Stralcio volume

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ANIELLO NAPPI
LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL PROFESSIONISTA
1. Sono grato al professor Giovanni Conso e a Guerino Fares per questo
invito che mi onora.
I problemi delle responsabilità professionali sono sempre molto ardui, perché esigono una traduzione di linguaggi specialistici distinti; e queste traduzioni non sono mai facili.
Confesso subito che le prestazioni dei giuristi in questa opera di traduzione
non sono esaltanti. Devo dire che, se fossi un medico, avrei qualche preoccupazione, ascoltando il professor Adolfo di Majo affermare che siamo in fase di
sperimentazione. Come medico vorrei qualche certezza, vorrei poter sapere
cosa mi espone a responsabilità e cosa non mi espone a responsabilità.
Purtroppo c’è invece su questi temi una grande incertezza, se non confusione.
2. Innanzitutto c’è incertezza sulla funzione del consenso informato, di cui
vi è stato già parlato.
Il consenso informato è la manifestazione della libertà di cura, il riconoscimento al paziente del diritto di rifiutare la cura, anche quando si tratti di una
cura certamente favorevole. Benché si tratti di una terapia che avrà certamente
un esito fausto, il paziente ha il diritto di rifiutarla.
Qual è allora la funzione di questo consenso ai fini della responsabilità del
medico? Qui cominciano i problemi, perché i giuristi, non solo pratici ma
anche teorici, sono divisi.
Secondo alcuni l’attività medica è un’attività comunque non lesiva, in quanto il medico, anche il chirurgo che provoca delle alterazioni anatomiche,
rimuove una malattia, non la provoca; e quindi è un’attività di per sé lecita.
Secondo altri, invece, l’attività medica è un’attività lesiva, quando comporti
alterazioni anatomiche; ma è un’attività lesiva che risulta giustificata dal consenso del paziente.
Recentemente su questo tema sono intervenute le Sezioni Unite penali della
Corte di Cassazione (21 gennaio 2009, n. 2437), che hanno esibito un apparato
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concettuale molto ambizioso, disquisendo inutilmente finanche del concetto di
malattia, e hanno preso posizione in favore di coloro che sostengono la liceità
in sé dell’attività medica.
Nonostante un apparato concettuale tanto articolato, tuttavia, le Sezioni
Unite hanno risolto in realtà solo un caso particolare, affermando che, quando
l’intervento sia fausto, il medico non è punibile, anche se sia intervenuto in
mancanza del previo consenso.
È vero che la mancanza del consenso comporta una violazione del diritto
del paziente all’autodeterminazione, ha precisato la Corte, ma questa violazione di questo diritto del paziente non è riconducibile al reato di violenza privata e quindi non è penalmente rilevante.
Faccio notare che in Parlamento, proprio dopo questa pronuncia della Corte
di Cassazione, è stato depositato un disegno di legge (“Norme per l’alleanza
terapeutica, sul consenso informato e sulle cure palliative”, S-1188, XVI legislatura, firmatari Bianconi e altri), che prevede come illecito disciplinare del medico l’intervento con esito fausto effettuato senza previo consenso informato. Sicché rimarrebbe una valutazione di illiceità del comportamento del medico,
quando operi senza il previo consenso, ma soltanto per la violazione del diritto
del paziente all’autodeterminazione; e non, come invece sostiene parte della
dottrina penalistica italiana, per le alterazioni anatomiche provocategli.
Secondo la maggioranza degli studiosi, peraltro, le alterazioni anatomiche
subite dal paziente sarebbero punibili a titolo di lesioni personali solo quando
sia infausto l’esito; ma indipendentemente dalla violazione delle cosiddette
leges artis, le regole tecniche dell’intervento. Sicché la violazione del diritto all’autodeterminazione comporterebbe una responsabilità per lesioni personali,
anche se l’intervento infausto fosse stato eseguito con il rispetto di tutte le regole e i protocolli del caso.
Come dicevo, l’incertezza è tanta; e per semplificare l’esposizione, è dunque
necessario schematizzare le possibili combinazioni delle diverse variabili.
Occorre innanzitutto distingue tra esito fausto ed esito infausto dell’intervento.
Quando l’esito dell’intervento è fausto, ovviamente non c’è nessun problema di liceità, se c’è stato il consenso del paziente. Le Sezioni Unite penali
hanno escluso che sia configurabile un qualsiasi reato, anche se non c’è stato il
consenso; ma, come s’è detto, c’è stata una proposta di legge, che punta alla
previsione, in questo caso, di un illecito disciplinare.
