Eric Rohmer L`organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau
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Eric Rohmer L`organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau
Eric Rohmer L’organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau Venezia, Marsilio 1985 ( pp. 21-40). 1. LO SPAZIO PITTORICO Murnau, nei suoi film e particolarmente in Faust, mostra una reale e profonda cultura pittorica. È uno dei rari cineasti – con Ejzentejn e Dreyer – la cui concezione fotografica deve più alla pittura dei musei che alle illustrazioni popolari. Del resto, non usiamo questo termine in senso negativo. Se mira troppo in alto, il cinema rischia di spezzarsi le reni: non tutti sanno evitare le insidie della oleografia. Gli ispiratori dei primi film di finzione furono, com’è noto, dei caricaturisti. Prima di essere girato da Lumière, L’Arroseur arrosé (L’innaffiatore innaffiato, 189) era stato una «storia per immagini» disegnata da Herman Vogel e da Christophe. Nato dal fumetto e a sua volta fonte d’ispirazione per quest’ultimo, il cinema si colloca dunque naturalmente all’interno di quella iconografia popolare che i pittori e i teorici di oggi considerano una branca non secondaria o minore delle arti. Sono una folta schiera i cineasti che hanno dato prova di inventiva in questo campo, proponendoci le loro forme, i loro tipi, la loro impaginazione, quasi il loro tratto, il loro tocco. Citiamo per esempio Hitchcock o Fritz Lang e, perché no, il cinema americano nel suo insieme: thriller, western, burlesque, musical ecc. O, in Europa, Antonioni, Fellini, che però sottopongono il motivo popolare che li ispira a un processo di sublimazione. O ancora Jean Renoir, altro uomo di cultura, che sa abbandonare l’impressionismo di Partie de campagne (La scampagnata, 1936) per le stampe d’Epinal e per il caleidoscopio di Elena et les hommes (Eliana e gli uomini, 1956). Murnau, invece, non deve niente al naïf. In questo consiste la grandezza e il rischio della sua operazione, ma non sembra che lo si possa tacciare per un solo istante di pedanteria, tanto intimamente ha assimilato gli influssi subiti, attingendo dai suoi modelli solo quello che gli era possibile conformare allo spirito del cinema. Niente di più pericoloso per il cineasta che scambiarsi per il pittore che non può essere. Ma questa grazia fu accordata a uno dei più grandi: di elevarsi al di sopra dei limiti del suo genere, di battere il pittore sul suo stesso terreno, di fare opera di pittore. Prendiamo, a caso, un fotogramma, una «immagine» di Faust.1 Anche facendo astrazione dal movimento che l’anima, cioè amputandola di un elemento essenziale del fascino che esercita su di noi, anche riportandola sulla carta, è innegabile che «regge». Non c’è in essa un solo punto, una sola linea, una sola superficie, un solo contrasto d’ombra e di luce che, sottraendosi all’alea della riproduzione meccanica, non sembri tracciato con la stessa libertà, rigore o fantasia della mano dell’uomo. Qual è il segreto di Murnau? Non è soltanto l’aver avuto tutta la disponibilità di tempo, in studio, di organizzare preliminarmente il materiale visivo, costituito da elementi tra i quali in genere soltanto i volti — benché truccati e modellati dalle luci — conservano la loro configurazione naturale. Anche altri hanno lavorato nelle stesse condizioni, eppure non sono stati che dei plagiari e dei pedanti. Ciò che lo distingue da loro, è il fatto che per lui non si tratta di farci ammirare la sua abilità nel dare l’illusione della pittura, cos’i come un trompe-l’oeil dà l’illusione della realtà. Egli sa fingere di 1 Faust non si presenta come un’opera unica, ma sotto forma, a nostra conoscenza, di tre versioni, stampate da almeno due diversi negativi, e che dunque non comportano le stesse «riprese» — fatto normale in un’epoca in cui i controtipi non esistevano ancora: la versione bilingue (anglo-tedesca) del Deutsches Institut fùr Filmkunde, Wiesbaden, la versione danese della Cinémathèque Francaise, la versione tedesca della DEFA (Berlino Est), recentemente stampata da un negativo ritrovato. Allo stato attuale delle nostre ricerche, nessuna delle tre può essere considerata più «autentica» delle altre. conservare il potere di investigazione grezzo, fotografico, della macchina da presa per farci entrare direttamente in un universo di essenza pittorica. Meglio, ci vuole rivelare che l’universo, il nostro mondo quotidiano, è pittorico nella sua natura profonda. Verifica e avvalora la visione del mondo che ci è stata trasmessa dalle tappe successive della pittura2. Il successo nei risultati dipende, in gran parte, dalla sua scelta — lo diciamo subito, ma ci ritorneremo — di subordinare la forma alla luce. Se Faust è il più pittorico dei film di Murnau, è perché la lotta fra l’ombra e la luce ne costituisce il soggetto. (In Der letzte Mann e in Tartüff, la forma architettonica concepita da Carl Mayer, in fase di sceneggiatura, incide di più sulla interpretazione degli attori). L’utilizzazione delle luci conferisce al cineasta un controllo di gran lunga più preciso del suo materiale filmico che non l’inserimento di questo in un dato schema architettonico. È la luce che modella la forma, che la scolpisce, e il regista — senza derogare alla sua umiltà di fondo — sembra essere presente solo per registrare questo atto di creazione, per darci l’occasione di assistere alla genesi di un mondo vero e bello come la pittura, giacché è attraverso la pittura che la verità e la bellezza del mondo visibile ci sono state rivelate nel corso degli anni. 1. LE LUCI Il primo pittore a cui ci fa pensare Faust, è il pittore del chiaroscuro: Rembrandt. Nel mostrare Faust nel suo studio, Murnau non ha potuto non pensare alla celebre incisione che si suppone rappresenti il mago di Norimberga3, Fu riprodotta da Johann Heinrich