Pentateuco e libri storici. Premessa

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Pentateuco e libri storici. Premessa
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Premessa allo studio dell’Antico Testamento
Una prima fondamentale considerazione che guiderà lo studio dell’AT è il contesto teologico
nel quale ciò avviene. L’AT fa parte della Bibbia, Parola Ispirata di Dio. Per noi entrano dunque in
gioco aspetti di natura strettamente teologica già affrontati nello studio di Introduzione generale alla
Sacra Scrittura (canone, ispirazione, verità...). A tale proposito converrà richiamare i testi del
Concilio Vaticano II che parlano dell’AT (i testi in grassetto verranno commentati durante le
lezioni):
Dei Verbum, cap. IV
La storia della salvezza nell'antico testamento
14. Nel suo grande amore Dio, progettando e preparando con sollecitudine la salvezza di tutto
il genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo, al quale confidare le promesse.
Infatti, una volta conclusa l'alleanza con Abramo (cf. Gen. 15, 18) e col popolo d'Israele per
mezzo di Mosè (cf. Es. 24, 8), egli si rivelò con parole ed azioni al popolo, che s'era acquistato,
come l'unico Dio vero e vivo, così che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli
uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore
profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza fra le genti (cf. Sal. 21,
28-29; 95, 1-3; Is. 2, 14; Ger. 3, 17). L'economia della salvezza preannunziata, narrata e
spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell'antico
testamento; perciò questi libri divinamente ispirati conservano valore perenne: "
Quanto infatti fu scritto, per nostro ammaestramento fu scritto, affinchè mediante quella
pazienza e quel conforto che vengono dalle scritture possiamo ottenere la speranza" (Rom.
15, 4).
Importanza dell'antico testamento per i cristiani
15. L'economia dell'antico testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare
profeticamente (cf. Lc. 24, 44; Gv. 5, 39; 1 Pt. 1, 10) e a significare con vari tipi (cf. 1 Cor. 10,
11) l'avvento di Cristo redentore dell'universo e del regno messianico. I libri poi dell'antico
testamento, secondo la condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza
instaurata da Cristo, manifestano a tutti la conoscenza di Dio e dell'uomo e il modo con cui Dio
giusto e misericordioso si comporta con gli uomini. I quali libri, sebbene contengano anche
cose imperfette e temporanee, dimostrano tuttaVia una vera pedagogia divina. Quindi i fedeli
devono ricevere con devozione questi libri, che esprimono un vivo senso di Dio, una sapienza
salutare per la vita dell'uomo e mirabili tesori di preghiere, nei quali infine è nascosto il
mistero della nostra salvezza.
Unita' dei due testamenti.
16. Dio, dunque, ispiratore e autore dei libri dell'uno e dell'altro testamento, ha
sapientemente disposto che il nuovo fosse nascosto nell'antico e l'antico diventasse
chiaro nel nuovo (2). Poichè, anche se Cristo ha fondato la nuova alleanza nel sangue suo (cf.
Lc. 22, 20; 1 Cor. 11, 25), tuttavia i libri dell'antico testamento, integralmente assunti
nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro completo significato nel
nuovo testamento (cf. Mt. 5, 17; Lc. 24, 27; Rom. 16, 25-26; 2 Cor. 3, 14-16), e a loro volta lo
illuminano e lo spiegano.
A questo punto si può fare una interessante riflessione sul senso che il cristianesimo in generale e la
DV in particolare danno all’AT come parte della Bibbia cristiana. Esso è introduzione, preistoria,
vestibolo... o cos’altro rispetto al NT? Affronta esplicitamente la problematica Erich Zenger, Il
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Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Queriniana, Brescia 1997 (orig. ted. 1991).
Quella di Zenger è una disamina ad ampio spettro della questione inerente i rapporti tra
cristianesimo ed ebraismo, a partire appunto dalla Bibbia comune a ebrei e cristiani, la cui
considerazione, è la tesi fondamentale dell’autore, può veramente offrire basi nuove al dialogo
ebraico-cristiano... In particolare l’autore osserva come nemmeno il Concilio Vaticano Il, per altri
aspetti così coraggioso e innovatore, abbia abbandonato la concezione classica cristiana della
funzione propedeutica, preparatoria dell’Antico rispetto al Nuovo Testamento... Il capitolo V del
suo libro si intitola L’Antico Testamento è soltanto «preistoria» e «preparazione» al Nuovo
Testamento? Sottolineando i termini che la DV utilizza per definire l’Antico Testamento in rapporto
al Nuovo (cosa che ho ripreso nel testo riportato sopra), l’autore rileva che i Padri conciliari non si
sono soffermati affatto a parlare dell’Antico Testamento né hanno proposto significative modifiche
ai testi proposti... (pp. 138s.) Eppure la Commissione costituita per regolare i rapporti con gli ebrei,
nello spirito della Nostra Aetate, in entrambe le pubblicazione del 1974 e 1985, esprime un
apprezzamento più positivo dell’Antico Testamento o Bibbia Ebraica, benché anche qui restino dei
cliché.
A mio avviso non tutte le tesi di Zenger possono essere seguite senza degli approfondimenti critici.
Ma un’affermazione è di stimolo per proseguire nella riflessione: inquadrare l’Antico e il Nuovo
Testamento nello schema di promessa-adempimento, tipo ed antitipo, ecc. significa non assumere
seriamente la stratificazione e molteplicità di figure presenti nell’Antico Testamento. Dovremo
convenire con quanto la lettera agli Ebrei sostiene fin dalle sue prime battute: «Dio, che aveva
parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, in questi giorni ha parlato a noi
per mezzo del Figlio...». Questo «in diversi modi » va preso sul serio, è un tesoro davvero prezioso.
La successione di Antico e Nuovo Testamento sprigiona i suoi contenuti proprio nella complessità e
pienezza con cui essi situano alla presenza di Dio le singole situazioni del nostro vivere...” (pp.