Più significativi sono i casi di esito infausto.
Se c’è stato il previo consenso e il medico ha rispettato le regole tecniche
della professione, non c’è responsabilità. In questo caso una responsabilità professionale del medico potrebbe aversi solo per una violazione delle “leges
artis”, delle regole della tecnica professionale.
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Che cosa avviene se un esito infausto consegue a un intervento eseguito
senza previo consenso del paziente?
Secondo la dottrina e la giurisprudenza ancora prevalenti, in questo caso il
medico dovrebbe rispondere di lesioni colpose anche se ha rispettato le “leges
artis”.
Tuttavia, traendo conseguenze coerenti con le premesse poste dalla recente
sentenza delle Sezioni Unite penali, si dovrebbe invece escludere in questo caso
che il medico sia punibile per lesioni colpose: perché ha rispettato le regole tecniche dell’intervento e quindi non ha cagionato lesioni per colpa, per violazione di regole cautelari. L’unico diritto, l’unico bene che il medico ha leso, intervenendo senza il previo consenso, è la libertà di autodeterminazione del
paziente. Ma c’è chi sostiene che in questo caso il medico dovrebbe rispondere
addirittura a titolo di dolo delle lesioni, a titolo di omicidio preterintenzionale
per l’eventuale morte del paziente.
Su questo punto, dunque, c’è ancora incertezza, perché le Sezioni Unite
penali non hanno preso posizione al riguardo, essendosi pronunciate solo sul
caso portato all’esame della Corte: il caso di un medico che nel corso di un
intervento, al quale era stato prestato il consenso, si accorga dell’esigenza di un
intervento diverso, non urgente e quindi non tale da esimerlo dall’obbligo di
assumere il previo consenso del paziente, e ciò nondimeno pratichi egualmente l’intervento non consentito, con esito fausto.
La Corte ha affermato che il medico non è punibile né per le lesioni né per
la violazione del diritto di autodeterminazione del paziente, quando si abbia un
esito fausto in mancanza di consenso informato. Non ha chiarito però la Corte
cosa sarebbe accaduto se l’esito fosse stato infausto nonostante il rispetto delle
“leges artis”; eppure era questa una delle domande cruciali alle quali si attendeva una risposta.
Nel caso in cui l’esito infausto si accompagni, invece, a una violazione delle
“leges artis” non c’è dubbio che debba rispondere il medico delle lesioni provocate al paziente. Rimane il problema della possibilità di rispondere a titolo
penale anche per la violazione dell’autodeterminazione. Le Sezioni Unite sembrerebbero averlo escluso. Ma non potrebbe certamente escludersi una
responsabilità per violenza privata nel caso, forse solo teorico, del medico che
imponga il letto di contenzione al paziente per sottoporlo, per esempio, all’amputazione di un arto.
In conclusione una ragionevole soluzione del problema dovrebbe articolarsi in due proposizioni:
a) il trattamento sanitario arbitrario, eseguito cioè senza previo consenso, è
riprovevole in quanto atto di sopraffazione e di violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, non per il danno che solo eventualmente possa
arrecargli; e rimane riprovevole anche se ne sia fausto l’esito, perché l’obbligo
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del previo consenso deve appunto preesistere all’intervento, non può dipendere dal suo esito;
b) la responsabilità a titolo di colpa è ipotizzabile solo per le lesioni o la
morte eventualmente dipese dalla violazione delle regole dell’arte medica; non
pare possa sostenersi che l’arbitrarietà dell’intervento legittimi di per sé una
responsabilità del medico anche per morte o lesioni colpose, indipendentemente dalla violazione di qualsiasi protocollo sanitario, perché l’obbligo di
informazione del paziente è destinato a garantirne la libertà di scelta, non
l’incolumità.
Tuttavia entrambe queste proposizioni sono tuttora controverse.
3. L’altro aspetto della responsabilità professionale del medico che è estremamente controverso e carico di dubbi per chi pratica questa professione è
quello dei presupposti della responsabilità per l’esito infausto.
3.1. Sia il professor Magistrelli sia il professor di Majo hanno ricordato che
c’è stata un’evoluzione negli orientamenti della giurisprudenza.
