettanto spesso, è possibile individuare in questo malessere un elemento rabbioso, una specie di risentimento aspecifico, l’attesa di un risarcimento che non viene mai e che si può manifestare in una sorta di critica sospettosa e radicale alle cose belle del mondo, sempre sospettate di mescolanze di inganni e falsità. In molte cose il malessere di cui parliamo sembra richiamare una specie di oscillazione tra il rimpianto di un paradiso perduto e l’insufficienza verso qualunque personificazione nel mondo esterno di cose che non saranno mai come quelle vagheggiate e che sono quindi destinate a deludere e a ingannare. Ma queste considerazioni si svolgono tutte nella mente del terapeuta. Il borderline sembra saperle già tutte, ma al tempo stesso continuamente dimenticarle. Talvolta si ha l’impressione che la capacità di simbolizzazione del borderline sia in realtà molto elevata, e non assente, ma precaria, soggetta a continue frane e smottamenti, per cui anche insight forti e significativi agli occhi del terapeuta, nel mondo del borderline, passano come meteore e non lasciano quasi traccia. Possiamo insomma concludere che uso e poi abuso di sostanze e disturbo borderline siano tenuti insieme da questo elemento – malessere, collegabile alla disforia – in cui confluiscono numerosi elementi diversi – la incapacità o meglio la rapida decadenza della simbolizzazione, la rabbia e la delusione, il sospetto, la nostalgia per qualcosa di mai provato, di cui si intuisce però la passata esistenza, la voglia di azzerare un mondo, interno e esterno, ritenuto ingannatore e violento. Ma appunto nessuno di questi comportamenti sembra da solo in grado di assumere su di sé il compito di «spiegare» il malessere. È il loro insieme che caratterizza una sorta di mescolanza confusa e insopportabile che induce il borderline a «scaricare» questi stati nel modo più rapido possibile: dal fumare compulsivamente, al bere, all’assumere sostanze più pesanti e capaci di indurre dipendenze gravi e incontrollabili. Il quadro è complicato da un fattore ben noto. L’abuso di sostanze, se protratto oltre un certo limite di tempo, tende ad autonomizzarsi e diventare cioè un obiettivo di per sé. Mentre all’inizio era possibile cogliere un nesso tra malessere e uso o abuso, gradualmente lo stato psichico indotto della sostanza acquista un suo carattere di «attrattore", quasi indipendente dai motivi originari che lo hanno determinato. Si viene insomma a costituire una specie di seconda personalità, quella che ruota intorno alla sostanza, il suo reperimento, il suo uso e poi il suo abuso. Si scelgono come amici e compagni solo coloro che condividono l’uso, si orientano le giornate alla ricerca del denaro per procurarsi la sostanza. Insomma il tossicodipendente nasconde il borderline, lo ricaccia in un quadro oscuro non più riconoscibile e la seconda identità – quella di tossicodipendente – conquista il campo. Quando questo si verifica, il lavoro psicoterapeutico si complica. Mentre all’inizio il lavoro psicoterapico o addirittura psicoanalitico consiste nel cercare di fornire elementi per strutturare il cosiddetto malessere, gradualmente il lavoro si sposta. È necessario a questo punto disporre di strutture gruppali o istituzionali che aiutino a gestire, nei limiti del possibile, l’abuso e all’interno di questa gestione introdurre una dimensione psicoterapeutica che si apra gradualmente dei varchi, delle fessure, degli spazi, lì dove il tossicodipendente lascia intravedere il borderline che era una volta. All’inizio, insomma, è possibile lavorare su qualcosa che potremmo definire come 2 costruzione di una geografia psichica. Dividere il malessere nelle sue componenti, chiamare rimpianto il rimpianto, rabbia la rabbia, dolore il dolore e nostalgia la nostalgia, e, altrettanto importante, ricostruire i nessi per cui un cambiamento di stato si è verificato. Il lavoro di trovare cause