Leggi tutto - Associazione Claudio Rinaldi

Transcript

Leggi tutto - Associazione Claudio Rinaldi
IL GIORNO Mercoledi’ 16 novembre 1983
I QUARANTENNI - Una generazione allo specchio
Nel dibattito sui quarantenni sono intervenuti Massimo Fini, Claudio Altarocca,
Giampiero Mughini, Tiziana Maiolo, Giuseppe Pederiali, Paolo Pillitteri, Toni
Muzi Falconi, Gianni Varasi, Maria Bellisario, Enrico Finzi e Marina Cosi. E’ la
volta di Claudio Rinaldi
Abbiamo avuto molto
crediamo di meritare tutto
CLAUDIO RINALDI
direttore dell’Europeo
Se penso alla generazione dei quarantenni, della quale accetto di considerarmi parte benche’ sia nato nel 1946 (la
barba mi si imbianca a vista d’occhio, e il fiato e’ sempre piu’ corto), le prime due cose che mi vengono in mente
sono un nome e un cognome che alla stragrande maggioranza dei miei coetanei non dicono assolutamente nulla.
Giancarlo Abbiati.
Nel 1972, poco dopo l’uccisione del commissario Calabresi a Milano, usci’ sui “Quaderni Piacentini”, la piu’ diffusa
rivista ideologica dell’estrema sinistra, un articolo firmato, appunto, Giancarlo Abbiati. Il titolo era lapidario e, per
quell’epoca, lungimirante: “Contro il terrorismo”.
L’autore, che si celava dietro lo pseudonimo di Abbiati, svolgeva una serrata requisitoria contro le teorie della lotta
armata allora in voga; teorie che gia’ si erano tradotte, da un lato, in una serie di imprese delle neonate Brigate
rosse, dall’altro nell’ignobile civettamento di un gruppo non terroristico come Lotta continua con gli ignoti autori del
delitto Calabresi.
Nel numero successivo, i “Quaderni” ospitarono, sia pure prendendone nettamente le distanze, una pedante e
sciocca replica firmata Marcello Manconi (anche questo uno pseudonimo o quasi), nella quale si sosteneva che
Lenin, indiscussa autorita’ politico-morale di noi giovanotti di sinistra, non era affatto ostile all’uso del terrore, anzi.
Abbiati era, in realta’ Luciano Pero, forse la testa migliore del Sessantotto milanese, modi schivi e vita sobria da
contadino piemontese qual era. Nel 1967 ispiro’ e guido’ l’occupazione dell’Universita’ Cattolica, della quale Mario
Capanna non fu che abile propagandista; nel 1968, espulso dalla Cattolica, emigro’ alla Statale; nel 1969 fu tra i
fondatori di “Lotta continua” a Milano. Piu’ tardi fece il servizio militare come sottotenente di complemento, e fu in
questa occasione, causa anche il suo rifiuto a intrupparsi nell’organizzazione illegale dei cosiddetti “proletari in
divisa”, che i suoi rapporti con i capi nazionali di “Lotta continua” cominciarono a guastarsi.
Oggi pero’ abita coi due figli e la moglie (sempre quella degli anni Settanta) in un casermone dell’Ina alla periferia est
di Milano; fa l’insegnante, il ricercatore, il formatore di quadri sindacali; e benche’ le sue qualita’ intellettuali siano
sempre le stesse, non dispone, che io sappia, di tribune autorevoli dove dire la sua. Il furbacchione che si presentava
come Marcello Manconi, invece, a quanto so, ha attraversato senza gravi danni le turbolenze politiche dello scorso
decennio, e oggi ci sono giornali che pubblicano le sue nuove sciocchezze.
Perche’ rivango la storia di Abbiati e di Manconi? Ma perche’ essa vale, nel suo piccolo, a spiegare in che senso la
generazione dei quarantenni e’, in buona parte, una generazione fallita. Abbiati-Pero era scarsamente permeabile
alle mode, preferiva il duro ragionamento sui fatti alla beatitudine delle sensazioni, aveva vivissimo il senso della sua
responsabilita’ individuale. Nonostante cio’, o forse proprio a causa di cio’, per quelli della sua eta’ e’ risultato un
estraneo. Negli anni della lotta, i suoi compagni diffidavano di lui. Negli anni del riflusso non ha avuto che
palcoscenici di provincia.