Lips, per servire da frontespizio, nel 1790, all’edizione del dramma di Goethe. Ma — differenza sostanziale rispetto al film — la luce celeste, in Rembrandt, cala dall’alto della finestra, mentre in Murnau, la luce viene emessa da una sfera brillante, o dal fuoco dei libri bruciati, e, provenendo dal basso, tradisce la propria origine infernale. Più vicine all’Olandese sono le scene della peste dove, al di là degli ampi bastioni d’ombra dei piani anteriori, l’azione non mobilita che una tenue isola di luce, minacciata, da tutti i lati, dai flutti di una oscurità divorante. Ma lo spirito rembrandtiano aleggia ancor più nella navata della cattedrale immersa in uno sfumato che i raggi del sole, scendendo dalle vetrate, sbarrano obliquamente, oppure su quegli altri raggi d’oro filato che scaturiscono dall’ostensorio a forma di croce e che sembrano spingere alcuni prolungamenti fino ai quattro angoli del quadro. Che Rembrandt risulti essere il modello, riconosciuto o meno, di Murnau, questo è più che probabile. Ineguagliabile modello, l’arte di Rembrandt ci conduce assai lontano dalla rappresentazione fotografica delle cose. Lui è, per così dire, al di là, già decisamente moderno, mentre gli artisti del Rinascimento, compresi i veneziani4, dal punto di vista dell’«illuminazione», che ci interessa per il momento, sono ancora un po’ al di qua. Grosso modo — ma l’evoluzione è tutt’altro che lineare — il XVI secolo aspira a un realismo fotografico5 e, non potendo raggiungerlo, stilizza, diciamo così, per difetto. Ci riesce il XVII secolo e trova uno stile negli eccessi della sua tecnica di riproduzione, dedicandosi a quegli esperimenti che diventeranno duecento anni più tardi i luoghi comuni della fotografia. Il XVII o ricade nella «maniera», oppure, nei maggiori (Watteau, Chardin, Fragonard), prende a manifestare una volontà di stile che volta le spalle proprio agli insegnamenti della camera obscura. Rembrandt, invece, utilizza appieno le conquiste del suo secolo e se ne serve per la loro propria distruzione, inventando, grazie alla sua conoscenza delle leggi della 2 Allo stesso modo, il fotografo verifica certe acquisizioni pittoriche nell’ambito non solo della prospettiva ma anche della distribuzione delle masse di ombra e di luce. Una carta sensibile durissima, a forte contrasto, fa apparire delle linee che avremmo potuto attribuire all’arbitrio dell’artista e che invece si rivelano essere parti costitutive del mondo naturale, o, quanto meno, elementi oggettivi di ogni rappresentazione. 3 Il titolo vero è Il Mago, senza che Faust venga designato per nome (cfr. Wolfgang Wegner, Die Faustdarstellung, Amsterdam 1962). Va segnalato che il personaggio non porta la barba. 4 Nell’ambito della prospettiva, pare che la congiuntura abbia avuto luogo già in precedenza, diciamo a metà della carriera di Tiziano. Nella Madonna di Ca’ Pesaro (Venezia, Santa Maria dei Frari) la trascrizione dei volumi sulla superficie piana mostra uno spirito fotografico. 5 Nel Trattato della pittura, Leonardo da Vinci consiglia l’uso della camera obscura, o del ricalco su vetro. luce, un universo dove il chiaro e lo scuro obbediscono a delle leggi differenti, di ordine superiore, che mettono fuori gioco l’artificio, anche il più raffinato, dei teatri di posa. Dopotutto, Rembrandt è forse una falsa pista. E, se dobbiamo fare un nome, pronunciamo piuttosto quello di Caravaggio, che ci verrebbe subito alle labbra, se non fosse per il rispetto dovuto alla celebre stampa. La sua opera rappresenta il punto di corrispondenza più preciso fra la visione fotografica e la visione pittorica. Tale constatazione non è, da parte nostra, un rimprovero, perché questo stadio estremo di tecnicità non soltanto rappresenta per la pittura una tappa necessaria nella sua storia, ma le rivela delle forme di bellezza che, nonostante siano state annesse più tardi dalla fotografia, restano pur sempre pittoriche. Allo stesso modo Murnau, se fa sue certe qualità pittoriche, resta nondimeno cineasta. È pittore come il Caravaggio è fotografo, e il caso del secondo può aiutare a comprendere meglio quello del primo. Ciò che il caravaggismo e la fotografia hanno in comune, non è tanto il realismo ordinario quanto proprio l’irrealismo di certi effetti. La trasposizione dei volumi su superficie, la selezione dei valori ci offrono spesso, nell’uno come nell’altro, lo spettacolo di un vero che non è affatto verosimile e che colpisce il nostro occhio ancor più dello schematismo dei primitivi o delle deformazioni dei manieristi. Sconvolgenti sono, nella Cena in Emmaus6, quegli scorci che si direbbero ottenuti per mezzo di un obiettivo a focale molto corta. Altrettanto sconvolgenti, per i loro violenti contrasti, le larghe zone d’ombra opaca stese da una luce cruda sotto le sopracciglia, sotto il mento dei personaggi (Deposizione di Cristo)7. Sconvolgente quel modellato che sacrifica, come spesso avviene in fotografia, la realtà anatomica alla sola verità dell’illuminazione (San Gerolamo8Altri due « realisti» del XVII secolo, nel solco di Caravaggio, pur avendo minor affinità di spirito e di temperamento con Murnau, offrono alcuni punti precisi di convergenza con il cinema in generale, e con il film Faust in particolare. Del primo, Georges de La Tour, sebbene assai lontano dal suo misticismo, Murnau possiede il gusto della sobrietà nelle scene e nei costumi, spogli qui (eccetto che nell’episodio alla corte di Parma) di qualsiasi abbellimento o fronzolo. Come La Tour, anche Murnau ama collocare le sorgenti luminose nel campo visivo e, sfidando le possibilità della superficie sensibile, talora, sotto un eccesso di luce, fa «schioccare» un volto proprio come fa il pittore con quello di Gesù Bambino, schiacciato, acceso in San Giuseppe falegname9, dal vicinissimo bagliore della fiamma. Nel secondo, Vermeer, è sempre la