per gli effetti è fondamentale. Il borderline, come vedremo meglio tra poco, precipita, per così dire, nei suoi stati psichici e, una volta precipitato, non ricorda più come ci è precipitato. In questo modo vive in un eterno presente, ora lieto, ora angosciante, ora adirato, senza una precisa bussola di riferimento. Ma una volta instauratesi la seconda personalità, il lavoro diventa più difficile (Correale, Cangiotti, Zoppi, 2013). Si può fare questa operazione di «geografia», come l’abbiamo chiamata, solo attraverso i varchi, attraverso i piccoli passaggi rimasti percorribili. Per il resto assume un’importanza ancora maggiore la figura del terapeuta, la sua costanza, il suo atteggiamento di fronte alla vita, il suo non farsi catturare da ideologie o visioni del mondo precostituite, il suo essere disponibile a riconoscere l’entità delle forze in campo e la drammaticità della lotta in corso. Se torniamo al tema del malessere e della disforia possiamo dire dunque che l’uso delle sostanze è una modalità di gestione di uno stato psichico indifferenziato e confuso, dove predominano da un lato emozioni intense ma così mescolate tra loro da non permettere una facile riconoscibilità, e dall’altro elementi sensoriali sparsi, apparentemente senza una precisa collocazione, che possano orientare lo stato psichico complessivo. Per elementi sensoriali sparsi intendo alcune immagini o ricordi o percezioni attuali che si collocano nel campo psichico come boe galleggianti, o particolati scissi – sul genere del sorriso del gatto di Alice, che permane dopo la scomparsa del gatto tutto intero – e che, diversamente da quanto avviene nella psicosi, non assumono un carattere di extraterritorialità, non sembrano cioè pervenire da un mondo altro ma sembrano oggetti scissi di un mondo fin troppo reale, come dotati di una capacità persecutoria presto quasi traumatica. Una paziente mi parlava in questo modo della voce di sua madre, un altro degli occhi di suo padre quando si adirava, una terza dell’odore del suo criceto, che lei annusava nei momenti di difficoltà. È fondamentale, come d’altra parte riconosciuto da molti Autori, riconoscere questa strana combinazione di emozioni mescolate, di sconnessione temporale e di frammenti sensoriali. La sostanza sembra un modo da un lato di liberarsi da questo stato ma dall’altro di trovare una forma di incontro, un punto di condensazione, che dia un ordine possibile a uno stato psichico che viene sempre avvertito come disordinato e caotico e, di fatto, insopportabile. La guida per il terapeuta è l’idea che la costruzione di una geografia sia alternativa all’uso della sostanza, perché offre un punto di condensazione fortemente ancorato alla presenza e alla figura del terapeuta, che si fa portavoce, e quasi supporto vivente, del lavoro di ordinamento e di condensazione. È un lavoro difficile, perché, quanto più si va avanti, quanto più il borderline acquista, con la geografia di cui parliamo, anche un senso doloroso della propria condizione, una consapevolezza depressiva del proprio passato. È facile disfarsi di sé, è molto più doloroso riprendersi il proprio sé, cioè il senso della propria esistenza e della sua continuità nel tempo. L’elemento positivo e gratificante di questo processo, di per sé penoso, è l’acquisizione di emozioni affettuose verso sé e l’altro, che ripagano della fatica e della perdita di quel senso di fallace autonomia e orgogliosa indipendenza che sempre ha accompagnato il borderline prima del lavoro terapeutico. È questo un momento in cui possono verificarsi rabbia contro il terapeuta, percepito come colui che vuole far soffrire, fare accettare la dipendenza, far conoscere il dolore. La soddisfazione è che il dolore è migliore del malessere, perché ha un contenuto e apre all’altro, mentre il malessere spinge soltanto a una sua rapida, anche se precaria, eliminazione. 