Approfondimento. Eredità dell`imperialismo: le guerre

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Approfondimento. Eredità dell`imperialismo: le guerre
Hutu contro Tutsi: le radici del conflitto in Ruanda
In occasione dell’anniversario del
genocidio in Ruanda, che ha provocato
più di 500 mila morti tra l’aprile e il luglio
del 1994, pubblichiamo un estratto di un
articolo tratto da Limes 3/97 “Africa!“
di Angelo Milanese
La profonda crisi che ha funestato negli
ultimi quattro anni l’area africana dei
Grandi Laghi ha aggiunto al lessico
giornalistico alcuni vocaboli fino a poco
tempo fa quasi sconosciuti.
È questo il caso di due parole, «hutu» e
«tutsi», con le quali normalmente si
indicano i due gruppi etnici che
costituiscono la quasi totalità della
popolazione del Ruanda e del Burundi.
Gli hutu rappresentano circa l’85% della
popolazione, i tutsi solo il 14% (1). Questi
dati, se letti superficialmente, sembrano
sufficienti a riassumere la radice di un
conflitto i cui tragici risultati sono passati sugli schermi televisivi di tutto il mondo in occasione del terribile genocidio
ruandese. In verità più ci si addentra nell’intricato quadro etnico e politico della regione dei Grandi Laghi, più qualsiasi
semplificazione appare inadeguata e strumentale.
Come è stato giustamente osservato «i conflitti in Africa sono spesso presentati come guerre tra una tribù che domina
il governo e un’altra che se ne sente esclusa. In realtà, in Africa come altrove, i conflitti sono complessi e possono
risultare anche incomprensibili per i non-iniziati» (2). Per mettere a fuoco la situazione dei due paesi che sono al
centro del problema etnico hutu-tutsi, cioè Ruanda e Burundi, è necessario scorrere velocemente le loro vicende,
poiché l’attuale conflitto non può essere capito se non mettendo in luce le tensioni e i problemi irrisolti che hanno
accompagnato la storia di questi due paesi africani.
Uno dei paradossi della crisi interna di Ruanda e Burundi è che essi, come pochi altri paesi in Africa, esistono come
agglomerati etnico-politici da almeno tre- quattro secoli. Hutu e tutsi non si sono trovati a vivere insieme
casualmente, ingabbiati dalle frontiere artificiali decise alla Conferenza di Berlino del 1885: vivevano già insieme in
società feudali dalla struttura sofisticata osservate con una certa sorpresa dai primi visitatori europei giunti nella
regione.
Chi scrive la storia?
La storia del Ruanda e del Burundi (o Urundi, come veniva chiamato fino al 1962) prima dell’arrivo delle spedizioni
europee è quella di due regni feudali dalla struttura simile ma con importanti differenze, consolidatisi con un lungo
processo.
In Ruanda, a partire dal XVI secolo, si era costituito un regno dalla struttura molto centralizzata, basato su una rigida
divisione di ruoli tra gli allevatori-guerrieri tutsi e i coltivatori hutu. Una terza etnia, i pigmei twa, estremamente
minoritaria, era relegata in una posizione di grande marginalità. Il sovrano era un tutsi ed esercitava un potere
effettivo su una classe di capi, anche loro della stessa etnia.
Lingua, religione, tradizioni erano le stesse per gli hutu come per i tutsi. Senza grandi centri abitati, il Ruanda era un
paese di agricoltori e allevatori, in cui l’unità amministrativa era la collina, non il villaggio. Il Nord era particolare:
governato dagli hutu, per lungo tempo non volle sottomettersi alla struttura feudale del resto del paese, e ha sempre
conservato un senso forte della propria diversità. Il Burundi, pur essendo simile al Ruanda per composizione della
popolazione e divisione dei ruoli tra hutu e tutsi, presenta però alcune anomalie. Innanzi tutto la sua struttura feudale
si caratterizzava per l’esistenza di una classe nobile ritenuta «neutra», cioè né hutu né tutsi, i cosiddetti ganwa, che si
mostravano assai riluttanti a concedere un ruolo preponderante al sovrano. Il regno dell’Urundi, formatosi a partire
dal XVII secolo, non ha mai raggiunto il livello di centralizzazione ruandese, ed è rimasto fino alla fine un insieme di
principati locali restii ad accettare l’intromissione del sovrano nelle loro vicende e orgogliosi della propria autonomia.
