questione di legittimità costituzionale
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questione di legittimità costituzionale
LA CORTE COSTITUZIONALE Nozioni introduttive La Corte costituzionale è l'organo di controllo della costituzionalità, cioè l'organo al quale la Costituzione ha demandato il compito di verificare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni (art. 134, 1°c. Cost). La giustizia costituzionale è quindi garanzia di rigidità della Costituzione (vedi scheda relativa) perché consente di reagire alle infrazioni alla Costituzione ad opera del legislatore ordinario. Il controllo di costituzionalità presente nel nostro ordinamento è un controllo di costituzionalità di tipo accentrato cioè affidato ad un organo ad hoc istituito allo specifico scopo di controllare il rispetto della Costituzione e, se del caso, dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge. E’ inoltre un controllo di tipo successivo vale a dire un controllo che interviene solo dopo l’entrata in vigore della legge (controllo preventivo si definisce invece il controllo di legittimità costituzionale che interviene prima dell’entrata in vigore della legge. E’ un controllo presente ad es. in Francia con il Conseil constitutionnel). Si parla invece di giudizio di legittimità costituzionale di tipo diffuso quando il giudizio di legittimità è attribuito a ciascun giudice nell'esercizio dei poteri rientranti nella propria competenza. Ciascun giudice può quindi disapplicare la disposizione che ritenga incostituzionale. Un tale sistema è presente negli Stati Uniti ove l'incertezza insita nel controllo diffuso risulta temperata dal principio dello stare decisis in base al quale le decisioni della Corte Suprema rappresentano un precedente che vincola tutti i giudici. La Corte costituzionale, oltre a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, giudica inoltre: • sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato; • sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni; • sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica; • sull'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo. Composizione (art.135 Cost.) La Corte costituzionale si compone di 15 giudici che durano in carica nove anni. (Il limite della durata in carica era stato inizialmente fissato in 12 anni solo successivamente ridotti a 9 dalla legge cost. n. 2 del 1967, modificativa dell’art. 135 Cost.). • I giudici della Corte costituzionale possono essere scelti tra le seguenti categorie: • I magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrative • I professori ordinari di università in materie giuridiche • Gli avvocati con almeno 20 anni di esercizio. I giudici della Corte sono nominati: • per un terzo dal Presidente della Repubblica. • per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative • per un terzo dal Parlamento in seduta comune. I cinque giudici di nomina presidenziale vengono nominati con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Si tratta di un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, cioè di un atto il cui contenuto è deciso autonomamente dal Capo dello Stato senza che vi sia alcuna proposta o interferenza da parte del Governo. La controfirma del Presidente del Consiglio assume quindi solo la funzione di certificare la regolarità del procedimento seguito. Per quel che riguarda i cinque giudici di spettanza del Parlamento questi vengono nominati a maggioranza dei due terzi dei componenti il Parlamento in seduta comune nei primi tre scrutini. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti. Infine per i cinque giudici nominati dalle Supreme magistrature ordinarie ed amministrative si procede in questo modo: alla Corte di cassazione compete la scelta di tre giudici; al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti compete la scelta di un giudice ciascuno. E' necessaria la maggioranza assoluta dei voti dei componenti il collegio. Quando tale maggioranza non sia raggiunta nella prima votazione, è sufficiente la maggioranza relativa nella votazione di ballottaggio tra i candidati, in numero doppio dei giudici da eleggere, che abbiano raggiunto il maggior numero dei voti. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni (art. 135, c. 4 Cost.) - Ai giudici della Corte costituzionale non si applica il regime della prorogatio (in base al quale i titolari di pubblici uffici benché scaduti continuano a svolgere le proprie funzioni sino a quando non vengano sostituiti). La Corte può tuttavia continuare a funzionare anche se non sono presenti tutti i suoi membri. Deve esserci infatti una componente minima di almeno 11 giudici (2° c. dell'art. 16, l. 87/53). Nell’elezione parlamentare di nuovi giudici si sono talvolta verificate delle difficoltà essendo richiesti quorum piuttosto ampi, anche se la legge cost. 2/1967 (art. 5, c. 2) prescrive che la sostituzione del giudice cessato dalla carica avvenga entro un mese. Fino al 1992 la suddivisione delle nomine tra maggioranze e minoranze è stata frutto di una convenzione, cioè di un accordo in base al quale i giudici costituzionali di nomina parlamentare provenivano dai vari partiti in ragione del peso politico presente in seno al Parlamento (due giudici alla democrazia cristiana, uno al Partito comunista, uno al Partito socialista, uno ai partiti laici minori). Dopo il '92 gli accordi tra le parti politiche sono stati raggiunti molto più faticosamente, costringendo la Corte ad operare anche a lungo a ranghi ridotti. Il sistema tuttavia pare oggi essersi almeno temporaneamente assestato nel senso che due giudici costituzionali di nomina parlamentare sono indicati dall’opposizione e tre dalla maggioranza. Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (art. 1 legge cost. 1/1948; artt. 23 e ss. legge 87/53) Come si è già esaminato (vedi scheda Corte costituzionale, nozioni introduttive) la scelta fondamentale in ordine ad un sistema di sindacato di costituzionalità “accentrato” è già implicita nell’art. 134, 1° c. Cost.. Ogni ulteriore possibilità quanto alla instaurazione dei giudizi di costituzionalità è stata invece lasciata impregiudicata dagli artt. 134 e 137 Cost. La legge costituzionale, cui l’art. 137 riserva la possibilità di stabilire “le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale”, avrebbe quindi potuto in teoria scegliere liberamente tra varie vie di accesso alla Corte costituzionale, compresa quella del ricorso diretto. La legge cost. n. 1 del 1948 si è però limitata ad estendere il principio dell’art. 127 Cost. (che prima della riforma ad opera della legge cost. n. 3 del 2001 prevedeva l’impugnazione diretta delle leggi regionali da parte dello Stato) all’ipotesi inversa dell’impugnazione da parte delle Regioni. Per ogni altra ipotesi ha adottato invece l’accesso alla Corte in via incidentale cioè nel corso di un giudizio. La Corte costituzionale quindi può essere chiamata a giudicare in ordine alla conformità alla Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge attraverso due distinte vie di accesso e cioè: in via diretta (o principale), qualora vi sia un ricorso statale avverso statuti o leggi regionali o un ricorso regionale nei confronti delle leggi statali o di altre regioni; in via incidentale (o di eccezione), qualora un giudice nel corso di un comune giudizio (civile, penale o amministrativo) ritenendo che la disposizione di legge o di atto avente forza di legge, che egli è chiamato ad applicare per la decisione del giudizio, sia in contrasto con una o più disposizioni costituzionali, sollevi la questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale. La questione di legittimità costituzionale in via incidentale può essere sollevata: da una delle parti. In questo caso le parti non possono adire direttamente la Corte, ma devono presentare un' istanza al giudice della causa principale, che dovrà valutare se ricorrono i presupposti necessari per l'attivazione del giudizio di costituzionalità; d’ufficio, cioè dal giudice stesso (detto giudice a quo) dinanzi al quale pende il giudizio principale (o giudizio a quo). In questo caso, se sussistono le condizioni, il giudice a quo può adire immediatamente la Corte. Il giudice a quo prima di sollevare la questione di costituzionalità dinanzi alla Corte deve verificare la sussistenza di due requisiti: che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso e cioè che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale; che la questione sia manifestamente infondata; ciò sta a significare che il giudice non