3 È giunto adesso il momento di indagare, con maggiore precisione, come si costituisce in dettaglio questo malessere e come si possa, sempre in dettaglio, costituire una certa alternativa al suo protrarsi. A questo scopo, tratteremo con maggiore approfondimento tre punti: l’estensione dell’emozione dal particolare alla totalità del contenuto, la trasformazione dell’aspirazione a qualcosa in rabbia azzerante, la difficoltà a sognare. Dal particolare all’universale È esperienza clinica comune a tutti coloro che praticano una psicoterapia o una psicoanalisi con soggetti borderline riscontrare in loro molto frequentemente una condizione di assoluta negatività. Per negatività intendo, in questa sede, un atteggiamento globalmente svalutante verso se stessi e verso il mondo, una critica generale e indiscriminata a tutti coloro che circondano il paziente, una sfiducia nella pratica analitica e qualche volta un vero e proprio attacco all’analisi stessa. Più spesso, però, si riscontra, più che un attacco, una specie di rassegnata rinuncia, carica però di risentimento e di rimprovero. Ma il rimprovero non si concentra soltanto sul terapeuta ma su tutto il contesto di vita. Più che di rimprovero, si potrebbe dire che si tratti di un distacco, desolato e rancoroso, da ogni forma di fiducia possibile in qualcun altro. È importante distinguere questo stato da una condizione depressiva. Nella condizione depressiva si avverte con precisione una perdita di qualcosa di idealizzato che, una volta venuto a mancare, lascia nel soggetto un’esperienza di dolore e rabbia. Dolore e rabbia si orientano poi contro se stessi, ma solo una volta che sia avvenuta un’identificazione con l’oggetto perduto che, come è noto dopo i classici studi freudiani su lutto e malinconia, si installa nel soggetto, imponendogli la sua «ombra». Niente di tutto ciò avviene negli stati che sto descrivendo. Il borderline sembra ritrovarsi in questo momento in una sorta di sdegnoso isolamento, in cui il dolore non viene percepito come tale ma come sfiducia in qualsiasi rapporto umano significativo. Vorrei attribuire una spiegazione possibile a questo fenomeno frustrante e sconcertante, in cui il pianto del paziente sembra più espressione di una non accessibilità ai beni del mondo che il dolore per un oggetto prezioso perduto. Vorrei proporre l’ipotesi che in questi casi si verifichi una estensione a un orizzonte molto più vasto e illimitato di un’esperienza che sarebbe invece in sé specifica e circoscritta, ma che non viene riconosciuta come tale. Quello che viene riconosciuto è invece l’effetto globale di tale esperienza, la sua diffusione alla totalità della vita, psichica e reale, e la sua trasformazione in un negativismo senza appello. L’esperienza iniziale è sempre quella di una frustrazione: un incontro deludente, una prova di esame fallita, un litigio con una persona amata, ma talvolta anche episodi più delimitati, come un atteggiamento critico sotterraneo, un rapporto sessuale con sfumature di insoddisfazione, una parola fuori posto o male interpretata. L’episodio non viene riconosciuto mentre si verifica, ma solo successivamente. Ma il fatto specifico è che il riconoscimento dell’episodio viene quasi subito, per così dire, immerso o allagato in una emozione indifferenziata di delusione e risentimento che si estende a tutta la vita del nostro soggetto. Il risentimento si scarica quindi su tutte le vicende successive all’episodio stesso. Chiunque ne può fare la spese, anche chi, non essendo in alcun collegamento con l’episodio stesso, dovrebbe portare conforto o sollievo al soggetto, di cui si percepisce con dispiacere la scontentezza, la delusione e il risentimento. Ma, e questo è il fenomeno più sconcertante, spesso sono proprio questi tentativi di avvicinamento, nei momenti di negatività, a 4 determinare risentimento e rabbia ancora maggiori. Le cose vanno come se il soggetto, in quei momenti, non volesse