142s.).
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Il valore specifico (relazionale) del Tenak e dell’Antico Testamento
È il titolo di un capitolo (VII) del già citato volume di Zenger. Si tratta in sostanza di cogliere il
senso dato all’insieme dì quei libri letti da Ebrei e cristiani nelle rispettive tradizioni canoniche.
Cogliere cioè il significato generale dei due diversi tipi di lettura “riconoscendoli” come diversi, e
non come “opposti”.
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Il numero è di 24 libri (12x2!) in 4Esdra per il fatto che 1 e 2 Sarnuele, 1 e 2 Re, 1 e 2 Cronache,
Esdra e Neemia, i dodici profeti minori, sono conteggiati in un unico libro. La riduzione a 22 (come
le consonanti dell’alfabeto ebraico!) deriva dal fatto che Giudici e Ruth formano un solo libro, come
pure Geremia e Lamentazioni. Entrambi i numeri, 22 e 24 hanno evidentemente lo scopo di indicare
la perfezione, la compiutezza.
La tripartizione della Bibbia ebraica era conosciuta già dal II sec. a.C. e risponde anche al diverso
peso dato ai tre blocchi, con la Torah come parte fondamentale seguita dai profeti (letti a commento
della Torah nella liturgia sinagogale) e in ultimo gli scritti.
Una prima differenza che stupisce il lettore cristiano è nel trovare i libri da Giosuè a 2 Re tra i libri
profetici. Giosuè e Samuele vengono qualificati come profeti in Sir 46, 1.13.15; per quanto riguarda
i due libri dei Re, possono essere considerati profondamente profetici: il profeta Natan viene citato
prima di Davide ed Elia ed Eliseo sono celebrati come i grandi profeti del nord (Sir 48,l-16). Si
ricordino inoltre Achia di Silo (1Re 11,29-39; 14,12-18; 15,29); l’uomo di Dio che viene da Giuda
(1Re 13); Michea figlio di Imla (1Re 22); lsaia (2Re 19-20); la profetessa Culda (2Re 22, 14-20); la
profetessa Debora (Gdc 4). Questi profeti, che richiamano all’Alleanza con Dio vengono associati a
Mosè, il grande profeta(cf Dt 18,18; 34,10).
Si può tentare una comprensione della logica generale che sottostà all’organizzazione canonica
della Bibbia ebraica:
1. La Torah come fondamento e centro dell’esistenza ebraica.
Torah = Legge, ma non con le connotazioni negative che derivano dalla critica paolina alla Legge,
né da quanto evoca il termine nella cultura cristiana successiva. Si tratto originariamente delle
singole direttive impartite da un genitore (madre Pr 1,8; padre Pr 4, Is.), da un saggio (Pr 7,2) da un
profeta (Is 8,20), da un sacerdote (Ger 18,18) dal giurista (Dt 17,11)...
Insegnamento o scelta autoritativa in ordine ai problemi della vita. Ha dunque i significati di
“aiuto”, di “indicazione” per la riuscita della vita umana. Questo significato di tôrôt (plurale di
Torah), «viene poi applicato, dalla teologia Deuteronomista (a partire dal VII sec. a. C.) alle
tradizionii giuridiche, cultuali e narrative raccolte nel Deuteronomio e infine nel Pentateuco (Gn
1,1-Dt 34,9), dove «la Torah», cioè l”istruzione fondamentale che Dio ha impartito ad Israele
perché ad essa ispiri la sua esistenza”, si è venuta a sedimentare. Si tratta di un’unica direttiva in
tutta una serie di storie e precetti» (Zenger, op. cit., p. 190).
I cinque libri che compongono la Torah presentano insieme la Legge, nel senso sopra descritto e la
storia del cammino di Israele nel deserto. La successione, a grandi linee, è storia-legge-storia. come
risulta dalla rappresentazione che Zenger propone nel suo libro:
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Le corrispondenze appaiono senza dubbio significative anche se talvolta un po’ forzate. Rimane
tuttavia valida l’impostazione generale che nota nella Torah un’organizzazione concentrica in cui il
libro del Levitico, con le sue prescrizioni cultuali insieme a quelle di carattere sociale, costituisce il
centro della Torah. I cinque libri della Torah narrano la costituzione del popolo di Israele, popolo
dell’Alleanza.
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2. Legame tra Torah Nevi‛îm e Ketuvîm
La conclusione dell’ultimo libro profetico, Malachia, presenta la motivazione generale a cui deve
ispirarsi la lettura dei profeti: (3.22) Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sulI’Oreb,
statuti e norme per tutto Israele.
«I Profeti attualizzano” la Torah, mettono a nudo le deviazioni da essa, esortano a vivere in sintonia
con essa lungo le grandi strade della storia di Israele, promettono un tempo «messianico» in cui si
vivrà nella sua perfetta obbedienza e quindi anche nella felicità paradisiaca» (Zenger, op. cit., 194).
E l’invito di Malachia al termine dei Nevi‛îm richiama linizio di questa parte del Tenak:
Gs [1.7] «Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio
servo. Non deviare da essa né a destra nè a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. [1.81 Non si
allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi
è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo»
Vi è un collegamento importante anche con l’inizio della terza parte del Tenak, il libro dei salmi:
[1] Beato l’uomo
che non segue il consiglio degli empi,
non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stolti;
[2] ma si compiace della legge del Signore,
la sua legge medita giorno e notte.
Questo inizio del salmo 1, inizio dell’intero salterio, indica anche, programmaticamente, l’ideale
presentato dalla terza parte del Tenak, l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio, della sua
Legge, durante la vita, in tutte le circostanze.
