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RASSEGNA STAMPA Lunedì 3 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Gr Rai del 31/10/14 Mare Nostrun non deve chiudere. Appello di associazioni e organizzazioni al governo. Da domani Triton controllerà le frontiere (Intervista al vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia a partire dal minuto 10’ e 53’’) http://www.grr.rai.it/dl/grr/edizioni/ContentItem-2c7b0376-ed22-43be-83e8a14956ad9ed4.html Da Radio Vaticana del 31/10/14 Alfano: chiude "Mare Nostrum". Le associazioni, piangeremo morti “Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Triton; in coincidenza si conclude Mare Nostrum". L' annuncio è arrivato oggi pomeriggio, dal ministro dell’Interno Angelino Alfano in conferenza stampa con il ministro della Difesa Roberta Pinotti. L’obiettivo del nuovo dispositivo gestito dall’Unione Europea è pattugliare le frontiere marine dell’Europa. Per quanto riguarda l’assistenza in mare delle imbarcazioni che rischiano di affondare il ministro dell’Interno, Angelino Alfano ha assicurato che l’Italia continuerà fare la sua parte, con una nave grande e tre più piccole. In mattinata un gruppo di associazioni si erano appellate ancora una volta affinché Mare Nostrum non si chiudesse. Le ragioni economiche, hanno denunciato le associazioni, sono un pretesto, le motivazioni sono solo politiche. Il servizio di Francesca Sabatinelli: Oltre 100mila persone soccorse, l’arresto di centinaia di scafisti, sono soltanto alcuni dei dati forniti dal ministro Alfano che oggi ha dato l’annuncio ufficiale che l’era di Mare Nostrum è chiusa. L’Italia, ha proseguito il ministro, continuerà a rispettare le leggi del mare, ma il posto ora si cede a Triton, dell’agenzia Frontex. Con Triton l’Italia spenderà zero, ha spiegato Alfano, mentre per Mare Nostrum nel 2014 sono stati spesi 114milioni di euro, il che significa circa nove milioni al mese. Una cifra affrontabile, reagiscono tutte le associazioni che da mesi ormai si battono perché Mare Nostrum non chiuda e che attribuiscono la scelta italiana a ragioni di tipo non economico ma politico. L’Italia deve continuare a soccorrere e salvare vite umane nel Mediterraneo, è l’appello di Acli, Arci, Caritas, Centro Astalli, Cgil, Uil e molte altre sigle. Con l’aumento di conflitti e di crisi nel mondo, l’Italia non può chiudere le sue frontiere a chi cerca protezione. Se Mare Nostrum termina, è la denuncia, si ritornerà a piangere la morte di centinaia di innocenti, come accaduto il 3 ottobre di un anno fa. Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci: "La nostra è una preoccupazione che deriva dal fatto che ci sembra ancora una volta che la politica sia molto rinchiusa all’interno delle dinamiche di palazzo e che quindi, alla fine, prevalga l’interesse di tenere assieme la maggioranza e quindi, per non perdere consenso si fa la faccia cattiva rispetto a questa vicenda della solidarietà e dell’immigrazione. Noi riteniamo che l’Italia non se la possa permettere, questa cosa, a prescindere dagli interessi elettorali di qualche partito; e che se ad oggi sono stati più di 3 mila i morti accertati nel Canale di Sicilia, nonostante Mare Nostrum, senza Mare Nostrum è del tutto evidente che Renzi e il governo italiano si assumerebbero la responsabilità di migliaia di morti". 2 Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe”. Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil: "La situazione dell’Europa è complessa. C’è un processo complessivo – adesso, è diverso da Paese a Paese, naturalmente – di impoverimento, e in questo quadro è evidente che la guerra tra poveri diventa uno degli elementi che caratterizzano il panorama sociale. Allora, in questa condizione l’immigrazione è il tema che rischia di coagulare queste spinte. La domanda è: come si risponde a questa cosa? Come stanno facendo molti Paesi europei, come rischia di fare – per esempio – anche l’Italia? Si può dire che il problema non c’è, cioè alziamo i muri, impediamo alla gente di arrivare così difendiamo i lavoratori europei. Questa cosa, oltre che disumana, è inefficace, perché la gente non si ferma! Come si contrastano queste spinte populistiche? Io penso che si contrastino dicendo la verità e ritrovando anche un volto etico dell’Europa, che si è smarrito. Allora, salvare le vite è prima di tutto un dovere morale, vorrei dire: pre-politico. Il governo ha due problemi: uno, è il non assumersi questa responsabilità, di avere sulla coscienza dell’Italia altri morti; dall’altra, deve dire cosa vuole fare in Europa, perché non si tratta di andare a fare la questua in Europa: si tratta di impostare una vera politica. E questo non è marginale per l'Europa. Perché il modo con il quale l'Europa si atteggia rispetto alla protezione internazionale dovuta ai rifugiati, ci dice anche cosa sarà l'Europa". Con Triton i morti si moltiplicheranno, perché sarà un’operazione che non svolgerà azioni di soccorso ma di controllo delle frontiere e che opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane. Berardino Guarino, direttore progetti del Centro Astalli: "Chiudiamo gli occhi di fronte a quello che Papa Francesco definisce una vergogna assoluta, cioè il traffico sulla pelle di queste persone: perché di questo stiamo parlando. Dovremmo offrire dei canali umanitari; ancora non ci riusciamo. Almeno, manteniamo in vita la possibilità di accompagnarli nell’ultima parte, quella più pericolosa, del loro viaggio. Questo chiediamo. La cosa che più ci rattrista è come si arriva, a questa decisione. Come diceva De Andrè, ci si arriva più per contrarietà che per consapevolezza, cioè all’interno del governo è chiaro che ci sono posizioni diverse. Alla fine, sarebbe veramente triste se per motivi ideologici ed elettorali prevalesse quella della chiusura. Noi ne prenderemmo atto con tristezza". Link alla pagina web e al servizio http://it.radiovaticana.va/news/2014/10/31/si_chiude_mare_nostrum_le_associazioni_pian geremo_morti/1109889 Da Radio Articolo 1 del 31/10/14 Mare Nostrum non deve finire: l'appello delle associazioni Con F. Miraglia, Arci; V. Lamonica, Cgil; O. Forti, Caritas ElleEsse 31/10/2014 - ( 10,96 MB) - See more at: http://www.radioarticolo1.it/jackets/audio.cfm/2014/10/31/22133/marenostrum-non-deve-finire-lappello-delle-associazioni?au=22133#sthash.VOareoH5.dpuf Da Radio France International del 31/10/14 Intervista a Filippo Miraglia, Arci 3 Da Tv 2000 del 31/10/14 Mare nostrum non deve finire Intervista a Filippo Miraglia, Arci, e Vera Lamonica, Cgil Da Repubblica.it del 31/10/14 Mare Nostrum: "Non lo fate morire aumenteranno solo i morti in mare" L'appello "disperato" di 30 associazioni (laiche e cattoliche) per l'avvio di un programma europeo di reinsediamento delle persone che arrivano dalle zone di crisi e di guerra. di CINZIA GUBBINI ROMA - "Mare Nostrum non deve finire". Lo hanno chiesto, con un appello i rappresentanti di quasi 30 associazioni italiane, a cui hanno aderito anche alcune personalità come Andrea Camillari, Carlo Feltrinelli, Ascanio Celestini e Andrea Diroma. Un appello che gli stessi firmatari definiscono "disperato", perché il dado sembra ormai tratto: Mare Nostrum chiude, l'Italia - e in particolare il ministro dell'Iterno Angelino Alfano - non ha intenzione di proseguire, anche se non ci sono ancora decisioni formali da parte del Consiglio dei ministri. "Se l'operazione della marina italiana finirà, come ormai ci sembra deciso, l'unico risultato sarà che aumenteranno i morti in mare", ha detto Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione dell'Arci. I risultati dell'operazione. La polemica su Mare Nostrum dura ormai da qualche mese. La missione è partita dopo lil naufragio del 3 ottobre 2013, quando nel Canale di Sicilia persero la vita 366 persone. Una strage. Il governo italiano decise, per la prima volta e in solitudine, di fare qualcosa: le navi della Marina Militare da allora si spingono vicino alle coste della Libia, senza considerare le aree di "Search and Rescue", oltre le quali le operazioni della Unione europea non si sono mai spinte. Mare Nostrum ha portato in salvo più di 100 mila persone: uomini, donne e bambini. Ovviamente le morti non si sono fermate, solo di ieri è la notizia di altri 20 dispersi. Lo sguardo accigliato del governo britannico. E' un fatto innegabile, però, che molte delle persone soccorse in mare e portate dentro i confini europei avrebbero avuto un altro destino se avessero dovuto completare la traversata. I risultati dell'iniziativa italiana tuttavia non sono piaciuti a tutti e anzi in sede europea sono stati fonte di polemica. Il governo inglese, ad esempio, ha additato Mare Nostrum come un cattivo esempio, perché avrebbe invogliato i migranti a imbarcarsi. E con questa motivazione il premier britannico David Cameron si è sfilato anche dall'operazione "Triton" che partirà tra pochi giorni e che sarà gestita dalla Agenzia europea delle Frontiere Frontex. Rifugiati in pericolo. Prese di posizione come quella inglese sono respinte con sdegno dall'associazionismo italiano: "E' una posizione inaccettabile - ha detto il Direttore dei progetti del Centro Astalli, Bernardino Guarino - Mare Nostrum è la prima operazione attraverso cui l'Europa decide di non chiudere gli occhi davanti alle tragedie che si consumano a pochi chilometri dai nostri confini". E' stato ricordato, infatti, che più del 70% delle persone che arrivano dai confini sud dell'Europa - sulle coste italiane o maltesi sono richiedenti asilo, che scappano da teatri di guerra tristemente noti come la Siria e l'Iraq. "Di fronte a questa realtà l'Europa e l'Italia devono decidere da che parte vogliono stare: dalla parte dei movimenti populisti che cavalcano il malcontento popolare dovuto 4 alla crisi economica e lo indirizzano contro l''invasore', o dalla parte di una Europa che vuole essere protagonista sul fronte internazionale e dimostrare di avere un progetto civile e democratico?", ha chiesto Vera Lamonica, segreterio nazionale della Cgil. "Costi sostenibili". Respinte al mittente anche le motivazioni di tipo economico, che impedirebbero all'Italia di proseguire con l'operazione Mare Nostrum: "Prima di tutto non bisognerebbe parlare di questioni economiche quando si discute di vite umane, ma in ogni caso Mare Nostrum è costatata 100 milioni in un anno, ricordo che nel 2011 abbiamo speso 1 miliardo e 300 milioni per accogliere 60 mila persone", ha sottolineato Oliviero Forti della Caritas, ricordando il piano messo in piedi dall'allora governo Berlusconi durante l'emergenza delle Primavere Arabe. Canali regolari. Le associazioni ci tengono a sottolineare che "Mare Nostrum non è la panacea di tutti i mali". Non risolve il problema più grave: come permettere alle vittime di guerre di raggiungere in modo sicuro l'Europa. Per questo l'appello chiede al governo italiano di farsi promotore in Europa della applicazione della Direttiva 55/2001 sulla protezione temporanea e dell'avvio di un programma europeo di reinsediamento dei rifugiati in arrivo dalle aree di crisi e di conflitto. http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2014/10/31/news/mare_nostrum99444580/ Da Corriere.it del 31/10/14 Mare Nostrum chiude i battenti «100mila salvati, ma pesano i morti» Il ministro dell'Interno Angelino Alfano fa un bilancio dell'operazione di salvataggio dei migranti e annuncia la nascita di Triton, la nuova missione in chiave europea di Redazione Online Si ferma dopo poco più di un anno Mare Nostrum, l'operazione avviata dal Governo dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e raccontata ne «La scelta di Katia». Sabato 1° novembre parte Triton, la missione - assai più contenuta in termini di mezzi impiegati e raggio d'azione - che innalza la bandiera di Frontex, l'Agenzia europea delle frontiere. «Una volta che partirà Triton - ha detto oggi al Senato il ministro dell'Interno, Angelino Alfano - sarebbe difficilmente spiegabile mantenere un'operazione d'emergenza come Mare Nostrum». La fase di passaggio delle consegne tra le due operazioni durerà due mesi e avrà un costo complessivo di 3,5 milioni di euro: una sorta di Mare nostrum in versione light, che durerà solo sessanta giorni, dopodiché l'unica operazione nel Mediterraneo sarà appunto Triton.La nuova operazione non si spingerà, però, oltre la frontiera italiana (mentre Mare nostrum si spingeva quasi al confine con la Libia) e le navi intercettate verranno portate in Italia, come previsto dalla normativa europea, visto che l'Italia è il Paese ospitante dell'operazione. «In un anno spesi oltre 100 milioni» La presentazione di Frontex è anche l'occasione per fare un bilancio di Mare Nostrum: «558 interventi, 100.250 persone soccorse, 728 scafisti arrestati, 6 navi sequestrate, soccorse oltre centomila persone e decine e decine di migliaia salvate»: sono i numeri forniti dal ministro dell'Interno Alfano. Ma «queste vite umane salvate non sono state tutte quelle che volevamo salvare» ha precisato, dando le cifre più drammatiche: «499 morti durante le operazioni, 1.446 presunti dispersi, 192 cadaveri da identificare». Pesante 5 anche il bilancio economico: «Per l'operazione della Marina militare l'Italia - ha ricordato Alfano - ha speso in un anno 114 milioni di euro, 9,5 milioni al mese. Mentre da domani la nuova operazione di pattugliamento delle frontiere, Triton, costerà 3 milioni di euro al mese - aggiunge - e sarà pagata da Frontex, quindi all'Italia costerà zero euro». Le forze in campo Triton schiererà ogni mese due navi d'altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero. L'Italia contribuisce a questa flotta con quasi la metà dei mezzi: un aereo, un pattugliatore d'altura e due pattugliatori costieri. Tra gli altri Paesi europei partecipanti ci sono anche Islanda (con una nave) e Finlandia (un aereo). Il Centro di coordinamento internazionale dell'operazione è stabilito presso il Comando aeronavale della Guardia di finanza a Pratica di mare (Roma). I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi tenendosi nell'ambito delle 30 miglia dal litorale italiano. In caso di interventi di ricerca e soccorso (Sar) potranno comunque spingersi anche oltre. Si tratta di un'operazione molto differente da Mare Nostrum, i cui mezzi arrivano fino a ridosso delle coste libiche per soccorrere imbarcazioni in difficoltà, secondo alcuni incentivando così le partenze dei migranti. Anche il budget è differente: 9,5 milioni di euro al mese per la missione nazionale, quasi 3 per quella Frontex. Triton, ha precisato Alfano, «non svolgerà le funzioni di Mare Nostrum. Costa un terzo e non è a carico solo dell'Italia, con enorme risparmio per noi. Farà - ha assicurato - ricerca e soccorso nei limiti del diritto internazionale della navigazione che impone a il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare». L'appello delle associazioni umanitarie Ma tra le associazioni che lavorano con i migranti c'è preoccupazione per la conclusione della missione umanitaria italiana. Unhcr, Amnesty, International, Save the children, hanno evidenziato i maggiori rischi per le traversate nel momento in cui non ci saranno più le navi italiane a prestare soccorso a ridosso delle coste libiche. Un cartello si associazioni, tra le quali Arci, Acli e Caritas, ha lanciato un appello al Governo perché non venga interrotta l'operazione Mare Nostrum. «L'Italia - spiegano - non può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo». Quasi a dar corpo a questi timori, oggi è giunta la notizia dell'ennesimo naufragio al largo della Libia: almeno venti persone risultano disperse dopo l'affondamento di un gommone, secondo quanto hanno riferito 93 superstiti tratti in salvo dalla Guardia costiera. Ma, assicura il ministro della Difesa Roberta Pinotti, «il soccorso in mare non viene meno, è il diritto del mare a chiederlo. L'Italia non si volterà indietro». http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_31/mare-nostrum-chiude-battenti-100milasalvati-ma-pesano-morti-9566507e-611b-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml Da il Fatto Tv del 31/10/14 Mare nostrum, “con stop a missione, su Italia il peso di migliaia di morti in mare” “Rifinanziare Mare Nostrum, una missione umanitaria che ha salvato la vita di oltre 150mila migranti“. E’ l’appello lanciato da varie associazioni fra cui Arci, Acli, Asgi, Caritas, Centro Astalli e Cgil nel giorno in cui l’operazione, avviata dal governo dopo la strage di 6 Lampedusa del 3 Ottobre 2013, sarà sostituita da Triton.”Se dall’inizio dell’anno si contano più di 3mila morti – afferma il vicepresidente dell’Arci Filippo Miraglia – con la chiusura della missione si arriverà a decine di migliaia di vittime che peseranno sulla responsabilità dello stato italiano“. ”La nuova operazione – spiega Oliviero Forti responsabile Immigrazione Caritas – ha diversi limiti: si svolgerà solo a poche miglia dalle nostre coste a differenza delle operazioni italiane che si spingono fino ai confini libici“. Per le organizzazioni il rifinanziamento di Mare Nostrum avrà un costo limitato. “Chiediamo all’Italia di fare pressioni all’Europa affinché si faccia carico delle spese dell’operazione”, conclude Miraglia di Annalisa Ausilio Link al servizio http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/10/31/con-stop-mare-nostrum-su-governocadra-peso-di-migliaia-di-morti-in-mare/307407/ del 01/11/14, pag. 3 Gli appelli a Renzi «Grave errore fermare Mare Nostrum» Mario Pierro L’operazione Triton non sostituisce Mare Nostrum e i migranti continueranno a morire moriranno nel Mediterraneo finché i Paesi Ue non avranno organizzato una vera operazione congiunta di ricerca e salvataggio. L’allarme è stato lanciato da un’appello Amnesty International, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Medici Senza Frontiere alla vigilia del lancio dell’operazione Triton, coordinata dall’agenzia europea Frontex, che nelle intenzioni del governo italiano dovrebbe sostituire l’italiana Mare Nostrum. Contro la decisione del governo Renzi si è schierato ieri un vasto cartello di associazioni: Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Save The Children Italia, Arci, oltre a Cgil e Uil, Acli e le Chiese Evangeliche. Terminare Mare Nostrum è «un gravissimo errore», e va ripensata. «Se Mare Nostrum chiude — ha spiegato Filippo Miraglia dell’Arci — i morti si moltiplicheranno». Triton, hanno detto, ha obiettivi diversi: «opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgerà un’azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum». Un’operazione che «non fermerà né le partenze né le stragi, i viaggi continueranno ma in condizioni ancor meno sicure». Le organizzazioni chiedono al governo «di non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente». «Costa solo 110 milioni di euro all’anno, 9 milioni al mese» ha detto Vera Lamonica della Cgil, che ha chiesto «più coraggio» al governo. Giuseppe Casucci, della Uil, sostiene che «l’Italia non può permettersi un’altra strage come quella di un anno fa». Tra le adesioni a questo appello ci sono anche Andrea Camilleri, Ascanio Celestini e Carlo Feltrinelli. «Non importa come è presentata — sostiene Nicolas Beger, direttore dell’ufficio delle istituzioni europee di Amnesty International– Triton non è un’operazione di ricerca e soccorso. Mentre il mondo affronta la peggior crisi di rifugiati dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Unione europea ei suoi Stati membri devono urgentemente e collettivamente assicurare operazioni per cercare e salvare migranti». Per Beger «vi è stata una spaventosa mancanza di risposte comuni nella ricerca e salvataggio da parte 7 degli Stati Ue. Triton è una chiara testimonianza della preoccupazione degli Stati di proteggere più le frontiere che le persone». L’appello congiunto di Amnesty International, Asgi e Medici Senza Frontiere paventa anche il rischio «di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è molto alto. Non sarà l’arrivo della cattiva stagione a porre fine ai conflitti senza quartiere in Libia, all’instabilità nella regione Saheliana, alla guerra in Siria e alle violenze in Iraq. Non sarà l’inverno a far venir meno il bisogno disperato di fuggire dalla guerra, dalla violenza, dalla persecuzione». «Oggi non ci sono alternative sicure per cercare protezione internazionale in Europa, la via del mare è l’unica opzione per migliaia di persone, vittime di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini. Operazioni di ricerca e soccorso limitate alle acque sotto la giurisdizione italiana metteranno a rischio migliaia di vite, se le aree di mare aperto non saranno pattugliate attivamente». Da Avvenire del 01/11/14, pag. 4 «E un errore, cosi cresce il rischio di altri naufragi» «Non condividiamo la decisione di ridimensionare il dispositivo di ricerca e soccorso italiano messo in campo per oltre un anno con Mare Nostrum. Le partenze dei migranti non si fermeranno, perché le crisi politiche e sociali che li spingono a fuggire dai propri Paesi non sono venute meno. E, con meno navi in mare, il rischio di altri tragici naufragi potrebbe aumentare...». E’ sera quando il responsabile del settore immigrazione della Caritas italiana, Oliviero Forti, prende atto con rammarico della risolutezza del governo, confermata nel pomeriggio dai ministri dell'Interno e della Difesa, nel voler chiudere la maxi operazione di salvataggio avviata nell'ottobre 2013. L'appello accorato al governo («Mare Nostrum non è la panacea di tutti i mali », ma «chiuderla è un gravissimo errore ») lanciato in mattinata da un ampio "cartello" traversale di associazioni, sindacati, Ong impegnate sul fronte dell'accoglienza (da Acli, Arci, Centro Astalli e Fondazione Migrantes, passando per i sindacati, fino a Libera, Comunità di Sant'Egidio e Save the children) è caduto nel vuoto. C'è delusione, ma c'è anche-la convinzione di dover insistere. La nuova operazione Triton, dicono le associazioni, non può essere «assimilabile a Mare Nostrum» e «non fermerà né le partenze né le stragi », poiché «opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane e svolgerà un'azione non propriamente di soccorso, ma di controllo delle frontiere... ». Valutazioni condivise anche da Berardino Guarino, della Fondazione del Centro Astalli, dal vicepresidente dell'Arci Filippo Miraglia («Se Mare Nostrum chiude, i morti si moltiplicheranno ») e da Vera Lamonica (Cgil}:«Sì, costa circa 9,5 milioni di euro al mese, oltre 110 in un anno, ma quante migliaia di vite ha permesso di salvare? Al governo chiediamo più coraggio...». Nella lettera-appello la rete di associazioni ha invitato l'esecutivo Renzi a «non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe» e a «proseguire con la missione, - rafforzando la pressione politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente». Richieste analoghe in un'altra lettera aperta di Amnesty Italia, Associazione studi giuridici sull'immigrazione e Medici senza frontiere, che hanno proposto di affiancare alla «continuazione del soccorso in acque internazionali» l'istituzione di «canali di ingresso legali e sicuri» per evitare la traversata in mare a chi fugge da aree di conflitto. Vincenzo R. Spagnolo 8 Da il Messaggero del 01/10/14, pag. 13 «Migranti, in Africa le richieste d’asilo» Luigi Fantoni Dai 9,5 milioni al mese di Mare Nostrum, «114 milioni in tutto, quasi centomila euro al giorno», a «zero euro» a carico dell’Italia per Triton che partirà oggi e «costerà 3 milioni di euro al mese, forse poco più, e sarà finanziata col bilancio di Frontex». È il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, a sottolineare il dato economico con enfasi, nel tracciare il bilancio di quella che è stata un’«operazione di emergenza» decisa dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre dello scorso anno con 366 vittime. «Oggi possiamo dire con nettezza che l’Italia ha fatto il proprio dovere», ha aggiunto il ministro che ha elencato i numeri dei tredici mesi di attività di Mare Nostrum: 558 interventi svolti, 100.250 le persone salvate. Sul fronte giudiziario, 728 sono stati gli scafisti arrestati e 8 le navi-madre sequestrate. Pesano quei 499 morti, i 1.446 presunti dispersi, e i 192 cadaveri da identificare. Nel passaggio da Mare Nostrum a Triton ci saranno due o tre mesi di «fase di uscita», ha spiegato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, poi all’Italia non spetterà più il controllo dei confini ma il solo rispetto della legge del mare. In questo lasso di tempo la Marina continuerà il suo lavoro con una nave grande a Lampedusa e tre pattugliatori: assetti ridotti e anche costi diminuiti di un terzo. Triton schiererà ogni mese due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero. I mezzi partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi tenendosi nell’ambito delle 30 miglia dal litorale italiano, diversamente da Mare Nostrum, i cui mezzi si spingevano molto più in là, fino a ridosso delle coste libiche. Cattura IL FUTURO «L’Europa ha fatto una scelta, scendere in mare. Ora occorre coraggio nel fare un’altra scelta, quella di campi profughi e di zone di accoglienza e richieste di asilo in Africa. Dobbiamo cambiare strategia come Europa e chiedere che le domande di asilo siano presentate in Africa» e fare «lì, attraverso accordi tra i paesi europei, un’azione di riallocazione dei profughi». Incassato il risultato della fine dell’operazione «di emergenza» Mare Nostrum il ministro Alfano sposta l’obiettivo del «negoziato» dell’Italia sull’immigrazione più avanti: occorre che le richieste d’asilo vengano presentate nei paesi d’origine, perchè «la risposta non può avvenire in mare ma deve avvenire lì», e serve un maggiore impegno nell’accoglienza da parte dei partner europei. «Adesso in mare si farà quel che si è sempre fatto: rispettare gli obblighi che derivano dalle leggi del mare», spiega il ministro, cedendo il boccino all’agenzia europea. Triton presidierà i confini di Schengen, fino a 30 miglia dalle coste italiane «Saranno quindi i Paesi del Nord Africa che si occuperanno delle operazioni di ricerca e soccorso». Cosa cambierà in concreto? Nella fase di partenza la Marina continuerà il suo lavoro, «al servizio delle emergenze», come spiega Pinotti, con «una nave significativa, grande, a Lampedusa e un pattugliamento di tre navi più piccole», mentre «ora usiamo 5 grandi navi». Pinotti poi assicura: «Il soccorso in mare non viene meno, è il diritto del mare a chiederlo. L’Italia non si volterà indietro». L’APPELLO Associazioni, sindacati, organizzazioni non governative, organismi ecclesiastici: un ampio fronte della società civile ha chiesto invece al Governo di non chiudere Mare Nostrum. «È un gravissimo errore»: un cartello che va da Cgil e Uil all’Arci, dalle Acli alla Caritas, da 9 Sant’Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha chiesto a Renzidi ripensarci. Da Ansa del 31/10/14 Immigrazione: appello a Governo,Mare Nostrum non può fermarsi Associazioni e sindacati, Italia deve continuare a salvare vite ROMA (ANSA) - ROMA, 31 OTT - Nell'ultimo giorno dell'operazione Mare Nostrum, che da domani sarà soppiantata da Triton dell'Agenzia europea Frontex, associazioni, sindacati e organizzazioni non governative rivolgono un appello al Governo italiano: la decisione di porre fine a Mare Nostrum è "un gravissimo errore", e va ripensata. Un cartello che va da Cgil e Uil all'Arci, dalle Acli alla Caritas, dalla Comunità di Sant'Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha chiesto oggi, in una conferenza stampa a Roma, di ripensarci: Mare Nostrum, hanno detto, "non è la soluzione a tutti i mali", ma in una situazione come quella che si vive oggi nel Mediterraneo, con l'aumento dei conflitti e delle situazioni di crisi, gli arrivi di persone che chiedono protezione non cesseranno. "Se Mare Nostrum chiude - ha spiegato Filippo Miraglia dell'Arci - i morti si moltiplicheranno". Triton, hanno detto, ha obiettivi diversi: "opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgerà un'azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum". Un'operazione, quella europea che dovrebbe partire domani, che "non fermerà nè le partenze nè le stragi, i viaggi continueranno ma in condizioni ancor meno sicure". Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente". "Costa solo 110 milioni di euro all'anno, 9 milioni al mese" ha detto Vera Lamonica della Cgil, che ha chiesto "più coraggio" al governo. Mentre Giuseppe Casucci, della Uil, ha detto che "l'Italia non può permettersi un'altra strage come quella di un anno fa". (ANSA). Da Ansa del 31/10/14 ANSA-BOX Appello società civile, Mare Nostrum non si fermi Associazioni e sindacati, Italia deve continuare a salvare vite ROMA (ANSA) - ROMA, 31 OTT - Associazioni, sindacati, organizzazioni non governative, organismi ecclesiastici: un ampio fronte della società civile ha chiesto oggi al Governo italiano di non chiudere l'operazione Mare Nostrum, che formalmente termina oggi lasciando il posto all'operazione europea Triton. "E' un gravissimo errore": un cartello che va da Cgil e Uil all'Arci, dalle Acli alla Caritas, dalla Comunità di Sant'Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha chiesto stamani, in una conferenza stampa, di ripensarci. Pur ammettendo che Mare 10 Nostrum "non è la soluzione a tutti i mali", le organizzazioni hanno sottolineato come in un anno di attività l'operazione di soccorso attuata nel Mediterraneo dall'Italia ha consentito il salvataggio di tante vite umane. I motivi che hanno portato queste persone a mettersi in mare rischiando la vita non sono certo venuti meno, quindi le traversate continueranno e Triton "non fermerà nè le partenze nè le stragi", perchè "opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgerà un'azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum". "Se Mare Nostrum chiude i morti si moltiplicheranno", ha spiegato Filippo Miraglia dell'Arci. Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente". "Costa solo 110 milioni di euro all'anno, 9 milioni al mese" ha detto Vera Lamonica della Cgil, che ha chiesto "più coraggio" al governo. Mentre Giuseppe Casucci, della Uil, ha detto che "l'Italia non può permettersi un'altra strage come quella di un anno fa". Anche Amnesty Italia, Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) e Medici senza frontiere, in una lettera aperta, hanno sollecitato il premier Matteo Renzi a non chiudere Mare Nostrum e a garantire che l'Italia continui le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo per salvare vite umane in mare. "Il rischio di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è molto alto", scrivono le tre organizzazioni umanitarie. "Siamo consapevoli che operazioni come Mare Nostrum non possano essere soluzioni permanenti per i migranti e i rifugiati che si dirigono verso la frontiera marittima europea in cerca di assistenza e protezione. Alla continuazione del soccorso in acque internazionali va infatti affiancata l'istituzione di canali di ingresso legali e sicuri che consentano alle persone in fuga dalle aree di conflitto di poter giungere in Europa dove chiedere protezione, evitando pericolosi viaggi in mare a rischio della vita. Ma perché le operazioni di ricerca e soccorso in mare non vengano ridimensionate, perché non ci siano altre migliaia di uomini, donne e bambini fuggiti da guerre per annegare in mare, resta poco tempo", concludono. (ANSA). Da Agenzia Sir del 31/10/14 12:44 - MARE NOSTRUM: ARCI-CGIL, SE L’OPERAZIONE CHIUDE MIGLIAIA DI ALTRE MORTI NEL MEDITERRANEO (Sir) “Se l’operazione Mare Nostrum dovesse chiudere saremo costretti ad assistere a migliaia di altre morti sulle nostre coste e nel mar Mediterraneo”. Lo ha detto il vicepresidente dell’Arci, Filippo Miraglia, durante l’incontro che si è tenuto oggi a Roma e che ha visto diverse organizzazioni sociali italiane che si occupano dei diritti dei migranti lanciare un appello al Governo italiano perché non venga interrotta l’operazione Mare Nostrum. “Il governo - ha detto Miraglia - non può permettersi di chiudere un’operazione che ha consentito il soccorso e il salvataggio di migliaia di persone per rispondere solo a delle logiche elettorali, cedendo alle spinte demagogiche e xenofobe che avanzano nel nostro Paese”. Su posizioni simili si è espressa anche il segretario nazionale della Cgil, Vera Lamonica: “La soluzione non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle nostre coste, ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di sicurezza. Senza Mare Nostrum - prosegue Lamonica - i viaggi continueranno, ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso garantito. Il Governo 11 conclude - nel semestre italiano di guida europea deve dare un segnale forte continuando a soccorrere e salvare le vite umane nel Mediterraneo”. Da Redattore Sociale del 31/10/14 Mare nostrum, le associazioni: "Se chiude, ricominceranno le stragi nel Mediterraneo" L’appello “disperato” della associazioni riunite oggi a Roma. Miraglia (Arci): “110 milioni all’anno cifra irrisoria, paghiamo lo stesso per monitorare le frontiere della Libia”. Forti (Caritas) “Deve andare avanti”. Lamonica (Cgil): “Nessuna sostituzione con Triton” ROMA- “Il nostro è un appello disperato, perché se solo quest’anno nel Mediterraneo ci sono state tremila morti accertate, con la chiusura di Mare nostrum le vittime del mare saranno molte di più. Noi non pensiamo che l’operazione della Marina militare sia la soluzione di tutti i problemi, ma finché non ci si decide ad aprire canali umanitari, si deve andare avanti”. Così Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale ha presentato alla stampa, oggi a Roma, l’appello firmato da un cartello formato dalle più grandi associazioni che in Italia lavorano al fianco dei migranti. Dalla Caritas al Centro Astalli, passando per Sant’Egidio, l’Asgi, Libera e i sindacati. Nel giorno in cui finisce ufficialmente il finanziamento dell’operazione, lanciata esattamente un anno fa, le associazioni chiedono al governo di fare un passo indietro e di non chiudere per motivi politici o meramente economici un’iniziativa che in questi mesi ha salvato migliaia di persone. “Nei giorni scorsi c’è stato anche n appello di diversi parlamentari per dire no alla chiusura, ma ad oggi non è ancora arrivata la decisione ufficiale del Consiglio dei ministri che decreta ufficialmente lo stop dell’operazione, quindi siamo ancora in tempo – aggiunge Miraglia -. In caso il governo voglia continuare Mare nostrum dovrebbe metterci ulteriori risorse, ma parliamo di 110 milioni all’anno, una cifra non così alta di fronte al costo di vite umane. Ricordiamo, inoltre, che l’Italia paga una somma equivalente per un accordo fatto tra il governo Letta e la Libia per un monitoraggio della frontiera sud della Libia. Si tratta di una commessa affidata a Finmeccanica per la creazione di un sistema radar di controllo, non si può dire che non ci siano risorse per l’operazione della Marina militare”. Secondo le associazioni sarebbe, inoltre, corretto che l’Italia chiedesse all’Europa di farsi carico dell’operazione o solo di sostenerla, data l’importanza dell’iniziativa. “Non si può dire che sarà sostituito da Triton perché il direttore di Frontex ha detto chiaramente che quelle navi non possono fare ricerca e salvataggio, che non c’è personale medico e che non si spingeranno oltre le frontiere italiane – continua Miraglia Dire che ci sarà una sostituzione è solo una scusa”. Secondo Bernardino Guarino, direttore del Centro Astalli non si possono “chiudere con Mare nostrum le scialuppe di salvataggio per le persone che cercano di arrivare in Europa. La cosa peggiore è che il motivo dello stop sia meramente economico – spiega – perché parliamo di persone che abbiamo il dovere di salvare”. Anche per Vera Lamonica della Cgil, nove milioni al mese non giustificano la fine dell’operazione. “Non si può cavalcare la paura dell’invasione, e lasciare il tema dell’immigrazione in mano a spinte xenofobe – sottolinea -. Siamo tristemente noti come il paese dei respingimenti e con Triton non si farà altro che monitorare la frontiera. Chiediamo quindi al governo un estremo atto di coraggio”. Sulla stessa scia anche Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana: “Il tema vero è se li vogliamo o no? – spiega – noi ribadiamo l’esigenza di creare canali umanitari ma nel frattempo Mare nostrum deve andare avanti”. Il nostro paese non 12 può permettersi un’altra strage come quella del 3 ottobre dello scorso anno – aggiunge Giuseppe Casucci della Uil e vicepresidente del Cir – davanti alla situazione di crisi internazionale non possiamo chiudere gli occhi”. Le associazioni che hanno sottoscritto l’appello sono: Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli, Arci, Asgi, Cnca, Fondazione Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus. Intanto nel pomeriggio di oggi è attesa a palazzo Chigi la conferenza stampa