luce, sebbene in modo meno spettacolare, l’organizzatrice assoluta dello spazio. È la luce che modella le forme e distribuisce le larghe campiture di giallo e di blu10. Voltando anche lui le spalle al senso comune, Vermeer, nei «flous» della Merlettaia11 arriva perfino a speculare su una imperfezione dell’occhio umano che questo lascerà in eredità alla cinecamera: e questa, a sua volta, prendendo coscienza in modo più chiaro di tale infermità, saprà volgerla in certi casi a proprio vantaggio. Le scene diurne, a casa di Margherita, sono illuminate un po’ alla maniera del maestro di Delft, soprattutto le scene nella camera della madre, con la luce che proviene, a sinistra, dalla vetrata della finestra. Troviamo, in questa scenografia, lo spirito della Collana di perle12, mentre la scena del cofanetto conserva la figura in piedi, di profilo, davanti al mobile, ma presenta una illuminazione molto diversa, in controluce sulla finestra di fondo. Potremmo quasi dire che la visione di Vermeer è più fotografica di quella di Murnau, il quale prova, in tutta questa parte del film, a eliminare il modellato e a valorizzare il puro disegno, ma, ancora una volta, tanto con la magia della luce che con l’architettura specifica delle forme. 6 Londra, National Gallerv Roma, Pinacoteca Vaticana. 8 Roma, Galleria Borghese. 9 Roma, Galleria Borghese. 10 Fatto inquietante, la sua tavolozza, con quei gialli, quei blu di Prussia (ciano, quei bruni rosa magenta), è, tra tutte, la gamma più vicina alle attuali tricromie Kodak. Cosicché non sarebbe impossibile, con la dovuta attenzione, ricostruire fotograficamente una delle sue tele, a partire dagli ambienti e dai personaggi reali. Pensiamo però alla boutade di Dall: «Vermeer è il pittore che, in apparenza, si avvicina di più alla fotografia, ma anche più se ne allontana, in fondo». 11 Parigi, Museo del Louvre. Un fotografo direbbe che il «fuoco» non è sul soggetto, ma sul primo piano. 12 Berlino, Staatliche Museen. 7 Intendiamoci bene. Non si tratta qui di un ozioso tentativo di «accostamento». Se possiamo dire che Murnau è il più «pittore» fra i cineasti, non è perché qualcuna delle sue inquadrature presenta delle analogie fortuite o volute con un certo quadro celebre. È perché, più in generale, le bellezze che ci offre sono prossime, nel loro spirito, a quelle che la pittura nella sua storia ci fa ammirare e che la fotografia si limita a riprendere da essa. Ma quelle bellezze che la macchina da presa ha saputo inventare per proprio conto e che la pittura non aveva presentito, lo tentano assai poco, anche se è vero che invece hanno sedotto i suoi contemporanei più illustri, i Lang, gli Stroheim, gli Sternberg fra gli altri. Costoro amano far sentire l’origine elettrica delle luci. I trucchi vengono presentati come tali. Nei loro film, respiriamo quell’atmosfera del teatro di posa che ci procura un’ebbrezza particolare e eccitante. L’impiego di certi procedimenti, e non solo la trama, ci rivela bellezze che la pittura neanche sospetta e che il cinema può mettere sul conto delle sue conquiste più incontestabili. Quanto alle bellezze di Faust, queste hanno un’aria di famiglia come quelle dei musei. Sebbene non si offrano mai veramente sotto la forma di «quadro», recano in sé il fermento di un quadro potenziale. Come dicevamo prima, ci costringono a guardare il mondo con gli occhi del pittore. 2. IL DISEGNO Proviamo adesso a precisare il nostro concetto, prendendo in esame non più la luce, ma il «disegno». Può sembrare paradossale parlare di disegno a proposito di un cineasta, vale a dire di un fotografo: fra tutte, è la cosa che gli sfugge, per la natura stessa della sua tecnica di riproduzione delle forme. Tanto è agevole per lui dominare l’illuminazione e affermare la propria personalità attraverso il dosaggio dell’ombra e della luce, altrettanto pare impotente a imprimere al film l’impronta della sua mano. Eppure... Un fotogramma di un film di Murnau ci dà l’impressione immediata di una sorta di ampiezza, di pienezza del tratto che è solo sua e lo rende facilmente riconoscibile. I personaggi, gli oggetti, le scene degli altri film paiono, al confronto, esili, se non addirittura striminziti. Ciò dipende in primo luogo da una asciuttezza delle riprese che disdegna la facilità delle soluzioni estreme, come l’uso del primissimo piano (che, facendo del volto un paesaggio, paradossalmente allontana quel che presume di avvicinare), oppure il gigantismo degli scenari e della folla, caro al Lang di Die Nibelungen e di Metropolis (id., 1926). Notiamo viceversa, nell’intera opera di Murnau, una predilezione per la mezza figura (ME); questa mostra l’attore a mezzobusto e dunque valorizza la sua presenza plastica e insieme drammatica. Non solo le dimensioni relative del «soggetto» in rapporto all’ambiente circostante risultano ingrandite, ma gli stessi soggetti che il regista sceglie, a loro volta, sono spesso dotati di dimensioni fuori del comune. Certo, non tutti gli accessori di Faust sono giganteschi come gli enormi candelabri di Tartuff, o come la caffettiera di City Girl (tit. orig. Our Daily Bread, 1929; tit. it. Il nostro pane quotidiano)13 tuttavia, si direbbe, sono di «misura abbondante» — libri, croci, cofanetti, collane, boccali ecc. — e di una semplicità di forme che ci colpisce al primo sguardo senza bisogno di isolarli con un primissimo piano. Possiamo dire la stessa cosa dei personaggi. Anch’essi non hanno tutti la forte corporatura di Jannings14, e Nosferatu anzi è uno degli esseri più filiformi che lo schermo abbia mai mostrato. Ma non c’è dubbio che, in Faust, sia gli uni che gli altri siano dotati di una certa rotondità, mentre gli illustratori del dramma di Goethe ci propongono, come vuole la tradizione (Retzsch, Delacroix, Johannot), dei tipi dai contorni più asciutti, più aguzzi15. Accanto all’atletico Valentino, troviamo una Marta obesa, nella 13 Gli oggetti minuscoli che pure incontriamo (per esempio, in Citv Girl, lo specchio microscopico che la ragazza del treno estrae dalla sua giarrettiera, o la perla di Tabu) affermano al contrario con altrettanta determinazione la loro presenza. 