3. La conclusione programmatica del Tenak
Diversamente dal canone cristiano, a chiudere la terza parte del Tenak e dunque l’intera
Bibbia, troviamo il secondo libro delle Cronache. Questo sia a motivo dell’epoca tardiva della
loro composizione, sia, sembra, per scelta. Il libro di Neemia, che logicamente andrebbe dopo
2Cronache, non avrebbe dato lo stesso senso conclusivo e programmatico, allo stesso tempo, al
Tenak:
1Cr 36,22
[22]Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il
Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: [23f«Dice
Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli
n tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!».
La composizione del testo nella sua redazione finale sembra sia da collocare alla fine del I sec. d.C.
quando ormai il Tempio di Gerusalemme non esiste più. Alimenta dunque la speranza che la storia
di Gerusalemme e del suo Tempio avrà un seguito. Si parla dunque di un nuovo esodo dall’esilio:
“YHWH il suo Dio sia con lui e salga” (verso Gerusalemme, volutamente messo in relazione al
salire” dall’Egitto verso Gerusalemme).
Il testo inoltre allude due volte ai profeti attraverso la citazione di Geremia, richiamando così le due
parti precedenti del Tenak, conferendo all’insieme della Bibbia ebraica uno specifico valore
relazionale, ad esso spettante a prescindere da ogni «intrusione» cristiana (Zenger, op. cit., p. 199).
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Il Pentateuco rimane punto di partenza come nel Tenak. I due punti focali sono l’amore di Dio e
l’amore del prossimo (cfr Mc 12,28-34), rivelazione fondamentale di Dio a Israele, destinata a tutti i
popoli. Si vede, nell’organizzazione generale dei Primo Testamento, la prevalenza della prospettiva
storica.
La parte II (Gs-2Mac) mostra Israele come modello di comunità che vive con la Torah.
La parte III (Gb-Sir) presenta innanzitutto lo spostamento di Giobbe prima dei Salmi; ciò dipende
dall’antichità attribuita al personaggio, ma forse anche dal fatto che Giobbe appare teologicamente
meno avanzato dei Salmi che partono dalla lamentazione per arrivare alla lode di Dio. Questa III
parte invita il singolo a cercare la sapienza vera prestando ascolto, nella preghiera e nella
meditazione, alla parola di Dio, alla Torah, il cui messaggio è destinato a tutti coloro che vi si
aprono.
La parte IV (Is-Ml) sviluppa una visione del mondo e della storia proiettata verso il futuro, al
compimento, quando tutte le genti affluiranno a Sion (cfr. Is 2,1-5) per partecipare del
rinnovamento radicale del mondo promesso a tutta la terra (a cominciare da Israele e attraverso di
esso!).
2. La conclusione programmatica del Primo Testamento: Ml 3,22-24
Abbiamo già citato il versetto 3,22 in relazione al Tenak; ma ecco cosa si aggiunge negli ultimi due
versetti del libro profetico:
[3.23] Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga
il giorno grande e terribile del Signore,
[3.241 perché converta il cuore dei padri verso i figli
e il cuore dei figli verso i padri;
così che io venendo non colpisca
il paese con lo sterminio.
Nel NT si all ude spesso a questo testo:
Mt 17,10-13 : A1lor i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve viire Elia?». Ed
egli rispose: <Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi,
l’hanno trattato come hanno voluto. Così che il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». Allora i discepoli
compresero che egli parlava di Giovanni il Battista.
Mc 9,11 ss.: E lo interrogarono: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Egli rispose loro: «Sì, prima
viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere
disprezzato. Orbene, io vi dico che Eliaè già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di
lui».
Lc 1,17 «Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli
alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popoio ben disposto».
L’Elia annunciato da Ml 3,23 è dunque Giovanni il Battista, colui che salda strettamente l’annuncio
del Messia Gesù Cristo con il Primo Testamento.
Due conseguenze:
1. Il Nuovo Testamento riceve la sua legittimazione «canonica»
2. Il Primo Testamento assume la funzione (relazionale) di introdurre alla sequela di Gesù, il
paradigma di vita vissuto con la Torah.
Si tratta della realizzazione di quel giorno dell’avvento del Regno annunciato dai profeti oppure ma
di vita in cammino, deciso, verso il giorno annunciato da Malachia 3 ,23.
In tal senso il NT rimane strettamente vincolato all’AT e, con esso, alla storia di Israele. «Ed è
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proprio la conclusione del libro di Malachia, quale passaggio al Nuovo Testamento, che mantiene
aperto il futuro di Dio, un futuro che Gesù Cristo non ha affatto “liquidato” ma piuttosto arricchito
di una dimensione di speranza ancora più ampia, per noi cristiani del tutto singolare, benché non
unica!» (Zenger, op. cit., p. 207).
3. LETTURA EBRAICA E LETTURA CRISTIANA DELL’AT
Sull ‘Argomento sono aumentati ultimamente contributi certamente molto interessanti. Di
particolare interesse è l’articolo di P.Rossi De Gasperis che fu presentato come conferenza nel 1987
poi pubblicato in AA.VV., Ebrei ed ebraismo nel Nuovo Testamento, vol.1, Roma 1989, 47-117 e
ultimamente nel bel volume dello stesso autore, Cominciano da Gerusalemme. La sorgente della
fede e dell’esistenza cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1997, 380-430. L’autore parte dalla sua
esperienza di lettura e comprensione del testo sulla terra e tra il popolo dell’Antico Testamento,
l’attuale
Israele.