deve pronunciarsi sulla fondatezza o sull'infondatezza della questione. Questo è infatti compito della Corte costituzionale. Per poter rimettere la questione alla Corte è in definitiva sufficiente che il giudice abbia un dubbio sulla costituzionalità della legge o dell'atto avente forza di legge da applicare al giudizio in corso. Qualora il giudice ritenga che la questione sia rilevante e non manifestamente infondata emette un’ ordinanza di rinvio (detta anche ordinanza di rimessione) con la quale solleva la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte e sospende contemporaneamente il giudizio in corso fino alla pronuncia della Corte. L'ordinanza deve contenere gli elementi necessari ad individuare la questione di costituzionalità, vale a dire: l’oggetto del giudizio cioè le disposizioni della legge l'incostituzionalità; o degli atti aventi forza di legge di cui si denuncia il parametro del giudizio ossia le disposizioni costituzionali che si presumono violate; la motivazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza la motivazione della rilevanza e i motivi che hanno portato a dichiarare la non manifesta infondatezza; fattispecie concreta i profili della questione di legittimità in base ai quali si è verificata la violazione con la descrizione della fattispecie concreta oggetto della controversia Il giudizio in via incidentale è un giudizio a parti eventuali. Entro 20 giorni dall'avvenuta notificazione dell'ordinanza con cui si instaura il giudizio costituzionale le parti del giudizio a quo possono costituirsi mediante deposito in cancelleria delle deduzioni. Le parti tuttavia potrebbero anche non costituirsi senza incidere nel perseguimento del processo costituzionale che ha carattere oggettivo in quanto persegue primariamente l'obiettivo di stabilire la legittimità costituzionale delle leggi. Dopo la eventuale costituzione delle parti e la nomina di un giudice relatore il giudizio può proseguire: • in camera di consiglio (cioè a porte chiuse) quando nessuna delle parti si è costituita in giudizio oppure quando la Corte ritenga di poter decidere adottando un'ordinanza di manifesta infondatezza o di manifesta inammissibilità; • in udienza pubblica in tutti gli altri casi. Successivamente la Corte si ritira in camera di consiglio per deliberare nominando dopo la votazione un giudice per la redazione della sentenza (che solitamente è lo stesso giudice relatore). Il giudizio della Corte si conclude con una ordinanza o con una sentenza GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE O IN VIA D'AZIONE (artt. 127 e 134; art. 2 legge cost. 1/1948; artt. 31- 34 legge 87/1953 E' definito giudizio di legittimità in via principale in quanto la questione di legittimità viene proposta direttamente alla Corte costituzionale da parte dello Stato o da parte della Regione. I soggetti legittimati a ricorrere sono: lo Stato; le Regioni; le Province autonome di Trento e Bolzano. L'atto introduttivo del giudizio in via principale è il ricorso. Si possono avere le seguenti ipotesi di ricorso: • ricorso dello Stato contro una legge regionale; • ricorso dello Stato contro la legge regionale di approvazione dello Statuto ordinario (art. 123 Cost.); • ricorso di una Regione contro una legge o un atto avente forza di legge dello Stato; • ricorso di una Regione contro una legge di un'altra Regione; • ricorso della Provincia autonoma di Trento o di Bolzano contro le leggi statali, le leggi della Regione o dell’altra Provincia per violazione dello Statuto o del principio di tutela delle minoranze linguistiche tedesca e ladina (l. cost. n.1 del 1971); • ricorso dello Stato contro le leggi delle Province autonome di Trento e Bolzano (l. cost. n. 1 del 1971). Prima delle modifiche apportate al titolo V dalla legge cost. n. 3 del 2001 il ricorso dello Stato e il ricorso delle Regioni erano diversi: • il ricorso della Regione contro una legge statale o un atto con forza di legge doveva essere deliberato dalla Giunta regionale e notificato allo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio, entro 30 giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto con forza di legge. Il termine era invece di 60 giorni nel caso di ricorso di una Regione nei confronti di una legge di un'altra Regione; • il