La divisione dei ruoli sociali in Burundi è sempre stata abbastanza aperta al cambiamento, con la possibilità, per un
hutu di rilievo, di essere ammesso a far parte dell’aristocrazia ricoprendo posti di responsabilità. Frequenti erano
anche i matrimoni misti.
I regni del Ruanda e dell’Urundi caddero, dopo la Conferenza di Berlino, sotto la sfera di influenza tedesca, con
conseguenti spedizioni e tentativi di penetrazione. I risultati furono estremamente diversi per i due regni. In Ruanda il
sovrano scelse, alla fine, di collaborare ufficialmente con i colonizzatori, anche se si sviluppava una sotterranea
resistenza passiva mascherata dietro un’apparente sottomissione. In Burundi vi fu, invece, una lunga serie di scontri e
violenze a cui gli occupanti tedeschi risposero con campagne militari estremamente dure. Caduti in mano belga
durante la prima guerra mondiale, Ruanda e Urundi saranno poi affidati al Belgio stesso con un mandato della Società
delle Nazioni.
La stagione del colonialismo belga è quella che più ha influenzato i successivi sviluppi politici del Ruanda e del Burundi.
Inizialmente i belgi non sembrarono molto interessati allo sviluppo di questi due piccoli regni, assorbiti come erano
dall’amministrazione e dallo sfruttamento dell’enorme territorio congolese. Gli amministratori ritennero comunque
utile mantenere la struttura politica esistente nei due paesi, in una versione tutta particolare dell’indirect rule
britannico. I belgi infatti non delegarono mai fino in fondo una parte del governo locale ai capi tradizionali: ogni
provvedimento di questi ultimi doveva essere ratificato dall’amministrazione coloniale. L’aristocrazia locale tutsi poté
comunque godere di un appoggio notevole per accrescere il proprio peso economico e politico, essendo stata scelta
come perfetta alleata della struttura coloniale. I belgi iniziarono a studiare le due etnie da un punto di vista etnicorazziale, sulla scia delle concezioni scientifiche dell’epoca. Questi studi e teorie avranno, in seguito, un’enorme
influenza sulle categorie mentali e politiche degli hutu e dei tutsi.
Si fece largo l’idea che i tutsi fossero una popolazione con una distinta origine razziale dagli hutu: questi ultimi
vennero definiti di gruppo bantu, mentre i tutsi, agli occhi degli studiosi del tempo, erano di origine ben diversa. Si
elaborò la teoria, da alcuni definita mitica (3), dell’origine hamitica dei tutsi, secondo la quale questi sarebbero giunti
in Ruanda e Burundi discendendo con le loro mandrie il corso del Nilo, probabilmente dall’Etiopia, e sottomettendo al
loro arrivo le popolazioni hutu di agricoltori. L’impossibilità di stabilire caratteristiche somatiche chiaramente distinte
tra hutu e tutsi fu attribuita alla difficoltà di trovare elementi tutsi «non mescolati». Queste ipotesi, quantomeno
arbitrarie, vennero avallate da numerosi studiosi, che si affannarono a provare la «diversità» dei tutsi, sia razziale che
culturale e comportamentale. I tutsi sono sempre più visti come «falsi negri» (4). I tutsi sono quindi descritti dai
colonizzatori come i capi naturali, con un grande talento politico, abili nel nascondere il proprio pensiero, alteri, con
un’educazione tesa all’acquisizione di un grande autocontrollo dei sentimenti. Viceversa gli hutu vengono dipinti come
una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata, agricoltori senza grandi ambizioni, sinceri e spontanei
in modo infantile e facili al riso e alle esplosioni incontrollate. I pigmei twa, piccola minoranza, sono i più disprezzati
(5).
La “rivoluzione sociale ruandese”: l’indipendenza parte male
La crescita dei movimenti africani indipendentisti rimette in discussione gli equilibri e le alleanze nella regione. La
classe dirigente tutsi che, seppure con dei limiti, aveva avuto accesso all’istruzione, partecipa al fermento politico delle
élite africane del tempo, e inizia a rivendicare il diritto all’autodeterminazione. Le dinamiche che si mettono in atto
sono alla radice di gran parte dei drammi attuali dei due paesi. Un elemento chiave della situazione del Ruanda-Urundi
è intanto mutato. Dopo la seconda guerra mondiale molti missionari cattolici giungono nei due paesi per promuovere
un’opera di educazione rivolta a quella grande maggioranza della popolazione che fino ad ora ne è rimasta ai margini.