«L’alterità del libro letto dai cristiani rispetto a quello letto dagli ebrei risiede nel fatto che per i
cristiani il lettore e l’esegeta ultimo e definitivo delle Scritture è il Cristo risorto di Lc 24,27-45;
l’Agnello immolato, l’unico che sia degno di dissigillare il rotolo e di leggerlo davanti di Dio (Ap
5); il Messia trasfigurato sul monte tra Mosè ed Elia...L’esegesi “messianica” che Gesù di Nazaret
fa di tutte le scritture di Israele riferendole alla sua persona e alla sua vicenda di Crocefisso-Risorto
(Lc 24,27) è, in modo irrinunciabile, definitiva per un cristiano (At 9, 22; 17,2-3; 18,28; 26,22-23;
ecc.). Essere cristiano, infatti, niente altro significa se non essere indissolubilmente coinvolto con
Gesù Cristo e con la sua esperienza mistica del Padre, fino a ricapitolarsi totalmente sotto il suo
nome («farsi battezzare nel nome di Gesù Cristo»: At 2,38) e farsene condizionare per sempre;
aderire incondizionatarnente all’autocoscienza e all’autocomprensione di Gesù, che ci è mediata
dalla testimonianza dei discepoli della chiesa delle origini. Così come essere ebreo credente
comporta sostanzialmente un’adesione alla coscienza e all’autocomprensione di Israele mediata
dalla testimonianza della tradizione mosaico-sinaitica e dalla Torah orale... .Gesù Cristo è il Logos
stesso, cioè il SENSO, di Dio definitivamente rivelato. Non ci si stupirà dunque del fatto che il
cristiano lo trovi e lo legga dappertutto, più o meno esplicitamente adombrato e intravisto, nel
discorso e nella grande vicenda della Bibbia. La lettura cristiana delle Scritture non può prescindere
dalla coscienza che Gesù ha avuto del fatto che Abramo esultò nella speranza di vedere il suo
giorno; lo vide e se ne rallegrò (Gv 8,56)...»
Le considerazioni di P. Rossi si fanno interessanti e, agli occhi del cristiano comune, nuove. Il
Nuovo Testamento, argomenta citando anche altri autori, si presentò in realtà quale ultima e
definitiva rilettura dellAntico Testamento, dunque indubitabilmente come rilettura EBRAICA (cfr.
At 26,6-7. 22-23. Cf Gv 5,39-47; At 2,22-23; 3,18.20; 26,6 ecc...). «In terntini di formgeschichte il
Nuovo Testamento può... essere descritto come un midrash o... un pesher, cioè un’interpretazione
dell’Antico Ttstamento fatto nei termini della vita e dell’attività di Gesù» (Rossi cita la recensione
R. Gordis al libro di J.Bowker, The Targums ami Rabhinic Literature: An Introduction to Jewish
Interpretation of Scripture, in : The C’atholic Biblical Quaterly, 33(1971) 99).
Ci si riferisce spesso, per la lettura cristiana dell’AT, alla “tipologia” come «antico procedimento,
interno al NT stesso, per leggere e interpretare l’Antico. In realtà si tratta di un metodo di
intelligenza della Nuova Alleanza sullo sfondo dell’Antica, che si avvale di riferimenti a questa, sia
generali, sia particolari. Un simile procedimento esegetico non poteva nascere e svi1upparsi,
ovviamente, se non in chiese giudeocristiane, nella terra di Israele o nella Diaspora ellenistica»
(Rossi, 386).La tipologia come metodo, non va fondata nel mondo greco ellenistico. Al di là dei
termini è un procedimento ampiamente conosciuto dal mondo ebraico stesso e interno già all’AT:
richiamare il passato per illuminare il presente, a livello storico come a livello personale-spirituale.
Ha a che fare con il memoriale.
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Vi sono due tendenze compresenti nella tradizione cristiana che caratterizzano l’uso della tipologia:
quello della sostituzione che il Nuovo Testamento e Gesù Cristo opererebbero verso l’Antico, e
quella della manifestazione piena, dove Gesù Cristo e il Nuovo Testamento non fanno scomparire,
sostituendola, l’Al1eaiza Antica, ma le conferiscono il loro pieno senso. Queste due tendenze, come
si diceva, sono compresenti nella stessa tradizione cristiana e talvolta nello stesso autore. Rossi
presenta una quantità di testi che illustrano questo duplice atteggiamento (cfr. pp. 396ss.). Taluni
vedono in questo duplice atteggiamento cristiano, una “dialettica cristiana” nel rapporto con
l’Antico Testamento (riferendo come esempio il racconto della trasfigurazione ed escludendone una
lettura marcatamente sostitutiva: dopo la visione di Mosè, Elia e Gesù, resta Gesù solo perché le
altre due presenze sono sorpassate ed inutili; oppure si propone una funzione sintetica di Gesù:
Gesù rimane solo perché si sintetizza in Lui il significato della presenza e della storia precedente
(Mosè ed Elia). Rossi commentando approcci del genere dice che «Nonostante l’austera grandezza
e bellezza della teologia dialettica, per esempio di un Karl Barth, a me sembrano preferibili certe
umili viste di Origene, quando ci invita ad ascoltare tutti gli accordi di Dio nelle Sante Scritture» (p.
400).
La contrapposizione Antico/Nuovo Testamento avviene spesso anche per una errata
contrapposizione tra senso letterale e senso spirituale, dove si ritiene che non vi può essere senso
spirituale se non leggendo l’Antico Testamento a partire dal Nuovo. L’Antico Testamento in sé,
senza la luce del Nuovo, sarebbe pura lettera. Così il passaggio dalla lettera allo Spirito
consisterebbe nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. Contro tale posizione si vedano i
Sussidi per una corretta presentazione dell’Ebraismo. «Per affermare legittimamente la
trascendenza unica del Nuovo Testamento come ultimo senso spirituale e insuperabile allegoria
dell’Antico, non è necessario, dunque, negare il senso già prossimamente spirituale del primo senso.
Ribadendo la radicale differenza delle due letture, quella ebraica e quella cristiana, riconoscendosi
reciprocamente, si può forse fare qualche passo avanti. Non si tratta solo di una rispettosa tolleranza
dell’altro.
Rinvio ulteriori approfondimenti allo studio del Documento della Pontificia Commissione Biblica,
pubblicato nel 2001 “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” cf.
CASTELLO G., Il popolo ebraico e le sue Scritture. Riflessioni sul documento della Pontificia
Commissione Biblica, in Asprenas 49(2002) 2, 215-224.