Il fatto e’ che le sue, nella generazione dei quarantenni, erano e sono qualita’ tanto rare da diventare incomprensibili
e perfino fastidiose per gli altri. Di regola, chi e’ venuto al mondo sul finire della seconda guerra mondiale tutto e’
fuorche’ una persona seria. Al contrario: per tanti miei coetanei, l’unico vero pericolo da cui occorre guardarsi e’ la
noia. E lo sforzo di tenere lontana la noia legittima qualsiasi cialtroneria.
Siamo una generazione che ha avuto molto, moltissimo, e che da cio’ ha tratto la sciagurata convinzione di aver
diritto a tutto.
Ci siamo formati negli anni del miracolo economico, quando il reddito nazionale cresceva a ritmi inusitati e ogni
famiglia migliorava di continuo il proprio tenore di vita. Intanto si riducevano le diseguaglianze sociali, si determinava
qualche apertura nel sistema politico, si sprovincializzavano gusti e piaceri. Noi siamo i figli di quest’epoca
irripetibile.
Ricordo un avvertimento di Giorgio Bocca, anni fa: attenzione, si sta formando una leva di giovani letteralmente
incapaci di svolgere qualunque lavoro. Bocca aveva ragione. Nel complesso, abbiamo mal digerito le conquiste di
benessere e di liberta’. Il nostro atteggiamento verso il mondo oscilla tra l’inquietudine e l’ingordigia, fra
l’insoddisfazione globale e uno sperimentalismo febbrile e cretino. Fra questi poli e’ difficile rintracciare qualcosa che
assomigli, non dico alla professionalita’, ma all’impegno.
“Lotta dura senza paura”, si diceva. Ma alla lotta si andava come un mucchio selvaggio: mai nessuno che osasse
ritrarsi un momento a pensare. Stare nel mucchio era appagante di per se’. La felicita’ era quella cantata da Montale,
del “sughero abbandonato alla corrente”. Dio mio, e se la corrente si ferma, se scompare?
Davanti agli occhi mi passano storie comiche e storie crudeli. Che so: Oreste Scalzone spaventato e magro alle prese
col carcere; l’ottimo Marco Boato, con quella sua faccia da laborioso cattolico veneto, che si candida al Parlamento
una volta con l’ultrasinistra, una volta coi radicali e una volta coi socialisti; Franco Bassanini che sguscia dai cattolici
ai socialisti e dai socialisti alla sinistra indipendente ... Chiamiamola irrequietezza, o ansia di protagonismo, o
insensibilita’ alle lezioni dei fatti, o incapacita’ di soffrire, chiamiamola come vogliamo. Ma mi colpisce questa
volonta’ di restare sempre a galla, come il sughero appunto, a qualsiasi condizione. La prontezza nel dire a se stessi e
agli altri ogni volta: “Finora abbiamo scherzato”.
Oggi, anche presso menti fervide come Massimo Cacciari, vanno di moda i dissociati; strana gente che negli anni del
terrorismo si divertiva nei gruppi armati, e che oggi, avendo cambiato idea sul mondo, anche in seguito alla sconfitta
del terrorismo, ritiene di avere il diritto di non rispondere delle gesta del passato. Si’, il quarantenne e’ indulgente
verso chi si proclama non responsabile, verso chi prima getta il sasso o la bomba, e poi ritira (senza pentirsi, per
carita’) la mano.
Tutto questo non riguarda soltanto i comportamenti politici o le scelte di quelli che, come si diceva una volta,
mettono la politica “al primo posto”.
Non c’e’ angolo delle nostre esistenze che non sia stato segnato dalle stesse impronte. Quanti quarantenni di oggi
continuano a vivere con l’uomo, o la donna, da cui hanno avuto dei figli? Quando io e Loredana raccontiamo a
qualcuno che stiamo insieme dall’autunno del 1967, sia pure attraverso alti e bassi e sobbalzi, rimaniamo trafitti da
occhiate di stupore o compatimento.
E come dimenticare che la nostra generazione ha inventato quel singolare modo di vita che va sotto il nome di
“coppia aperta”?
Anche qui ricompaiono la ricerca simulanea della sicurezza e dell’avventura, la lotta ossessiva contro la noia, la
mano avida e rapinosa. Non commettiamo l’errore di pensare che detti come “Ogni lasciata e’ persa” fossero
l’espressione di un decrepito maschilismo da caserma: nessuno piu’ dei miei coetanei, tutti laureati e diplomati, si e’
conformato a quelle regole.