14 Del resto è lui che ha scelto Murnau, più di quanto Murnau non abbia scelto lui. Berger, primo regista interpellato, voleva affidare la parte allo snello Conrad Veidt. 15 Sappiamo quanto interesse Goethe abbia mostrato per le illustrazioni del suo Faust: prima di tutto per quelle di Moritz Retzsch (1816), disegnate con uno stile lineare, ispirato alle antiche pitture vascolari. Pare che le preferisse a quelle di Cornelius, pubblicate lo stesso anno e concepite «alla vecchia maniera tedesca» (cfr. La Peinture allemande à l’ époque dii Romantisme, Paris, Ed. des Musées Nationaux, 1976, pp. 26, 27, 28 e 164, 165). Elogiò anche quelle di Delacroix (1826), «che ha saputo disegnare le scene principali con una matita tanto tormentata quanto il destino del quale riconosciamo a stento l’ex modella di Toulouse-Lautrec; vi è poi un Faust che sembra possedere una salute fisica a tutta prova e niente affatto insidiato dal tedio romantico16; quanto a Margherita, le sue forme tondeggianti e le sue guance piene hanno senza dubbio meglio ispirato Murnau di quanto non avrebbe fatto il viso sciupato e la figura più minuta di Lilian Gish, in un primo momento interpellata per la parte17. Esaminiamo, viceversa, un fotogramma di Fritz Lang. Qui la retta prende il sopravvento sulla curva. I personaggi ci appaiono assai più asciutti, duri, rigidi, tanto il muscoloso Paul Richter (Siegfrieds Tod) quanto l’ossuta Brigitte HeIm (Metropolis). Ma definire il «disegno» di Murnau in base alla sola ampiezza della composizione, è troppo poco e non possiamo evitare di riprendere, con tutte le dovute precauzioni, il nostro gioco dei raffronti. Che importa se le piste sulle quali ci lanciamo sono, in fin dei conti, false le une quanto le altre; tanto Murnau, al termine del percorso, si ritroverà solo. Meglio così: lo crediamo, lo sappiamo unico. L’accostamento che tentiamo fra la sua opera e quella di certi pittori, per noi, non è un fine, ma un mezzo, il solo mezzo per porre in evidenza quel potere che difficilmente viene riconosciuto a un cineasta, ma che lui, invece, sicuramente possiede e che noi abbiamo definito il «disegno». Che faccia pensare a X o a Y, o persino che un tale raffronto abbia o non abbia senso, non è questo il punto. Ma il fatto è che se Murnau assomiglia a un dato pittore per qualcosa di più di una comune preferenza verso una certa materia aneddotica, oppure formale, allora deve essere per lo stile, per il disegno, la cui esistenza in un’opera fotografica non è evidente e va dunque provata mediante tale rimando. Parleremo dunque di affinità di «mano», così come si dice affinità di spirito. E l’aspetto che ci interessa non è tanto l’affinità ipotetica, quanto la «mano», percepita e definita come qualcosa di inconfondibile. Forti di questo preambolo, scartiamo prima di tutto certi particolari di ordine aneddotico che Murnau prende a prestito. Per esempio, la curiosa rassomiglianza tra il personaggio di Marta e la modella del Ritratto di vecchia signora di Memling18, serve soltanto a meglio dimostrare lo scarto esistente fra lo stile di Murnau e quello dei primitivi. Analogamente, le probabili derivazioni dalla Fanciulla e la Morte di Baldung Grien — la clessidra, il teschio e lo specchio di Mefistofele) — non rientrano nel nostro discorso. La ricostruzione dell’epoca in cui visse Faust (morto nel 1540, secondo la tradizione) è molto fedele. Il regista e i suoi collaboratori hanno cercato di recuperare con l’aiuto della scenografia e dei costumi, il mondo dipinto da Holbein o Altdorfer, e vedremo, nel prossimo paragrafo, come in Murnau e in quest’ultimo vi sia una comune preferenza per certi motivi plastici, per certe forme. Ma il tocco del pittore e quello del cineasta non appartengono alla stessa famiglia: uno Sternberg, con la sua minuzia, la sua scrupolosità, il suo culto quasi cinese del particolare, presenta un’affinità con Altdorfer più plausibile. E Fritz Lang conserva nel bagliore metallico del suo tratto, una parte dell’eredità di Holbein. Non andremo neppure in cerca di somiglianze tra i moderni. Cogliamo l’occasione per dire una volta per tutte quanto poco l’influenza della pittura espressionista sia riscontrabile in Murnau, non solo in Faust, ma in tutti i suoi altri film. Anche da questo punto di vista — plastico — Murnau è il protagonista». Riguardo ai disegni che lo stesso Goethe ci ha lasciato (Cfr. La Peinture allernande à l’époque du Romantisme, cit., pp. 60, 81), questi non hanno niente di romantico, né di neoclassico, ma sono piuttosto barocchi, all’italiana, e, pur nella loro sommarietà di bozzetti preparatori di una messa in scena, aspirano a una «ampiezza» non priva di affinità con quella di Murnau. Potremmo anche domandarci se il secondo di essi, Scena della notte di Walpurgis, col suo albero reclino, non abbia ispirato il paesaggio nevoso della inquadratura. 16 Durante il periodo americano, Murnau punterà con assoluta chiarezza sull’opposizione fra la statura imponente dei suoi protagonisti (George O’Brien, i due Morton, Charles Fareli, Matahi) e la fragilità delle figure femminili. Fra queste, due tipi. Da una parte, le «savie»: le loro forme piene e un po’ rustiche sembrano meglio ispirare l’inventiva plastica di Murnau, come nel caso di Camilla Horn in Faust (Janet Gaynor in Sunrise, Reri in Tabu). Dall’altra parte, le «folli» o presunte tali: la loro bellezza cittadina, meno corposa, le forme più affilate, denunciano una derivazione più o meno remota da Nosferatu, che fa di esse, tanto in senso plastico che drammatico, un elemento di disordine e di squilibrio (Margaret Livingston in Sunrise, Mary Duncan in City Girl). 