Un testo della tradizione rabbinica (Mishpatim 99a-99b)1 espone con grande chiarezza quale
debba essere il rapporto da stabilire con la Scrittura, se si vuole raggiungerne l’autentica conoscenza
che si ha solo per partecipazione d’amore:
La Torah rivela una parola che emerge un po’ dal suo velo e poi si nasconde di nuovo. Essa agisce così solo
con coloro che la conoscono e le obbediscono. La Torah assomiglia infatti a una bella e magnifica ragazza,
nascosta in una stanza recondita del suo palazzo. Ella ha un amore segreto, sconosciuto a tutti gli altri. Egli,
l’innamorato, per amore di lei scruta attentamente attraverso la grata della casa in ogni direzione, cercandola.
Lei sa che il suo innamorato insiste nel frequentare la grata della casa e che fa? Apre appena un poco la porta
della sua stanza remota e per un attimo rivela il suo volto all’amato, ma subito lo nasconde di nuovo. Chiunque
fosse così in compagnia dell’amato non potrebbe né vedere né percepire alcunché. L’innamorato solo la vede e
viene trascinato interiormente verso di lei con il cuore, con l’anima e con tutto l’essere, e capisce che per amore
di lui ella ha dischiuso per un momento se stessa, infiammata d’amore per lui.
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Cf. J. ABELSON (cur.), The Zohar, London – New York 1984, III, 301-302.
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Così è della parola della Torah che rivela se stessa soltanto ai suoi amanti. La Torah sa che chi è sapiente nel
cuore frequenta la sua casa. Cosa fa allora? Dall’interno del suo palazzo rivela a lui il suo volto e le sue bellezze,
ma poi ritorna in fretta nella sua stanza e si nasconde di nuovo. Coloro che sono presenti non vedono e non
comprendono nulla; soltanto lui la vede ed è attratto verso di lei con il cuore, con l’anima e con tutto il suo
essere. Così la Torah rivela e insieme nasconde se stessa ed è ebbra d’amore per l’amato, mentre eccita amore
dentro di lui. Vieni e vedi, questa è la via della Torah.
All’inizio, quand’essa vuole rivelare se stessa a qualcuno, offre solo un segno istantaneo; se egli non capisce,
essa insiste e lo manda a chiamare con un sottile suono di voce. Al messaggero mandato da lei, la Torah dice:
«Di’ a chi riesce a percepire questo bisbiglio, di venire qui, perché possa parlargli». Come sta scritto: «Chi è
semplice venga a me». Essa lo ha detto e vuole che egli capisca. Quando lui arriva da lei, essa comincia a
indirizzargli parole più chiare da dietro il velo, educandolo a capire. Finché molto lentamente viene concepita e
nasce da lui l’intuizione spirituale. Poi, attraverso un velo di luce, essa gli trasmette parole allegoriche. E
soltanto allora, quando lui è divenuto familiare con lei, gli rivela se stessa faccia a faccia e gli parla di tutti i
misteri nascosti e di tutte le strade da seguire, che essa aveva in cuore di dirgli fin dall’inizio.
Un uomo del genere è allora chiamato perfetto e maestro, che è come dire sposo della Torah nel senso più
intimo e stretto; è il padrone di casa cui essa apre tutti i segreti non nascondendogli nulla. E gli dice: «Vedi
adesso quanti misteri conteneva quel semplice segno che ti detti in quel primo giorno e quale era il suo vero
significato?». Allora egli capisce che a quelle parole non si può togliere o aggiungere nulla e comprende, per la
prima volta, il significato delle parole della Torah, come se fossero lì davanti a lui. Parole cui né una sillaba né
una lettera può essere aggiunta o sottratta.
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INTRODUZIONE ALLA TORAH/PENTATEUCO E LIBRI STORICI
Alla luce dello studio storico critico della Torah/Pentateuco (a cui si è fatto cenno nelle
lezioni introduttive), soprattutto in relazione alla storia della formazione del Pentateuco e delle sue
signole parti, nasce la tentazione di una rinuncia a tracciare quadri sull'insieme dei primi cinque
libri della Bibbia, che però nonostante le critiche, continuano a costituire nella tradizione ebraica e
in quella cristiana la Torah/Pentateuco.
Dal punto di vista della composizione letteraria, rinunciando al quadro elaborato
dall’aprofondimento della teoria documentaria, vi è un sostanziale accordo sulla generica distinzioni
tra testi sacerdotali (P) e testi non-sacerdotali (non P). Al di là di questa base più o meno accettata,
restano tra gli specialisti molte differenze nel determinare se i testi non-P siano precedenti a P
oppure possano anche essere testi successivi. Un altro problema riguarda i testi P e la redazione P: P
è il redattore del Pentateuco? Ci sono state delle fasi posteriori?
In relazione al materiale non P si è rilevato inoltre (cf. Romer) che probabilmente bisogna
rinunciare all’idea wellhausiana di una fonte J del Pentateuco e pensare piuttosto a diversi materiali
raccolti insieme solo nella fase della redazione. Prima di P insomma non esisteva un racconto
continuo che andava dalle origini all’ingresso nella Terra, ma diverse tradizioni che spiegavano in
maniera differente le origini di Israele. Dunque non racconti unitari poi fusi insieme, ma piuttosto
diversi racconti (frammenti) uniti solo nella fase redazionale. Così si riconosce (cf. De Pury) un
mito autonomo sulle origini di Israele nel racconto di Giacobbe (Gn 25-36) che avrebbe spiegato la
presenza di Israele in Canaan descrivendo la storia degli antenati in maniera diversa dalla tradizione
dell’Esodo che avrebbe costituito un altro mito delle origini di Israele, ricorrendo al mito dell’uscita
dall’Egitto. Non si può tuttavia escludere che vi siano stati dei contatti e delle contaminazioni tra i
due racconti originari, quello genealogico dei patriarchi e quello vocazionale della chiamata ad
uscire dall’Egitto di tipo profetico-deuteronomistico.