testimoni del suo stato e preferisse un isolamento protettivo a forme di possibile contatto consolatorio. Ma il motivo che a me sembra determinate è ancora un altro. La diffusione a tutto il contesto di vita della delusione mette al riparo dal riconoscimento del dolore specifico, connesso con l’esperienza frustrante. Anzi, si potrebbe dire che, in fondo, ciò che più di tutto viene temuto è il proprio dolore in quanto esperienza di perdita e separazione. Al posto del dolore subentra una sorta di orgogliosa filosofia negativa, impregnata però di sofferenza e nostalgia, come se al nostro soggetto non restasse altra consolazione che il riconoscimento che non questa o quella cosa è cattiva, ma che tutto il mondo lo è e che la vita è un mostruoso inganno, un’illusione falsificatrice e menzognera. In questi momenti il fenomeno più rilevante è quindi la disconnessione tra causa ed effetto. L’elemento scatenante non viene dimenticato ma citato insieme ad altri, come se avesse perduto la sua specificità e il suo peso caratteristico. Anzi, il sottolineare che tutto è cominciato proprio da lì e che la negatività deriva da quella fonte originaria suscita spesso reazioni di insofferenza e protesta. «Lei pensa sempre che questa sciocchezza sia la causa di tutto! Non è così. Sono io che sono così e è la vita che è così!» Probabilmente la profonda scissione tra causa ed effetto determina anche una specie di parziale anestesia affettiva. Il dolore, come dicevamo, si annega nella delusione e nel risentimento, emozioni che sembrano offrire una sorta di tormentoso sollievo all’esperienza penosa che il soggetto sta vivendo. Non si può paragonare questo stato a un vero e proprio fenomeno dissociativo, se intendiamo per dissociazione in senso stretto, l’insorgenza di uno stato coscienziale quasi automatico, in cui l’attenzione e la capacità di connessione tra elementi mentali sono parzialmente e momentaneamente sospesi e in cui l’esperienza di tipo depersonalizzante balza in primo piano. Qui non c’è automatismo o depersonalizzazione, altro che in condizioni estreme. Si ha invece un lasciarsi andare a uno stato emotivo indifferenziato, sicuramente penoso, ma aspecifico, che offre sollievo al dolore del singolo episodio ma a prezzo di una svalutazione globale dell’area possibile dei rapporti. Questo stato è descrivibile nei termini di un malessere e di una disforia, come prima abbiamo definito. Un’esperienza di pena e di profonda irritabilità, che può essere letta senz’altro come mescolanza di emozioni diverse, quasi tutte a titolo negativo, ma che costituisce una reazione indifferenziata e indiscriminata a esperienze intollerabili di dolore. L’attitudine del terapeuta, in questi casi, deve valorizzare la presenza più che la parola, la disponibilità a non rispondere subito colpo su colpo e il non farsi intimorire dalla negatività che spesso coinvolge profondamente lui o lei. Il lavoro consiste nel preparare il campo a accettare quella famosa geografia, di cui parlavamo all’inizio, e tirare le fila dei vari collegamenti, tracciati quando lo stato di negatività si sia un po’ alleggerito. Sono questi i momenti in cui il ricorso alle sostanze è più cercato. Perché in questi momenti l’attività della coscienza porterebbe al riconoscimento di un dolore e la vicinanza di una persona di fiducia porta insieme al sollievo una spinta al pianto e alla tristezza. La sostanza offre un’alternativa al dolore e alla penosità indiscriminata del malessere. L’alleato del terapeuta è in questi casi la gioia, sottile all’inizio ma persistente, di riconoscere in sé una vita psichica, di chiamare con parole causa e effetto, di riconoscere che quel che avviene può essere descritto e nominato. Se volessimo accettare una visione un po’ romantica, potremmo dire che il piacere, molto sottile all’inizio, è quello di una specie di creazione del mondo in cui, al posto del caos, subentrano