gIgI il guerriero

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gIgI il guerriero
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L’INTERVISTA
GIGI il guerriero
È stata una stagione sofferta per Gigi Datome a Detroit.
Ma i pochi minuti passati sul parquet non lo hanno demoralizzato.
ora Ha un'estate intera per lavorare e migliorare. pEr vincere la sua
scommessa. Con l’aiuto della nazionale
di Pietro Colnago
L
PALACE di Auburn Hills, una
ventina di chilometri fuori da Detroit, stato del Michigan. E’ un
giorno qualsiasi di inizio autunno. O
forse non è proprio un giorno qualsiasi: sul parquet a fare riscaldamento
per una partita di preseason ci sono i
nuovi Pistons che stanno cominciando
a prendere forma, dall’altra parte del
campo stanno facendo la stessa cosa i
due volte campioni in carica dei Miami
Heat. A bordo campo, anzi no, proprio
in mezzo al campo, anche se in borghese, ad applaudire e a dare il cinque ai
suoi compagni c’è un ragazzone lungo
e magro, capelli lunghi raccolti in una
coda, barba lunga e ben curata. E’ un
giocatore dei Pistons, questo lo sanno
già tutti, ma non può giocare perché infortunato. E allora con la coda degli occhi guarda gli avversari, poco lontano,
che cercano di trovare il ritmo partita.
Ci sono Lebron e Wade, Bosh e Allen,
e i pensieri corrono veloci nella mente
del ragazzone. Lui, lo avrete già capito, è Gigi Datome, il quarto giocatore
italiano sbarcato sul pianeta NBA e la
parola “sbarcato” non è lì per caso: sta
vivendo un momento particolare della
sua carriera, tutto attorno a lui è nuovo
e sconosciuto e, curioso come sempre è
stato, vuole immagazzinare più nozioni
possibili. “Mamma mia come ero emozionato!” Ci racconta ora che è tornato
a casa, nella sua Sardegna, per qualche
giorno, prima di rimettere piede a Detroit e cominciare una programma di
potenziamento che lo dovrebbe portare
ad essere pronto per la sua seconda stagione da professionista NBA .
“In quel periodo stavo vivendo emozioni contrastanti: da una parte il dispiacere di non poter scendere in campo, a
causa di un piccolo stiramento, proprio
in quelle partite di preseason dove avrei
potuto avere spazio per dimostrare il
mio valore, dall’altra l’eccitazione di
vedermi di fronte tutti quei mostri che
fino a qualche mese prima vedevo solo
in televisione. “Sono sullo stesso parquet di Lebron e Wade!” continuavo a
ripetermi nella testa e mi rendevo conto
piano piano di aver raggiunto un sogno, che ancora però non era diventato
realtà. Per essere completo avrei dovuto
dimostrare che su quello stesso parquet
avrei potuto starci anch’io. Questa era
la mia missione”.
Gigi lo conosciamo tutti. Tutti ne abbiamo apprezzato lo spessore di giocatore
e di uomo, tutti lo abbiamo applaudito
quando, con la canotta di Roma o della
Nazionale, usciva dal campo pieno di
lividi e di piaghe e senza più una stilla
di energia nel corpo, tutti siamo stati
felici per lui quando, la scorsa estate, è
arrivata la chiamata dei Detroit Pistons.
Ora che la prima stagione, difficile,
complicata e sofferta, è passata, parlare con lui è ancora più dolce e fa capire
la trasparenza di questo quasi ventisettenne che da Olbia è atterrato a Detroit.
“Venivo da una stagione lunghissima,
prima con il club e poi con la nazionale agli Europei - comincia a raccontare
- fisicamente non ero certo al massimo,
pieno di acciacchi e di dolori, ma non
mi importava. Non avevo mai sognato di arrivare un giorno a interessare a
squadre della NBA, era un mondo lon-
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tano da me un milione di chilometri,
quindi quando le voci hanno cominciato ad essere insistenti e quando si sono
addirittura scomodati ad attraversare
l’oceano per venirmi a vedere, ho capito
che qualcosa nella mia carriera poteva
cambiare, che mi trovavo di fronte ad
un’occasione unica. E allora al diavolo
i dolori e tutto il resto: sono salito su
quell’aereo per Detroit carico di motivazioni e di energia positiva e quando
sono atterrato mi sono trovato di fronte
ad una realtà assolutamente nuova”.