Il Pentateuco, così come si trova nell'insieme dei libri biblici, rappresenta senza dubbio
l'antefatto essenziale, la storia costitutiva del popolo di Israele e della sua fede, non solo all'interno
del corpo del cosiddetto Primo Testamento, ma anche per l'insieme degli scritti del Nuovo
Testamento. Tale ruolo conserva anche nella successiva tradizione sia giudaica che cristiana,
benchè con diverse accentuazioni dipendenti dai diversi approcci esegetici, teologici, spirituali con
il quale veniva letto e commentato nella sinagoga o nella chiesa.
Corpo fondamentale, dunque, innanzitutto per un aspetto che definirei di tipo storico: è il
Pentateuco che descrive l'origine di Israele. Sia o non la descrizione dell'origine storica, o quanto sia
vicino o distante dalla verità che solo attraverso dati storiografici certi, operazione considerata da
molti impossibile, potrebbe essere accertata. È in ogni modo la narrazione di eventi che descrivono
l'origine di Israele come popolo dal punto di vista essenzialmente religioso. Nè fattori politici, nè
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sociali vengono considerati come determinanti, bensì la chiamata di Dio, che si manifesta come
YHWH, la risposta di Israele, il patto, la legge.
Tutto ciò attraverso delle idee portanti, che diventano fondamentali nella religione di Israele e
nel modo col quale Israele descrive la sua origine, descrivendo nel contempo la sua natura e
identità: l'autopercezione di Israele come popolo e le linee fondamentali, per così dire la carta
costitutiva, della propria identità.
Resta difficile determinare se questa composizione unitaria fu occasionata, nella sua
sistemazione finale, da preoccupazioni soprattutto interne (per es. la legittimazione di un potere
regale, fondato sulle promesse antiche....) ovvero esterne (la possibilità di presentarsi "con le carte a
posto" di fronte per es. ai persiani, per essere riconosciuti nella propria indipendenza e godere dello
statuto di popolo con una propria identità da rispettare).
Nell'ambito di questa storia sacra e nazionale che spega le origini di Israle come popolo,
distinguiamo certamente alcune unità maggiori, sia attraverso l'oggetto delle descrizioni delle
diverse parti del Pentateuco, sia per i loro generi letterari.
1 Gen 1-11 La storia delle origini
Così possiamo enucleare nei primi 11 capitoli, una storia che è evidentemente tesa ad
inquadrare l'origine del popolo in un contesto molto più ampio e, allo stesso tempo, l'occasione per
affrontare alcune questioni che potremmo definire fondamentali per l'uomo di ogni tempo e di ogni
luogo, questioni che hanno a che fare con la sapienza antica e i tentativi di tipo mitologico di
spiegare le grandi questioni dell'uomo (il male, la sofferenza, la violenza, la morte, la differenza tra
gli uomini). Non è estranea tuttavia a questa prima unità del Pentateuco, la preoccupazione di
mostrare il collegamento intrinseco tra Israele e il creatore del mondo: colui che ha eletto Israele
come suo popolo, anzi che lo ha costituito tale, è anche il creatore del cosmo e dell'uomo, a Lui
tutto, dunque è sottoposto. Viene da più parti ribadito (SKA, RENDTORFF...), che non vi sono veri
e propri collegamenti interni tra Gn 1-11 e il seguito della storia patriarcale o di quella esodica. E
tuttavia l'apertura del Pentateuco con Gn 1-11 ha un significato a livello di disegno totale, di
architettura complessiva del Pentateuco. Il racconto di Gen 1-11 si preoccupa infatti di mostrare,
attraverso raccordi tra le diverse generazioni a partire dalla coppia originaria, come si giunga ad
Abramo e alla sua famiglia. È a tale scopo che si riportano le genealogie che certo tendono alla
descrizione di un quadro ampio, che non considera solo Israele ma spiega la nascita dei popoli (cfr
tavola dei popoli), ma certamente tutto questo viene fatto a partire da un interesse non di tipo
generico, culturale, con un tipo di domanda che ci poniamo nell'ambito delle scienze moderne,
piuttosto con una visuale che parte, nell'interesse di chi scrive, dal particolare per osservare
l'universale e dare spiegazioni delle connessioni tra il particolare e l'universale. È questa la funzione
delle genealogie, delle toledot di origine sacerdotale.
Alcuni concetti di particolare importanza che emergono dalla prima unità si ritroveranno
anche in altre parti degli scritti sacri e possono suggerire dei collegamenti a temi che, per così dire,
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fuoriescono dai confine di una narrazione delle origini e che ne giustificano pure il significato. Sono
in particolare due momenti della storia delle origini che si differenziano dal resto della narrazione
per non essere collegati a fatti e personaggi di cui si raccontano le vicende (Adamo, Caino, Noè...):
il cap. 1, la creazione e il cap. 9, l'Alleanza noachica. Il fallimento del progetto originario di Dio
sull'uomo con il suo progressivo allontanamento dalla condizione dell'origine (dalla trasgressione di
Adamo ed Eva a quella di Caino, alla generazione perversa di Noè). A sua volta la presentazione
del fallimento del progetto originario, porta con sè la necessità divina di una prima alleanza, quella
noachica, che è unilaterale, fondata sulla constatazione che l'uomo è così e che la sua conservazione
nell'esistenza non potrà derivare dal suo atteggiamento verso la vita, il mondo, Dio, ma solo
dall'unilaterale scelta di Dio di non distruggere più come nel diluvio, di non arrivare cioè a trarre le
conclusioni estreme dal comportamento umano. Questo genere di alleanza è caratteristica di quella
che tradizionalmente viene definita la tradizione sacerdotale e che si differenzia da quella
deuteronomista per essere quest'ultima di tipo bilaterale: Dio sarà fedele al suo popolo che dovrà
però mantenersi fedele al suo Dio.