piante, minerali, animali, uomini e donne. La creazione si accompagna a sofferenza, ma anche a una specie di padronanza sulle cose, 5 che non è controllo, ma riconoscibilità. Tutto questo è inscindibile dalla fiducia nel terapeuta, che però non va troppo sottolineata, per non determinare fenomeni di intrusività, ma solo vissuta e talvolta fatta emergere, seppure con delicatezza e misura. Pulsionalità e rabbia C’è però un secondo punto di grande importanza che ci aiuta a decifrare la disforia, isolandone un po’ alla volta le sue varie componenti. Vorrei richiamare, per introdurre questo punto, i numerosi passi in cui Freud ci invita a non esagerare con le tendenze sublimatrici. È noto che la sublimazione è un meccanismo di spostamento dalla meta della pulsione. La pulsione sessuale si scarica sullo stesso oggetto, ma per altre vie, non corporee e comunque non direttamente sessuali. Freud ci indica con chiarezza, specie nei suoi scritti «sociali», che c’è un limite alle possibilità di sublimazione. In altri termini, una certa quota di desiderio resta insaturo e cerca vie per scaricarsi, che non siano quelle socialmente prescritte. È possibile partire da qui, pur senza addentrarsi in una tematica vastissima, che non è possibile né agevole trattare in questa sede. Possiamo chiederci: che fine fa la quota di pulsione insoddisfatta, il desiderio, nelle sue varie forme, che non trova un via di deflusso? E quali sono le vie per «imbrigliare» questo desiderio in eccesso, che diventa inquietudine, aspirazione continua di tensione verso qualcosa, come lo «Streben» del Faust di Goethe, che fa un patto col diavolo per placare la sua profonda e intollerabile insoddisfazione? Credo si possa dire, da un esame neanche troppo approfondito delle opere di Freud successive a Al di là del principio e del piacere, che una parte almeno della pulsione insoddisfatta diventa pulsione tendente all’azzeramento e all’annullamento delle differenze, in se stessi e nel mondo esterno. Non è più il caso di affrontare la complessa tematica del masochismo, delle distruttività autodirette e delle tendenze all’annullamento che Freud cataloga sotto il grande tema della pulsione di morte. Ma possiamo dire senz’altro che il fenomeno della trasformazione del piacere non raggiunto in sadismo distruttivo è esperienza clinica molto frequente e tipica dei nostri soggetti. L’attesa di un piacere non raggiunto diventa rabbia distruttiva, automutilante o eterodiretta, ma spesso con quei caratteri di distacco negativo che abbiamo messo in rilievo nel paragrafo precedente, violenza che prima si manifesta per esempio contro gli oggetti (crisi pantoclastiche) e contro se stessi (ferite autoinferte, tentativi di suicidio). Ancora una volta, è importante mostrare al nostro soggetto la stretta intercorrelazione che esiste tra piacere non raggiunto e distruttività conseguente. Le cose vanno come se il piacere non raggiunto si convertisse direttamente in violenza autodistruttiva e eterodiretta, secondo meccanismi che anche le neuroscienze cominciano a studiare con successo. Dobbiamo ammettere quindi che nei soggetti borderline esiste una quota di piacere non raggiunto, di pulsionalità insoddisfatta, maggiore che in altri soggetti. È possibile indicare nelle vicissitudini delle prime relazioni le cause di questo fenomeno. Le cose vanno come se le numerose esperienze traumatiche nelle prime fasi della vita lasciassero un vuoto di identificazioni possibili sufficientemente organizzatrici. In assenza di queste identificazioni organizzanti, il soggetto vive una condizione di «friabilità», di continuo, possibile sgretolamento; anche questo tipo di esperienza contribuisce al malessere, alla disforia, che è la causa di quella trasformazione del piacere mancato in rabbia aspecifica. 