Non vorrei essere equivocato. Non penso che sia un male separarsi dalla persona con cui si vive, ne’ ritengo che ogni
rapporto debba essere tassativamente esclusivo. Ma e’ certo che la nostra generazione tende ad esaltarsi di
sensazioni.
“Se una cosa mi va, mi va; se non mi va, non mi va”. Altro genere di considerazioni non entra in ballo. “Sto bene.
Oppure male. In ogni caso me ne frego di te. Ti consumo finche’ ne ho voglia, e non provo alcun imbarazzo, perche’
anche tu, se sei furbo (o furba), puoi fare lo stesso”.
Per molti di noi una scelta, non e’ mai qualcosa di cui dobbiamo rispondere, a noi stessi e agli altri. Non e’ una scelta,
e’ un accadimento: dura finche’ dura, e poi si cancella come il gesso dalla lavagna.
Certi rapporti personali vengono chiusi con la sessa disinvoltura con cui si invoca un’amnistia per i reati connessi al
terrorismo. “Si’, facevo la lotta armata e con questo? C’era tanta gente che la faceva, c’era una grande corrente che
mi trascinava, perche’ ve la prendete con me? Io sono una vittima …”Ho letto con quanta rassegnazione il mio amico Giampiero Mughini, lungo gli anni Settanta, ha erogato prestazioni
varie a favore di amiche di cui certo non gli sfuggivano ne’ l’infantilismo ne’ la predoneria. Gli domando,
affettuosamente: ma perche’ lo hai fatto? Perche’ anche tu, dalla riva del fiume, hai assecondato la corrente?
Irresponsabilita’, faciloneria, cinismo ne ho incontrati anche lavorando. Nel Sessantotto e negli anni successivi, fra i
giovanotti di sinistra girava, a proposito del lavoro, una teoria di questo genere: si lavora soltanto se e’ strettamente
necessario per non morire di fame, ma da questa attivita’ non ci si aspetta assolutamente nulla, e nulla di se’ si
sacrifica ad essa.
Il guaio e’ che i giovanotti di sinistra erano, mediamente, i piu’ svegli della loro generazione. Il cosiddetto movimento
attirava anche le persone piu’ intelligenti, oltre che un’infinita’ di gregari. Conseguenza: anche la parte migliore dei
quarantenni di oggi considera un limite il pieno coinvolgimento nel lavoro, e vive nell’illusione che il bello della vita,
ivi compresa la felicita’, non possa che trovarsi altrove.
Poiche’ questo atteggiamento si innesta su una base di scarsa preparazione culturale e professionale, il risultato e’
che la nostra generazione non brilla per quantita’ di talenti.
Parlo anche del mio mestiere, il giornalismo. Dove dietro i Montanelli, i Biagi, i Bocca, gli Scalfari non c’e’ poi una
gran folla. Dove la voglia di lavorare di meno e guadagnare di piu’ e’ spesso dichiarata senza pudore e senza
realismo. E’ vero che nei giornali gli stakanovisti si sono sempre contati sulle dita di una mano: non per nulla dice il
proverbio che “fare il giornalista e’ sempre meglio che lavorare”. Ma e’ vero anche che fra i miei coetanei di grandi
giornalisti non ne vedo. E non vedo nemmeno una maggioranza di professionisti innamorati del loro lavoro.
Io stesso, e me ne dispiace per Lamberto Sechi al quale devo cio’ che sono e che so, mi appaio piu’ volte come la
caricatura di un direttore di giornale. Non ho mai lavorato all’estero. Non so l’inglese, cosicche’ per decidere se
comprare o meno un servizio di una rivista americana o inglese devo chiamare qualcuno. In alcuni settori
dell’informazione mi muovo goffamente. Molte volte lavorando mi diverto, ma talora mi chiedo se cio’ non sia
l’esatta riproduzione di quell’atteggiamento ludico-goliardico che nei miei coetanei deploro. Sono piu’ spesso
arrogante che preparato.
Insomma, vivo anch’io immerso nelle miserie della condizione di quarantenne. Con una differenza, forse, rispetto a
tanti altri: che io vedo di che miseria si tratta. Ragion per cui tendo a vivere in solitudine, ho pochissimi amici, e da
molti sono ritenuto un essere insopportabile. Pazienza. A differenza di Massimo Fini, so di essere in debito e non in
credito con la sorte.