Il primo slancio di evangelizzazione, infatti, aveva toccato prevalentemente i capi tradizionali tutsi, che compresero
molto in fretta il valore e l’importanza dell’istruzione che potevano ricevere. Ora i missionari cattolici sono sempre più
a contatto con i contadini hutu, e si sentono partecipi della loro situazione di esclusi e discriminati – anche
dall’amministrazione coloniale – all’interno del loro paese. È possibile che a ciò si sia aggiunto anche qualche
meccanismo di identificazione da parte del clero belga, davanti a una situazione che poteva ricordare le secolari
contrapposizioni di casa propria, tra fiamminghi e valloni (6). Anche qui però ogni paese segue un suo itinerario: in
Ruanda l’impegno politico della Chiesa cattolica è molto più marcato che in Burundi, tanto che alcuni centri diocesani
diventano veri e propri cenacoli del nascente fermento politico degli hutu, favorendo contatti con gli ambienti
democristiani belgi.
Dal 1959 fino all’indipendenza, il Ruanda vive uno dei periodi più travagliati della sua storia, la cosiddetta «rivoluzione
sociale», durante la quale gran parte dei tutsi è costretta all’esilio o uccisa negli scontri etnici che insanguinano il
paese. La rivolta degli hutu assume inizialmente i caratteri di una vera e propria jacquerie contadina: si attaccano
alcuni dei più odiati feudatari tutsi, ma lo si fa in nome del «re buono» tutsi, senza rimettere in discussione la struttura
monarchica della società (7). In un secondo tempo la situazione si complica: gruppi di tutsi organizzano azioni armate
di disturbo, nel tentativo di reagire e conquistare uno spazio contro l’aperta ostilità dell’amministrazione belga. Al
quadro si deve aggiungere la grande perplessità degli osservatori delle Nazioni Unite davanti alla fretta sospetta con la
quale i belgi organizzano le prime elezioni democratiche e il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, in un
clima certo non adatto a serene campagne elettorali. Il risultato finale è la schiacciante vittoria del Parmehutu, la
decadenza della monarchia con l’esilio del re e crescenti incursioni di gruppi armati di tutsi partire dal Burundi e dalla
Tanzania. Nasce la cosiddetta diaspora tutsi, in Uganda, Tanzania, Zaire (dove alcuni si uniranno all’allora giovane
Kabila – attuale presidente della Repubblica democratica del Congo – e al suo movimento di guerriglia antiimperialista) (8). Per molti anni incursioni armate tutsi, a partire dai paesi vicini, provocano le violente reazioni degli
hutu sui tutsi rimasti ancora in Ruanda, con decine di migliaia di vittime. Durante uno dei tanti raid hutu, un bambino
tutsi di quattro anni è costretto a scappare con la sua famiglia: il nome di quel bambino è Paul Kagame, oggi
vicepresidente e uomo forte del Ruanda, tornato nel suo paese dopo 33 anni (9).
La «rivoluzione sociale» ruandese ha un’influenza estremamente negativa in Burundi. Fino alla soglia
dell’indipendenza, infatti, il quadro politico burundese è meglio impostato. Sotto la guida di un illuminato principe
tutsi, Louis Rwagasore, nasce il partito Uprona (Unione per il progresso nazionale), che raccoglie esponenti politici di
tutte le etnie, in nome di un patriottismo anticolonialista. Nascono importanti legami con il partito Tanu di Mwalimu
Nyerere, in Tanzania, che sostiene i primi passi del neonato movimento politico burundese. L’amministrazione belga
anche qui si mostra preoccupata di trovare delle formule politiche che possano garantire una continuità nei rapporti
economici e politici con l’ex potenza coloniale, e di conseguenza non nasconde il suo fastidio per il messaggio
indipendentista dell’Uprona. I tentativi belgi di fare sentire la propria influenza contribuiscono a fare crescere nel
partito Uprona un clima di sospetto tra hutu e tutsi. L’appoggio belga agli hutu ruandesi durante la rivoluzione sociale
suscita nei tutsi burundesi il dubbio di una loro esclusione con il pieno appoggio hutu. A fare precipitare le cose è
l’assassinio di Ruagasore, il 13 ottobre 1961; si crea un vuoto che scatena contrasti fortissimi tra gli hutu e i tutsi
membri dell’Uprona. Pochi mesi dopo Ruanda e Burundi raggiungono l’indipendenza, il 1° luglio 1962.