L’eccitazione attorno ai nuovi Pistons
era evidente: il ritorno di Billups, Smith
e Jennings, che Gigi aveva già avuto
modo di conoscere a Roma, arrivati
dalla free agency, poi l’incontro con un
mito come Dumars, che gli aveva subito
fatto capire quale sarebbe stato il suo
ruolo e perché avevano scelto proprio
lui. “Avrei dovuto aprire il campo con
il mio tiro, avrei dovuto dare energia e
atletismo arrivando dalla panchina, insomma essere utile alla causa nelle maniere che già conoscevo”.
Con queste premesse il nostro eroe comincia ad ambientarsi. “All’inizio stavo
in un albergo in centro, con me c’era
mio fratello Tullio che mi ha aiutato a
cercare l’appartamento mentre io dovevo solo pensare a fare allenamento e a
misurarmi sul campo contro giocatori
che non avevo mai visto prima. Volevo
capire ogni particolare, mi confrontavo
quotidianamente con uno scopo specifico: guadagnare posizioni nella rotazione”.
La tappa seguente è stata quella di entrare nel nuovo appartamento. “Ne ▸
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• Tutti al Datome day!
Metti una calda serata di mezza estate a Olbia, una
piazza zeppa di gente e lui, Gigi Datome, sul palco a salutare tutti, con le lacrime agli occhi. Il primo “Datome
Day” è stato organizzato a sua insaputa, con il fratello
Tullio e i suoi amici più cari a mettere assieme qualcosa di speciale. Gigi era appena diventato un giocatore
NBA, era in partenza per la sua avventura a Detroit e
la città in cui è nato e in cui ha mosso i primi passi di
elegante cestista ha voluto tributargli il suo saluto e il
suo ringraziamento. Un "Role Model” come lo chiamano dall’altra parte dell’oceano, e non avrebbe potuto
essere altrimenti. Emozioni forti, con tutta la famiglia
in prima fila ma dietro a loro un fiume di bambini con
la conottiera della sua prima squadra. “E’ stato il regalo più bello che avrebbero potuto farmi - ricorda Gigi
- e me lo porterò sempre nel cuore”. Ma a quel primo
evento ne è seguito un altro, sempre più emozionante
perché sul campo, con Gigi, appena tornato dalla sua
prima stagione coi Pistons, c’erano sempre i bambini
ma questa volta con la canottiera di Detroit. “Vederli
con quella maglia mi ha fatto capire molte cose - confessa - per loro voglio essere l’esempio e il punto di
arrivo di un sogno. La testimonianza che se continui a
lavorare e non molli mai prima o poi i risultati arrivano. Ecco perché ora non voglio deluderli. Un giocatore
vero è quello che sta sul parquet e io quei gradi me li
voglio meritare come ho sempre fatto: lavorando e soffrendo”. Anche perché in programma c’è il Datome Day
3.0, quello che sicuramente Olbia non si farà mancare
quando il suo gioiello si presenterà alla folla dopo una
stagione da protagonista. Ne siamo certi.
Avere un contratto
NBA non vuol
dire essere un
giocatore NBA.
Io voglio essere
un giocatore
e ci riuscirò
▸ Gigi Datome in maglia Detroit Pistons
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Alla nazionale
io non rinuncio.
Io aiuterò lei a
vincere e lei aiuterà
me ad essere
il giocatore che
sono sempre stato
▸ Luigi Datome è orgogliosamente sardo, ma è nato a Montebelluna il 27 novembre 1987
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ho trovato uno molto bello a Troy, nel lando di fine dicembre, inizio gennaio,
distretto di Birmingham, un quartiere sono uscito dalle rotazioni e non sono
residenziale a 20 minuti dalla città e più rientrato”. Un momento di difficoltà
vicino al nostro centro d’allenamen- che un esordiente nella NBA deve coto”. E poi quella di entrare al Palace di munque mettere in preventivo, sopratAuburn Hills. “Il più grande di tutta la tutto quando le aspettative di una città
NBA per ordine di posti. Mi sono accor- nei confronti della propria squadra non
to della sua grandezza quando abbia- vengono rispettate dai risultati.
mo fatto il primo scrimmage tra noi per “Il nostro record era in bilico, una sera
presentarci ai tifosi. Quei 18 mila posti eravamo ai playoff, la sera dopo eravariempiti mi hanno fatto davvero impres- mo fuori, si sentiva la tensione, che poi
sione!”.