Se una tematica generale, a livello teologico, deve essere riconosciuta in Gn 1-11 è proprio
questa del passaggio dalla creazione all'Alleanza che può essere percepito come il messaggio
fondamentale di Gn 1-11 anche rispetto a quanto segue con la storia di Abramo (Gn 12,1-3).
L’importanza del racconto delle origini sotto il profilo teologico è certamente particolare per
il ruolo che ha assunto nella concezione cosmologica (la creazione e la creazione dal nulla) ma
anche per la dottrina del peccato originale. Altre prospettive si sono dischiuse più recentemente a
partire dalle questioni ecologiche e al richiamo a un’etica della responsabilità. Così pure temi che
hanno a che fare con il senso del lavoro/riposo nella vita umana (shabbat). Dunque lo studio di
questi capitoli andrà affrontato con particolare attenzione.
Cosa dire della composizione letteraria? Osserveremo spesso dei segni di cesura tra i capitoli
e all’interno della stessa narrazione, proprio quei segni che sono stati colti sin da tempi antichi per
ipotizzare un lavoro di composizione letterariamente complesso. Allo stato attuale, come si diceva
si distingue in particolare tra un complesso letterario P e uno non-P (resta da stabilire se precedente
o posteriore a P).
2. Gen 12-50
Tutto ciò, in ordine logico, fonda la chiamata di Abramo e l'inizio di una storia nuova, in cui
l'uomo, un uomo questa volta determinato, accetti di camminare secondo Dio. Ciò che gli viene
chiesto è un atto di fiducia fondamentale che dovrà superare non solo il comportamento istintivo di
cui è dotato ma che non può servire per vivere responsabilmente il rapporto con Dio, con l'altro
uomo e con la natura.
Ha inizio così il secondo blocco, la seconda unità che costituisce il Pentateuco, la storia dei
patriarchi. Anch'essa può essere considerata come premessa a ciò che segue. La chiamata cioè di
Israele a essere il popolo di Dio, ha un'origine lontana, il cui ricordo si collega a personaggi che
precedono lo stesso Mosè, il grande legislatore e Padre di Israele. È fondato in una storia che anche
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questa volta, con grande evidenza, può essere letta come la preistoria di Israele nella quale
emergono figure piuttosto tipiche, atteggiamenti fondamentali dell'uomo di fronte a Dio, ereditati da
Israele come popolo e dal singolo uomo di fede. Si tratta di figure metastoriche, collegate
secondariamente da successioni genealogiche per la preoccupazione costante degli autori di
mostrare il legame tra tali storie e l'attuale popolo. Ma il rilievo di questi personaggi conduce a
valicare i confini della descrizione della storia antica di Israele per leggere in quelle figure dei veri e
propri proto-tipi dell'uomo di fede in rapporto a YHWH (come del resto hanno fatto le tradizioni
religiose giudaica, cristiana ed islamica).
Qui emergono concetti di importanza particolare per la concezione della fede biblica:
l'alleanza, tra Dio ed Abramo e con i Patriarchi. Le promesse: la terra e il popolo. Fondamentale,
come si diceva, il rapporti di fiducia, qui un dato essenziale per la comprensione della fede biblica:
un rapporto personale tra l'uomo biblico e Dio, che può giungere fino alla richiesta più assurda, alla
prova più ardua: l'immolazione del figlio (Gen 22).
All'interno di questo blocco, caratterizzato dalla narrazione di storie prevalentemente
familiari, in cui compaiono i padri e le madri di Israle nella loro funzione costitutiva di tipi della
fede, si distingue l'ultima parte, relativa alla vicenda di Giuseppe (Gen 37-50) che può essere
considerata una narrazione ponte fra la storia patriarcale e l'origine di Israele come popolo. Il
racconto fornisce infatti la spiegazione di come Israele sia giunto in Canaan dall'esterno, di come
possano esistere tensioni tra la fede di Israele e gli usi e costumi di Canaan.
Segue un blocco ben più grande che bisognerà distinguere in parti che evidentemento lo
costituiscono. Si tratta della storia esodica, che di per sé occupa la parte più consistente del
Pentateuco Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Si comprende dunque come l'intero libro
della Genesi possa essere considerato la grande premessa a quanto Israle si è trovato a vivere come
origine della sua storia. Una origine che rappresenta la carta costituitiva di Israle nel suo rapporto
con YHWH e nella sua stessa identità verso l'interno e verso l'esterno. La vicenda esodica, a sua
volta, può essere infatti considerata come la premessa al resto della Bibbia. In tale vicenda si
distinguono innanzitutto i due generi maggiori: la descrizione narrativa dei fatti e la legislazione. Si
possono distinguere dei blocchi maggiori: ad una prima oservazione, infatti, la parte centrale di
questa narrazione è quella legislativa che comprende parte di Es, l'intero libro del Levitico e parte
del libro dei Numeri. Ma altre parti legislative sono disseminate nel corpo della narrazione. Senza
dubbio ci troviamo di fronte a quella autopresentazione, interna ed esterna di Israele, che fornisce il
suo statuto giuridico inquadrato dentro ad eventi costitutivi che ne offrono le motivazioni profonde.