Molte nuvole sono all’orizzonte. In Burundi, nel 1965, dopo crescenti contrasti interni, un gruppo di leader hutu tenta
un colpo di Stato: è la fine del confronto politico e l’inizio dello scontro armato. Vengono arrestati e condannati alla
pena capitale tutti i dirigenti hutu più popolari, tra cui molti membri fondatori dell’Uprona. Il Burundi scivola così
verso lo scontro etnico. In Ruanda è già in corso una vera e propria guerra civile, che provoca la scomparsa quasi
totale dei leader tutsi in contrasto con gli elementi più estremisti della loro etnia e contrari alla lotta armata. Esposti
alle rappresaglie degli hutu, molti intellettuali e dirigenti del partito Unar vengono uccisi. Presidente del Ruanda
diviene Grégoire Kaybanda, ideologo storico del Parmehutu. Il Ruanda, appoggiato dal Belgio, cerca di dimenticare
l’esistenza di circa 150 mila propri cittadini costretti a vivere da profughi nelle nazioni vicine. L’illusione che
l’espulsione di una parte dei tutsi abbia risolto tutti i problemi del paese è però estremamente fragile, se non altro
perché resta la paura di un loro ritorno. Kaybanda viene riconfermato presidente fino al 1973. Durante il suo mandato
fiorisce la cooperazione con il Belgio e si manifesta un certo sviluppo delle aree rurali del paese […].
Il Ruanda dalla guerra civile al genocidio del 1994
In Ruanda gli anni Novanta iniziano con la comparsa di un nuovo attore sulla scena: il Fronte patriottico ruandese
(Fpr), un’organizzazione armata prevalentemente formata da tutsi esuli, la cui ossatura è costituita da ex combattenti
del National Resistence Army di Yoweri Kaguta Museveni, l’attuale presidente dell’Uganda. Durante la guerra di
liberazione molti ruandesi si erano infatti uniti al movimento armato di Museveni: alcuni di loro ne diventano membri
influenti, come l’attuale vicepresidente ruandese, Paul Kagame. È a partire proprio dall’Uganda, nell’ottobre del 1993,
che iniziano le incursioni dell’Fpr, che in una prima fase trova grandi difficoltà a penetrare nel paese (10). Nel giugno
1990, durante il summit dei paesi francofoni svoltosi a la Baule, il presidente Mitterrand aveva dichiarato la sua
intenzione di condizionare gli aiuti economici francesi all’accettazione del pluralismo democratico da parte dei paesi
partner. Il presidente ruandese Habyarimana, che considera economicamente fondamentale l’aiuto francese,
permette la creazione di altri partiti, richiedendo contemporaneamente però il sostegno militare francese e zairese
per fronteggiare l’Fpr. Il partito di Habyarimana, lo Mrnd (Mouvement révolutionnaire national pour le
développement), non più difeso dalla censura, vive molte difficoltà per le accuse di regionalismo e di favoritismo
avanzate dai membri dei nuovi partiti politici ruandesi; dopo diciassette anni il regime sembra traballare. È qui che i
quadri dirigenti dello Mrnd, Habyarimana in testa, scelgono di utilizzare ogni mezzo per riguadagnare popolarità e
galvanizzare le masse contro il nemico comune, lo Fpr tutsi. Si organizza un movimento giovanile, l’Interhamwe, con lo
scopo di mobilitare e coinvolgere le masse hutu a sostegno dello Mrnd e alla lotta contro i nemici esterni ed interni. Le
Interhamwe sono provviste dei mezzi dello Stato, organizzano meeting ed eventi culturali, come danze e concerti,
indossano una divisa tradizionale e puntano soprattutto al coinvolgimento dei giovani hutu.