dei ministri Alfano e Pinotti, in cui molto probabilmente verrà annunciato lo stop ufficiale a Mare nostrum. (ec) Da Redattore Sociale del 31/10/14 L'Italia chiude Mare nostrum, cade nel vuoto l'appello delle associazioni “Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Tritone”, ha annunciato il ministro dell'Interno Alfano “Ci costerà zero euro, non ci sottrarremo alla legge del mare per i salvataggi”. "Ora occorre il coraggio di aprire campi profughi e raccogliere richieste di asilo direttamente in Africa ROMA – Cade nel vuoto l’appello lanciato in extremis dalle maggiori associazioni che in Italia lavorano al fianco dei migranti: l’operazione Mare nostrum chiude i battenti. Ad annunciarlo ufficialmente, in una conferenza congiunta con la ministra della Difesa Roberta Pinotti, è il ministro dell’Interno Angelino Alfano: “Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Tritone e in coincidenza di Tritone si conclude Mare nostrum – sottolinea il ministro - Siamo orgogliosi per il lavoro di tutti coloro che hanno consentito di salvare vite umane, Mare nostrum è stato un modello per l’Europa e si conclude con grandi risultati umanitari". Per Mare nostrum spesi 114 milioni, Triton ci costa zero euro. Il ministro dell’Interno ha ricordato che per l’operazione della Marina militare l’Italia ha speso in un anno 114 milioni di euro, 9,5 milioni al mese. Mentre da domani la nuova operazione di pattugliamento delle frontiere, Triton, costerà 3 milioni di euro al mese - aggiunge - e sarà pagata da Frontex, quindi all’Italia costerà zero euro. La nuova operazione non si spingerà, però oltre la frontiera italiana (mentre Mare nostrum si spingeva quasi al confine con la Libia) e le navi intercettate verranno portate in Italia, come previsto dalla normativa europea, visto che l’Italia è il paese ospitante dell’operazione. Mare nostrum ancora due mesi per passaggio consegne. Alfano ha spiegato che è prevista, inoltre, una fase di passaggio delle consegne tra le due operazioni, che durerà due mesi ed avrà un costo complessivo di 3,5 milioni di euro. Una sorta di Mare nostrum in versione light, che durerà solo sessanta giorni, dopodiché l’unica operazione nel Mediterraneo sarà appunto Triton. La ministra Pinotti ha inoltre aggiunto che “il diritto del mare impone di mantenere il soccorso umanitario” e che l’Italia in caso di naufragi “non si tirerà indietro”. Campi profughi e richieste asilo in Africa. “L''Europa ha fatto una scelta, scendere in mare. Ora occorre il coraggio nel fare un’altra scelta: quella di campi profughi e di richieste di asilo da presentare direttamente in Africa, anche per fare da lì una riallocazione (resettlement) dei profughi in base alle loro necessità, e per proteggerli dalle violenze che subiscono per fare la traversata”, ha inoltre aggiunto il ministro Alfano. 13 Inascoltate le associazioni. L’annuncio ufficiale dello stop a Mare nostrum arriva a poche ore dall’appello lanciato dalle principali associazioni che lavorano al fianco dei migranti, e che chiedevano al Governo di non rinunciare all’operazione per evitare “altre stragi nel Mediterraneo”. Le associazioni hanno anche ricordato che i costi di Mare nostrum sono sostenibili e incomparabili al costo di altre morti in mare. “Noi non pensiamo che l’operazione della Marina militare sia la soluzione di tutti i problemi - spiega Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale- ma finché non ci si decide ad aprire canali umanitari, si deve andare avanti”. Le associazioni che hanno sottoscritto l’appello sono: Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli, Arci, Asgi, Cnca, Fondazione Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus. Si apre ora una fase di incertezza: Cosa accadrà nelle acque non pattugliate da Triton? Con la fine di Mare nostrum e l’inizio della nuova operazione Triton dell’agenzia europea Frontex, si apre una nuova fase di incertezza. Non è chiaro infatti cosa accadrà al di là della frontiera italiana (ed europea) oltre la quale le navi di Triton non si spingeranno. Dalla Libia ai confini con le acque italiane, cosa succederà da domani? Chi soccorrerà i migranti? Il direttore di Frontex, Jil Arias Fernandez in una conferenza stampa a Roma, meno di due settimane fa, lo ha detto chiaramente: “Triton non sostituirà Mare nostrum, le due operazioni sono distinte e hanno missioni differenti – ha spiegato ai giornalisti -. Le navi di Triton non sono adatte al salvataggio in mare, e inoltre non ci spingeremo oltre la frontiera italiana come faceva la Marina militare”. Le acque internazionali tornano ad essere dunque senza controllo, e probabilmente si interverrà solo in presenza di una segnalazione. Nella conferenza stampa di oggi Alfano ha sottolineato che “La Marina sta già a 30 miglia dalla costa, dove è già altomare” non chiarendo però se continuerà a spingersi oltre, come faceva con Mare nostrum. Mentre la ministra Pinotti, ricordando che la legge del mare impone di salvare chi è in difficoltà, ha ribadito che la Marina, così come la Guardia costiera non si sottrarranno al loro dovere. Ma non è chiaro come si opererà. Si tornerà forse alla situazione di un anno fa, quando ci fu la terribile strage del 3 ottobre, costata la vita a 368 persone, che impose appunto di avviare Mare nostrum? Da la Porzione.it del 01/11/14 “Se Mare Nostrum chiuderà avremo ancora morti sulle nostre coste” "La soluzione non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle nostre coste, ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di sicurezza" Questo l’avvertimento lanciato ieri da varie organizzazioni sociali e religiose, appellatesi al Governo italiano ed all’Unione Europea affinché non chiudano l’operazione Mare Nostrum «Se l’operazione Mare Nostrum dovesse chiudere, saremo costretti ad assistere a migliaia di altre morti sulle nostre coste e nel mar Mediterraneo». Lo ha detto il vicepresidente dell’Associazione culturale e ricreativa italiana (Arci), Filippo Miraglia, durante l’incontro che si è tenuto ieri a Roma e che ha visto diverse organizzazioni sociali italiane che si occupano dei diritti dei migranti (Acli, Arci, Asgi, Casa dei diritti sociali-Focus, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Comunità di Sant’Egidio, Emmaus Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete G2 – Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Save the 14 Children Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil) lanciare un appello al Governo italiano perché non venga interrotta l’operazione Mare Nostrum: «Il Governo – osserva Miraglia – non può permettersi di chiudere un’operazione che ha consentito il soccorso e il salvataggio di migliaia di persone per rispondere solo a delle logiche elettorali, cedendo alle spinte demagogiche e xenofobe che avanzano nel nostro Paese». Sulla stessa linea si è espressa anche il segretario nazionale della Cgil, Vera Lamonica: «La soluzione – spiega – non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle nostre coste, ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di sicurezza. Senza Mare Nostrum i viaggi continueranno, ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso garantito. Il Governo, nel semestre italiano di guida europea, deve dare un segnale forte continuando a soccorrere e salvare le vite umane nel Mediterraneo». Del resto, il timore insito nelle coscienze degli operatori del terzo settore è che l’Italia, chiudendo l’operazione, volti le spalle ai drammi della Siria, della Libia, del Nord Africa e di tutti i Paesi da cui i migranti fuggono: «Proseguire questa operazione – afferma Berardino Guarino, direttore dei Progetti del Centro Astalli – è la scelta responsabile che oggi l’Italia deve compiere, per dimostrare nei fatti che la salvaguardia di ogni vita umana è il primo dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e democratico». All’incontro era presente anche il responsabile del Dipartimento politiche migratorie della Uil, Giuseppe Casucci: «Il Governo – sostiene Casucci – deve rafforzare la pressione politica nei confronti dei partner europei, affinché contribuiscano a mantenere viva l’operazione Mare Nostrum sostenendola anche economicamente». Nell’ambito dell’incontro, sono poi sorte numerose perplessità relativamente al programma europeo Triton, che prenderà il posto di Mare Nostrum: «Ha obiettivi diversi – sottolinea il responsabile del Dipartimento politiche migratorie della Uil – perché opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgendo un’operazione non di soccorso, ma di controllo». Un aspetto, quest’ultimo, che ha allarmato non poco le associazioni sollecitandole, a maggior ragione, a rivolgere un appello alle istituzioni: «Chiediamo al Governo ed all‘Unione Europea – premette Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli nazionali – di ampliare gli obiettivi del programma europeo Triton, in modo da garantire continuità ad un’operazione che operi in acque internazionali, con un mandato chiaro di ricerca e soccorso delle persone in difficoltà». Un appello, questo, che ha dunque lanciato l’allarme sui rischi emersi dal nuovo programma europeo: «Così com’è ora – si legge nel comunicato – Triton non fermerà né le partenze né le stragi. I viaggi continueranno, ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso garantito in questo anno da Mare Nostrum. Perciò, proseguire l’operazione Mare Nostrum è la scelta responsabile che oggi l’Italia deve compiere, per dimostrare nei fatti che la salvaguardia di ogni vita umana è il primo dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e democratico». http://www.laporzione.it/2014/11/01/se-mare-nostrum-chiudera-avremo-ancora-morti-sullenostre-coste/ del 03/11/14, pag. 3 Caro amico Delrio, che delusione! Caro Graziano, 15 ti ricordi quando eri sindaco di Reggio Emilia e capo dell’Anci e io sono venuto da te a portarti il mio libro «Italiani, per esempio. L’Italia vista dai bambini immigrati», da cui è nata la «nostra» bella campagna di cittadinanza «L’Italia sono anch’io» insieme a Feltrinelli, Cgil nazionale, Arci Nazionale, Caritas e tante altre associazioni e soggetti del mondo civile? Quanto entusiasmo! Quante speranze! Ti disturbo perché l’altra settimana ho sentito la dichiarazione del presidente del Consiglio sulla volontà di introdurre lo ius soli «temperato». Se ho capito bene, per i ragazzi stranieri nati e/o cresciuti in Italia, verrebbe subordinato al completamento di un ciclo di studi: la scuola dell’obbligo che in Italia termina a 16 anni o la secondaria superiore per chi è arrivato qui adolescente. Tanta enfasi nell’annuncio, per poi abbassare la soglia di due soli anni? Per me, te lo confesso, è stata una delusione. E per te? Non si poteva proprio fare niente di meglio? Insomma, rispetto alla situazione di oggi, — che noi, insieme a tanti altri, ritenevamo assurda e vecchia, — si abbasserebbe di soli due anni l’età di accesso alla cittadinanza. E prima? Da 0 a 16 anni? Un bambino nato in Italia figlio di immigrati, continuerebbero ad essere considerato straniero in patria? Nel Paese dove è nato e cresciuto? Un invisibile? Cosa cambia? Sei invisibile per 16 anni invece che per 18? Mah. Ti ricordi la lettera della piccola Lamiaa Zilaft (la ripubblichiamo qui sopra) che ci ha tanto commosso, Graziano? L’ha letta anche a Roma, dove poi sei andato anche tu. Pensi che lei e i suoi genitori siano soddisfatti? Come tu sai bene, caro Graziano, ci sono 200 mila firme per lo «ius soli». Hai contribuito anche tu a raccoglierle con grande impegno e determinazione. E sai che in Parlamento giace da anni una proposta di legge di iniziativa popolare di riforma della cittadinanza per la quale la campagna «L’Italia sono anch’io», di cui tu sei stato il principale testimonial politico, ha raccolto ben 200mila firme, che prevede sì uno ius soli temperato, ma condizionato soltanto alla residenza di uno dei genitori da almeno un anno. Sai inoltre, caro Graziano, che la competente Commissione della Camera, dopo varie audizioni di organizzazioni sociali che sul tema lavorano sta lavorando a un testo unificato da portare in Aula. Insomma, che ce ne facciamo di una legge che, di fatto, non riforma l’attuale normativa sulla cittadinanza? Non valeva che il tuo amico Matteo facesse un annuncio in meno, — o magari lo facesse senza fretta, tra qualche mese, — ma annunciando qualcosa di realmente significativo? O mi sbaglio io? A proposito, se per caso non l’hai ancora fatto, ti allego qui di seguito la lettera di Lamiaa. Fagliela leggere, a Matteo. Ciao e buon lavoro. Giuseppe Caliceti Da Redattore Sociale del 02/11/14 Sentenza Cucchi, Arci: "Urgente introdurre il reato di tortura" Continua a far discutere la decisione della Corte l'appello di Roma, mentre i familiari annunciano il ricorso in Cassazione e alla Corte europea. Manconi: "Lo Stato ha fallito nel suo compito principale" 16 ROMA - Non si placano le polemiche sulla sentenza della Corte d'appello di Roma che nei giorni scorsi ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi. A due giorni dalla sentenza, i familiari della vittima annunciano la volontà di ricorrere in Cassazione e alla Corte europea, mentre cresce il numero di associazioni che chiedono verità e giustizia sulla vicenda. A chiedere una l'immediata introduzione del reato di tortura è l'Arci che in una nota commenta la sentenza. "Non si può morire così nelle mani dello Stato - spiega la nota -. E uno stato democratico non può consentire impunità". Secondo l'Arci, le perizie parlano chiaro. "Stefano è stato pestato e poi lasciato morire senza cure si legge nella nota -: esponenti delle forze dell’ordine e medici ne sono dunque responsabili. A meno di non credere che il giovane si sia suicidato adottando uno insolito modo per farlo, procurandosi da solo evidenti segni di percosse che l’hanno sfigurato. Una vicenda, quella di Stefano, che tra l’altro dimostra una volta di più quanto sarebbe urgente introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura". L'Arci, inoltre, commenta anche le dichiarazioni del senatore Carlo Giovanardi che in un comunicato stampa ha difeso la sentenza. "Un certo giornalismo totalmente disinformato o in malafede - scrive Giovanardi in una nota diffusa ieri - continua a ripetere a pappagallo il luogo comune che Stefano Cucchi sia stato ucciso due volte dallo stato con la sentenza di assoluzione della Corte di Assise di Appello di Roma. Questa volta molto più semplicemente l'avvocato Anselmo si è trovato di fronte ad una giuria, composta da magistrati e da rappresentanti del popolo, cittadini comuni, non lo stato, che hanno deciso secondo gli elementi di verità emersi nel processo e non in base a pregiudizi ideologici o pressioni mediatiche, come avremo modo di approfondire meglio una volta rese note le motivazioni della sentenza". Per l'Arci, "le dichiarazioni di Giovanardi e del rappresentante del Sap che affermano che 'epilettici o tossicodipendenti non hanno diritto al rispetto e alla vita', dimostrano quanto degrado si annidi all'interno delle nostre istituzioni e nei loro rappresentanti". Intervistato dal quotidiano Avvenire, anche il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, non risparmia critiche alla sentenza della Corte d'appello. "L’assoluzione completa attuale tace il cuore della questione - afferma Manconi -. Stefano Cucchi è morto mentre era nella custodia dello Stato, mentre era affidato alle istituzioni". Per il senatore, si tratta di una sconfitta. "Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio - spiega Manconi -, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado, quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale". Sulla questione è intervenuto anche il sindaco di Roma, Ignazio Marino, che prima di guidare la giunta capitolina si era interessato al caso cucchi con un'indagine condotta dalla Commissione d'inchiesta del Senato sul Servizio sanitario nazionale da lui guidato negli anni scorsi. Per il primo cittadino di Roma, si tratta di una sentenza "dissonante rispetto alle conclusioni formulate dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del Senato. La Commissione d'inchiesta si è trovata di fronte alla drammatica vicenda di un ragazzo che ha perso dieci chili in sei giorni: i consulenti della Commissione hanno documentato che, oltre alla disidratazione, il corpo di Stefano riportava alcune lesioni anche vertebrali. Nell'analizzare quanto accaduto, la sensazione forte della Commissione è che nei confronti di Stefano Cucchi abbiano prevalso le esigenze legate agli aspetti cautelativi rispetto a quelli sanitari". Sulla sentenza, nei giorni scorsi si erano già pronunciate altre associazioni. "Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti – sottolinea in una nota Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia - Quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero. E non accerta alcuna responsabilità per un 17 decesso che tutto appare meno che accidentale o auto procurato. Verità e giustizia sono dunque ancora più lontane". Anche il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella contesta la sentenza. “La sua vita è stata nelle mani di tante istituzioni dello Stato. Decine di operatori della sicurezza, della giustizia e della sanità pubblica lo hanno incrociato in quei giorni che lo hanno portato alla morte. Eppure, secondo la Corte d’Appello, non c’è neanche un colpevole – sottolinea -Dunque, nessuno è responsabile per la morte di Stefano Cucchi –. Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro paese, perseguire i responsabili è operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme, come il reato di tortura e manca una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana. Anche in questo caso ha prevalso lo spirito di corpo che impedisce la ricostruzione puntuale dei fatti e il raggiungimento della verità storica. A questo punto non resta che sperare che la Corte Suprema di Cassazione annulli una sentenza, come quella odierna, che si muove perfettamente nel solco di una storia, quella italiana, che fa fatica a dare giustizia a chi ne ha diritto”. Da Left del 01/11/14 Left è insieme Carlo Testini - Arci Non smetteremo mai di dirlo, per non rischiare dì farlo dimenticare a chi ha il compito non facile di promuovere benessere e sviluppo: la Cultura è parte fondamentale di un buon sistema dì Welfare. Una comunità inclusiva, aperta alle diversità, che attraverso il dialogo con gli altri costruisce benessere per i suoi cittadini ha bisogno dì persone che siano in grado dì capire quello che gli accade intorno. Lo sviluppo di capacità culturali e creative ha un impatto straordinario sulle nostre possibilità di interagire e di costruire relazioni positive. Avere famigliarità con uno strumento musicale o con l'arte contemporanea, ci arricchisce e ci spinge a conoscere altri mondi, altre esperienze di vita. Per questo non è davvero più accettabile che in tempo di crisi dì bilanci pubblici si mettano in contrapposizione le spese per la salute con quelle per la scuola o per i teatri. Così come appare sempre più urgente non sottovalutare le esperienze di auto-organizzazione di cittadini, artisti, operatori culturali che animano il mondo della cultura dell'oggi. Occupazioni, associazioni, co-working, sono esperienze straordinarie che producono quella innovazione dei processi della quale abbiamo davvero bisogno per rilanciare il nostro Paese. Un progetto di sinistra non solo si deve mettere in ascolto ma deve trovare le forme per una relazione costante con queste esperienze e considerarle uno dei pilastri per la ricostruzione di un sistema culturale oggi fragile, a perenne rischio di frana. Questo vale anche per le Regioni e i Comuni. Le amministrazioni locali hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo della cultura nelle comunità e possono farlo in maniera intelligente solo se sì assumeranno l'onere di dare spazio (e spazi) a tutte le forme di partecipazione attiva nel mondo delle arti e delle produzioni culturali. La buona Cultura, oggi, si fa "insieme" o non si fa. 18 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 03/11/2014, pag. 5 La carica delle slot 2.0 Raccolgono soldi in Italia pagano le tasse all’estero Il prelievo aumenta? Ecco il rimedio sul filo della legge Alessandro Barbera A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma, sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di cammuffarle, altro non sono che macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia. I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari italiani. Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo 44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in denaro»...segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012 aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni». Nel settore dei giochi, come già è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44 per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem. Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini. Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca, riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle 19 quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un grande affare. Da il Sole 24 ore del 03/11/14, pag. 20 Terzo settore. I dati della rilevazione Unioncamere confermano nel 2014 la vivacità della forma giuridica Imprese sociali più qualificate Nonostante la crisi crescono le assunzioni tra le professionalità elevate Pur soffrendo la crisi, l'impresa sociale conferma la propria attitudine all'innovazione e all'investimento in risorse umane qualificate, affacciandosi all'ultimo scorcio d'anno con una previsione di 31.550 assunzioni a fronte di 35.240 uscite, dato che comporta un saldo negativo dello 0,8%, non certo entusiasmante ma largamente migliore della stima sul totale dell'occupazione nell'imprenditoria italiana, attesa tra il meno 1,5 e il meno 2 per cento. La fotografia aggiornata di quella che resta, a tutt'oggi, la forma giuridica più dinamica nella galassia del Terzo settore giunge dalle Giornate di Bertinoro per l'economia civile, organizzate da Aiccon, associazione per la promozione della cooperazione e del non profit. In quella sede Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere, ha presentato i dati dell'annuale rilevazione elaborata dal sistema informativo Excelsior, sottolineando che sono, in particolare, le figure professionali con un elevato livello di istruzione quelle che sostengono la crescita del comparto. Più in dettaglio, sono le imprese con il fatturato in aumento e quelle che hanno dichiarato di avere realizzato innovazioni di prodotto o servizio nel corso del 2013 a presentare un trend positivo nelle assunzioni del 2014. Passa, inoltre, dal 29% del 2008 al 33% di quest'anno la domanda di lavoro di profili high skill, mentre tende a decrescere la quota delle figure operaie, che ormai costituiscono appena il 3% del totale. Il gruppo maggioritario resta quello delle professioni intermedie, cioè impiegati e commerciali, attestato al 50% del totale, dopo aver toccato un minimo del 44% nel 2011. Le figure specialistiche e tecniche maggiormente richieste dalle imprese sociali sono quelle sanitarie, sia riabilitative che infermieristiche, gli educatori e formatori nel campo delle disabilità e i docenti di scuole pre-primarie. Il pre-consuntivo del 2014 è in chiaroscuro, ma va tenuto presente che, nell'arco degli ultimi dieci anni, il numero delle imprese è raddoppiato, passando da 8.500 a 17.600, mentre gli occupati totali hanno superato quota 400mila unità. «Il modello dell'impresa sociale - ha spiegato Gagliardi - dimostra di saper combinare la crescita economica con il benessere sociale, con una sempre maggiore integrazione tra imprese non profit e mondo profit. Ma questa ibridazione ha bisogno anche di luoghi istituzionali che contribuiscano a rafforzarla, come si stanno impegnando a fare, per esempio, le Camere di commercio». 20 ESTERI del 03/11/14, pag. 1/14 Gerusalemme. Il Monte del Tempio è il centro di una nuova contesa che ultraortodossi e ammiratori della jihad vogliono trasformare in una guerra mondiale tra ebraismo e islam La città brucia e cresce la protesta giovanile nei quartieri arabi. Così si prepara la Terza Intifada Sulla Spianata delle Moschee dove i fanatismi accendono l’odio GAD LERNER GERUSALEMME È UNA parola sconsigliata. In Israele circola sottovoce, la pronunciano con tremore: di nuovo Intifada, cioè rivolta, sollevazione, per la terza volta in 27 anni. Solo che stavolta l’Intifada palestinese, siccome non c’è limite al peggio, sta divampando proprio là dove più la si temeva, nel cuore di Gerusalemme, cioè dove ebrei e arabi, pur odiandosi, saranno in ogni caso costretti a vivere mescolati. Destino reso ineluttabile dall’annessione della città santa divenuta capitale “indivisibile” d’Israele nel 1967, quindi priva di check point e confini tracciati. L’Intifada per ora sta risparmiando le mete del turismo e del pellegrinaggio cinte dalle mura ottomane. Ma l’epicentro della contesa, che forse qualcuno ha pianificato di trasformare in guerra mondiale fra islam e ebraismo, sorge proprio lì, meraviglioso e inavvicinabile: la spianata delle Moschee edificate tredici secoli fa sopra il Monte ove fino al 70 dopo Cristo svettava il Tempio d’Israele. Luogo divenuto islamico e come tale vilipeso dai crociati cristiani, prima che nel 1187 Saladino li cacciasse definitivamente. Luogo che fino a oggi nessun politico israeliano con la testa sulle spalle ha mai rivendicato per un revival messianico del culto ebraico. Tutto intorno alla città vecchia, Gerusalemme brucia. La polizia israeliana preferisce credere che la maggior parte dei focolai di protesta giovanile nei quartieri arabi siano di natura spontanea, e cerca di reprimerli con modalità poco appariscenti. Ma proprio ieri il governo, nella sua riunione domenicale, su proposta di Netanyahu, ha approvato un disegno di legge che inasprisce fino a 20 anni di carcere le pene per chi tira sassi sulle automobili provocando danni alle persone. Mentre lo Shin Bet indaga su una possibile regia di Hamas o addirittura dell’Is (Stato islamico) dietro agli incendi, ai finti incidenti stradali, alla strategia del terrorismo individuale di strada. Anche perché le provocazioni non appaiono quasi mai casuali. Era del quartiere di Silwan il palestinese che ha investito con l’auto, uccidendole, una donna e una neonata alla fermata del métro leggero. E guarda caso a Silwan prometteva di traslocare, qualche giorno prima, il ministro dell’edilizia Uri Ariel, d’intesa coi coloni che ne rivendicano l’ebraicità in quanto parte dell’antica città di Davide. Più mirato ancora il tentato omicidio di Yehuda Blick, rabbino-simbolo del nuovo integralismo contemporaneo, che proprio sulla controversia della Spianata riscuote consensi impensati. Non uno di quei pazzi estremisti che da anni predicano la demolizione di al-Aqsa e della Cupola della Roccia (luoghi sacri all’islam) per ricostruirvi il Terzo Tempio degli ebrei. No, Blick presenta un volto moderato e chiede “solo” che anche gli ebrei abbiano il diritto di pregare lassù. In amicizia coi musulmani. 21 Bisognerebbe chiedergli se sarebbe favorevole, per reciprocità, a libere preghiere musulmane al Muro del Pianto, se non versasse in gravi condizioni all’ospedale. Fatto sta che Brick a destra viene rappresentato come uomo di pace e di buon senso. Se sia un piromane consapevole o inconsapevole, poco importa. Ha convinto non pochi seguaci a praticare la disobbedienza recandosi sulla spianata a pregare. Trascina dalla sua parte una componente in ascesa del sionismo religioso cui fa capo anche il ministro Ariel: il partito della “Casa ebraica” guidato dal concorrente più temibile di Bibi Netanyahu, cioè Naftali Bennett, oggi ministro dell’Economia. Siamo proprio sicuri che l’Intifada di Gerusalemme nuoccia al disegno di potere impersonato da Bennett? Lui è il prototipo perfetto della nuova destra israeliana. Patrocina i coloni insediatisi nei territori palestinesi, elevandoli a autentici prosecutori del pionierismo sionista delle origini. È religioso ma senza anacronismi estetici, basta una kippà ricamata all’uncinetto senza travestirsi da ebreo polacco del diciassettesimo secolo. È stato un abile uomo d’affari della new economy, ma ciò non gli ha impedito di fare il suo dovere nei reparti d’eccellenza dell’esercito. Di origine statunitense, ma duro fino alla tracotanza nella polemica pubblica con i liberal e Obama… Se nei giorni scorsi Netanyahu ha contribuito a riscaldare gli animi dichiarandosi pronto a rilasciare licenze edilizie per mille nuove case ebraiche a Gerusalemme est, è perché Bennett da tempo di case ebraiche fra gli arabi ne chiede il doppio, duemila. Così accade che il sionismo religioso assuma l’egemonia culturale dentro a un establishment israeliano chiamato a misurarsi con le nuove forme del jihadismo. Al meeting del Centro Begin di Gerusalemme dedicato a “Il ritorno di Israele sul Monte del Tempio”, funestato dall’attentato al rabbino Brick, altri oratori in precedenza esprimevano così la loro protesta: «Vi sembrerebbe pensabile che Washington rinunci alla Casa Bianca e Parigi alla Torre Eiffel? Noi siamo proprio il più umiliato dei popoli!». Per fortuna venerdì scorso ci ha pensato anche la pioggia a sbollire gli animi nella città vecchia, mentre tutto intorno continuavano le sassaiole, il lancio notturno di razzi, le aggressioni e i sempre più frequenti incendi dolosi. Lassù a al-Aqsa è stato necessario vietare la funzione religiosa islamica ai minori di 50 anni. Ma al tramonto, quando proprio lì sotto al Muro del Pianto si affollavano gli ebrei per la preghiera del sabato, faceva una certa impressione vedere i soldati col mitra a tracolla abbracciarsi in cerchio e cantare e danzare insieme ai rabbini ortodossi: una volta soldati e rabbini erano due mondi non comunicanti fra loro, oggi invece il sionismo religioso pervade anche l’esercito e assegna alla guerra sinistre virtù teologiche. A Gerusalemme le respiri nell’aria, queste ideologie contemporanee affiorate improvvisamente, dal Califfato islamico che recluta volontari pure fra gli arabi israeliani, alla pretesa ebraica di calpestare la Spianata. Solo che a Gerusalemme non c’è muro di separazione che tenga: questa è la città in cui meno realistico appare il progetto europeo e statunitense fondato sulla spartizione di due popoli in due Stati, separati in pace e sicurezza. Qui, nel mezzo dell’Intifada di Gerusalemme, diviene impossibile eludere la domanda più radicale e politicamente scorretta che aleggia nell’ultimo splendido romanzo di Amos Oz, non a caso intitolato Giuda. Ambientata mezzo secolo fa in una città ancora divisa fra Israele e Giordania, con i luoghi santi interdetti agli ebrei, la sua è una storia di traditori e tradimento. Ma a queste infedeltà, al tradimento, Oz sente di dover tributare benevolenza. Siamo proprio sicuri che fosse la soluzione migliore per gli ebrei, costruirsi uno Stato tutto per loro? Al grande scrittore è consentito chiederselo, mentre i gerosolimitani condannati a vivere mescolati testimoniano quanto sia faticoso, ma inevitabile, cercare ogni giorno la convivenza possibile, lì in mezzo ai fanatici. Più imbarazzante è rispondere alla stessa domanda per la sinistra israeliana, che lo scorso sabato sera si è ritrovata, numerosa e spaventata, a Tel Aviv per commemorare il diciannovesimo anniversario dell’omicidio del “suo” primo ministro Rabin. C’era anche il 22 patriarca di questa sinistra oggi senza leader, il novantenne Shimon Peres, a ripetere con voce tonante che “due popoli, due Stati” è l’unica soluzione per fermare la prossima guerra. Nessuno osa contraddire questo assioma, anche se i più dubitano che sia davvero praticabile. Sono belli, e sono davvero tanti, almeno 15 mila, quelli che in piazza a Tel Aviv impersonano l’Israele laica che resiste all’offensiva del sionismo religioso. Ma ormai alcuni dei loro dirimpettai giovani arabi di Gerusalemme ammirano piuttosto i tagliagole dell’Is. E le moderne kippà all’uncinetto, seguaci del messianismo politico di Bennett, ora che hanno preso il posto degli ultraortodossi intabarrati di nero, puntano gli occhi sul Monte del Tempio. Senza accorgersi che forse anche loro stanno precipitando nell’infernale Geenna posta a strapiombo sul versante orientale di un luogo sempre meno santo, dissacrato dal fanatismo. del 03/11/14, pag. 16 L’Est ribelle vota e sfida Kiev Mogherini: “Ostacolo alla pace” NICOLA LOMBARDOZZI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA . Alle urne con rabbia, paura, e vaghe speranze di pace. Tra barricate, continue ronde di miliziani armati, e echi di esplosioni in lontananza, la gente di Donetsk e Lugansk ha eletto ieri Presidenti e Parlamento delle due repubbliche ribelli dell’Ucraina dell’Est. Un voto che sarà riconosciuto solo dalla Russia, ma che è stato bollato come illegittimo da Kiev, dagli Usa e dall’Ue. «Un ostacolo alla pace», lo ha definito il nuovo Alto rappresentante della Politica estera e della Sicurezza comune dell’Unione Europea Federica Mogherini. Un nuovo elemento di tensione che potrebbe servire a Kiev per giustificare una ripresa dell’offensiva che ormai si paventa da settimane, e a Mosca per continuare ad armare e sostenere logisticamente le truppe secessioniste. L’affluenza è stata molto alta, tutto si è svolto con un relativo ordine in un clima di guerra e di nostalgia per un passato sovietico riportato in auge con un profluvio di citazioni, ritratti e slogan di Stalin, Lenin e dei grandi capi militari della Armata Rossa che fu. Dalle dichiarazioni degli elettori, riportate in diretta dai seggi dalle tv russe, viene fuori la voglia di sancire una volta per tutte l’indipendenza da Kiev e di rispondere con una rottura definitiva alla presa del potere ucraino da parte di forze nazionaliste e “anti russe”. «Spero che finalmente tutti capiranno che siamo indipendenti e che dovranno trattare la pace con noi», diceva una ragazza bionda dall’aria concitata. «Non abbiamo niente a che vedere con i fascisti di Kiev. Ora dobbiamo estendere la nostra area a Odessa, a Kharkiv e alle altre città russofone di Ucraina», ripeteva minaccioso un anziano minatore. Sui risultati non c’era da aspettarsi alcuna sorpresa, visto che i due favoriti correvano praticamente da soli contro concorrenti inseriti giusto per fare numero. Presidente di Donetsk sarà dunque Aleksandr Zakharchenko, 38 anni, premier uscente, combattente delle milizie ribelli, ferito sul campo durante le battaglie di questa estate. A Lugansk invece è stato confermato l’attuale Presidente, Igor Plotinskij, 50 anni, già ufficiale dell’Armata Rossa sovietica. Il progetto dichiarato è di federare al più presto le due repubbliche autoproclamate sotto la sigla Novo Rossja, con la speranza di estendersi ancora alle altre zone russofone. 23 Un segnale a Kiev ma, forse, anche all’amica Russia, che negli ultimi tempi avrebbe frenato ogni discorso sulla “guerra a oltranza fino alla vittoria”, per incanalare seppur turbolente trattative di pace. Il Cremlino ha infatti spiegato la sua scelta di riconoscere le elezioni con il fatto che questo «rinforza nei fatti l’autonomia delle due regioni», restando aggrappato alla possibilità di una mediazione. I rappresentanti adesso eletti potrebbero infatti sedersi ora al tavolo delle trattative con maggiore credibiltà e possibilità di essere ascoltati. Ma è un passaggio molto stretto. A Kiev, dove le elezioni della settimana scorsa hanno sconfitto il presidente Poroshenko e portato in Parlamento molte forze nazionaliste, si urla contro la provocazione del voto a Est, si denunciano presunti sconfinamenti di truppe russe, si paragona il Donbass alla ferita ancora aperta dell’annessione della Crimea. Voci e rumori di guerra che si fanno sempre più forti. del 03/11/14, pag. 1/25 CINQUE ANNI FA LO STESSO FURTO AD AUSCHWITZ Nuovo oltraggio all’Olocausto rubata l’insegna di Dachau ADRIANO SOFRI LA NUOVA impresa è il furto dell’intera porta-inferriata di Dachau, col motto “AR-BEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi), che là fu inaugurato e poi si diffuse alla maggioranza dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Sdegno suscitato dalla profanazione, esecrazione: ci mancherebbe altro. L’ingresso del lager nazista di Dachau prima e dopo il furto della scritta UNIVERSALI , sentiti? Chissà. Dopotutto, è passato tanto tempo, la specie dei testimoni superstiti è quasi estinta, anche sul sacro incombe una prescrizione. E se non altro la prescrizione inesorabile dell’abitudine: dopotutto, ancora, si tratta di una replica. L’insegna con la scritta “ARBEIT MACHT FREI” era già stata rubata ad Auschwitz e ritrovata poco dopo (bisogna scriverla maiuscola com’era, anche nelle citazioni, almeno per non perdere la B invertita dal prigioniero costretto a lavorarla). Una bravata di neonazisti inetti, e largamente svedesi, per giunta. (Rileggere Larsson, prego). Del resto, chi può dire chi stia dietro la provocazione di Dachau… Già. Si oscillerà, così, “responsabilmente”, fra la preoccupazione di eccedere nei toni indignati e quella di minimizzare. C’è qualcosa di meglio da dire e da fare? Forse. Intanto, si può aver voglia di imparare, o richiamare alla memoria, che cosa fu Dachau. È così facile oggi informarsi, e perfino fare un viaggio. Dachau non fu solo il prototipo, il lager- scuola del concentrazionismo e dello sterminio nazionalsocialista. Fu anche il luogo in cui gli alleati occidentali, gli americani soprattutto, videro coi propri occhi che cosa vi si fosse consumato, e lasciarono documenti impressionanti del loro sgomento. Ma c’è un’altra sollecitazione che viene dall’impresa di Dachau, ed è legata alla stessa incertezza sulla sua matrice. Non che il neonazismo sia introvabile: non è mai stato così in salute, anche nel parlamento europeo. In salute rigogliosa è l’antisemitismo, modello fondatore e perpetuo in ogni tempo di crisi, e di razzismi, nazionalismi, cospirazionismi, separatismi e altre purezze. Se Auschwitz tiene il primato simbolico e materiale della Shoah, la storia di Dachau è segnata fin all’origine dalla persecuzione di dissidenti, “minorati”, e di omosessuali, zingari, migranti. A contrassegnare l’Europa della crisi non è tanto l’auge del neonazismo, quanto la sua coincidenza e combinazione con chiusure e regressioni che sembrano avere, o pretendono di avere, un segno altro e magari opposto. 