Lo spazio della detenzione: cenni sul processo evolutivo delle

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Lo spazio della detenzione: cenni sul processo evolutivo delle
n. 11 Ottobre 2014 / Gennaio 2015
Lo spazio della detenzione: cenni sul processo evolutivo delle
architetture carcerarie
di Luigi Vessella
«[…] non è certamente impresa facile conciliare, nel disegno architettonico e nella
realizzazione della struttura carceraria, le esigenze di contenzione e di controllo con le qualità
di umanizzazione e socializzazione. Essa deve avvalersi, come l'esperienza mostra, di un
approccio multi-professionale, dei progressi della scienza delle costruzioni e dei più moderni
sistemi tecnologici, edilizi e impiantistici, ma necessita, soprattutto, dell'attenzione di
impiegare tali innovazioni per consentire condizioni di esistenza civile ad una vita umana,
quella della persona reclusa, che ha la peculiarità di dover essere condotta 'all'interno' e
necessita, tuttavia, pena l'alienazione, di prospettive e architetture riscattate dalle scorie del
passato che diano spazio, finalmente, alle finalità di rieducazione e reintegro sociale del
sistema pur rispondendo, graduandole, alle esigenze di sicurezza che lo stesso sistema
richiede»1.
Fin dagli albori della civiltà, l’uomo ha cercato luoghi in cui poter svolgere la propria
vita al riparo dagli agenti atmosferici e dagli animali di cui poteva essere preda. Le
caverne, da semplici rifugi dalle intemperie e dalle fiere, divennero col passare del
tempo luoghi in cui cominciarono a svilupparsi le prime forme di relazioni sociali
complesse. Affrancandosi dalla necessità di controllare continuamente lo spazio che
occupavano, gli uomini preistorici ebbero più tempo da dedicare ai rapporti sociali e,
insieme alla scoperta del fuoco che illuminava e riscaldava questi ambienti, si
poterono sviluppare i primi linguaggi e le prime manifestazioni di pensieri astratti,
come testimoniato dalle pitture rupestri ritrovate in molte caverne europee.2 La
possibilità di radunarsi intorno al fuoco – continuamente alimentato affinché non si
spegnesse –, fece sì che si creassero dei veri e propri culti e credenze, trovando in
questo elemento un’entità benevola a cui rivolgersi per ricevere protezione e conforto.
Queste attività primitive si svilupparono grazie alla presenza di uno spazio
1
circoscritto e protetto, che con il trascorrere del tempo assunse sempre maggior
valore fino a diventare la ‘cellula’ base dei primi insediamenti di piccole proto-società
organizzate. Ciò lascia pensare che lo spazio nel quale sono definiti differenti ambiti
d’azione, abbia fin dalle prime fasi dell’età preistorica assunto un significato primario
nello sviluppo delle civiltà, in quanto luogo dove si svolge la vita e si definiscono le
regole che strutturano la società. Lo spazio organizzato e delimitato costituisce infatti
il fondamento per la nascita di una collettività nella quale siano definiti ruoli e
gerarchie ed entro i cui confini vengono stabilite regole che ogni membro decide di
rispettare.
Ovviamente
l’organizzazione
dello
spazio
è
essenziale
nella
determinazione delle attività umane e, in particolar modo, delle modalità con cui tali
attività si svolgono. Infatti, come ha ben espresso lo studioso Mauro Palma,
«l’organizzazione spaziale di un luogo sempre riflette una visione delle attività che in
esso si intende svolgere e di fatto ne determina la realizzabilità, così come definisce e
determina lo schema delle relazioni che in tale luogo si tessono».3
Queste considerazioni preliminari hanno lo scopo di sottolineare come lo spazio
occupato e di conseguenza antropizzato, determini e influenzi le attività potenziali
che gli individui possono svolgere all’interno di ciò che viene chiamato
‘insediamento’.
L’evoluzione a cui l’uomo è andato incontro nel corso dei millenni e la complessità
assunta dalle sue azioni, hanno fatto sì che le strutture e la loro organizzazione non
fossero più sufficienti per dare luogo alla società nel suo complesso. A questo scopo
hanno risposto l’insieme di regole e di principi di volta in volta stabiliti per garantire
l’ordine, il corretto svolgimento delle attività quotidiane e soprattutto la convivenza
di più individui in uno spazio comune4. Il lunghissimo percorso del diritto si sviluppa
senza soluzione di continuità dall’età antica fino ai giorni nostri, per giungere a una
definizione organica simile a quella che conosciamo oggi nel corso del XVIII secolo
con le teorizzazioni di Rousseau, Voltaire e Beccaria. Quest’ultimo pubblicò nel 1764
il celebre saggio Dei delitti e delle pene, in cui viene affrontata in maniera sistematica
e completa la materia del diritto e della giustezza delle pene definendone l’origine e il
significato: «le leggi – scrive Beccaria – sono le condizioni, con le quali uomini
indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di
guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne
sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma
di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità
2
di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle;
[…]».5 È quindi con Beccaria e alcuni suoi contemporanei che inizia a diffondersi la
scienza penitenziaria che tratta appunto il diritto del sovrano di punire chi ‘rompe’ il
contratto sociale istituito tra i membri di una determinata società. A questo proposito
sono nuovamente significative le parole di Beccaria: «Fu dunque la necessità che
costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che
ciascuno non ne vuole mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile,
quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime
porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia, è
fatto, ma non già diritto. […] E per giustizia io non intendo altro che il vincolo
necessario per tenere uniti gl'interessi particolari, che senz'esso si scioglierebbero
nell'antico stato d'insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di
conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura».6
Proprio il diritto dell’autorità di punire e conseguentemente di infliggere una pena,
rappresenta lo strumento che la società ha scelto per garantire l’esistenza e lo
sviluppo delle comunità. Le forme assunte dalle punizioni si sono modificate nel
tempo: per secoli sono state prive di qualsiasi umanità e compassione e solo durante
«l’epoca in cui tutta l’economia del castigo viene ridistribuita»7, hanno subito un
progressivo cambiamento. Un cambiamento che ha portato alla nascita della prigione
intesa come luogo in cui punire i colpevoli attraverso la limitazione e la restrizione
dello spazio, facendo sì che si sviluppassero i primi sistemi carcerari in grado di
regolare e amministrare le pene secondo criteri e regole condivise.