ricorso dello Stato contro le leggi regionali era invece un ricorso preventivo perché veniva proposto contro leggi regionali non ancora promulgate, né pubblicate. La legge regionale, secondo quanto previsto dall'art. 127 Cost. prima della riforma, una volta approvata dal Consiglio regionale veniva comunicata al Commissario di Governo (organo statale di controllo residente nel capoluogo di ogni Regione) che doveva vistarla nel termine di 30 giorni dalla comunicazione. Dopo il visto la legge veniva promulgata dal Presidente della Giunta e pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione. Se però il Commissario riteneva la legge viziata da illegittimità costituzionale, o viziata nel merito per contrasto con gli interessi nazionali o con l'interesse di un'altra Regione, non apponeva il visto e la rinviava al Consiglio per una nuova deliberazione. Se il Consiglio riapprovava la legge modificandola in senso conforme ai rilievi mossi dal Commissario, quest'ultimo apponeva il visto e la legge poteva essere promulgata e pubblicata. Se il Consiglio riapprovava la legge nel medesimo testo a maggioranza assoluta dei suoi componenti il Commissario trasmetteva la legge al Presidente del Consiglio che previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro 15 giorni dalla comunicazione dell'avvenuta approvazione poteva proporre ricorso alla Corte costituzionale se si trattava di un vizio di legittimità costituzionale; alle Camere se si trattava di una questione di merito per contrasto con gli interessi nazionali o gli interessi di un'altra Regione. Dopo l'entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001 il ricorso dello Stato e il ricorso della Regione risultano parificati sotto il profilo processuale: • entrambi i ricorsi sono di tipo successivo e devono essere esercitati nel termine di 60 giorni; il termine per l'impugnazione dello Statuto regionale da parte del Governo è invece di 30 giorni. • Il controllo del Governo sulle leggi regionali da parte del Commissario di Governo è stato eliminato. • Il vizio di merito delle leggi regionali per contrasto con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni è stato eliminato. Secondo quanto previsto dall'art. 127 della Costituzione i motivi del ricorso sono: per lo Stato l'eccedenza della competenza regionale; per la Regione nei confronti dello Stato o di altre Regioni la lesione della sfera di competenza regionale. Con riferimento al regime dei vizi denunciabili va ricordato che in passato la vecchia disciplina utilizzava formule differenti collocate in diversi testi normativi per indicare la legittimazione al ricorso. Era infatti previsto che il Governo poteva ricorrere alla Corte “quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della regione” (art. 127, 3° c., Cost.) e che la Regione poteva farlo “quando ritenga che una legge od atto avente forza di legge della Repubblica invada la sfera di competenza ad essa assegnata dalla Costituzione” oppure “quando ritenga lesa la propria competenza” dalla legge di altra Regione” (art. 2, 2° c. l. cost. n. 1/1948). Fondandosi su tale diversità di enunciati la Corte costituzionale aveva elaborato una giurisprudenza in base alla quale mentre lo Stato poteva far valere di fronte al giudice costituzionale qualunque tipo di vizio della legge regionale, viceversa la Regione doveva limitarsi a denunziare i vizi della legge statale riferibili all’invasione della propria sfera di competenza. In caso contrario la Corte costituzionale dichiarava la mancanza di interesse a ricorrere della Regione. Il nuovo articolo 127 Cost.ha eliminato, come esaminato, tutta una serie di differenze di tipo procedurale, ma ha mantenuto una diversità di espressione prevedendo infatti che il Governo possa ricorrere contro la legge regionale “che ecceda la competenza della Regione” e che la Regione possa impugnare la legge statale o di altra Regione che “ leda la sua sfera di competenza”. Senza evidentemente limitarsi al dato testuale, ma leggendo l’art. 127 Cost. alla luce delle profonde modifiche intervenute con la riforma del titolo V, ci si è interrogati sull’opportunità o meno di ritenere ancora attuale la giurisprudenza della Corte relativamente al regime dei vizi denunciabili dallo Stato e dalla