24 L’equivoco la fa da padrone. L’allarme motivato — e tardo, esitante — contro il fanatismo jihadista sta sull’orlo del confine, e spesso lo scavalca, dell’intolleranza per i musulmani. La solidarietà con la gente palestinese e l’opposizione alla politica del governo di Israele sconfina volentieri nei discorsi su “gli ebrei” e nella confusione fra governo e stato israeliano. L’esasperazione contro la confisca di libertà e ricchezza da parte di poteri sovranazionali e indifferenti, anzi insofferenti delle regole della democrazia, fomenta una paranoia collettiva che istupidisce e incattivisce. Non è vero, ed è losco, che non ci sia più distinzione, bisogno di distinzione, fra sinistra e destra. È vero che il peggio della sinistra e della destra vanno sempre più nutrendosi e confondendosi nella frustrazione della crisi, nella paura della retrocessione e dell’invasione, nella convinzione che un burattinaio tiri i fili, e che tutto ciò che si vede sia la mascheratura di ciò che è. Il po’ di buono che succede nell’Europa di oggi ha del paradosso. Nella Polonia che vuole riscattare l’antisemitismo proprio, non quello altrui, con il museo dedicato a Varsavia, prima che alla memoria della Shoah, alla lunga, preziosa vita ebraica polacca. Oppure nell’Ungheria del plebiscitato Orbán costretto a ordinare una clamorosa marcia indietro sulla tassazione dell’uso della rete dopo la mobilitazione delle strade. Quanto al resto, desolazione. Il governo di sinistra francese ha sul collo il fiato del Fronte Popolare, e non trova una parola decente per dolersi dell’uccisione di un giovane botanico nella manifestazione contro una diga sciagurata. L’alleato italiano della signora Le Pen sale nei sondaggi al ritorno da una missione internazionalista nella Corea del Nord e nella Piazza Rossa di Mosca, con tanto di maglietta putinista. Una buona parte della “sinistra” europea trova nella fatica dell’Ucraina a fare i conti con il proprio passato una giustificazione alla simpatia, o almeno all’indulgenza, nei confronti di Putin. Il quale fa la sua lezione sull’arroganza planetaria degli americani chiamandoli, lui, “nuovi ricchi”. Del resto sono la stessa Lega e la stessa “sinistra radicale” che al tempo della Bosnia andavano a cercare a Belgrado la loro illuminazione. Dei pasticci a Cinque Stelle meglio tacere. Nemmeno l’avventura mostruosa dello “Stato Islamico” basta a fare un po’ di ordine in tante teste voltate. Ciò avviene dentro una crisi mondiale acuta, si vieta l’ingresso all’ebola e si drizzano frontiere artificiali mentre qualche migliaio di volontari armati di barba parte dall’Europa alla volta della Siria, e qualche centinaio di migliaia di siriani spogliati di tutto arranca alla volta dell’Europa. Abbiamo 29 ministri della difesa e degli esteri, e nemmeno una politica estera e una difesa europea. Facciamo finta che siano ancora affari nazionali. Il ministro degli interni dispone del primo problema internazionale, i migranti. (Finito Mare Nostrum, aspettiamo che affoghino all’ingrosso, in una volta sola, almeno 350 altri fuggiaschi — al minuto lo fanno ogni giorno — per riparlarne). L’Europa soccombe sotto l’incapacità di occupare i quattro cantoni della crisi economica e sociale, delle migrazioni, della sfida jihadista e di Israele-Palestina. Qualcuno ha pensato che fosse il momento, l’altroieri notte, di provvedere, ed è andato a prendersi il cancello di Dachau, con la scritta: “ARBEIT MACHT FREI”. 25 INTERNI del 03/11/14, pag. 6 “Cucchi, inaccettabile morire mentre si è affidati allo Stato pronti a riaprire le indagini” Il procuratore Pignatone ribadisce: il caso non è chiuso “Ma la sentenza va rispettata anche se non condivisibile” ROMA . Alla fine, dopo le polemiche iniziate venerdì e non ancora finite, parla anche il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. Il suo ufficio è stato più volte chiamato in causa in questi giorni, soprattutto dalla famiglia Cucchi, che ha parlato di «fallimento del pubblici ministeri». E ieri pomeriggio, dopo che il presidente della Corte d’Appello aveva parlato in difesa del lavoro dei suoi giudici, il capo dei pm capitolini ha deciso di prendere le parti dei suoi sostituti. «Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato», spiega Pignatone. «La responsabilità penale però è, come vuole la Costituzione, personale (e non collettiva) e deve essere riconosciuta dalle sentenze dei giudici, che tutte meritano assoluto rispetto anche quando, come nel caso di specie, tra loro contrastanti e, a parere della Procura, in tutto o in parte non condivisibili ». I pm che hanno istruito il processo di primo grado, infatti, avevano chiesto (così come ha fatto dopo di loro il procuratore generale) la condanna di tutti gli imputati. Ma la Corte ha ritenuto che non ci fossero elementi. E l’insufficienza delle prove, hanno sottolineato molti, dipende proprio da come sono state fatte le indagini. Sono accuse che Pignatone non accetta. Precisando che la sentenza di appello «ancora non è definitiva e non se ne conoscono le motivazioni», il procuratore dice: «Incontrerò volentieri, come già altre volte in passato, i familiari di Stefano Cucchi e il loro difensore. Se dalle loro prospettazioni e dalla lettura della sentenza emergeranno fatti nuovi, o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura è sempre disponibile, come in altri casi, a riaprire le indagini e a cercare nuove prove nel rispetto, ovviamente, delle regole dettate dalla legge». Per la famiglia del 31enne romano morto nel 2009, è un segnale di speranza. «Sono frasi importanti - dice Ilaria Cucchi - Secondo noi vanno azzerate tutte le perizie e le consulenze che hanno fatto solo fumo e nebbia sui fatti». Il tutto mentre anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, interviene nel dibattito e chiede giustizia. «Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri non rimangano dei morti senza giustizia. Per loro, per le loro famiglie e per tutti quei poliziotti, agenti di polizia penitenziaria, medici e infermieri che nonostante le difficoltà fanno il loro dovere ogni giorno. È una questione di civiltà. Invito tutti a guardare il viso tumefatto di Stefano Cucchi; i responsabili di questa violenza non possono rimanere impuniti». ( m. e. v.) 26 del 03/11/14, pag. 1/6 Sbagli da non ripetere e contrasti da sanare l’ammenda da cui riparte la pubblica accusa CARLO BONINI ROMA . L’ostinazione civile di una famiglia che non si rassegna all’assenza di giustizia e quarantotto ore di sgomento, rabbia e indignazione collettive convincono Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, a trovare parole che, per la prima volta in cinque anni, tolgono al “discorso giudiziario” sulla morte di Stefano Cucchi la sua maschera disumana. E, senza tartufismi, ne rimettono al centro la questione sostanziale. L’unica che conti, perché misura la qualità di una democrazia e quel principio di uguaglianza di fronte alla legge che ne è uno dei capisaldi: l’unico che giustifichi l’altrimenti incomprensibile monopolio della forza riconosciuto allo Stato e alle sue Istituzioni. Siano un collegio giudicante, uomini delle forze dell’ordine, agenti penitenziari, medici di un reparto protetto di un ospedale civile dove per legge viene ricoverato un detenuto. Dice il procuratore: «Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato. Se emergeranno fatti nuovi o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura di Roma è sempre disponibile a riaprire le indagini». E tuttavia, nel segnalare l’insostenibilità di un’idea dello Stato che si auto assolve o, peggio, si mostra legibus solutus, libero dal vincolo di legalità, perché al riparo del “ragionevole dubbio” di un’insufficienza di prove figlia del vincolo di “omertà” dei suoi servitori, Pignatone dice qualcosa di più. La «disponibilità a riaprire le indagini in presenza di fatti nuovi», infatti, è, insieme, l’ammissione di un errore dell’ufficio della pubblica accusa e un impegno a mettervi riparo. Tardivo, evidentemente. Ma pure sempre riparo. Un impegno che va preso alla lettera e per questo meriterà di essere sottoposto a verifica, perché non si risolva in una petizione di principio utile soltanto a raffreddare animi e coscienze in attesa che altro le distragga. Epperò, appunto, nelle parole del procuratore c’è anche l’ammissione di un errore, che va raccontato per quel che è stato. Non più tardi di sabato scorso, il presidente della Corte di appello di Roma Luciano Panzani aveva infatti difeso il lavoro dei giudici della sua Corte di Assise, ricordando che a rendere “giuridicamente impossibile” l’accertamento della verità nel caso Cucchi è stata un’insufficienza di prove ritenuta insormontabile. A meno di non voler violare garanzie costituzionali altrettanto fondamentali (quelle riconosciute agli imputati) e dunque di «aggiungere obbrobrio a orrore ». Ebbene, la raccolta delle prove (a carico, come a discarico) è lavoro della pubblica accusa. Che — ammette ora Pignatone e vanno ripetendo da tempo la famiglia Cucchi e il suo legale Fabio Anselmo — forse poteva essere più aggressivo. Quantomeno non minato da un’aperta diffidenza che dal giorno della morte di Stefano Cucchi ha diviso l’ufficio del pubblico ministero dalla parte civile (che è e resta “l’accusa privata” di un processo penale) fino al punto da renderle reciprocamente ostili persino sulla “qualificazione giuridica” da dare ai capi di imputazione per cui i 12 tra agenti di custodia e medici sono stati mandati a processo. E ancora: che poteva sicuramente essere più “vigile” sul guasto decisivo portato all’intera istruttoria da una perizia di ufficio che elideva ogni nesso di causa-effetto tra il pestaggio di Stefano e la sua morte fino al punto di individuare nella “fame e nella sete” la ragione del decesso (non a caso, oggi, Ilaria Cucchi chiede che si riparta da una nuova perizia). 27 Detto questo, le “nuove indagini” cui Pignatone impegna il suo ufficio hanno un sentiero molto stretto. Nella sostanza e nei tempi. Perché se è vero che la morte di Stefano Cucchi non è ancora verità giudiziaria immodificabile (resta il giudizio di Cassazione) è altrettanto vero che esiste un principio costituzionale che impedisce che un imputato possa essere giudicato due volte per uno stesso fatto. Solo “fatti nuovi” potranno dunque avvicinare a una verità diversa da quella sancita sin qui da due corti giudicanti. Ma perché questo sia il caso, quei “fatti nuovi” andranno appunto cercati. Possibilmente, cominciando a considerare l’ostinata ricerca della verità della famiglia Cucchi come una risorsa, e non un ostacolo. del 03/11/14, pag. 12 Legge Severino, vertice Dem per le modifiche In settimana si terrà il primo incontro tra i tecnici democratici. Ma Forza Italia insiste: cancellare la decadenza di Berlusconi LIANA MILELLA ROMA . Legge Severino sull’incandidabilità, si cambia. Primo incontro tecnico tra gli esperti giuridici del Pd in settimana, per studiare quando, dove e come mettere mano per un’operazione nella quale bisogna lavorare col bisturi. Certo non nella direzione che vorrebbe Forza Italia, che insegue l’unico obiettivo di azzerare la Severino e cancellare la decadenza di Berlusconi dal Senato. Repubblica anticipa la notizia che, dopo il caso De Magistris, il sindaco di Napoli sospeso dopo la condanna in primo grado per abuso d’ufficio ma reintegrato dal Tar, la maggioranza lavora a un «tagliando» al decreto legislativo del 31 dicembre 2012, noto a tutti come legge Severino, che ha messo rigidi paletti all’ingresso in Parlamento per chi ha subito una condanna definitiva. Proprio qui sta il problema, perché la stessa legge, che ha inglobato disposizioni già contenute nel Testo unico sugli enti locali, prevede la sospensione per gli amministratori anche dopo la sentenza di primo grado. Come funzionerà la modifica? Chi la presenterà? Riguarderà solo questo aspetto o anche la retroattività? Dice David Ermini, il responsabile Giustizia del Pd di stretta fede renziana: «Nei prossimi giorni riunirò i tecnici del partito e affronteremo la questione. Il punto di partenza è che la Severino è una legge necessaria, perché garantisce liste pulite per le competizioni elettorali, ma è scritta male, con evidenti ambiguità che devono essere corrette, proprio per renderla migliore. Ma stiamo parlando di un intervento che di certo non è facile». Soprattutto perché nel Pd non sono tutti d’accordo e perché Fi e Ncd puntano a far cadere la retroattività. Ecco come Doris Lo Moro, ex magistrato, senatrice, nella scorsa legislaregionali, tura autrice di un ddl sull’incandidabilità dopo le sentenze di primo grado, espone i dubbi: «Di tutto c’è bisogno adesso tranne che di mettere mano alla Severino. È una legge che funziona, ha già superato vagli di costituzionalità per gli articoli sugli amministratori locali e supererà anche quello del Tar di Napoli. Bisogna solo aspettare con serenità. Mi allarma la voglia di metterla in discussione e noto una palese contraddizione. Da una parte Cantone, il commissario anti-corruzione, propone di sciogliere i consigli dall’altra al primo intoppo si vuole smontare la Severino ». Ncd e Fi sponsorizzano le modifiche. Soprattutto sulla retroattività. È la tesi di Berlusconi, non può riguardare i reati commessi prima del dicembre 2012, compreso il suo. Non ha dubbi il vice ministro della Giustizia Enrico Costa. «Noi di Ncd l’abbiamo detto subito. Non cambio 28 idea perché sono al governo. Una legge che tocca il diritto all’elettorato passivo non può creare una disparità di trattamento tra casi analoghi, sentenza definitiva per i parlamentari, di primo grado per gli amministratori, ma soprattutto è inammissibile che sia retroattiva perché si presta a strumentalizzazioni politiche». Via la retroattività chiede Fi. Basta leggere Mariarosaria Rossi, tesoriera di Fi e angelo custode di Berlusconi: «La Severino viola violazione sia nella lettera sia nella sostanza i principi alla base della rappresentanza popolare ». E giù la richiesta, inserire il «tagliando» nel pacchetto delle riforme istituzionali. Del 03/11/2014, pag. 7 Poche leggi approvate e governo ingordo Così il Parlamento è diventato inefficace Il rapporto OpenPolis: l’84% delle nuove norme sono opera dell’esecutivo Deputati e senatori, produttivi e improduttivi: il catalogo è questo. L’associazione OpenPolis presenterà oggi un rapporto sulla produttività parlamentare, che qui anticipiamo, con la classifica dei parlamentari e dei gruppi più «influenti ed efficienti» di Camera e Senato. Il gruppo più produttivo è quello della Lega Nord (sia alla Camera sia al Senato), mentre il Pd è il meno produttivo alla Camera ed è al sesto posto su dieci al Senato. Come si spiega? «L’iniziativa legislativa - si legge nella ricerca - è stata quasi tutta nelle mani dell’Esecutivo che ha dovuto cercare una mediazione sia tra forze non omogenee che lo sostengono – Governo di larghe intese – che con le opposizioni, o almeno una parte, in considerazione del margine esiguo al Senato. Così è scaturita una dinamica fra Governo e partiti di opposizione che ha tagliato fuori i gruppi parlamentari di maggioranza e favorito chi, pur non sostenendo il Governo, si è reso disponibile a lavorare su determinati provvedimenti». È il caso della Lega, appunto, ma anche di Sel, secondo gruppo più produttivo alla Camera (al Senato è nel misto), «che hanno espresso vari relatori su provvedimenti molto importanti». A metà classifica a Montecitorio e al terz’ultimo posto al Senato c’è il M5S, proprio perché – spiegano i ricercatori di OpenPolis – «meno disponibile al compromesso parlamentare». Venendo al dettaglio, il campione di produttività alla Camera è il deputato Matteo Bragantini della Lega, a seguire Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, presidente della commissione Affari Costituzionali, e Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega Nord. Sul podio del Senato troviamo Loredana De Petris di Sel, presidente del gruppo misto, Giorgio Pagliari del Pd e il leghista Roberto Calderoli, che è anche vicepresidente di Palazzo Madama. Fra gli «zero assoluto» – parlamentari con zero atti presentati, relazionati, emendamenti e interventi – ci sono tanti nomi altisonanti. L’aspetto rilevante è che alla Camera sono tutti di Forza Italia (tra questi Daniela Santanchè), mentre al Senato tutti italo-forzuti (c’è pure Denis Verdini) eccetto Paolo Bonaiuti di Ncd. A loro va il premio improduttività 2013-2014. Intendiamoci però su che cosa sia la produttività. «Non è produttivo – si legge nel rapporto OpenPolis – il parlamentare primo firmatario di innumerevoli ddl ma quello che porta a casa una legge, non è produttivo chi protocolla centinaia di interrogazioni ma chi riesce ad ottenere una risposta da parte del Ministro competente». L’indice attribuisce un punteggio al superamento dei vari passaggi dell’iter parlamentare (dalla presentazione di un’interrogazione o di un disegno di legge