è sfociata con l’esonero del coach e la
Ma ad impressionare doveva essere lui, promozione a capo dell’assistente, che
con il suo atteggiamento sempre positi- non poteva certo fare esperimenti”.
vo e la sua carica agonistica.
Datome è da solo, sul campo però, per“Alle prime uscite, quando ancora ave- ché fuori la famiglia gli sta sempre più
vo spazio sul parquet, credo di aver mo- vicino.
strato qualcosa. Credo che loro abbiano “Sono venuti tutti da me a dicembre e
capito che non ero solo un tiratore, o abbiamo passato assieme le feste (quanalmeno che non ero quel tiratore puro do lo dice il suo tono di voce cambia)
che loro credevano che fossi. Potevo loro per me ci saranno sempre e questo
fare anche altro, adeguandomi alle esi- conta tantissimo”. Così come contano
genze e soprattutto cercando di abituarmi al nuovo sistema”.
Che è diverso, molto diverso, da quello
che lui aveva sempre giocato in Europa.
“Certo, lì si tratta di velocizzare il tutto,
sia dal punto di vista fisico che da quello mentale. L’atletismo di quella lega ti
impedisce di pensare, devi prendere
decisioni senza esitare in una frazione
di secondo, altrimenti sei morto. Ho cercato di farlo, rientrando dall’infortunio,
trovando anche scampoli di partita in
cui ho avuto spazio e opportunità, contro Oklahoma e Golden State per esempio, e la squadra andava bene, si stava
stabilizzando in zona playoff”.
Poi però qualcosa è camHo dimostrato
biato, non tanto nelle
che non sono solo
sue convinzioni quanto
un tiratore ma
in quella del suo coach:
posso fare anche
“Dopo quella partita - rialtre cose
corda con un pizzico di
amarezza - ho fatto sei
DNP (did not play) in fila,
poi ho giocato 12 minuti
di garbage time con Houston segnando 12 punti, altri 13 punti in 17 minuti contro
Memphis e poi in 20 minuti contro Orlando ho segnato solo 2 punti,
giocando male come del resto tutta la
squadra. Da quel momento, stiamo par-
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le parole di Dumars, che però a fine
stagione darà le dimissioni, e di Davis,
il direttore delle operazioni sportive:
“Mi tranquillizzavano, mi dicevano di
non mollare. Ma non lo avrei mai fatto, perché non sono abituato a lasciare
senza lottare. Loro mi avevano firmato
per 2 anni e se lo avevano fatto doveva
esserci un motivo. Ne ho parlato anche
con il Beli, che ha attraversato lo stesso sentiero, ma con una differenza: lui
all’epoca aveva 22 anni e poteva anche
permettersi di aspettare, io ne faccio 27
a novembre e il treno lo devo prendere
subito”.
E allora sotto con il lavoro in palestra.
Da solo, senza avere prospettive di
impiego sul parquet, investendo su
se stesso per diventare un giocatore
migliore. “Sono tornato in campo con
Cleveland, segnando 9 punti in garbage time, ma la mazzata dura è stato il
DNP seguente nonostante Josh Smith
fosse fuori per infortunio. Ma non sono
preoccupato, so quello che devo fare e
lo farò perché ho un’altra stagione davanti e tutta un’estate per lavorare”.
Questo è il Gigi Datome che abbiamo
conosciuto e che abbiamo sempre considerato un modello di serietà e professionalità. “Tornerò a Detroit per lavorare sul mio fisico e sulla mia tecnica
- è la sua promessa - lo farò senza dare
spazio al riposo perché questa è la mia
sfida e di una cosa sono certo: questa è
la strada che voglio percorrere”.
A dargli una mano in questa sua scalata ci sarà, puntuale anche questa
estate, la Nazionale. “Certo, e ci sarebbe stata comunque perché alla maglia
azzurra io non rinuncio. A maggior ragione ora che avrò l’opportunità di tornare in campo dopo una stagione difficile. Io darò sempre una mano alla mia
Nazionale e lei darà una mano a me
per tornare ad essere quello che sono
sempre stato. Si giocano partite di altissimo livello e mi aiuteranno a riprendere fiducia. Voglio tornare a Detroit per
diventare un giocatore NBA, ho tanta
fame e spero solo di avere l’occasione
di dimostrare il mio valore. E’ una promessa che ho fatto a me stesso”. E se
conosciamo bene Gigi, lui le promesse
è abituato a mantenerle. ◂
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