Regione. L’interrogativo appare oggi risolto proprio da un recente intervento della Corte che si è espressa nel merito della questione in maniera piuttosto argomentata con la sent. n. 274 del 2003. Con questa sentenza la Corte, se da un lato ha ritenuto l’elemento letterale non decisivo “ben potendo una norma conservare nel tempo la formulazione originaria e tuttavia consentire una diversa interpretazione in ragione del successivo mutamento del contesto nel quale essa sia inserita”; dall’altro ha affermato che nel nuovo assetto costituzionale allo Stato è pur sempre riservata una posizione peculiare, ricavabile in particolare dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria (art. 5, 117, 1°c., 120, 2° c. Cost), la quale richiede necessariamente che esista un soggetto, lo Stato appunto, avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento. Sulla base di queste premesse la Corte è quindi giunta ad affermare che “ pur dopo la riforma lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale”. Il giudizio in via principale è un giudizio tra parti. Il proponente del ricorso è parte del giudizio dal momento del deposito di quest'ultimo presso la Cancelleria della Corte. Entro venti giorni dal suddetto deposito la parte convenuta ha la facoltà di scegliere se costituirsi o meno. Il giudizio è nella disponibilità delle parti: esso può infatti estinguersi per rinuncia al ricorso accettata da entrambe le parti. Inoltre la controversia è concreta e attuale nel senso che vi deve essere un interesse a ricorrere. I CONFLITTI COSTITUZIONALI (art. 134; artt. 37- 42 legge n. 87/1953 I conflitti costituzionali comprendono: • I conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato • i conflitti di attribuzione tra Stato e Regione. Il conflitto di attribuzione è una controversia che attiene ad una lesione della competenza, costituzionalmente garantita, di un soggetto da parte di un altro soggetto. La ratio che sorregge questa competenza della Corte, prevista dal 3° comma dell'art. 134 della Cost., è quella di individuare l'esatta spettanza delle competenze costituzionali. I conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato Secondo quanto previsto dall'art. 37, legge n. 87/1953, affinché la Corte costituzionale intervenga è necessario: • che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorga tra organi appartenenti a poteri diversi; • che il conflitto di attribuzione sorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere al quale appartengono; • che il conflitto di attribuzione sorga per la delimitazione della sfera di attribuzione determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Il potere dello Stato è un complesso organizzativo, composto da un organo o più organi, al quale va riferita una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita. In questo senso tra i poteri dello Stato rientrano non solo i tre tradizionali (esecutivo, legislativo e giudiziario), ma anche i poteri del Presidente della Repubblica, della Corte costituzionale ecc…Un elenco completo probabilmente non è possibile poiché in quest'ottica i poteri dello Stato legittimati a promuovere un conflitto non sono un numero chiuso, ma sono desumibili, di volta in volta, dal concreto atteggiarsi delle attribuzioni costituzionali. Il potere è il soggetto sostanziale del conflitto; l'organo appartenente al potere è il soggetto processuale. Abilitato ad agire di fronte alla Corte costituzionale infatti non è il potere, ma l'organo che appartiene al potere. C'è coincidenza tra potere e organo solo quando un potere si esaurisce in un organo (ad es. Presidente della Repubblica). Ma quando il potere ha una struttura complessa è necessario individuare quale sia l'organo abilitato ad agire nel conflitto di attribuzione. L'organo abilitato ad agire di fronte alla Corte costituzionale è quello competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere al quale appartiene (art. 37, l. 87/53). Sono indubbiamente tali gli organi costituzionali posti al vertice di ciascun potere, ma la Corte costituzionale ha inoltre affermato che l'art. 37 della legge 87/53 ha inteso in realtà far riferimento ad organi i cui atti o comportamenti sono l'espressione ultima ed immodificabile dei rispettivi poteri nel senso che