17 Cfr. Eisner, op. cit., p. 57, nota. 18 Parigi, Museo del Louvre. cineasta tedesco meno espressionista. Gli eccessi che possiamo rilevare nella interpretazione degli lontana dalla visione parossistica e urlata di Kirchner, Beckmann, Kokoschka o dello stesso Nolde, autore di un Faust inciso su legno19. Tuttavia, vi è un’inquadratura del Faust di Murnau che ha un andamento decisamente espressionista e introduce nel film una nota discordante. Sono quelle braccia nude sollevate nell’ombra, nel momento in cui Faust esita a firmare il patto e domanda a Mefistofele: «Puoi aiutare gli affamati e gli ammalati?». Invece, le altre tracce di espressionismo, nel film, sono attribuibili agli scenografi Herlth e Ròhrig: facciate leggermente a sghimbescio, tetti un po’ troppo spioventi della cittadina tedesca, O ancora quei tre pali enormi, conficcati obliquamente nella neve, sotto i quali, esausta, si accascerà Margherita: questo paesaggio, sebbene sia mirabilmente funzionale alla messa in scena di Murnau e sebbene presenti dei corrispettivi, per esempio, negli steccati di City Girl, risulta comunque un po’ stridente per la sua rigidità e inverosimiglianza. Si direbbe che Murnau sia più vicino ai romantici. Da una parte, lui stesso è un romantico, per forza di cose, in quanto cerca di recuperare, in Faust, con un evidente scrupolo di esattezza riguardo al materiale storico, il «colore» di un’epoca, pur seguitando a conservare una maniera moderna di esprimersi 20. Segnaliamo anzitutto un pastiche, quello di un celebre quadro di Caspar David Friedrich21, del quale troviamo altre citazioni22, in Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1926) di Henrik Galeen e in Der müde Tod. Il paesaggio di Murnau trattato a contorni, alla giapponese, mal s’accorda con l’universo pittorico del resto del film, più ampio e più modellato. È soprattutto nella prima sequenza di Faust, il Prologo in cielo, che Murnau, lungi da qualsiasi imitazione pedante e servile, si dimostra all’altezza dei grandi illustratori romantici. Confrontate con un’incisione o con un disegno a penna, alcune delle sue immagini «reggono» e non rivelano nessun indizio della propria origine fotografica. A tale proposito, possiamo parlare, in senso proprio, di tocco, di tratto, di linea. Vi riconosciamo quella libertà, quella scioltezza che solo l’abilità, la sicurezza di una mano riescono a garantire. Analizzeremo partitamente più avanti questa serie di immagini unica in tutta la storia del cinema. C’è il rischio che, a confronto, il resto del film ci appaia soltanto come la fotografia di una messa in scena realizzata con gusto, inventiva, in maniera fastosa e persino geniale, ma alla quale, la riproduzione sullo schermo, da un punto di vista rigorosamente plastico, finisce per togliere piuttosto che aggiungere. È questo il caso dei «film storici», dove le scene e i costumi possono presentare le migliori qualità, ma che, una volta filmati, evocano, sotto l’aspetto pittorico, la pittura più accademica. Ma Murnau, ed è ciò che lo salva, è assai più vicino, nella sua concezione pittorica, al XVII secolo che al XIX. Il realismo fotografico a cui, in generale, la sua arte lo assoggetta, si ricollega al primo piuttosto che al secondo. La sua pratica è molto diversa da quella dei pittori — neoromantici, simbolisti, decadenti, senza parlare dei «pompiers» — che vollero ignorare la rivoluzione impressionista. Da un po’ di tempo, questa pittura è uscita dal suo purgatorio, e in certi casi era doveroso. Richiamare a proposito del giardino di Marta e dei suoi girotondi di bambini i paesaggi primaverili di Bòcklin23, non è dunque necessariamente un rimprovero, e neppure una riserva. Ma questo aspetto fin de siècle, quale che sia il suo fascino, è del tutto occasionale e secondario in Murnau. Ciò che nei romantici e nei loro seguaci mortificava il puro spirito pittorico, non era 19 Citato e riprodotto da Wegner, op. cit. Altrettanto farà in Tabu, guardando il motivo esotico con spirito di occidentale, germanizzandolo, ellenizzandolo, meno ansioso di Gauguin (tuttavia lui pure imbevuto di Masaccio e di Piero della Francesca) di rinnovare lo sguardo e di ringiovanirlo al contatto della «barbarie». 21 Nella versione del museo di Dresda, Due uomini davanti alla luna, o in quella di Berlino, Un uomo e una donna davanti alla luna. 22 Cfr. Eisner, op. cit.., p. 80. 23 Cfr. Idea! Friih1inis!andschaft, 1870 (Monaco), Frih!tngsrezen, 1869 (Dresda, Lw hesfrih1:ig (Darmstadt), Kmderrezgen (Berlino). 20 l’asservimento al «soggetto» — questo ha sempre avuto la sua importanza ai tempi dei primitivi, dei classici e dei barocchi — bensì l’asservimento alla verosimiglianza, storica, psicologica, tecnica. Non vedevano che il concetto tradizionale di «composizione», al quale intendevano rimanere fedeli, pesava con prepotenza su tutto il resto dell’espressione ed esigeva appunto che la stessa verosimiglianza gli venisse inesorabilmente sacrificata. La loro pittura — che un elemento di follia o di poesia riesce spesso a riscattare — ha la stessa inconsistenza plastica di quei «tableaux vivants» descritti da Goethe nelle Affinità elettive24. Pur tuttavia, la loro visione non è più «fotografica» di quella dei pittori del XVII secolo. Forse lo è meno, dato che essa mostra di fronte alla realtà certe timidezze che la fotografia non ha. Questa, viceversa, ci sa sorprendere e disorientare con soluzioni audaci di ogni sorta che a volte ci impediscono, al primo sguardo, di identificare il modello. I caravaggeschi e, a modo loro, i barocchi avevano in parte già presentito un simile potere, conferendo alle proprie interpretazioni un fondamento obiettivo: singolarità dell’illuminazione, partco1arità del punto di vista, scelta di un motivo in movimento. Murnau impiega