Cresce intanto, come un fenomeno trasversale tra i partiti burundesi, la forza dei cosiddetti estremisti hutu. Il loro
messaggio è semplice: il nemico tutsi è alle porte, e tutti quelli che non sostengono la necessaria unità hutu sono
venduti ai tutsi. La causa hutu è giusta perché rappresenta la volontà della maggioranza del popolo. Giornali e gruppi
legati a questa tendenza – chiamata hutu-power – si moltiplicano dando l’impressione che lo stesso presidente
Habyarimana stia perdendo lentamente il controllo della situazione. Il conflitto ruandese è molto complesso. L’Fpr,
sotto il comando di Kagame, evita attacchi frontali e inizia una guerra di logoramento. L’aiuto militare francese ha
scongiurato il pericolo iniziale ma non può sconfiggere una guerriglia che conta basi sicure in territorio ugandese;
l’aiuto zairese – Mobutu invia la famosa Divisione speciale presidenziale – è catastrofico. Ad Habyarimana non rimane
dunque che negoziare con l’Fpr i cosiddetti Accordi di Arusha. A partire dall’aprile 1993 si inizia così un processo che
ha come obiettivi la formazione di un governo di unità nazionale che comprenda l’Fpr, e la firma di un trattato di pace.
Molti leader hutu democratici sostengono coraggiosamente il processo di pace, tra le accuse degli estremisti. Il resto è
cronaca. Il presidente Habyarimana viene ucciso mentre è in volo sopra l’aeroporto di Kigali il 6 aprile 1994.
Immediatamente dopo iniziano, in un terribile crescendo, le uccisioni indiscriminate. Fin dall’inizio è chiaro che gran
parte degli amministratori locali, delle forze armate ruandesi, e delle Interhamwe, agiscono con un piano ben
determinato per l’eliminazione fisica non solo di tutti i tutsi – senza distinzione – ma anche di molti hutu moderati o
non originari del Nord. Una delle prime vittime è il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, dell’opposizione
democratica hutu. Anche le chiese, in passato rispettate durante le violenze contro i tutsi, diventano luoghi di
massacri (11). Le vittime sono centinaia di migliaia in poche settimane, ma l’emergenza internazionale scatta molto
tardi, quando, spinti dalle forze armate ruandesi e dalle milizie, quasi un milione e mezzo di ruandesi si spostano
davanti all’avanzata dell’Fpr, e si dirigono verso lo Zaire. È allora che scatta l’operazione francese Turquoise, nel SudOvest del Ruanda, volta ufficialmente ad evitare un ennesimo e finale bagno di sangue. La latitanza dell’Onu è totale e
sconcertante, basti pensare che proprio all’inizio dei massacri viene fortemente ridotto il contingente militare già
presente in Ruanda. L’Fpr occupa un paese quasi vuoto. L’intero esercito ruandese è oltre confine, tutti i beni dello
Stato sono stati saccheggiati compresa la Banca nazionale, il numero dei morti è incalcolabile. Il consolidamento al
potere dell’Fpr è possibile solo risolvendo il problema della presenza dei profughi in Zaire: le forze armate ruandesi e
le milizie non sono state distrutte, usano come scudo quella parte della popolazione che li ha seguiti, e preparano la
controffensiva.
Gli organismi internazionali, e soprattutto l’Alto commissariato per i rifugiati, sono in piena crisi. Non si vuole
riconoscere che i profughi sono diventati l’oggetto di una vera contesa strategica, e che le ex forze armate ruandesi e
le milizie li tengono sotto la loro infuenza. Mobutu non fa mancare il suo appoggio ai miliziani hutu, permettendo che
le incursioni in territorio ruandese delle ex forze armate ruandesi partano dallo Zaire. A questo quadro già complesso
si aggiunge l’imprevedibile catena di eventi che porterà alla caduta di Mobutu. Una etnia di origine tutsi presente nel
Sud-Kivu, i cosiddetti «banyamulenge», reagisce alle violenze e alle discriminazioni perpetrate contro di essa dai
funzionari di Mobutu. Riemerge improvvisamente una figura dimenticata, quella di Kabila, ora neopresidente di una
formazione eterogenea (Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo-Zaire) che vuole abbattere
Mobutu.