6 Le cose vanno come se le identificazioni possibili imbrigliassero il piacere pulsionale, trasformando il desiderio di avere in desiderio di essere. In mancanza della possibilità di essere qualcosa, il ricorso all’avere diventa troppo potente. In mancanza della soddisfazione all’avere, subentra poi la rabbia, la pena, la nostalgia, la delusione e, infine, il sadismo negativista, la tendenza alla svalutazione e alla sottrazione di valore. Anche in questi casi, il ricorso alla sostanza diventa una via facile e quasi obbligata. La sostanza infatti mescola insieme, in modo inestricabile, pulsioni di vita e pulsioni di morte, piacere e crudeltà, soddisfazione e annullamento, una sorta di piacere mortifero e azzerante. Ancora una volta, l’alternativa alla sostanza è la proposta di identificazioni possibili che modifichino l’esperienza di friabilità e consunzione. Ma la lotta è lunga, perché le identificazioni possibili vanno e vengono e, ad ogni frustrazione, possono andare perdute appena conquistate. Una spia importante per accettare la presenza di un’identificazione è la capacità evocativa, come Bollas ci ha detto molto bene. L’evocazione di un oggetto lontano presentifica un rapporto e modifica il senso di vuoto. Aiutare il nostro soggetto in questo processo di evocazione e spingerlo alla ricerca di piaceri possibili, invece di un orgoglio autosufficiente e avido, può spingerlo a allontanarsi dal ricorso obbligato alla sostanza. La difficoltà a sognare Sulla funzione del sogno e sulla sua importante capacità «traumatolitica» è stato detto moltissimo e non è qui il caso di riprendere per esteso questo tema. Basta dire che il sogno, per lo meno in Freud, costituisce un grande apparato di collegamento tra elementi mentali e combatte quindi la scissione e la disconnessione. È fin troppo noto, poi, che in Bion il sogno costituisce il segno di un pensiero simbolizzante, che inserisce l’esperienza sensoriale concreta nella trama dei pensieri e delle associazioni. Quello che vorrei dire qui è soltanto che esiste uno specifico malessere legato al non sognare, come se il soggetto si sentisse mutilato di qualcosa. Le cose vanno come se l’eccesso di concretezza e sensorialità lasciasse un senso di vuoto e di mancanza, probabilmente legato al fatto che senza sogno anche la funzione etica e estetica della vita perdono valore. Basterebbe citare il bellissimo film The Reader in cui la protagonista che non sa leggere ascolta con avidità la lettura dei classici da parte del suo amato. La lettura come grande sogno collettivo che aiuta i sogni individuali e permette l’attivazione di un processo senza il quale l’individuo si sente mutilato. Su questo tema, le neuroscienze ci vengono in aiuto. Da alcuni anni, è stato scoperto un sistema di connessioni cerebrali, il Default Mode Network, che funziona in condizioni di riposo, quando cioè la mente non è orientata verso un compito specifico. Questo sistema di default, cioè di funzionamento a prescindere da orientamenti definiti, sembra costituire un grande apparato di connessione tra tracce mentali, emozioni, percezioni sensoriali, fantasie e immaginazione. Senza proporre alcun tipo di collegamento arbitrario e probabilmente prematuro, penso però che si possa dire che la nostra mente ha bisogno di momenti di questo tipo per riorganizzare le conoscenze, elaborarle secondo fantasie e ragione e inserirle nella trama dei pensieri e del linguaggio. Probabilmente il sogno è uno di questi momenti, anche se i collegamenti tra sogno e DMN sono tutti da studiare e decifrare. Quello che è certo è che il trauma inibisce il DMN e stabilizza una disunione tra apparato elaborativo di base, il DMN appunto, e le stimolazioni esterne. 