questi procedimenti nello stesso modo in cui essi li utilizzavano, accettando i limiti entro i quali venivano costretti dalle loro tecniche, senza trarre profitto dal nuovo strumento che ha a sua disposizione, ma anche senza sacrificarsi: segue cioè quell’inclinazione che lo conduce alla pittura così come la loro inclinazione li spingeva, oltre i secoli, verso il cinema, col quale condividono un comune amore per il movimento. Che Murnau prediliga il movimento, per un cineasta, la cosa va da sé: l’aspetto importante è invece che lo ami da pittore, che nella rappresentazione del movimento acceda alla bellezza pittorica molto più facilmente che in quella dell’immobilità. È soprattutto il movimento, in lui, a fare il disegno. È al movimento che egli affida il compito di deformare, di interpretare in luogo della sua mano assente. Non lo mortifica con nessun pretesto, e più che alla verosimiglianza tiene alla sua scioltezza. Il gesto risulterà convincente non per la sua identità rispetto al modello conosciuto, ma per la sua eleganza intrinseca. Dall’abilità con la quale l’attore lo compie dipende il credito che gli accordiamo, l’emozione tragica o comica in cui ci immerge — insomma la sua verità. Dell’illuminazione abbiamo parlato nel paragrafo precedente: aggiungiamo due parole sul «punto di vista». Le inquadrature prese dall’alto e dal basso sono frequenti in Faust, per quanto utilizzate non sistematicamente e in funzione dell’espressione drammatica. Se è vero, come si dice, che Ejzentejn, con le sue angolazioni, recuperava qualcosa della visione di EI Greco, Faust farebbe pensare piuttosto al Tintoretto25. In talune inquadrature di questo film, Murnau riesce a sottrarsi quasi del tutto alle servitù realistiche dell’obiettivo e si apparenta, attraverso il disegno, non più tanto ai caravaggeschi quanto ai veneziani e ai barocchi, giungendo a conferire ai volumi, alle superfici, ai contorni un’ampiezza maestosa, una nobiltà, che non esiste nella natura. Senza pretendere per questo di penetrare il suo segreto, diciamo che ai «trucchi» già citati se ne aggiunge un altro: il ricorso all’azione degli elementi naturali, le nubi, la fiamma e soprattutto il vento che scolpisce e disegna le forme con uguale libertà inventiva dello scalpello o del pennello. Per esempio, quando Faust, avvolto nel suo mantello, le pieghe in movimento, si mette a invocare Satana sulla landa. Oppure in quello splendido ritratto di Margherita, inquadrata leggermente dal basso, mentre culla il suo bambino, col busto chino secondo la diagonale del quadro. Le pieghe del velo, i tratti stessi del volto sono disposti «naturalmente» dalle luci, dal vento, dalla prospettiva, dal movimento, in funzione dell’arte più esigente, e tutto ciò non in vista di un effetto decorativo, ma di una espressione rafforzata ed esaltata26. Contrariamente a quanto avviene in pittura, non pare che sia la linea e creare l’espressione, bensì l’espressione a creare la linea. Il dolore, con la sua intensità, fa accedere il personaggio a un’esistenza pittorica e trova la sua profonda, rigorosa espressione solo in 24 Seconda parte, cap. VI. La costruzione in diagonale tipo quella delle Tre Grazie e Mercurr (Venezia, Palazzo Ducale) o della Deposizione da/la croce (Venezia, Accademia) si ritrova in numerose inquadrature del film . 26 Pensiamo alla Maddalena penitente del Tiziano (Leningrado, Ermitage o all’Estasi di Santa Teresa del Bernini (Roma, Santa Maria della Vittoria). 25 chiave pittorica. Il cinema e la pittura escono entrambi arricchiti dall’impresa, l’uno acquistando nel senso dell’arte, l’altro in naturalezza 27. Accanto a questo registro maggiore, troviamo un registro minore e familiare, che ci riconduce ai realisti. Abbiamo citato il Caravaggio: possiamo richiamarlo di nuovo, a questo titolo, in quanto si trova in Murnau, come in lui, un medesimo gusto prosaico e triviale — che non consideriamo in senso spregiativo e che del resto ritroviamo, in Goethe, nel personaggio di Mefistofele. Ma possiamo proporre ugualmente il nome di Frans Hals, l’inventore, con duecento anni di anticipo, dell’«istantanea»: pioniere dunque, e non tra i meno importanti, dell’arte fotografica. I suoi personaggi emanano un’impressione di vita che li fa «uscire» dalla tela in un modo quasi provocatorio, al pari di quelli di Murnau che — come vedremo tra breve — sembrano uscire dallo schermo. La sua stessa maniera di dipingere — ben poco fotografica — a larghe pennellate, ci richiama la maniera in cui viene trattato il personaggio di Mefistofele travestito da mendicante. Forse anche il suo bizzarro abbigliamento e uno dei suoi atteggiamenti si ispirano alla celebre Malle Babbe28. Due tendenze contrarie della pittura, generalmente inconciliabili, si trovano in Murnau giustapposte e da lui quasi conciliate. Da una parte il rigore estremo, dall’altra la libertà. Da un lato la volontà di stile, dall’altro la passione per la realtà. Per lui, essere pittore non è, come per gli altri cineasti, un’occasione per scongiurare la maledizione realistica che pesa sulla fotografia, di volare verso la ieraticità e verso l’astrazione. Viceversa, l’intensità di animazione coincide, in lui, con l’intensità pittorica. Per Murnau, l’astrazione, la deformazione non sono (come spesso per Ejzentejn) un punto di partenza, ma di approdo. La bellezza dei momenti in cui la realtà si sublima, si trasfigura per elevarsi fino alla pittura, risulta qui ancora più suggestiva. Torniamo alla nostra constatazione iniziale. La qualità pittorica di Murnau non è un dato, ma una conquista. L’impressione prodotta da Faust, di primo acchito, è quella di una ricerca plastica continua e rigorosamente concentrata. Niente che sia affettato, niente di primo impulso. Ma ciò non impedisce un accesso diretto, ravvicinato, a quelle cose, a quegli esseri che il regista immerge