al momento in cui esso diventa legge, sempre che arrivi a conclusione). Dal rapporto, oltre al premio efficienza (o inefficienza) per deputati e senatori, emergono due dati interessanti: solo il 13 per cento degli atti non 29 legislativi ha avuto una conclusione (ne sono stati presentati, dall’inizio della legislatura, fino al 10 ottobre scorso, 19.244 e solo 2.647 sono andati a buon fine). «La parte più considerevole è rappresentata dalle interrogazioni rivolte dai parlamentari ai ministri e che il Governo, pur avendo il dovere di rispondere, preferisce ignorare». L’altro dato riguarda la prova muscolare del Governo: «Delle 86 leggi finora approvate ben 72 sono di iniziativa Governativa. L’accentramento nelle mani dell’Esecutivo del potere legislativo è evidente dalla sproporzione rispetto a quanto proposto dal Parlamento (84% vs 16%)». Ma se l’Esecutivo, specie quello Renzi, esagera nell’intraprendenza legislativa, è vero anche che fra i parlamentari sembra esserci una gara a protocollare quanti più ddl possibile, chi se ne importa poi se non vedranno mai la fine: sono 3.223 i disegni di legge che ancora non sono stati neanche analizzati (l’83 per cento). Solo il primo giorno di legislatura ne sono stati presentati 600. Del 03/11/2014, pag. 3 Imu e Tasi, imposta unica nella legge di Stabilità Allo studio un emendamento per il riordino fiscale sugli immobili I sindaci potranno intervenire sulle aliquote, resta fuori la Tari ROMA Il governo accelera sulla tassa unica per la casa. Il primo passo è la fusione della Tasi — la tassa sui servizi indivisibili come l’illuminazione pubblica, che si paga anche sull’abitazione principale — con la vecchia Imu, che invece riguarda le seconde case. Dal 2015 ci sarà un tributo unico e la decisione dovrebbe arrivare con un emendamento al disegno di legge di Stabilità, che oggi riprende il suo cammino in commissione Bilancio della Camera con una serie di audizioni. Dalla nuova tassa unica resterà fuori, almeno per il momento, la Tari, la tassa sui rifiuti. Sia perché le modalità di calcolo non sono omogenee, visto che non c’entra la rendita catastale. Sia perché resta in piedi l’idea di agganciare la Tari alla quantità di rifiuti prodotti: progetto più volte annunciato ma mai realizzato che in ogni caso richiede tempi più lunghi. Nella nuova tassa unica, invece, potrebbero entrare subito alcuni tributi minori che riguardano le attività commerciali, come quelli sulla pubblicità e sull’occupazione di suolo pubblico, cioè sui tavoli all’aperto. La nuova tassa unica sulla casa lascerà un certo margine di manovra ai sindaci. Saranno loro a decidere l’aliquota all’interno di una forchetta fissata a livello nazionale. Dovrebbe sparire la quota a carico dell’inquilino che, al di là delle buone intenzioni nella costruzione della Tasi, ha portato confusione in una materia già complicata di suo. Si torna indietro anche sulle detrazioni. Oggi i sindaci hanno di fatto libertà assoluta con il risultato di 100 mila combinazioni possibili, secondo i calcoli del servizio politiche territoriali della Uil. Nell’emendamento al ddl sulla Stabilità si dovrebbe riprendere il modello della vecchia Imu sulla prima casa che prevede una detrazione fissa di 200 euro a famiglia più altri 50 euro per ogni figlio a carico. Per arrivare alle vera e propria «local tax» di cui ha parlato Matteo Renzi sarebbe necessario aggiungere alla tassa unica anche le addizionali Irpef di Comuni e Regioni. Ma l’operazione richiede tempi più lunghi: anche qui le modalità di calcolo non sono omogenee visto che entra in gioco il reddito a prescindere dal fatto di avere una casa oppure no. Questo pezzo della riforma potrebbe salire su un altro treno, l’attuazione delle delega fiscale, forse insieme al tax day: uno o due giorni entro i quali pagare le tasse al posto delle mille scadenze previste adesso. 30 Nella maggioranza, Ncd chiede con Maurizio Sacconi di «semplificare l’imposizione sugli immobili anche per incoraggiare il mercato». Il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia (Pd) dice che «non ci sarà la crescita dello 0,6% del prodotto interno lordo» prevista dal governo per il 2015. Proprio oggi l’Istat presenterà l’aggiornamento sulle «prospettive per l’economia italiana». Possibile che il dato sul Pil 2015 venga fissato al ribasso rispetto alle stime del governo. Lorenzo Salvia Del 03/11/2014, pag. 9 Zagrebelsky: quello di Renzi è decisionismo andreottiano Il costituzionalista: usa la forza per tirare a campare, non per imporre visioni strategiche Giuseppe Salvaggiulo Una conversazione con Gustavo Zagrebelsky a margine di un convegno su «Bobbio costituzionalista» conduce dalle cime della filosofia politica alle bassure italiane. Tra i principi della democrazia secondo Bobbio c’è il voto uguale: come lo spiega ai suoi studenti che le chiedono di Porcellum e Italicum? «Nella sentenza sul Porcellum, per la prima volta la Corte costituzionale parla dell’uguaglianza del voto non solo “in entrata”, come valore potenziale, ma anche “in uscita”, nell’attribuzione pratica dei seggi. Il premio di maggioranza creava un’abnorme distorsione. Ora si prova a superare l’obiezione stabilendo una soglia per accedere al premio. Ma c’è un criterio razionale o è puro e semplice arbitrio: 37%, 40%? Il criterio sta nelle previsioni dei partiti che sperano di avvantaggiarsene, sulla base dei sondaggi. Ma la legge elettorale deve servire ai cittadini o ai partiti? L’unica soglia giustificabile sarebbe il 50,1% dei voti: un premietto per rafforzare chi ha già la maggioranza dei voti». La «legge truffa» del 1953. «Famigerata. Se era truffaldina quella, che cosa dire di una legge che porta dal 37 al 55%?». Ma che cosa ne sarebbe della governabilità, senza premio di maggioranza? «Governabilità, parola scorretta. Che cosa significa? Attitudine a essere governato. Significato passivo. Se dico “l’Italia è ingovernabile” penso a corporazioni, corruzione, mafia. Da Craxi in poi, con un rovesciamento semantico, governabilità vale come aumento della forza di governo. Significato attivo. Tutte le riforme di cui parliamo non sono per la governabilità, perché non toccano la società, ma vogliono rafforzare il governo, razionalizzando uno spostamento di baricentro che c’è già stato». A danno del Parlamento? «Il Parlamento ha perso iniziativa legislativa, ratifica solo quelle del governo. Quando fu introdotta la proporzionale, un secolo fa, vi fu chi disse che tanto valeva eliminare i deputati e far decidere tutto dai segretari dei partiti, secondo il rispettivo peso elettorale. “Tanto gli eletti in ciascuna delle nostre liste devono fare quello che diciamo noi”. Una proposta che al nostro Renzi potrebbe piacere: disciplina a costo zero». Nel frattempo il Pd è diventato il partito della nazione. politica. Il partito-tutto non è concepibile secondo la nostra definizione di democrazia. C’è una classica definizione del partito politico come “parte totale”. Quando un partito sceglie una connotazione totalizzante, come la nazione, diventa parte totalitaria». 31 A vocazione maggioritaria. «A vocazione totalitaria, direi. La vocazione maggioritaria mi sembra una banalità: quale partito ambisce alla minorità?». Come mai la suggestione totalizzante funziona? «In una fase d’inquietudine, è ovvia la tendenza a compattare. Ma una cosa è la grande coalizione, in cui le parti restano tali contraendo un patto, altra è questa strana e melmosa combutta italica, senza nemmeno la nobiltà dell’union sacrée». C’è un deficit di conflitto? «Il professor Bobbio, in altri tempi, aveva usato una formula molto forte: la discordia è il sale della democrazia. Discordia è parola estrema: Tucidide la riteneva premessa della stasis, la quiete prima della tempesta della guerra civile. In realtà Bobbio, radicalmente dicotomico sul piano teorico, nella pratica era un mediatore. Infatti per lui, come per il suo maestro Kelsen, la democrazia non può esistere se non ha al fondo un compromesso e il compromesso è la Costituzione». Arte anacronistica, il compromesso: va di moda la decisione. Renzi pare ispirarsi più a Schmitt che a Kelsen e Bobbio. «C’è decisionismo e decisionismo. Schmitt aveva un’idea bellica della decisione: il nemico non va sconfitto, ma eliminato. L’attuale decisionismo mira piuttosto all’andreottiano tirare a campare. Serve a fronteggiare le difficoltà del giorno per giorno, a tappare buchi, a tamponare con urgenza le situazioni. Un decisionismo non tragico, diciamo in salsa mediterranea, all’amatriciana. Il governo non combatte nemici per imporre una sua visione strategica, che si stenta a vedere, ma cerca aggiustamenti temporanei, posticipando i problemi». E la piazza fisica, delle manifestazioni di protesta? «Schmitt avrebbe approvato la manganellatura degli operai, ovvero del nemico. Non è andata così. Il governo non ha approvato il manganello. Anzi, ha espresso solidarietà a manganellati e manganellatori: più andreottiani di così!». Non si può dire che l’idea del nemico da riportare all’ordine sia estranea alla fase politica attuale. «L’ordine attuale è una somma di compromessi quotidiani. L’ordine duro e puro è quello invocato per porre fine al “biennio rosso” in Italia, o al caos tinto di socialismo della Germania di Weimar. Sappiamo dove ha portato. Oggi, in Italia, il pericolo mi pare che possa derivare dal difetto d’opposizione politica efficace in Parlamento e dalla supplenza da parte d’una opposizione di piazza. Qui, vedrei il rischio della radicalizzazione. La manifestazione di Roma aveva un evidente significato ultrasindacale. Farsene troppo facilmente una ragione può essere irresponsabile». Quando coniò la formula «democrazia dell’applauso» per Craxi, Bobbio si beccò l’insulto «intellettuale dei miei stivali». A voialtri è toccato «professoroni e parrucconi». «È già una bella soddisfazione avere a che fare con parrucche e non con stivali. Cambiamo le parole, ma siamo sempre lì. Ci sono “no” che sono degni quanto i “sì”. Ha presente Bartleby, lo scrivano di Melville?». 32 LEGALITA’DEMOCRATICA del 03/11/14, pag. 1/19 Il boss: “Così lo 007 mi salvò dall’arresto” I verbali del pentito Flamia: “Nel 2008 un agente dell’Aisi mi disse che era stata volutamente sbagliata la data di nascita sul mandato e garantì che quando sarei finito in carcere non mi avrebbero contestato l’associazione mafiosa”. Indaga la procura di Palermo SALVO PALAZZOLO PALERMO . Sapeva che l’avrebbero arrestato una mattina di dicembre. Sapeva pure per quale reato, una bazzecola rispetto al suo ruolo di boss. Sapeva tante cose Sergio Rosario Flamia, rispettato padrino di Bagheria: fare il confidente dei servizi segreti gli tornava molto utile. Un giorno di fine 2008, il suo contatto lo chiamò al telefono per dire che sarebbe stato opportuno vedersi subito. Al solito posto, in campagna. Esordì: «Guarda, dovevano arrestare pure a te stanotte, io sono riuscito a spostare la carcerazione facendo volutamente un errore sulla data di nascita nell’ordinanza di custodia cautelare». Aggiunse: «Sicuramente, ti arresteranno fra tre, quattro giorni, ma stai tranquillo che noi ti aiutiamo, intanto ti stiamo facendo contestare un articolo che è una cosa poco grave rispetto all’associazione, l’articolo 418, assistenza agli associati ». IL VERBALE IN PROCURA Questo ha raccontato Sergio Flamia, un tempo confidente dell’Aisi oggi collaboratore di giustizia, ai magistrati del pool trattativa, che da qualche tempo indagano sui rapporti fra mafiosi e uomini dei Servizi. Flamia vuole allontanare il sospetto di essere un pentito costruito a tavolino per smontare il processo Stato-mafia, e allora ha deciso di raccontare i retroscena più segreti dei suoi incontri con gli 007: dalla ricompensa ufficiale (150 mila euro), per aver fornito nel 2008 informazioni sui nuovi boss di Palermo; ai favori e ai contatti, che ora rischiano di mettere nei guai alcuni esponenti dell’intelligence. Flamia ha riempito 124 pagine davanti ai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Francesca Mazzocco. E adesso le sue parole deflagrano nel cuore dell’indagine che sta facendo anche il Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, non solo sul caso del boss confidente, ma anche sul cosiddetto protocollo “Farfalla”, l’accordo fra il vecchio Sisde e il Dap per carpire informazioni nei bracci del 41 bis. Qualche giorno fa, il sottosegretario con delega ai Servizi, Marco Minniti, ha assicurato che dalla documentazione in possesso dell’Aisi non risultano incontri in carcere fra gli agenti segreti e Flamia. Incontri che sarebbero illegittimi. Ma è lo stesso Flamia a smentire questa ricostruzione. Repubblica ha potuto leggere il verbale del neo pentito, risale al 4 febbraio scorso, di recente è stato depositato al processo trattativa oltreché al processo d’appello per il generale Mario Mori (ex capo del Sisde). A pagina 57, il pm chiede: «Ha avuto contatti mentre era in carcere?». E Flamia spiega che durante la detenzione nel carcere di Pagliarelli, «lui», il suo tramite dal luglio 2008, «mandava a chiedere qualche informazione, ma a livello di scemenze». Spiega che «una-due volte» un agente dell’Aisi «si è presentato come avvocato, mi chiamavano in cella e io andavo. “Mi manda... ne sai parlare di questo discorso?”. Una delle cose che mi ha chiesto: voleva sapere cosa intendevano dire i Graviano con il discorso “il Milan è più forte della Juventus” o viceversa, che loro pensavano erano discorsi criptati». Non era proprio una «scemenza». All’epoca, 33 si sospettava che dietro quei riferimenti calcistici nelle lettere dei capimafia al 41 bis potessero nascondersi ordini di attentati. Dice Flamia: «Io in cambio di queste informazioni non avevo chiesto niente se non il favore per il procedimento che avevo». È a questo punto che l’ex boss racconta delle rassicurazioni avute dagli 007. Sull’arresto ritardato rispetto al blitz “Perseo”, che il 16 luglio 2008 portò in carcere una novantina di persone. Sulla data di nascita sbagliata. E soprattutto sull’imputazione annacquata. LA CONDANNA CASSATA Non millantava l’agente segreto. Nel provvedimento di fermo, che i magistrati hanno compilato sulla base di un rapporto dei carabinieri, la data di nascita di Flamia è sbagliata: 4 febbraio 1958, anziché 21 febbraio 1963. E in quello stesso rapporto degli investigatori, pieno di intercettazioni, Flamia viene denunciato solo per «assistenza agli associati» e non per il più grave reato di «associazione mafiosa» che meritava tutto. Quattro anni dopo, questo trattamento di favore l’hanno stigmatizzato con parole di fuoco i giudici della corte d’appello di Palermo, che hanno annullato la condanna del boss Flamia a 3 anni e 4 mesi, rimandando gli atti in procura. Proprio perché quella contestazione di «assistenza agli associati» era una vera corbelleria. Come aveva fatto l’agente dei Servizi ad alleggerire la posizione del boss confidente? Il giorno che Flamia decide di collaborare con i pm manda il figlio dal suo contatto, «per vedere come la pensa lui e se mi può dare una mano d’aiuto — spiega ai pm — per me farglielo sapere è stata anche una questione di scrupolo, per avere la coscienza a posto che io non avrei danneggiato questa situazione dello Stato. E lui mi ha garantito che tutto quello che era stato fatto con me era stato fatto alla luce del sole. Quindi, disse a mio figlio, tutto quello che sa lo deve dire tranquillamente». Ma, ora, l’agente segreto che entrato in carcere spacciandosi per avvocato rischia l’accusa di falso ideologico. 34 BENI COMUNI/AMBIENTE Economia del 03/11/14, pag. 30 Rinnovabili Dopo il picco arriva la frenata. Dall’Europa Tirano Cina e America. Meno vincolanti gli impegni presi dalla Ue Elena Comelli Le fonti pulite continuano a correre in tutto il mondo, ma da noi la politica tira il freno e l’Italia perde terreno. Mentre le installazioni globali di fotovoltaico quest’anno cresceranno almeno di un altro 20%, trainate soprattutto da Cina e Usa, il mercato italiano, come ci si aspettava dopo la fine degli incentivi, si dimezza: la nuova potenza installata nel 2014 si fermerà a 800 megawatt — stando alle ultime previsioni di Ihs — contro i 1.700 megawatt dell’anno scorso. Tagli Ma non è solo la fine degli incentivi che fa scappare dall’Italia gli investitori nell’energia pulita. È il taglio retroattivo imposto dal provvedimento «spalma-incentivi» agli impianti superiori ai 200 kilowatt, di cui sono appena usciti i regolamenti attuativi, che ha fatto insorgere gli investitori esteri — da Terra Firma fino a Suntech e Riverstone — finiti sui giornali di mezzo mondo per denunciare l’impossibilità di lavorare nel Paese, a causa dell’incertezza del diritto. Ora i produttori hanno un mese di tempo per scegliere le modalità del taglio, da cui il governo spera di ricavare 500-700 milioni l’anno. Una cifra che dovrebbe andare a ridurre il peso sulle bollette degli incentivi alle rinnovabili, ormai arrivato a 11 miliardi. «Se il governo spera di calmierare in questo modo la bolletta delle pmi, si sbaglia: per sgravarle basterebbe trasferire ai consumatori i vantaggi economici dovuti alla diminuzione, innescata dalle rinnovabili, del prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso, che invece si perdono per strada», commenta Agostino Re Rebaudengo, presidente di AssoRinnovabili, che ha già fatto ricorso al Tar per sostenere l’incostituzionalità dello spalma-incentivi. «Il rischio ora è distruggere uno dei pochi settori in crescita dell’economia, con una serie di fallimenti a catena proprio di quelle piccole imprese che il governo voleva difendere. Solo nell’ultimo anno, ai produttori da fonti rinnovabili sono stati addossati maggiori oneri per un miliardo e adesso sta per entrare in vigore un taglio retroattivo degli incentivi da 350 milioni all’anno: non c’è da stupirsi se gli investitori scappano e il mercato fotovoltaico si dimezza — rileva Re Rebaudengo —. Prima delle elezioni, il premier aveva fatto stampare migliaia di manifesti con la promessa “Se vince Renzi, energie rinnovabili sopra il 50%”, ma se va avanti così non ci arriveremo mai». Il governo italiano è in buona compagnia. Tra i grandi del fotovoltaico ora in fase discendente c’è anche la Germania: quest’anno il mercato si fermerà a 2,1 gigawatt, rispetto ai 3,3 gigawatt di un anno fa. E le prospettive, in Europa, non sono allettanti. L’accordo raggiunto nei giorni scorsi dal Consiglio europeo sugli obiettivi del nuovo pacchetto energia per il 2030, che saranno