nessun altro organo, all'interno di ciascun potere, è abilitato ad intervenire rimuovendo l'atto o il comportamento lesivo (la Corte ha riconosciuto la soggettività nel conflitto: al Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale; ad ogni giudice; alla Corte dei conti; all'Ufficio centrale per il referendum; ad una singola Camera; alle due Camere nel complesso; alle commissioni parlamentari d'inchiesta; al Consiglio superiore della Magistratura; al Governo nel suo complesso; al singolo Ministro; al Comitato promotore del referendum). Il conflitto può consistere: • In una vindicatio potestatis. E' l'ipotesi più rara che si realizza quando il conflitto riguarda la contestazione circa l'appartenenza del medesimo potere che ciascun soggetto rivendichi a se. • Nella menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita ad un soggetto. Tale menomazione, che è l'ipotesi più frequente, discende dall'illegittimo esercizio di un potere proprio. Non c'è quindi rivendicazione di un potere "usurpato", ma contestazione del modo in cui un soggetto ha esercitato attribuzioni che sono incontestabilmente sue (ad es. se il giudice penale ricorre contro la Camera perché questa ritarda a pronunciarsi sulla sua richiesta di arrestare un deputato o di perquisirne il domicilio, non contesta le attribuzioni della Camera, chiaramente assegnate dall'art. 68 Cost., ma denuncia che, abusando delle sue funzioni, la Camera interferisce nella funzione giudicante che spetta al giudice stesso, impedendogli di esercitare le proprie attribuzioni). Il conflitto inoltre non sorge necessariamente da un atto, ma può sorgere anche da un comportamento, persino omissivo (ad es. il Presidente della Repubblica che non promulga una legge ecc…). L’oggetto del conflitto tra poteri dello Stato può riguardare qualsiasi atto, comprese le leggi e gli atti aventi forza di legge come la Corte costituzionale ha ammesso, dopo una giurisprudenza di segno contrario, con le sent. n. 161 del 1995 e n. 457 del 1999. I conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni Secondo quanto disposto dall'art. 39 della legge n. 87 del 1953 tale conflitto può sorgere: • quando una Regione invade con un suo atto la sfera di competenza assegnata dalla Costituzione allo Stato o ad un'altra Regione; • quando lo Stato invade con un suo atto la sfera di competenza costituzionale di una Regione. L'oggetto del conflitto tra Stato e Regione non deve essere costituito da leggi o da atti equipollenti ma da atti pubblici di qualsiasi altro tipo. Quindi se è indubbio che, sotto il profilo processuale, il conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni presenti rilevati affinità con il controllo della legge in via principale, tuttavia se ne distingue nettamente per l'oggetto che non può essere costituito da atti legislativi o a questi equiparati. Il ricorso è quindi ammissibile esclusivamente per i regolamenti amministrativi, gli atti amministrativi e le decisioni giurisdizionali. Le sentenze conclusive dei conflitti di attribuzione Le sentenze della Corte possono essere: • sentenze di inammissibilità; • sentenze di improcedibilità; • sentenze che dichiarano la cessazione della materia del contendere. Inoltre la Corte può adottare sentenze che entrano nel merito della lesione di competenza. Queste possono essere : • sentenze che dichiarano la cessazione della materia del contendere. • sentenze con le quali dichiara a quale soggetto spetta la competenza ed annulla l'atto; • sentenze con le quali respinge il ricorso; • sentenze con le quali si limita a dichiarare a quale soggetto spetta la competenza. Le decisioni della Corte Costituzionale Le decisioni della Corte costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale possono assumere la forma di: • ordinanza; • sentenza. Le ordinanze ordinanze di manifesta infondatezza Vengono adottate quando la Corte, senza che siano necessarie particolari verifiche, non ravvisa alcun argomento a sostegno dell'incostituzionalità della norma (ad es. quando viene riproposta una questione già ripetutamente dichiarata manifestamente infondata in passato); ordinanze di inammissibilità Sono le ordinanze che individuano l'esistenza di una causa che impedisce una decisione nel merito di una questione (ad es. la