nella luce e trascina nel vortice dei movimenti. Tutti, esseri e cose, vivono intensamente, più che in ogni altro film. Ci troviamo sul loro stesso piano, crediamo quasi di toccarli, tanto paiono uscire dallo schermo. Se Nosferatu ci spaventa, è per l’intensità della sua presenza, non per il mistero della sua assenza, come il Vampyr (Il vampiro, 1931) di Dreyer. Quanto a Mefistofele, lui è l’essere meno misterioso del mondo. Cinema della presenza, dunque, il cinema di Murnau è insieme un cinema al presente29. E l’idea di tempo presente non è data tanto dalla natura dello svolgimento dell’azione — essa stessa spezzata da ellissi — quanto dall’organizzazione dello spazio30. Nell’universo di Murnau, tutto deve essere dotato dello stesso grado di realtà. Un miracolo qui lo vedremo coi nostri occhi di sempre. La minima sbavatura nei trucchi, impedendo la nostra adesione, risulterebbe imperdonabile. Ma essi sono perfetti e resistono splendidamente alle ingiurie del tempo nonostante la semplicità dei mezzi31 con i quali furono realizzati. 27 Naturalezza che, per esempio, le due opere citate nella nota precedente possedevano per i loro contemporanei e che la frequentazione di film come questo ci insegna a percepire di nuovo come tale. 28 Berlino, Staatliche Museen. 29 E si accosta a quegli altri esempi di cinema della presenza e del presente, costituiti da Renoir e da Rossellini. Si trova, in tutti e tre, una precisa affinità di «mano». 30 In questo senso, si differenzia da Stroheirn, dove l’idea di presente è fornita, prima di tutto, da uno svolgimento temporale continuo. 31 è in genere, una sovrimpressione. 3. LE FORME Fin qui abbiamo preso in esame la «maniera». Vediamo adesso, se non proprio la «materia», termine che assume in pittura un significato tecnico preciso, almeno il materiale di «forme» che l’artista introduce nel suo spazio. Materia e forma — benché di solito contrapposte — sono in questo caso sinonimi. La materia, il soggetto profondo dell’opera pittorica, sono per l’appunto le forme — il che risulta evidente se pensiamo a una pittura non figurativa. Il contenuto aneddotico di queste forme, il loro impatto sentimentale, le informazioni che esse trasmettono, in quanto segni o simboli, sono qui soggetti non trascurabili, ma secondari rispetto al gioco «puro» delle forme nello spazio; su questo gioco si fonda il fascino esercitato su di noi da ogni creazione di ordine plastico. Così, in un film di Murnau32, concorrono in parallelo due specie di soggetti: una organizzazione, una drammaturgia delle forme pure e, nello stesso tempo, un dramma nel senso corrente del termine, una tematica, una problematica. L’opera si presenta perciò su due piani distinti, su ciascuno dei quali ci possiamo disporre, mentre vediamo il film, facendo astrazione dell’altro, così come possiamo ascoltare e apprezzare separatamente le due parti di un duo strumentale. Resta il fatto che queste sono scritte per essere percepite simultaneamente, nell’armonia che lega in ogni istante il rigo musicale superiore a quello inferiore. Questo legame, questa armonia, proveremo a metterli in evidenza nel nostro capitolo sullo spazio filmico. Ci troviamo dunque, per il momento, di fronte a un universo che trae il suo senso e il suo valore emotivo dalla sola presenza e ripartizione delle forme. Forme che non si identificano necessariamente con la figura propria degli oggetti — persone o cose — che riempiono il quadro. Ma che invece tendono a passare da un oggetto all’altro, ad abbracciarne insieme più d’uno alla volta, a svilupparsi all’interno di ciascuno di essi e a produrre divisioni che devono rispondere soltanto al grande Tutto nel quale tali forme trovano posto. Creano così, per conto proprio, uno spazio omogeneo fatto di corrispondenze, di ripetizioni, di rime, e lasciano più o meno facilmente intuire la figura geometrica semplice dalla quale derivano (in primo luogo, qui, il cerchio; poi, per opposizione al cerchio, il triangolo). Postulano l’esistenza di un ordine dell’universo concepito come un macrocosmo che abbraccia una serie di microcosmi di ordine decrescente che lo riproducono ciascuno a loro propria misura. Abbiamo definito il mondo di Murnau, ma insieme anche il mondo di numerosi pittori: oltre ad alcuni citati più sopra, il Tintoretto, i barocchi e altri ancora: per esempio, agli albori del Rinascimento, i Mantegna, i Carpaccio, i Piero di Cosimo, e tutti coloro la cui pittura ha potuto essere definita «cosmica». O ancora, e ci soffermeremo preferibilmente su di lui, Albrecht Altdorfer, al quale appunto si è ispirato Robert Herlth per il suo modellino del viaggio aereo33. Ma, in generale, vi sono in tutto il film — e in altri, come Tabu (Tabù, 1931) — profonde analogie fra l’universo di questo pittore e l’universo di Murnau. Altdorfer, infatti, un secolo prima dei barocchi, appare a noi come il pittore del movimento. Della scena che vuol rappresentare, egli sceglie il momento di maggiore tensione, di rottura dell’equilibrio. E ci incita a prolungare, idealmente, il movimento così suggerito, sia nel tempo, sia nello spazio, in un modo che si avvicina più al dinamismo e alla naturalezza del cinema che alla staticità e all’enfasi del teatro. Contribuiscono a questo effetto non solo il momento che egli decide di fissare, ma la «figura» stessa del movimento nello spazio, capace di mobilitarlo per intero, verticalmente, obliquamente, in larghezza, in profondità. La forma che lui privilegia, la più adatta a questo assorbimento, è la forma circolare; tutte le rette che possiamo scoprire sono come tanti raggi di un cerchio immaginario. E dal cerchio, figura primaria, che deriva, in particolare, in una violenta opposizione, un secondo motivo: vale a dire l’angolo acuto. Forma che si manifesta, in Altdorfer, soprattutto sotto l’aspetto architettonico, elemento del tardo