YHWH ha cioè un diritto su Israele. Intanto Israele esiste come popolo perchè YHWH lo ha
condotto fuori dall'Egitto, nonostante le sue resistenze e i suoi tentennamenti. Il legame, del resto è
di tipo formale. Tra YHWH e Israle esiste un'Alleanza che Dio ha proposto a Israele, chiamato ad
accettarla o a rifiutarla non a contrattarla. Ancora una volta, come nella storia patriarcale, tale
Alleanza garantisce delle promesse, vivere come popolo nella terra promessa, in cui scorre latte e
miele. La libertà ha un prezzo, l'osservanza fedele della Legge. Ad una lettura più profonda degli
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eventi non sfggge, considerando il quadro generale del Pentateuco, che tale Alleanza, l'obbligo a
rispettare leggi e decreti, è presentato come la possibilità di vivere una condizione di relazione con
Dio e di regolamentazione della vita (con gli altri dentro Israele, con i popoli diversi, con la natura),
che non conduca anche Isaraele alla condizione di idolatria, di lontananza dal Dio della creazione
come la coppia Adamo-Eva condannati a vagare fuori dell'Eden allo stesso modo di Caino e in
sostanza dei popoli dispersi dopo Babele.
Così presentato, dunque, a partire da una semplice rapida osservazione dei testi nella loro
autoevidenza, si può leggere, dopo che la stessa operazione è stata fatta per le singole unità, come
introduzione alla storia successiva della monarchia (la storia deuteronomistica), e in generale alla
storia dell'Israele Biblico. Il Pentateuco è la Legge costitutiva, la carta fondamentale che consente al
popolo di ritrovare la sua identità nei momenti in cui la smarrisce, di presentarsi come vero popolo
dinnanzi alle autorità straniere, spesso conquistatrici.
Abbiamo identificato così alcune unità che costituiscono, secondo Von Rad e lo stesso
Rendtorff, con qualche differenza, le unità fondamentali che costituiscono il Pentateuco: la storia
delle origni, la storia patriarcale, la storia dell'Esodo (uscita), la legislazione del Sinai. Von Rad, che
considera la necessità di unire al Pentateuco il libro di Giosuè, descrive una quinta unità tradizionale
che costituì il materiale di partenza per la redazione di questa storia: la conquista.
Nasce una domanda spontanea: si può pensare, come sembra suggersicano alcuni studiosi, che
queste unità fossero pure i punti di partenza per la redazione del Pentateuco? Questo cambierebbe
totalmente la prospettiva della cosiddetta teoria dei documenti paralleli che immagina il processo in
maniera diversa, a partire da documenti continui che attraversano ciascuno l'intero Pentateuco?
I “libri storici”
Al Pentateuco, nella sua sistemazione finale, si agganciano, uno dopo l'altro i libri storici,
che descrivono l'ingresso delle tribù di Israele nella Terra ad opera di Giosuè, fatto narrato
dall'omonimo libro; il libro dei Giudici, che descrive la prima fase di permanenza di Israele nella
Terra Promessa, con il governo dei giudici, personaggi carismatici inviati da YHWH stesso a
governare le tribù e spesso a trarle fuori dai problemi in cui cadono quando abbandonano il loro
Dio; i due libri di Samuele e i due libri dei Re: questa parte descrive, in maniera storiograficamente
problematica, la nascita della monarchia in Israele con Saul, il primo re, unto dal profeta Samuele
ed infine respinto dal Signore (1Sam 8-15); l'unzione e l'ascesa di Davide, che governerà per
quarant'anni su Israele (1Sam 16-1Re2); la successione di Salomone e il suo regno (1Re3-11); lo
scisma politico e la narrazione dei regni del nord e del sud fno alla loro caduta (1Re12-2Re25).
Tutta questa storia, dall'ingresso nella Terra alla caduta di Gerusalemme, che copre un ampio
tratto della tradizionale storia di Israele, dal XIII al VI sec. a.C., prende il nome di storia
deuteronomista, essendo ispirata al principio di fedeltà all'Alleanza così come viene presentata nel
libro del Deuteronomio.
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La vicenda storica verrà ancora narrata dai libri delle Cronache (da Adamo alla caduta della
monarchia) e da Esdra e Neemia, che descrivono il periodo successivo al rientro in patria degli esuli
in Babilonia con la rinascita e i problemi nuovi che Israele dovrà affrontare.
I due libri dei Maccabei, che non rientrano nel canone ebraico, si riferiscono alle vicende
legate alla resistenza dei fratelli Maccabei contro il dominio Seleucida nel II sec. a.C.
Questa presentazione in successione dei libri e dlla storia di Israele, riflettono la maniera
tradizionale cristiana di considerare la narrazione biblica sostanzialmente presentata come storia del
popolo eletto. Essi vengono dunque letti soprattutto con un interesse per dire così storico. È questa
la categoria principale e per questo vengono considerati nella loro continuità storica.
Non proprio così nella tradizione giudaica. Già all'interno della Bibbia, non appena, per
esempio, iniziamo a leggere il libro di Giosuè, e poi dei Giudici, ci rendiamo conto che il costante
richiamo che viene fatto da YHWH ai capi di Israele e in generale al popolo è alla Legge di Mosè;
non tanto ai fatti narrati nei primi cinque libri, ma ai primi cinque libri come Legge fondamentale a
cui Israele deve costantemente riferirsi:
[1.1] Dopo la morte di Mosè, servo del Signore, il Signore disse a Giosuè, figlio di Nun, servo di
Mosè: [1.2] «Mosè mio servo è morto; orsù, attraversa questo Giordano tu e tutto questo popolo,
verso il paese che io do loro, agli Israeliti. [1.3] Ogni luogo che calcherà la pianta dei vostri piedi,
ve l’ho assegnato, come ho promesso a Mosè. [1.4] Dal deserto e dal Libano fino al fiume grande, il
fiume Eufrate, tutto il paese degli Hittiti, fino al Mar Mediterraneo, dove tramonta il sole: tali
saranno i vostri confini. [1.5] Nessuno potrà resistere a te per tutti i giorni della tua vita; come sono
stato con Mosè, così sarò con te; non ti lascerò né ti abbandonerò. [1.6] Sii coraggioso e forte,
poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare
loro. [1.7] Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha
prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia
successo in qualunque tua impresa. [1.8] Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa
legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché
allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. [1.9] Non ti ho io comandato: Sii
forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio,
dovunque tu vada».