In realtà la svolta della giurisprudenza risale a mio avviso a un intervento
della Corte costituzionale, la sentenza 28 novembre 1973, n. 166, perché –
almeno dal punto di vista penalistico – fino a quella sentenza il problema era
stato tutto centrato sulla colpa del medico. Si riteneva – come ricordava il professor di Majo – che si applicasse anche in campo penalistico l’articolo 2236
c.c.; e si riconosceva sempre la particolare difficoltà a qualsiasi intervento del
medico, con la conseguente applicazione garantita del parametro della colpa
grave, che portava all’impunità di fatto di cui parlava il professor Magistrelli.
Intervenne la Corte costituzionale con la sentenza n. 166 del 1973 e, pur
non prendendo esplicitamente posizione sull’applicabilità o meno in sede
penale dell’articolo 2236 c.c., oggi esclusa dalla giurisprudenza penale, precisò
che l’esigenza della colpa grave per l’elevata difficoltà dell’intervento si pone
quando la regola cautelare violata è una regola di perizia, cioè quando il medico è stato ignorante; non quando ha mancato di diligenza, per esempio lasciando una pinza nell’addome del paziente. Quando è in discussione la diligenza o
la prudenza del medico, la perizia e l’estrema difficoltà dell’intervento non rilevano, sancì la Corte costituzionale. E quella sentenza segnò appunto una svolta nella giurisprudenza penale, perché ridusse ad ambiti marginali la rilevanza
della colpa grave e dell’estrema difficoltà dell’intervento.
Questa evoluzione ha determinato un trasferimento dell’attenzione dalla
colpa al nesso causale. Si è verificato quel ribaltamento dall’impunità a un eccesso di severità nei confronti dei medici, segnalata sempre dal prof. Magistrelli.
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Infatti frequentemente la colpa del medico è una colpa per omissione; e in
dottrina come in giurisprudenza si è sostenuto per lungo tempo che la causalità omissiva ha uno statuto diverso, uno statuto probatorio meno rigoroso
dalla causalità commissiva. Si riteneva che, poiché l’omissione è un concetto
squisitamente normativo, una costruzione mentale, non ci possa essere un rapporto causale vero, e quindi la prova può essere data in misura più approssimativa.
Questo orientamento è stato spazzato via nel 2002 da un’importante sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, la celebre sentenza
Franzese (10 luglio-11 settembre 2002), che riguardava ancora una volta un
caso di responsabilità medica.
La sentenza Franzese ha riconosciuto che la responsabilità omissiva non si
distingue dalla responsabilità commissiva quanto al nesso causale, che va accertato secondo il criterio della “condicio sine qua non”, perché la causalità si può
predicare solo di una condizione che sia necessaria per il prodursi dell’evento.
3.2. I problemi tuttavia si sono forse aggravati dal punto di vista della comprensione per chi è destinatario di queste pronunce, perché, contrariamente a
quanto pure si continua a ripetere, la teoria condizionalistica, la teoria della
“condicio sine qua non”, non è una delle tante teorie della causalità.
Questo problema della causalità mi ricorda in realtà il problema della verità,
che per secoli è stato discusso, fino a quando un celebre logico polacco della
prima metà del secolo scorso, Alfred Tarski, chiarì che una cosa è definire la
verità, stabilire quando usiamo correttamente i termini vero e falso, e altra cosa
indicare come si accertano i fatti, come si accerta la verità.
La stessa cosa avviene per la causalità.
La teoria condizionalistica ci spiega solo qual è l’uso corretto del concetto di
causa; ed è quindi l’unica definizione logica della causalità. Il problema dell’accertamento del nesso causale è un problema di prova del tutto identico a
qualsiasi altro accertamento giudiziale.
La teoria condizionalistica è in realtà una teoria tautologica, perché ci dice
solo che la causa è qualsiasi condizione necessaria dell’evento. Se una condizione è necessaria, ne consegue che non ve ne sono altre sufficienti da sole a
causare l’evento; e, viceversa, se una condizione è sufficiente a causare un evento, ne consegue che non ve ne sono altre necessarie. Sicché ciascuna condizione necessaria, anche se da sola non è sufficiente a produrre l’evento, ne costituisce comunque la causa.
Non è solo un gioco di parole, perché tutte le teorie necessariamente vere si
limitano a spiegare l’uso delle nostre categorie mentali. Ne risulta dunque la
certezza che un fatto non può essere qualificato causa di un altro, se non ne è
condizione necessaria, se non si può affermare che senza l’uno non si sarebbe
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verificato l’altro fatto.