presentati alla conferenza Onu sul clima di Parigi a fine 2015, si limita a confermare gli obiettivi sul taglio delle emissioni di gas serra del 40% rispetto ai livelli del 1990 e sulle rinnovabili, che dovranno arrivare al 27% dei consumi finali di energia, mentre lima al ribasso il target sull’efficienza energetica: dal 30% al 27%. Ma l’unico obiettivo vincolante è quello sulla CO2, mentre i target su rinnovabili ed efficienza valgono solo a livello comunitario e non saranno tradotti in obiettivi nazionali. Più occupati 35 La scelta di non adottare obiettivi vincolanti, voluta fortemente dal governo polacco, rende la futura politica europea sul clima molto più blanda di quella attuale, che indica invece con precisione i target nazionali e prevede sanzioni per chi non li raggiunge. «La stessa Commissione ha stimato che con un obiettivo per le rinnovabili al 30% si potrebbero avere al 2030 fino a 1,3 milioni posti di lavoro in Europa, mentre con un obiettivo limitato al 27% se ne avranno solo 700 mila — fa notare Re Rebaudengo —. Perché rinunciare a 600 mila occupati? Senza trascurare l’aspetto strategico delle rinnovabili in termini di sicurezza delle forniture, fattore particolarmente rilevante dopo i recenti sviluppi geopolitici, sia a est che a sud dell’Europa». In pratica, confermando i due target principali, il Consiglio europeo si è limitato a prendere atto della transizione energetica in corso, senza prevedere investimenti aggiuntivi rispetto al trend già in atto. In base a uno studio realizzato dalla società di analisi Ecofys anche in uno scenario business as usual le fonti pulite raggiungerebbero senza sforzo il 27% sui consumi europei al 2030, quota che in Italia è stata ormai superata, con le fonti verdi che coprono già il 40% del fabbisogno. Del 03/11/2014, pag. 18 Genova, L’Aquila monumenti all’Italia divisa Di Ferruccio Sansa Piove su Genova. Domani sarà ancora allerta meteo. Che significa: salvatevi le chiappe, lo Stato vi abbandona. Genova, ma anche L’Aquila lasciata morire. Queste città testimoniano più di lapidi e mausolei al Risorgimento: sono il monumento alla divisione dell’Italia. L’Italia è il mio Paese”. Ascolti tuo figlio che ripete la lezione di geografia. E ti fermi su quella frase per lui naturale, ma che in te suscita tante domande. Contribuire per la tua piccola, minima parte allo sviluppo di una nazione; ma anche sapere che, se avrai bisogno, non sarai lasciato solo. Ancora: avere un modo di sentire, sogni e un destino comuni con sessanta milioni di persone. Questo significa essere cittadini. Ma è davvero così in Italia? No. Domani a Genova si annuncia un’altra allerta meteo che in fondo vuol dire: state attenti, salvatevi le chiappe, perché lo Stato non ha fatto la sua parte. Per affrontare la prima emergenza sono stati stanziati 12 milioni. Una miseria, un insulto. Genova e i genovesi sono stati lasciati soli dall’Italia: non si trovano 400 milioni che metterebbero in sicurezza l’intero territorio e si spendono 7 miliardi per la Tav che vede aumentare i costi del 160% per la gioia delle imprese. Per questo, non solo per risparmiare vite umane, sarebbe stata necessaria ben altra risposta: per salvare l’idea di un Paese. La base di ogni realizzazione comune. Genova, e prima L’Aquila. Come abbiamo potuto accettare, noi cittadini e non solo la politica, che una città tra le più belle fosse abbandonata, considerata morta? Mentre venivano spesi centinaia di milioni per le celebrazioni dell’Unità d’Italia (spesso inutili e retoriche, oltre che fonte di corruzione) non abbiamo trovato le stesse risorse per rimettere in sesto una città. Le rovine dell’Aquila testimoniano più di lapidi e mausolei al Risorgimento: sono il monumento alla divisione dell’Italia. E che dire del Sud? Il ministro Graziano Delrio proclama: “Dob - biamo rilanciare il Sud come è stato fatto per la Germania Est dopo la riunificazione”. I tedeschi in vent’anni hanno investito 1.400 miliardi e oggi esiste una sola Germania. Ma per risolvere l’eterna questione meridionale l’Italia ha speso 400 miliardi solo di stanziamenti eccezionali (in totale sono infinitamente di più), come ricordano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in “Se muore il Sud”. E siamo al punto 36 di partenza. Ancora con chi dal Sud punta il dito contro i Borboni e Roma. Chi da Nord si abbandona a una malcelata intolleranza. Che dire della classe politica di intere regioni, incapace, quando non connivente con la mafia? Che dire della corruzione e dell’illegalità endemiche? Che dire di quegli imprenditori del Nord che, riempite le tasche di denaro pubblico, sono tornati a casa o emigrati a Londra? Servirebbero soldi - che oltretutto non ci sono più - per salvare Genova, L’Aquila e il Sud. Ma soprattutto servirebbero una classe dirigente degna e una nazione fatta di cittadini che sappiano fare sacrifici insieme per poi vivere meglio. Perché non ci si salva da soli. Questo in Germania c’è. In Italia no. Del 03/11/2014, pag. 17 Alluvionati uniti contro la politica del fango Di Domenico Finiguerra Subito dopo un’esondazione o una frana, che provoca morti e dispersi, le dirette televisive e gli editoriali sui principali quotidiani si sprecano. Si intervistano esperti, direttori della protezione civile, sindaci, cittadini con il badile, volontari sporchi di fango. Ma poi, passate solo poche settimane, gli “strascichi" degli episodi di dissesto idrogeologico trovano spazio a pagina 27. Così, di alluvione in alluvione e di frana in frana, ci trasciniamo una situazione che ormai è considerata facente parte dell’arredamento di “Casa Italia”. Tra alluvioni e frane negli ultimi 50 anni sono state quasi 7000 mila le vittime mentre dal dopoguerra ad oggi i danni sono stati quantificati in oltre 60 miliardi di euro. I comuni ad elevata criticità idrogeologica sono 6.631, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone. Numeri che, da soli e senza ulteriori commenti, studi o approfondimenti, dovrebbero incollare la politica alle proprie responsabilità. E invece la politica, dopo essersi recata ai funerali delle vittime per piangere lacrime di coccodrillo, una volta uscita dalle chiese e terminato il solito balletto dello scaricabarile, entra puntualmente nei consigli comunali, regionali o dei ministri, per approvare cementificazioni di ogni genere, porti, grandi opere, trafori. Interventi contro il dissesto idrogeologico? Sempre in fondo alla lista delle priorità. Ma la goccia ha oggi fatto davvero traboccare il vaso. Ed i cittadini, i comitati, gli alluvionati, hanno deciso di passare dalla denuncia del giorno dopo alla proposta attiva, all’autorganizzazione dal basso. Stanchi di essere malsopportati, trattati come un problema, ciascuno isolato nel proprio territorio dissestato, hanno deciso di unirsi e di costituirsi in “massa critica”, per obbligare le istituzioni a fare concretamente il proprio dovere e soprattutto a farlo con giustizia e correttezza, mettendo fuori gioco le politiche di intervento legate a logiche discrezionali che spesso creano danni ulteriori e corruzione. La rete nazionale si chiama “Mai più”, mai più bombe d'acqua e disastri ambientali – Movimento e rete delle comunità dei fiumi e del popolo degli alluvionati” ed ha le idee molto chiare: ricostruire il rapporto fra le comunità e i territori attraversati da corsi d'acqua; cambiare il modello economico e di gestione del territorio concausa del dissesto idrogeologico; ottenere trasparenza ed equità degli interventi. In poche parole, rimuovere lo spesso strato di fango accumulato in tutti questi anni lungo tutto lo stivale. Alluvione dopo alluvione. maipiu.eu 37 Del 03/11/2014, pag. 10 Più gas serra, ma cambiare si può Il rapporto Onu sul clima: «Emissioni in aumento, mai livelli così alti in 800 mila anni» Zero emissioni. Se vogliamo evitare danni «gravi, diffusi e irreversibili», il rilascio di gas serra causato dal consumo di combustibili fossili dovrà essere azzerato entro la fine del secolo. Mai prima d’ora l’agenzia Onu per i cambiamenti climatici (Ipcc) aveva affermato in modo così perentorio questo obiettivo, tanto radicale da apparire quasi fantascientifico. Lo ha fatto ieri a Copenaghen, presentando l’ultimo Rapporto che sintetizza lo stato delle conoscenze sul clima, l’impatto dei cambiamenti climatici e le strategie per mitigarli. Dal punto di vista scientifico non ci sono novità di rilievo, ma dettagli e toni accrescono il senso di urgenza. Fatto numero uno: il riscaldamento globale esiste ed è causato dall’uomo. Due: gli effetti sono già visibili, in termini di livello dei mari, scioglimento dei ghiacci, eventi meteo estremi. Tre: il peggio deve ancora venire perché, nonostante summit e proclami, le emissioni globali invece di diminuire sono aumentate. Per trovare concentrazioni simili nell’atmosfera bisogna riavvolgere il nastro della storia del pianeta di 800 mila anni. Le brevi serie di dati in controtendenza offrono un conforto solo illusorio, sostiene il rapporto: anche se la temperatura superficiale è cresciuta meno del previsto negli ultimi anni, la febbre della Terra salirà ancora e ancora, con tutto quello che consegue in termini di stress ambientali (estinzione di specie) e sociali (scarsità di cibo e conflitti). La buona notizia, secondo l’Ipcc, è che potremmo disporre degli strumenti necessari per affrontare il problema, a patto di volerlo fare davvero. Per superare il picco delle emissioni nel 2020 e azzerarle nel 2100 si stima che gli investimenti nei campi delle energie alternative e dell’efficienza energetica dovrebbero aumentare di diverse centinaia di miliardi di dollari all’anno prima del 2030. La battaglia ai cambiamenti climatici ridurrà la crescita economica, ma solo di una «piccola frazione», prova a rassicurarci l’Ipcc. Tergiversare è da irresponsabili: più aspetteremo a contrastare la malattia, più costosa e complicata sarà la cura. Risulterà difficile, ad esempio, rinunciare a interventi di ingegneria climatica come lo stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo. Un’opzione che a molti ambientalisti non piace. «Le soluzioni sono tante, quel che serve è la volontà di cambiare», ha affermato il presidente dell’agenzia Rajendra Pachauri. Il messaggio fondamentale che arriva dalla Danimarca è che la scienza ha detto la sua, ora tocca ai governi. «È proprio questo il punto, i cambiamenti climatici non sono più un problema scientifico ma politico», dice al Corriere il fisico dell’atmosfera Guido Visconti. «Si ripetono sempre le stesse cose, alzando i toni ogni volta. Ma se non ci sono le condizioni per tradurre le intenzioni in azioni, non resta che l’adattamento». Ovvero mettere in atto delle misure per contenere i danni e accettare quel che non possiamo evitare. Per gli Stati Uniti ha parlato il segretario di Stato John Kerry: «Chi sceglie di ignorare la scienza mette a rischio noi, i nostri figli e i nostri nipoti». Il ministro dell’Ambiente italiano Gian Luca Galletti invoca una «presa di coscienza globale». Nel 2009 proprio Copenaghen era stata il teatro di un summit sul clima clamorosamente fallito, ma secondo alcuni commentatori le divisioni tra Paesi ricchi e poveri adesso sarebbero meno profonde di allora. Il prossimo mese i negoziati riprenderanno in Perù e sarà la conferenza convocata a Parigi nel dicembre del 2015 a dirci se il clima sta cambiando anche dal punto di vista politico. @annameldolesi 38 Del 03/11/2014, pag. 11 Brasile, la grande siccità San Paolo è senza acqua L’unica riserva idrica della città è ridotta a uno stagno Per il Sud-est è la più grave emergenza della storia RIO DE JANEIRO Quando i portoghesi sbarcarono in Brasile, nel Cinquecento, nulla li impressionò quanto l’abbondanza di acqua dolce appena dietro le spiagge, e l’uso costante che ne facevano gli indios: passavano il tempo a lavarsi, a differenza dei nuovi arrivati che facevano il bagno una volta al mese. Poi si addentrarono in Amazzonia, ed è grazie alla grande foresta pluviale che il Brasile detiene ancora oggi le maggiori riserve idriche della Terra, quasi il doppio del secondo Paese in classifica, la Russia. Record che poco consola in questi giorni, mentre gli abitanti di San Paolo scrutano con terrore il rubinetto prima di aprirlo, temendo che il giorno del giudizio sia infine arrivato. Per molti esperti la catastrofe è alle porte, anche se le autorità continuano a minimizzare. Il Sud-est del Brasile vive la più grande siccità della storia. I grandi bacini che forniscono acqua potabile ed energia elettrica sono quasi vuoti, la pioggia non arriva e una delle aree più popolose del mondo si scopre incredibilmente fragile. L’acqua purtroppo non viaggia per email. Appena mezza San Paolo (e parliamo di quasi sette milioni di persone) è rifornita da un’unica riserva, il sistema Cantareira a 40 chilometri dalla città, oggi diventata un laghetto: è sotto il 5 per cento della sua capacità. I tecnici hanno iniziato a pompare acqua dal suo sottosuolo, una sorta di riserva tecnica mai usata prima. Scavano nel fondo del pozzo, letteralmente, nella speranza di resistere fino alle prossime piogge. Altre 130 città tra Rio e San Paolo già sono in affanno e hanno decretato forme di razionamento. Un quarto del Pil del Brasile si produce qui e le conseguenze su un’economia a forte consumo di acqua iniziano a farsi sentire. Nell’industria, in agricoltura e nell’allevamento. Ottobre avrebbe dovuto segnare l’inizio della stagione piovosa in questa regione, ma è stato il più secco dal 1930. Orgoglioso per le sue fonti rinnovabili nell’energia, il Brasile è stato costretto a riaccendere negli ultimi mesi le inquinanti centrali termoelettriche per non lasciare il Paese anche senza luce. Sempre a causa dello svuotamento dei bacini, che in condizioni normali forniscono tre quarti dell’energia elettrica. Le elezioni politiche appena trascorse hanno aggravato il problema. Razionare l’acqua è talmente impopolare, che né il governatore di San Paolo Geraldo Alckmin né la presidente Dilma Rousseff (poi entrambi rieletti) si sono presi la responsabilità di misure preventive serie. Oggi esiste appena un piccolo incentivo sulla bolletta per chi riduce i consumi in alcune città, ma niente di più. Ufficialmente il governo chiama «razionalizzazione» le ore di rubinetti a secco segnalate da alcuni abitanti, ma nega che sia in corso un razionamento. Naturalmente l’acqua non manca ancora nei quartieri più benestanti di San Paolo, solo nelle periferie e favelas. Lo stesso a Rio, dove il problema è endemico e interi quartieri di periferia vivono grazie ai pozzi o spendendo una fortuna per rifornirsi con le autocisterne, mentre a Ipanema si riempiono le piscine sulle terrazze. Come sempre in questi casi, i fatalisti e i politici incolpano il meteo, i grandi fenomeni come El Niño e La Niña, mentre gli esperti guardano oltre. Le perdite lungo la rete (circa il 40 per cento) sono un fattore, ma nulla supera per impatto l’azione dell’uomo. Migliaia di sorgenti si stanno prosciugando in tutta la regione a causa della distruzione della vegetazione, ma c’è soprattutto la tragedia rappresentata da decenni di riduzione della foresta amazzonica. Negli ultimi anni la tendenza si è invertita, ma ormai i danni sono fatti. Vari rapporti segnalano come gli equilibri stiano saltando per sempre, l’Amazzonia 39 non sta più funzionando come regolatrice del clima per le altre regioni del Paese. Dai modelli teorici si è passati all’osservazione empirica: non piove più nelle regioni dove nascono i fiumi. Un rapporto dell’istituto di osservazioni Inpe sostiene che con il 20 per cento della foresta originaria ormai scomparsa e altrettanta in fase di deterioramento, si sta raggiungendo un drammatico «punto di non ritorno». Rocco Cotroneo Del 03/11/2014, pag. 14 “Noi marxisti con il Papa per fermare il diavolo” Joao Pedro Stedile PARLA IL LEADER DEI SEM TERRA, ORGANIZZATORE DELL’INCONTRO DEI MOVIMENTI POPOLARI IN VATICANO. A FRANCESCO HA PROPOSTO DI CANONIZZARE “SANT ’ANTONIO GRAMSCI ” di Salvatore Cannavò Joao Pedro Stedile guarda la prima pagina del Fatto in cui si vede Maurizio Landini fronteggiare la polizia. “Un leader sindacale senza cravatta? Davvero?”. La battuta sintetizza molto profilo e storia di questo dirigente, ormai di levatura internazionale, del movimento “campesino”. Il Movimento Sem Terra è un’organizzazione fondamentale in Brasile, immortalata dalle storiche immagini Sebastião Salgado e con una storia trentennale fatta di vittorie e sconfitte ma sempre in primo piano nell’organizzazione dei contadini. Stedile ne è il dirigente più importante. Lui, la cravatta non l’ha mai portata e ha sempre concepito il suo ruolo come portavoce di una realtà povera ma in cerca della propria emancipazione. Marxista, legato alla storia della teologia della liberazione, è stato uno degli organizzatori dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari che si è svolto in Vaticano la settimana scorsa. In una delle sessioni di quel dibattito, svoltosi tra le volte suggestive dell’aula del Vecchio Sinodo, ha suggerito ai porporati presenti di canonizzare anche “sant’Antonio... Gramsci”. I Sem Terra, l’imponente organizzazione che dirige, circa 1,5 milioni di aderenti, hanno una storia antica di occupazioni di terre, di lotte e conflitti anche aspri. Ma coltivano anche un rapporto “laico” con il potere o, come lui spiega, di “autonomia assoluta”. Per cui, alle scorse elezioni brasiliane, pur non impegnandosi molto nel primo turno elettorale hanno poi sostenuto Djilma Roussef al secondo. Venuto in Italia per l’incontro in Vaticano, ha effettuato un giro di incontri per la penisola presentando il libro La lunga marcia dei senza terra (Emi edizioni), di Claudia Fanti, Serena Romagnoli e Marinella Correggia. Sabato pomeriggio, poi, è andato a visitare la Rimaflow, a Trezzano sul Naviglio, fabbrica recuperata, che Stedile, davanti a trecento persone ha battezzato “ambasciatore dei Sem Terra a Milano”. Come è nato l’incontro in Vaticano? Abbiamo avuto la fortuna di avere rapporti con i movimenti sociali dell’A rgentina, amici di Francesco con cui abbiamo iniziato a lavorare all’incontro mondiale. Così abbiamo riunito cento dirigenti popolari di tutto il mondo senza confessioni religiose. La maggior parte non erano cattolici. Un incontro molto profittevole. Lei è di formazione marxista. Che giudizio dà del Papa e dell'iniziativa vaticana? 