7 Il soggetto borderline sembra avvertire questa disconnessione e cerca di «sognarsi». Ma in realtà cerca il sogno spesso in un supplemento di piacere, o in altre esperienze eccitanti o nel sesso o in momenti passionali di abbandono, tanto più prezioso quanto troppo spesso dimenticato. Il ricorso alle sostanze, almeno in certi casi, sembra svolgere questa funzione: supplisce alla mancanza di sogno con sogni artificiali, che in realtà però non sono sogni, ma fantasie orientate a un piacere immediato e rapido nella scarica. Il che non toglie che in certi casi le sostanze possano fornire queste capacità, con risultati anche sorprendenti e di grande impatto estetico. Ma si tratta spesso di pensieri con alta valenza allucinatoria, spesso fruibili più per l’ascoltatore, che può rimanerne affascinato, che dal soggetto, che spesso li produce quasi senza accorgersene. Ancora una volta la terapia deve provvedere alle capacità di sognare, utilizzando dati culturali e esperienziali provenienti dal paziente, ma che vanno allargati, espressi, esplorati nelle loro pieghe e nei loro particolari. Il piacere di sognare è il piacere di studiare i propri sogni e quelli degli altri e di coglierne aspetti nascosti e impliciti. Il piacere che deriva da questa pratica è un piacere estetico (la bellezza di una sensorialità che non si ferma a se stessa) e etico (il senso della propria esistenza come soggetto unico e irripetibile). A questo punto il desiderio non è più un fuoco che consuma, ma una spinta alla ricerca e alla conoscenza. Conclusioni Spero che sia emerso con sufficiente chiarezza che l’uso e l’abuso di sostanze è tanto maggiore quanto maggiore è la mescolanza confusa e indiscriminata delle emozioni in un amalgama caotico e indifferenziato che possiamo definire disforia e malessere, e che non si identifica genericamente coll’ansia, anche che può essere scambiato con quella. La sostanza si inserisce in questo amalgama provocandone un possibile deflusso. Ma tale deflusso è impregnato di sadismo e discontinuità e deriva da un allargamento indiscriminato a tutto il contesto di vita di esperienze negative di rapporto, che vengono riconosciute e ricordate, ma cui si nega valore di causa determinante. Il quadro è accentuato dalla difficoltà a sognare, intendendo il sogno come grande apparato di collegamento di elementi mentali dispersi e scollegati tra loro, per cui la sostanza diventa quella che potremmo definire un sostituto autoeccitatorio del sogno stesso. L’analisi si sostituisce alle sostanze provocando un piacere che deriva dal nominare le cose e quindi sottrarsi a falsi riconoscimenti, ideologie rigide, autoinganni e facili filosofie o consolatorie o pessimistiche. Si potrebbe considerare l’analisi come riacquisizione delle proprie capacità pulsionali, in un contesto non caotico e violento, ma soggettivo e responsabile. E questo è il piacere più grande, capace di sostituirsi a quello offerto dalle sostanze. SINTESI Nel lavoro viene descritta una situazione emotiva caratterizzata da una mescolanza di diversi affetti, la cui sommazione risulta negativa nel senso di un atteggiamento diffidente e insoddisfatto nei confronti del mondo e dei rapporti umani. Il ricorso alle sostanze, è direttamente proporzionale alla non leggibilità di tale stato emotivo. Un aiuto a decifrare con maggiore precisione questa mescolanza indifferenziata permette a colui o colei che abusa di sostanze di sentire meno la necessità di ricorrere al loro abuso. PAROLE CHIAVE: Borderline, disforia, malessere, sogno, Default Mode Network 8 BIBLIOGRAFIA Poiché in questo lavoro si rielaborarono in modo ampio molti temi psicoanalitici, si è pensato di proporre non una bibliografia punto per punto, ma un insieme di testi di riferimento. Ansemert F. & Magistretti P. (2012). Gli enigmi del piacere. Torino, Boringhieri, 1978. Bion W.R. (1977). Catastrophic Change. Tr. it. (1987). Il cambiamento catastrofico. Torino, Loescher. Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972. Bowlby J. (1976). Attaccamento e perdita, Vol. 1: L’attaccamento alla madre. Torino, Boringhieri. Centro di Psicoanalisi Romano (2012). Dissociazione, scissione, rimozione. 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