3.3. Rimane da stabilire, però, come si accerta il nesso di causalità. Ed è qui
che si riscontrano incertezze e confusioni.
Prendiamo ad esempio la sentenza delle Sezioni Unite civili cui alludeva il
professor Di Majo prima, la n. 576 del 2008, che ha riproposto teoriche nordamericane, importate grazie alla divulgazione fattane dal compianto professor
Federico Stella. Secondo questa sentenza per la responsabilità penale il nesso di
causalità va accertato al di là di ogni ragionevole dubbio, come aveva già affermato la sentenza Franzese, mentre in sede civile, come ricordava il professor di
Majo, ci si può invece accontentare del criterio del “più probabile che non”.
Tuttavia le Sezioni Unite civili hanno ribadito che l’unica definizione corretta della causalità è quella della “condicio sine qua non”. Sicché, perché si
possa dire che un fatto è stato causa di un altro, occorre poter dire che quel
fatto è stata condizione necessaria dell’evento, non una condizione solo possibile.
Cosa significa dire allora che l’accertamento del nesso causale può essere
condotto con il criterio “più probabile che non”? Non si finisce per negare così
l’esigenza che ci sia un rapporto di condizionalità necessaria tra il fatto causa
“A” e il fatto evento “B”?
Se posso parlare di causalità solo se c’è un rapporto di condizionalità necessaria tra A e B, quale accertamento può avvenire in termini di mera probabilità?
Come ha spiegato bene Michele Taruffo, quando si discute di responsabilità, occorre accertare tre fatti: il fatto causante, il fatto causato e la legge di
copertura, cioè il criterio di inferenza, la legge naturalistica che mi consente di
dire che B è l’effetto di A.
Il problema dell’accertamento solo probabilistico, anziché al di là di ogni
ragionevole dubbio, può riguardare dunque l’esistenza della legge di copertura,
non può riguarda il contenuto di questa legge, che deve operare sempre in termini di condizionalità necessaria, se si vuole parlare correttamente di causalità.
Se si parla di causalità, e le Sezioni Unite civili hanno ribadito che si può
parlare di causalità solo se c’è un rapporto di condizionalità necessaria tra fatto
causante e fatto causato, qual è il minor grado di certezza che posso avere? È
quello sull’accertamento della legge di copertura, ma non quello sul rapporto
che ci deve essere sempre tra fatto causante e fatto causato.
Vedete come può esserci confusione tra problema della definizione e problema dell’accertamento della causalità. E in realtà nel caso esaminato dalla
Sezioni Unite civili si trattava della responsabilità del Ministero della Sanità per
l’impiego nelle trasfusioni di sangue infetto da HIV; al Ministero veniva addebitato di non aver fatto nulla di ciò che la legge gli imponeva di fare per verifi-
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care se il sangue fosse infetto; e quindi in quel caso probabilmente non c’era
problema di causalità, ma semmai problema di colpa, come vedremo.
3.4. D’altra parte, come si accerta, come si prova la cosiddetta legge di
copertura?
Gli scienziati naturali sanno che queste leggi si fondano per induzione: il
ripetersi costante di certi fenomeni ci fa supporre che essi siano manifestazione
di una legge naturale.
Ma il giudice come può provare una legge di copertura in sede giudiziaria?
Come può provarla un giudice al quale si dice, da parte di Stella come di
Taruffo, che deve essere utilizzatore, non creatore di leggi di copertura, perché
non può inventare lui leggi di copertura?
In realtà negli Stati Uniti, dai quali abbiamo importato la questione, si pone
in termini seri il problema della prova anche della legge di copertura, per il
fenomeno della cosiddetta “scienza spazzatura”, perché dinanzi alle giurie
popolari vengono sentiti sedicenti scienziati, addotti dalle parti come testimoni
tecnici. E allora si può certo porre un problema di prova della legge di copertura, con la distinzione tra prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, in sede
penale, ovvero “più probabile che non”, in sede civile.
D’altro canto la ricostruzione ex post della causa di un evento non presuppone affatto un modello deterministico di spiegazione causale; e rimane possibile, benché “l’età dell’innocenza”, ingenuamente fiduciosa in una teoria causale deterministica, sia rimasta travolta “dalla rivoluzione probabilistica”, come
dice l’epistemologo Paolo Garbolino.