gotico associato a un’idea non tanto mistica quanto magica. Essa introduce una nota acuta, conturbante, nella quiete dei cornicioni orizzontali e delle vasche all’italiana (cfr. le torri nel Riposo dalla fuga in Egitto, e le guglie di 32 33 In nessun altro cineasta, questa doppia corrente offre un tale equilibrio, una tale continuità Cfr. Eisner, op. cit., p. 75. Susanna al bagno34). La ritroveremo in Murnau. La sua essenza è satanica: sebbene valorizzata in Nosferatu (Nosferatu il vampiro, 1921) più che in Faust, la incontreremo spesso nel corso della seguente analisi. Ma il cerchio, a sua volta, resta raramente isolato. Si collega ad altri cerchi, sia concentrici, sia giustapposti, e forma con essi una specie di spirale che assorbe l’intero spazio, dai piani anteriori agli sfondi, così come farà, cento anni più tardi, Rubens nella sua famosa Kermesse fiamminga. Fra gli esempi più convincenti, citiamo: La battaglia di Alessandro e Dario a Isso, La nascita di Maria, San Sebastiano bastonato35. Il motivo della spirale è frequente anche in Murnau, ma non ha una forma così grandiosa; non avendo spazi sufficientemente ampi per dispiegarsi, resta dunque a uno stato frammentario, embrionale, virtualmente espresso soprattutto dalle traiettorie. Per esempio, il percorso della ragazza che s’inerpica sulla scala che conduce allo studio del Dottor Faust, oppure i girotondi e gli inseguimenti che s’intrecciano e si sciolgono nel giardino di Marta. Spesso, può capitare di considerare le traiettorie come rettilinee, quali certe traversate oblique lungo la profondità di campo; in realtà, la direzione si flette a un dato momento e definisce un arco di cerchio più o meno aperto. Questa concezione dinamica dello spazio suscita, nel pittore, una composizione asimmetrica. Il punto di fuga non si trova più al centro del dipinto, come negli italiani, ma su uno dei margini del quadro. La superficie dipinta viene così suddivisa diagonalmente in due parti, una inferiore, riservata ai primi piani, l’altra, superiore, agli sfondi. I diversi piani dunque non si sovrappongono e la loro importanza drammatica non è indebolita dalla distanza fra di essi36 . In Faust, rileviamo spesso uno scarto tra i diversi piani della prospettiva, gli uni in relazione agli altri; essi non sono distribuiti secondo la direzione dello sguardo, ma secondo la diagonale dell’inquadratura. Il motivo in primo piano, se a volte occupa una parte rilevante della superficie, presenta invece uno scarso interesse drammatico o plastico proprio: generalmente immerso nell’ombra, forma un triangolo scuro e amorfo nella zona inferiore destra o sinistra dello schermo. Gli esempi più caratteristici si trovano nella sequenza del rogo, al momento del passaggio del corteo. Altri esempi si possono trovare anche nell’episodio della peste e in diversi altri «quadri» dove l’ombra del primo piano serve da contrasto al motivo principale situato in secondo piano, nella zona illuminata e sgombra. Questa disposizione accresce la leggibilità dell’immagine, consente di sfruttare al massimo la superficie dello schermo. Ma, nello stesso tempo, è fonte di tensione drammatica. Esprime lo squilibrio, la minaccia, la sorpresa. Comunica un po’ di quella angoscia che è propria dello spettacolo di un mondo in gestazione. La visione del cineasta, come quella del pittore, è dunque cosmica. Nell’uno come nell’altro, l’azione compiuta, l’emozione provata dai personaggi, provocano un’eco che si ripercuote agli estremi limiti dell’universo. Questi «limiti», l’argomento stesso di Faust. ci permette di raggiungerli, sia che si tratti del Cielo del prologo, con quelle nubi squarciate dai raggi di un sole che si identifica con la gloria divina e che ci ricorda il sole della Battaglia di Alessandro e Dario a Isso, sia che si tratti di quel paesaggio (un modellino) sorvolato nel corso del viaggio sul mantello di Mefistofele e di tutti quei picchi emergenti dalle brume dove Faust e il Demonio tengono consiglio: scenografie tutte che si richiamano, come sappiamo, al maestro austriaco. L’unica differenza fra l’opera pittorica e quella cinematografica è che, nel film, macrocosmo e microcosmo non si trovano quasi mai riuniti nella stessa «veduta». I paesaggi di Murnau, in genere, sono alquanto avari di cielo, O viene decisamente soppresso, come nelle vie della città, dove i tetti lo nascondono, oppure, quando compare (nella scena dell’evocazione del Demonio, e del vagare di Margherita), la linea d’orizzonte viene a trovarsi in una zona estremamente alta del quadro. Non vi è traccia qui di quei vasti cieli chiari, cari ai russi, contro i quali si stagliavano in controluce i volti degli attori. Il cielo, in Murnau, non soltanto in questo film ma anche negli altri, è angusto, scuro, 34 Rispettivamente: Berlino, Dahlem: Monaco, Alte Pinakothek. Rispettivamente: Monaco, Alte Pinakothek; ivi, Convento di San Floriano. 36 Questa disposizione è facilitata dall’altezza dei formati adottati da Altdorfer. Murnau, costretto all1 x 1,33 standard, esprime di quando in quando una nostalgia della verticalità, tuttavia meno presente in Faust che in Nosferatu o in Tabu. 35 denso. Non si presenta come un vuoto, ma come un pieno, ingombro, in Sunrise (Aurora, 1927), per esempio, dalla presenza dell’uragano, del lampo o del sole che sorge, oppure, in Tabu, della luna enorme e malefica, quella stessa luna che illuminava in Faust l’evocazione di Mefistofele e che, in City Girl, annunciava la tempesta. Questa parte piena, densa, dell’universo di Murnau, al più alto grado, ma anche al più basso, crea un clima generale di schiacciamento, di minaccia, al quale, ciascuna figura particolare tenterà, con maggiore o minore fortuna, di sottrarsi. Così, mediante la disposizione delle forme nello spazio, viene stabilito il colore del dramma, prima ancora che questo abbia inizio.