40 Il Papa ha dato un grande contributo, con un documento irreprensibile, più a sinistra di molti di noi. Perché ha affermato temi di principio importanti come la riforma agraria che non è solo un problema economico e politico ma morale. Di fatto ha condannato la grande proprietà. La cosa importante è la simbologia: in 2000 anni nessun Papa ha mai organizzato una riunione di questo tipo con dei movimenti sociali. Lei è stato uno dei promotori dei Forum sociali nati a Porto Alegre. C'è una sostituzione simbolica da parte del Vaticano rispetto alla sinistra? No, credo che Francesco abbia avuto la capacità di porsi correttamente di fronte ai grandi problemi del capitalismo attuale come la guerra, l’ecologia, il lavoro, l’alimentazione. E ha il merito di aver avviato un dialogo con i movimenti sociali. Non credo ci sia sovrapposizione ma complementarietà. In ogni caso mi assumo l’autocritica, come promotore del Forum sociale, del suo esaurimento e della sua incapacità a creare un’assemblea mondiale dei movimenti sociali. Dall’incontro con Francesco nascono due iniziative: formare uno spazio di dialogo permanente con il Vaticano e, indipendentemente dalla Chiesa ma approfittando della riunione di Roma, costruire nel futuro uno spazio internazionale dei movimenti del mondo. Per fare cosa? Per contrastare il capitale finanziario, le banche, le grandi multinazionali. I “nemici del popolo” sono questi. Come direbbe il Papa, questo è il diavolo. Anche se l’inferno lo viviamo noi. I punti tracciati dall’incontro di Roma sono molto chiari: la terra, perché l’alimento non sia una merce ma un diritto; il diritto di ogni popolo ad avere un territorio, un proprio paese, si pensi ai curdi di Kobane o ai palestinesi; un tetto dignitoso per ognuno; il lavoro come diritto inalienabile. I Sem Terra organizzano corsi di formazione su Gramsci e Rosa Luxemburg. Nessun problema a lavorare con il Vaticano? Noi viviamo in una crisi epocale. Le ideologie del secondo dopoguerra sono sprofondate. La gente non si sente più rappresentata. Eppure questa crisi offre anche opportunità per il cambiamento a condizione che nessuno si presenti con la soluzione pronta in tasca. Servirà un processo, di movimento di partecipazione popolare. E chiunque sia disposto a partecipare va incluso. In Brasile avete sostenuto l'elezione di Djilma Roussef. Qual è il giudizio sul governo del Pt e sul suo futuro? L'autonomia è per noi un valore importante. Il Pt ha gestito il potere con una linea di “neosviluppismo”, più progressista del neoliberismo ma basata su un patto di conciliazione tra grandi banche, capitale finanziario e settori sociali più poveri. L’operazione di redistribuzione del reddito ha favorito tutti ma soprattutto le banche. Ora, però, questo patto non funziona più, le attese popolari sono cresciute. L’istruzione universitaria, ad esempio, ha integrato il 15% della popolazione studentesca ma l’85% che resta fuori preme per entrare. Solo che per rispondere a questa richiesta servirebbe almeno il 10% del Pil e per reperire risorse di quelle dimensioni si romperebbe il patto con le grandi imprese e le banche. Quindi? Il governo ha tre strade: ricucire con la grande borghesia brasiliana, come gli chiede il Pmdb (il partito conservatore ma alleato al Pt, ndr.), costruire un nuovo patto sociale con i movimenti popolari oppure non scegliere e aprire una lunga fase di crisi. Noi vogliamo giocare un ruolo e per questo proponiamo un referendum popolare per una Assemblea costituente per la riforma della politica. La forza del popolo non è in Parlamento Qual è la situazione del Movimento Sem Terra oggi? La nostra idea, all'inizio, era di realizzare il sogno di ogni contadino del XX secolo: la terra per tutti, battere il latifondo. Ma il capitalismo è cambiato, la concentrazione della terra 41 significa anche la concentrazione delle tecnologie, della produzione, delle sementi. È inutile occupare le terre se poi si producono Ogm. Non è più sufficiente ripartire la terra ma occorre un’alimentazione per tutti e un’alimentazione sana e di qualità. Oggi puntiamo a una riforma agraria integrale e la nostra lotta riguarda tutti. Per questo occorre un’ampia alleanza con gli operai, i consumatori e anche con la Chiesa. Siamo alleati di chiunque desidera il cambiamento. 42 CULTURA E SCUOLA del 03/11/14, pag. 1/25 L’idea del ministro: il pavimento al Colosseo Ma non trasformatelo in una scenografia TOMASO MONTANARI IL MINISTRO per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli «piace molto l’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena». Bisogna riconoscere a Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna? Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore. CIOÈ a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica. Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il coperchio agli scavi? È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina del tempo? In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo «di tornare ad essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita — nelle forme tecnicamente compatibili — ogni possibile evento della vita contemporanea ». Ecco, è questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire «ogni possibile evento»? E dove metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena di Verona. E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché «modificherebbe sensibilmente la percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale». Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità. 43 Oggi è di moda parlare di edutainment ( education + entertainment), un ibrido che — almeno in Italia — non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna park commerciale. Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato bisogno. Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme chiesa dentro il Colosseo — era il 1675 — l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose che non voleva toccare il monumento: «per la conservazione d’una macchina che, non solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura». Parole che sembrano tuttora assai sagge. Del 03/11/2014, pag. 3 Ricercatori precari a vita Porte chiuse negli Atenei Effetto perverso delle riforme in serie: solo uno su cento può essere stabilizzato Flavia Amabile Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli. L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96 ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori. In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora 44 che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba: nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università. «Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano di più e creano problemi in fatto di organico - commenta Luigi Maiorano, presidente dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile: avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia». E, estendere il vincolo come ha fatto il governo Renzi, significa che - prosegue l’Adi - «Gli atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario». 45 ECONOMIA E LAVORO del 03/11/14, pag. 8 Lavoro, lite Renzi-Landini “Non cambierò la delega” “Così andrai a sbattere” Il premier: “Qualcuno dei nostri con la sinistra radicale? Faccia pure” Sciopero generale il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli ROMA . Il Jobs act non sarà modificato alla Camera. E con molta probabilità sarà blindato anche lì dalla fiducia. Queste le dichiarazioni di Matteo Renzi a Bruno Vespa che riaccendono lo scontro con la sinistra del Pd e col sindacato. Il leader Fiom Landini mette in guardia proprio il governo e gioca la carta dello sciopero, in piazza il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli. La riforma del lavoro arriverà in aula a Montecitorio subito dopo la legge di stabilità, quindi da metà novembre. Anche nel Pd l’opposizione interna confidava in possibili ritocchi, soprattutto sull’articolo 18. «La delega sul lavoro non cambierà rispetto al Senato» avverte invece Renzi, stando alle anticipazioni fornite dallo staff di Vespa (e non smentite). «Alcuni dei nostri non voteranno la fiducia? Se lo faranno per ragioni identitarie, facciano pure. Se mettono in pericolo la stabilità del governo o lo faranno cadere, le cose naturalmente cambiano». Così il premier che dà dunque per scontato che la riforma verrà blindata, come avvenuto al Senato. «Spero si tratti di dichiarazioni datate» dice Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera. «Se non ci sarà sintesi io non voto» fa già sapere un altro dem di peso come Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio. Per non dire dell’ala sinistra del partito. «Irresponsabile blindare il ddl alla Camera», attacca Alfredo D’Attorre, «Renzi taglia fuori tutti, così è scontro», per Giuseppe Civati. Dall’opposizione anche il forzista Renato Brunetta parla di «inaccettabile forzatura» del premier: «Così distrugge il Parlamento». Nonostante il clima, il presidente del Consiglio ritiene improbabile una scissione, «la nostra gente non capirebbe». Detto questo, «se qualcuno dei nostri vuole andare con la sinistra radicale faccia pure: non mi interessa. È un progetto identitario, lo rispetto ma non mi toglie il sonno». E così, massimo rispetto per la piazza Cgil che ha accolto anche alcuni (dissidenti) pd, «ma io sono per il cambiamento che è nel dna della sinistra e a casa mia la sinistra che non si trasforma si chiama destra». La reazione del capo della Fiom, Maurizio Landini, arriva con un’intervista tv con Lucia Annunziata: «Renzi si convinca, contro il lavoro non va da nessuna parte, possono mettere tutte le fiducie che vogliono, noi non ci fermiamo. Gli interessi dei lavoratori non sono rappresentati dal governo». Scioperi da Nord a Sud, insomma lotta dura contro un premier dal quale il capo del sindacato dei metalmeccanici si dice «deluso», dopo un iniziale feeling. Landini nega quindi di volersi impegnare in politica, nonostante i sondaggi che accrediterebbero una sinistra da lui guidata di un ipotetico 10 per cento: «Voglio continuare a fare il sindacalista. Sia chiaro: di fare la minoranza non me ne frega proprio nulla. Io voglio essere maggioranza perché uno che vuole cambiare il Paese non può stare all'opposizione». Ci saranno manifestanti Cgil e Fiom anche oggi ad accogliere il premier durante la sua visita alla fabbrica Palazzoli, nel Bresciano. ( c. l.) 46 del 03/11/14, pag. 10 Jobs act, nel negoziato si apre un primo spiraglio “Tratto solo sui disciplinari” Renzi pronto a discutere sulle “fattispecie dei licenziamenti secondo la linea della direzione Pd”. E poi voto di fiducia FRANCESCO BEI ROMA . Scava un tunnel Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd. Scava dall’altra parte, «come l’abate Faria», il presidente della commissione lavoro, ala Cgil, Cesare Damiano. Scavano entrambi una galleria per provare a incontrarsi sotto la grande muraglia dell’articolo 18. Un tunnel di comunicazione per arrivare a portare a casa la legge delega senza far saltare il governo. E possibilmente senza spaccare il Pd. Il lavorio sotterraneo delle due “talpe” non è mai stato interrotto da quando, a fine settembre, la direzione dem votò a stragrande maggioranza un documento di compromesso in cui si sanciva la fine dell’articolo 18, salvo per due casi: «Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie». Questa la formula, concordata tra la minoranza dialogante e i renziani. E questo, nonostante l’apparente chiusura fatta ieri dal premier («la delega non cambia»), è lo schema di gioco ancora intatto. «Per noi il punto di riferimento resta il testo approvato in direzione», ha rassicurato ieri Guerini nei suoi contatti con le altre anime del partito. Dunque le parole del capo del governo a Bruno Vespa, spiega una fonte vicina alla trattativa — a cui partecipano anche Maria Elena Boschi e il ministro Giuliano Poletti — più che prese alla lettera andrebbero in questo caso «interpretate». Come una posizione negoziale dura per arrivare a un successivo ammorbidimento, esattamente come accaduto con la riforma del Senato. Insomma, se Renzi fa la parte del poliziotto cattivo, a Guerini e Poletti tocca quella dei buoni che mediano. Ma la strada è tracciata. «Limitarsi a una dichiarazione di principio, come ha fatto Poletti al Senato, o ipotizzare qualcosa simile a un ordine del giorno — osserva Damiano — non basta. La legge delega va corretta e anche la legge di Stabilità». In fondo anche nel governo ammettono che «non si può pretendere che un ramo del Parlamento timbri una legge come un pacco chiuso, senza cambiare una virgola». Tanto più che l’accordo, in cambio della disponibilità di Renzi a inserire direttamente nel Jobs Act la modifica sull’articolo 18, prevede che la minoranza accetti di votare tutto con la fiducia. Ci sarà dunque un emendamento e la fiducia sarà messa sul testo che uscirà dalla commissione. In tempi molto brevi. Boschi punta a portare in aula il testo lunedì 17 novembre, in modo da votare la fiducia prima della fine della settimana. La celerità non è una fissazione legata a chissà quali scadenze, tanto più che si tratta di una legge che ha bisogno dei decreti attuativi per essere operativa. Il fatto è che la materia è talmente incandescente che il governo vuole tenerla sulla graticola il meno possibile, per evitare incursioni dei grillini o della frangia «irriducibile» — tale viene considerata ormai da Renzi — composta dal trio Civati D’Attorre- Fassina. «Qualsiasi cosa proponessimo — riflette un renziano del cerchio stretto — loro non la voterebbero, ormai fanno opposizione a prescindere ». Oltretutto al governo sanno bene che la delega dovrà inevitabilmente tornare al Senato per l’approvazione definitiva. E una concessione di troppo fatta alla sinistra a Montecitorio riaprirebbe il mercanteggiamento con Sacconi e l’Ncd a palazzo 47 Madama. La coperta insomma è corta e i numeri al Senato impongono che l’intesa vada trovata anche con Alfano. Il ministro dell’Interno ha fatto sapere al premier che, se le modifiche resteranno limitate ai licenziamenti disciplinari, con una circoscritta specificazione delle fattispecie in cui il giudice può ancora ordinare il reintegro, il suo partito non si opporrà. «L’accordo va trovato all’interno della maggioranza e dovrà tenere insieme la sinistra del Pd e l’Ncd», chiarisce in queste ore Guerini. Se sui contenuti un compromesso a questo punto sembra possibile, dove invece scoppierà uno scontro sarà sui tempi di approvazione del Jobs Act. Damiano e gli altri infatti pretendono che prima sia discussa la legge di Stabilità per vedere se effettivamente saranno accolte le loro richieste di aumento della dotazione per i nuovi ammortizzatori sociali (la richiesta è anche quella di rivedere il taglio dei patronati). «Un minuto dopo la legge di Stabilità promettiamo l’approvazione del Jobs Act», assicura Damiano. Un minuto dopo. Del 03/11/2014, pag. 20 Disoccupazione, bassi stipendi e tutele I turbamenti dei collaboratori a progetto In cinque anni persi 322 mila posti, il reddito dei co.co.pro è di 10 mila euro lordi La sindrome del capro espiatorio si aggira nel mondo del lavoro, e va a colpire e fasce deboli, precarie e sottopagate. I dati Inps sulla gestione separata appena pubblicati raccontano la grande mattanza dei parasubordinati: in un anno hanno perso 166.867 occupati (-11,7%). Dal 207 al 2013 i collaboratori a progetto perdono 322.101 posti e nel solo 2012 passano da 647.691 a 502.834, perdendo 145 mila unità. La sensazione è che nella furia regolamentatrice si sia buttato il bambino con l’acqua sporca. Quello che è successo va attribuito alla crisi e alla riforma Fornero che, nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e di spostare il baricentro dell’occupazione, ha introdotto vincoli e rigidità. «Sin dalla primavera 2012, prima della legge - affermano i ricercatori dell’Osservatorio dei lavori dell’Associazione 20 maggio, che hanno realizzato l’indagine - avevamo segnalato il rischio di perdere oltre 130mila occupati con contratti di collaborazione a progetto, senza recupero di lavoro dipendente, né a termine né a tempo indeterminato, ridottosi nei cinque anni della crisi di 1,3 milioni di unità, e semmai con l’uscita dal mercato verso il lavoro nero, le false partite Iva o la disoccupazione». Le organizzazioni della rappresentanza per evitare la mattanza avevano chiesto una soglia di gradualità nell’applicazione della riforma, assegnando un ruolo alla contrattazione collettiva. Dove è avvenuto, come nei call center e nel recupero crediti, ai collaboratori è andata molto meglio. I più colpiti sono stati i giovani parasubordinati, che tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230 mila unità, registrando un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% tra 25 e 29 anni. Ma non solo loro sono stati colpiti. Dalla composizione per fasce d’età, emerge che su 1,3 milioni di lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48%) e il 33% ha superato i 50 anni. Insomma, ormai il lavoro parasubordinato riguarda in prevalenza lavoratrici e lavoratori adulti e con famiglia. Le donne prevalgono nella fascia under 39 (280 mila pari al 55%) ma scompaiono presto, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali dei collaboratori, che provoca l’uscita dal lavoro delle donne in occasione della nascita dei figli. Oltre alle perdite sul campo di posti di lavoro, sono 48 preoccupanti le condizioni economiche di questi lavoratori. Il reddito medio di tutti i parasubordinati nel 2013 è di 19.155 euro lordi annui, una media falsata dagli oltre 500 mila amministratori di società che guadagnano in media 31.862 euro. Se si prendono in esame i soli collaboratori a progetto la media dei compensi nel 2013 è stata di poco superiore ai 10mila euro (10.218); era di 9.953 euro lordi nel 2012. Escludendo gli amministratori di società, i parasubordinati guadagnano meno dei lavoratori dipendenti (29 mila euro). Ma vi è anche un altro paradosso: dottorandi di ricerca e medici in formazione specialistica hanno compensi più alti (rispettivamente 13.834 e 18.716 euro, fissati dal Miur) durante il percorso formativo che non al termine, quando spesso vengono loro offerti contratti di collaborazione molto meno vantaggiosi e non regolati, che sono carburante per la fuga dei cervelli. Per i parasubordinati restano infine aperte altre due sfide: le tutele in caso di disoccupazione (estensione dell’Aspi) e le future coperture previdenziali e pensionistiche, che si annunciano piuttosto avare. 49