Poniamo ad esempio che taluno cada da un terrazzo privo di protezioni perché spaventato dal colpo di fucile di un cacciatore. Non esiste alcuna legge
scientifica o massima di esperienza che colleghi necessariamente la caduta allo
sparo. Eppure nessuno dubiterebbe della possibilità di spiegare la caduta come
conseguenza dello sparo, salvo poi stabilire se l’evento fosse prevedibile, e
quindi giuridicamente rilevante, o non sia stato addirittura preordinato.
La scienza infatti utilizza esperienze particolari (e ripetibili) per produrre
enunciati generali; il processo giudiziario invece utilizza conoscenze generali
(le leggi scientifiche o massime di esperienza) per produrre enunciati particolari relativi a fatti irripetibili. È praticamente impossibile perciò disporre di una
legge, anche solo statistica, che sia incondizionatamente e integralmente applicabile al caso singolo, perché nessuna legge, in quanto enunciato generale, può
tener conto di tutti i fattori complementari e di tutti i fattori di disturbo, che
sempre distinguono il caso particolare e concreto, oggetto dell’accertamento
giudiziale, dalla classe di casi cui la legge è riferibile. Sicché la spiegazione del
caso concreto, ove risulti effettivamente possibile, deriverà sempre dall’incrocio tra diverse leggi, anche statistiche, riferibili ciascuna a suoi particolari aspet-
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ti peculiari.
La legge statistica sull’efficacia di un determinato trattamento sanitario, ad
esempio, farà riferimento pur sempre a una “popolazione” definibile solo genericamente; e quindi, per poter ottenere informazioni ulteriori adeguate a peculiari aspetti del caso singolo in essa non considerati, potrà risultare necessario
fare riferimento ad altre leggi statistiche, che quelle peculiarità prendano in
considerazione, anche se in contesti e prospettive in parte diversi.
Sicché l’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento non ha
regole diverse da quelle di ogni altro accertamento giudiziale; e può fondarsi
anche sul coordinamento di una pluralità di indizi che valutati singolarmente
sarebbero insufficienti a garantire conclusioni attendibili. E se leggi probabilistiche sono abitualmente poste a fondamento dei più disparati accertamenti
giudiziali, come avviene ad esempio nelle indagini dattiloscopiche o balistiche
o genetiche, non v’è ragione alcuna per cui solo per l’accertamento del nesso di
causalità debba esigersi una misurazione in termini numerici del grado di probabilità.
L’accertamento del nesso di causalità è sempre l’applicazione di un complesso di regole di esperienza e scientifiche, proprie della cultura di quel
momento storico, che ci consente, come pure è stato ribadito dalle Sezioni
Unite anche penali, di affermare, per esempio che c’è nesso di causalità tra
l’esposizione all’amianto e il mesotelioma pleurico, anche se i medici non sanno
neppure il perché avviene questo. E le leggi scientifiche anche probabilistiche
si distinguono dalle leggi statistiche e dalle generalizzazioni empiriche non solo
perché danno conto del ripetersi di un fenomeno, ma perché ci spiegano anche
qual è la ragione del ripetersi di quel fenomeno, ricollegandosi a un sistema di
leggi e di conoscenze già sperimentate, che sono in grado di completare il quadro esplicativo.
Pur riconoscendo che causa è solo la condizione necessaria dell’evento,
dunque, siamo in grado di affermare il nesso di causalità anche quando non
disponiamo di una legge di copertura universale, perché possiamo combinare
diversi criteri di giudizio.
3.5. Molto spesso peraltro viene presentato in termini di causalità quello che
è un problema di colpa, come è avvenuto per la vicenda del sangue infetto da
HIV.
Facciamo un esempio ancora.
Il medico che dimetta prematuramente un paziente, senza compiere tutti gli
accertamenti diagnostici del caso, risponde certamente per un’azione, non per
un’omissione, perché dal punto di vista del nesso di causalità rileva non l’omesso accertamento, bensì la dimissione.
Se è così, se il nesso di causalità è indiscusso, perché è chiaro che quel
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paziente è deceduto in quanto è stato dimesso prematuramente, la violazione
della regola cautelare che avrebbe imposto al medico un previo accertamento
diagnostico ulteriore viene in rilievo solo ai fini della colpa, non del nesso di
causalità. E la maggioranza della dottrina penalistica ritiene che, mentre per il
nesso di causalità si deve dimostrare che senza il comportamento incriminato
non ci sarebbe stato l’effetto indesiderato, con riferimento alla colpa invece è
sufficiente provare che l’evento indesiderato rientri nell’ambito di prevenzione
della norma cautelare violata. Se l’effetto indesiderato verificatosi è uno di quegli effetti che la norma cautelare era destinata a prevenire, la colpa c’è, anche
quando non sia dimostrabile che il rispetto della regola cautelare avrebbe certamente impedito l’effetto indesiderato.