Dietro l’offensiva delle forze di Kabila c’è l’appoggio militare e politico ruandese e ugandese, così come un tacito
assenso – forse anche aiuto – americano. Sembra che nella peggiore delle ipotesi Kabila e i suoi sostenitori si
sarebbero accontentati della creazione di una sorta di zona tampone nel Kivu, che avrebbe comunque aperto notevoli
possibilità di sfruttamento economico delle risorse della regione; ma la resistenza inesistente delle forze armate
zairesi apre loro nuove possibilità (12). L’offensiva procede rapidamente, e tra gli obiettivi iniziali vi sono i campi
profughi ruandesi, per spezzare ciò che resta delle milizie armate hutu e fare rientrare la popolazione. Altro obiettivo
raggiunto nella prima fase dell’offensiva sono i santuari della guerriglia ugandese anti-Museveni del West Bank Nile
Front. Il regime di Mobutu cade senza quasi opporre resistenza […].
Ruanda e Burundi sembrano essere ancora lontani dalla soluzione dei loro problemi.
(1) A causa dell’altissimo numero delle vittime delle violenze e degli enormi spostamenti di profughi è praticamente
impossibile avere cifre attendibili sulla popolazione dei due paesi; le percentuali indicate sono grosso modo accettate
dalla maggioranza degli studiosi per indicare la situazione esistente prima degli sconvolgimenti nell’area.
(2) L. REICHLER, «Les crises et leurs fondements. La prévention des conflits violents», in FONDATION ROI BAUDOINMÉDECINS SANS FRONTIÈRES, Conflits en Afrique. Analyse des crises et pistes pour une prévention, Bruxelles 1997,
Grip, p. 49.
(3) Vedere ad esempio A.M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa subsahariana, Roma 1995, pp. 125-140
(4) Ancora nel 1958 veniva ristampata una guida turistica del Congo belga e del Ruanda-Urundi in cui, al capitolo «Le
razze» dopo aver elencato i pigmei, i negroidi (suddivisi in bantu, sudanesi e nilotici) si dedicava agli hamiti un capitolo
a parte: «In questa categoria sono da classificare i batutsi (watusi) che formano la classe dirigente delle popolazioni
del Ruanda-Urundi». Congo Belge et Rwanda-Urundi. Guide du Voyageur, Bruxelles 1958, Info Congo, pp. 21-24.
(5) Un esempio è il rapporto dell’amministratore belga del Ruanda-Urundi del 1925 citato dall’ultimo governatore del
Ruanda-Urundi nelle sue memorie: J.P. HARROY, Rwanda. Souvenirs d’un compagnon de la marche du Rwanda vers la
démocratie et l’indépendance, Bruxelles-Paris 1984, pp. 26-28.
(6) Di questo parere è R. LEMARCHAND, Rwanda and Burundi, London 1970, p. 107.
(7) R. LEMARCHAND, op. cit., p. 114.
(8) Gran parte dei compagni di Ernesto «Che» Guevara durante la sua esperienza di guerriglia in Zaire nel 1965 erano
proprio tutsi ruandesi. Cfr. P.I. TAIBO, F. ESCOBAR, F. GUERRA, (a cura di), L’anno in cui non siamo stati da nessuna
parte. Il diario di Ernesto «Che» Guevara in Africa, Firenze 1996.
(9) F. MISSER, Vers un nouveau Rwanda? Entretiens avec Paul Kagamé, Bruxelles 1995, p. 32.
(10) Per la storia recente del Ruanda e del Burundi mi sono basato in particolare su: F. REYNTJENS, L’afrique des
Grands Lacs en crise, Rwanda Burundi:1988-1994, Paris 1994; ID. Burundi: Breaking the Cycle of Violence, London
1995; A. GUICHAOUA, (a cura di), Les crises politiques au Burundi et au Rwanda (1993-1994), Paris 1995; G. PRUNIER,
Rwanda, History of a Genocide, New York 1997.
(11) Tra i reportage vedere: F. KEANE, Stagione di sangue. Un reportage dal Ruanda, Milano 1997; C. BRAECKMANN,
Ruanda. Storia di un genocidio, Roma 1995.
(12) Kagame lo ammette chiaramente in un’intervista, poi smentita, rilasciata al Washington Post il 9/7/1997. Vedere
anche INTEGRATED REGIONAL INFORMATION NETWORK (IRIN), Emergency Update No 208 on the Great Lakes, United
Nations, Department of Humanitarian Affairs, 9/7/1997.
Sebastiao Salgado, Ruanda, 1994