norma oggetto del sindacato della Corte è contenuta in un atto privo di forza di legge; insufficiente motivazione da parte del giudice a quo ecc…); Ordinanze di restituzione degli atti al giudice a quo La Corte ricorre a queste ordinanze nel caso di jus superveniens cioè quando la fattispecie che ha dato origine alla causa pendente di fronte al giudice a quo viene disciplinata, nelle more del giudizio della Corte, da una norma nuova rispetto a quella originaria che ha costituito l'oggetto dell'ordinanza di rimessione del giudice a quo. Restituendo gli atti al giudice a quo la Corte offre a quest'ultimo l'opportunità di valutare - solo qualora vi siano dubbi in proposito - se la norma originaria è ancora applicabile nel giudizio in corso oppure se non lo è più. Ordinanze istruttorie Sono ordinanze che servono alla Corte ad acquisire notizie, documenti o quant'altro ritenga necessario per consentire la decisione relativa alla questione che le è stata sottoposta Secondo quanto previsto dall'art. 18, c. 1, legge n. 87 del 1953 la Corte giudica in via definitiva con sentenza mentre tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza. La prassi della Corte però è ormai decisamente orientata nel senso che anche alcune ordinanze possono concludere il giudizio in via definitiva (e cioè le ordinanze di manifesta infondatezza e le ordinanze di inammissibilità). Le sentenze Le sentenza della Corte possono essere di due tipi: • di rigetto; • di accoglimento. Le sentenze Le sentenze di rigetto Le sentenze di rigetto non consistono nella dichiarazione di legittimità della norma oggetto del giudizio, ma nel rigetto della questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio della Corte in via incidentale o in via principale. Con le sentenze di rigetto la Corte si limita quindi ad accertare l’insussistenza dei vizi denunziati nell’ordinanza di rimessione o nel ricorso. Da ciò discende che la sentenza di rigetto non ha valore erga omnes, ma solo inter partes, vincola cioè solo le parti e il giudice a quo. La questione non potrà quindi essere ripresentata negli stessi termini nell'ambito del medesimo giudizio. La sentenza di rigetto non vincola però né gli altri giudici, né le stesse parti del giudizio in corso, sia in un nuovo giudizio che in un grado diverso dello stesso giudizio, né, infine, la stessa Corte alla quale non è preclusa la possibilità, in un successivo giudizio, di dichiarare eventualmente l’incostituzionalità della legge precedentemente passata indenne al suo controllo. Le sentenze accoglimento Con le sentenze di accoglimento la Corte accoglie la questione sollevata innanzi ad essa in via incidentale o proposta in via principale, dichiarando la illegittimità costituzionale della disposizione o delle disposizioni sottoposte al suo giudizio. Le sentenze di accoglimento sono sentenze di annullamento. L'effetto di tali decisioni, che hanno valore erga omnes, cioè vincolano tutti i giudici, consiste nella definitiva eliminazione dall'ordinamento della norma che viene dichiarata incostituzionale. Eliminazione che avviene con effetti retroattivi, travolgendo quindi tutti i rapporti sorti medio tempore sulla base della norma successivamente dichiarata incostituzionale (con la sola esclusione dei rapporti chiusi, vedi scheda "antinomie normative". Un'eccezione alla regola dei rapporti chiusi è costituita, in materia penale, dalle sentenze di accoglimento che, dichiarando l'illegittimità di una norma penale, determinano un trattamento più favorevole per il reo rispetto a quello previsto dalla norma suddetta. In applicazione del principio del favor rei sancito dall'art. 25 c. 2, Cost., l'art. 30, c. 4 della legge n. 87 del 1953 dispone che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Quindi la sentenza passata in giudicato non costituisce più un limite all'efficacia retroattiva delle sentenze di accoglimento). Oltre alle sentenze di accoglimento e di rigetto la Corte costituzionale ha elaborato strumenti nuovi in particolare le cosiddette: Sentenze interpretative Le sentenze interpretative possono essere: • sentenze interpretative di rigetto; • sentenze interpretative di accoglimento Nel caso delle sentenze interpretative di rigetto la Corte rigetta la questione perché interpretando le