Anche quando non si abbia la prova certa che la condotta diligente avrebbe
evitato l’evento, dunque, è sufficiente la prova che una tale condotta avrebbe
ridotto significativamente il rischio dell’evento lesivo. Se c’è la violazione di
una norma cautelare, se c’è un aumento del rischio, se il rischio innescato è proprio quello che la norma cautelare voleva prevenire, non è necessario provare
che l’evento non si sarebbe verificato se il medico avesse rispettato quella
norma cautelare. Al contrario, per escludere la responsabilità, occorrerebbe
provare che il rispetto di quella norma non avrebbe certamente inciso sull’effetto lesivo, che l’evento si sarebbe verificato nonostante la condotta diligente. Ma se l’evento verificatosi rientra nel range delle evenienze che la norma
cautelare voleva prevenire, la colpa c’è, posto che ci sia il nesso di causalità.
Nondimeno alcuni autori sostengono che sia necessaria una prova equivalente a quella del nesso di causalità anche nel rapporto tra la violazione della
norma cautelare ed effetto indesiderato. Ed è questo un ulteriore motivo
d’incertezza.
3.6. Infine è difficile talora distinguere tra la colpa, quale violazione della
norma cautelare, che è una norma tecnica da rispettare solo in funzione della
prevenzione di un risultato indesiderato, e l’omissione, quale violazione di una
norma prescrittiva, che esige un rispetto incondizionato.
Ma a mio avviso questa distinzione è sempre possibile.
Faccio a questo proposito un ultimo esempio, prima di concludere.
Poniamo che un paziente muoia per l’indebita assenza del sanitario. Se noi
accertiamo che la presenza del sanitario nel nosocomio avrebbe consentito la
somministrazione di una cura, il rispetto di un protocollo che avrebbe salvato
la vita del paziente, non c’è dubbio che abbiamo la prova di un nesso di causalità, perché abbiamo la prova di una condicio sine qua non dell’evento indesiderato. Se non ci fosse stato quel comportamento omissivo, il paziente sarebbe
salvo.
Tuttavia il nesso di causalità non basta per affermare la responsabilità pena-
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le del medico. Occorre accertarne anche la colpa. E ai fini della colpa, dobbiamo sapere perché quel medico era assente.
Infatti quel medico poteva essere stato assente perché, ad esempio, aveva
dovuto affrontare una serie innumerevole e imprevedibile di emergenze durante la notte, che ne avevano fiaccato la resistenza e gli avevano provocato un
colpo di sonno. E in questo caso, benché ci sia il nesso di causalità, noi potremmo escludere la colpa.
Diversamente vi sarebbe colpa, se il sonno del medico fosse riconducibile
all’assunzione di alcool, se il medico si fosse addormentato per aver bevuto.
E allora, posto che il paziente è morto per la mancata somministrazione
della prestazione dovuta (nesso di causalità); posto che il medico si è addormentato dopo aver bevuto; ai fini della colpa, non dobbiamo accertare se la
quantità di alcool assunta fosse tale da determinarne necessariamente il sonno.
È sufficiente la dimostrazione, la prova che c’è stata la violazione della regola
cautelare (non assumere alcol durante il turno di guardia); non dobbiamo provare che, se non avesse bevuto, il medico non si sarebbe addormentato, perché
si discute appunto di colpa e non di nesso di causalità.
4. Ho concluso; e spero di non aver aggravato il senso di incertezza dei
medici che mi ascoltano.
Leggendo alcune sentenze e alcuni scritti giuridici, per preparare questa
relazione, mi è venuta in mente la scena di quei medici medioevali che, raccolti intorno al capezzale dell’ammalato, nascondevano dietro parole incomprensibili la propria ignoranza, la propria incapacità di spiegare la realtà. E questa è
un po’ l’impressione che ho avuto leggendo quel che scrivono i giuristi sulla
responsabilità professionale dei medici: l’uso di paroloni che dissimulano
l’incapacità di spiegare.
Secondo un mio amico medico, l’umanità è sopravvissuta nonostante i
medici. Io mi sento di dover ringraziare quei medici che ancora si impegnano,
nonostante i giuristi.