disposizioni di legge sottoposte al suo giudizio (vedi interpretazione nella scheda sulle fonti), attribuisce ad esse un significato diverso da quello individuato nell’ordinanza del giudice a quo e cioè un significato conforme al dettato costituzionale. Il vantaggio di questo tipo di sentenze sta nel fatto che la Corte può evitare di intervenire annullando la disposizione sottoposta al suo giudizio. Le sentenze di rigetto non hanno però valore erga omnes e quindi i giudici non sono tenuti a seguire l'interpretazione che la Corte ritiene essere conforme al dettato costituzionale se non volontariamente. Nel caso delle sentenze interpretative di accoglimento invece la Corte accoglie la questione interpretando la disposizione nel senso della sua incostituzionalità. La sentenza interpretativa di accoglimento ha il vantaggio di lasciar vivere la disposizione unicamente nel senso che la Corte ritiene conforme a Costituzione. L’annullamento riguarda infatti solo quella determinata norma desumibile dalla formula legislativa che è stata giudicata costituzionalmente illegittima dalla Corte. Trattandosi di sentenza di accoglimento in questo caso tutti i giudici sono vincolati alla interpretazione della Corte costituzionale. Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo (art. 2 legge cost. n.1 del 1953; art. 33, c. 4 legge n. 352del 1970 Secondo quanto previsto dall'art. 2 della legge cost. n. 1 del 1953 spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Cost. siano ammissibili ai sensi del c. 2 dello stesso articolo. Secondo quanto previsto dal c. 2 dell'art. 75 il referendum non è ammesso per: • leggi tributarie; • leggi di bilancio; • leggi di amnistia e indulto; • leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. La Corte costituzionale nel giudizio sui primi due referendum (divorzio e aborto) si è in effetti limitata a verificare che l'oggetto del referendum non riguardasse nessuna delle materie espressamente escluse dal 2° c. dell'art. 75. A partire però dalla sentenza n. 16 del 1978 la Corte ha progressivamente ampliato il suo giudizio individuando una serie di limiti ulteriori. In particolare la Corte ha ritenuto che debbano essere sottratti dal referendum: 1) le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all'ambito di operatività delle leggi indicate dall'art. 75 che la preclusione debba ritenersi sottintesa (ad es. con le leggi tributarie e di bilancio si ritengono sottratte al referendum anche le leggi finanziarie; con le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali si ritiene debbano escludersi anche le leggi di esecuzione dei trattati e talora anche le relative leggi di attuazione); 2) la Costituzione e le leggi costituzionali per le quali la Costituzione prevede una disciplina particolare di modifica (art. 138 Cost.); 3) le leggi dotate di forza passiva peculiare (ad es. leggi di esecuzione del Concordato; leggi "su intesa" ex art. 8) in virtù del fatto che il referendum ha la forza tipica della legge ordinaria; 4) le leggi a contenuto normativo costituzionalmente vincolato; si tratta di quelle leggi il cui nucleo normativo non può venire alterato o privato di efficacia senza pregiudizio per i principi costituzionali o di quelle leggi costituzionalmente obbligatorie in quanto disciplinano il funzionamento di organi essenziali (con riferimento a quest'ultima categoria di leggi la Corte costituzionale ha ritenuto che le leggi elettorali possano essere sottoposte a referendum solo se esso riguarda singole disposizioni o parti della legge in maniera tale che la cosiddetta normativa di risulta, cioè la normativa che residua dall'eventuale abrogazione, assicuri comunque, senza necessità di una disciplina integrativa, lo svolgimento delle elezioni). 5) I quesiti referendari che non abbiano una matrice razionalmente unitaria, cioè i quesiti che non siano omogenei, coerenti ed intellegibili. Sono tali tutti i quesiti che non consentano all'elettore di esprime un'alternativa chiara tra il sì e il no, forzandone la volontà, e quindi la sua libertà di voto (ad es. la Corte ha ritenuto che non potessero essere sottoposti ad un unico referendum ben 97 articoli del Codice Penale). Nel dispositivo della sentenza la Corte dichiara ammissibile o inammissibile la richiesta.