Quindi, una volta definito lo spazio come il luogo delle relazioni sociali, il sistema di
regole e principi come strumento per lo sviluppo e la coesistenza di individui
all’interno di esso e, infine, il diritto di punire chi rompe il contratto sociale – nella
sua duplice valenza di necessità morale ed esigenza pratica –, si giunge all’idea di
prigione; intesa, quest’ultima, come spazio della punizione costituito dalla somma di
più ambienti giustapposti chiamati ‘cella’. Questa tipologia spaziale è andata incontro
a un processo di evoluzione tutt’ora in corso, passando da luogo dell’espiazione e
della redenzione, a luogo dell’alienazione e dell’esclusione, fino a giungere oggi, negli
esempi più illuminati ed evoluti, a luogo di residenza coatto nel quale imprimere alla
propria esistenza un diverso indirizzo, volto alla cooperazione e all’utilità sociale.
Questo spazio, oltre al senso punitivo, assume una sorta di significato ‘curativo’ per il
carattere e la personalità degli individui che ospita, ed ha come fine ultimo il ritorno
3
del detenuto nella società libera.
Fu Papa Clemente XI ad affidare all’architetto Carlo Fontana il progetto della casa di
correzione di San Michele edificata tra il 1701 e il 1704 a Roma. Si trattò di nuovo tipo
di istituzione concepito per modificare e correggere la personalità di giovani
delinquenti attraverso l’applicazione di un preciso programma disciplinare
improntato ai principi del lavoro e della religione; strumenti, questi ultimi, ritenuti
fondamentali per il percorso di riabilitazione delle anime dei colpevoli. La casa di
correzione di San Michele è costituita da un grande spazio coperto con volta a botte
su cui si aprono due serie di finestre lunettate che illuminano la navata centrale. Su
quest’ultimo ambiente si affacciano tre ordini di celle singole disposte a ballatoio su
entrambe i lati lunghi dell’edificio [fig. 1]. Di giorno il grande spazio centrale
polifunzionale serviva da laboratorio in cui i detenuti lavoravano in rigoroso silenzio,
mentre in occasione delle cerimonie religiose si trasformava in cappella, grazie ad un
altare disposto in una delle due estremità della navata centrale. Dal lato opposto al
luogo della redenzione vi era quello della punizione, in cui i ribelli venivano puniti per
le loro trasgressioni. Entrambi i luoghi sono visibili dalle celle «disposte come palchi
aperti su due scene distinte»8: quelle della fede e della redenzione da un lato e quella
del castigo e della sofferenza dall’altro. Il carcere di San Michele è concepito come
una macchina perfetta atta a garantire una punizione esemplare e allo stesso tempo la
correzione dell’anima e della mente attraverso il predominio dello sguardo esercitato
dai sorveglianti, i quali hanno il compito di controllare ogni minimo movimento
compiuto dai detenuti. L’ordine, la simmetria e il contrasto tra la luminosità dello
spazio centrale e la penombra delle celle, contribuiscono a rafforzare l’idea di una
organizzazione visuale dello spazio in cui lo sguardo dei detenuti è costretto a
indugiare verso i luoghi dell’espiazione, mentre quello dei sorveglianti è libero di
muoversi in ogni direzione per controllare che tutto proceda secondo le regole.
L’edificio progettato da Fontana rappresenta il primo carcere moderno, in netta
contrapposizione alle strutture penitenziarie precedenti. Risulta infatti difficile
ricostruire una storia dell’architettura penitenziaria prima di questo momento,
poiché nelle epoche precedenti non esistevano luoghi appositamente concepiti come
prigione. I luoghi di detenzione erano contenuti piuttosto all’interno dei palazzi e
delle fortezze dei sovrani, mentre le celle si trovavano nei sotterranei o nelle torri; si
trattava comunque di spazi difficilmente accessibili e privi di luce, in cui i prigionieri
sopravvivevano in attesa dell’esecuzione finale.
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Sono le case di correzione inglesi, tedesche, italiane e olandesi del XVI secolo che
imprimono una prima fondamentale spinta riformatrice all'istituzione carceraria; tra
gli esempi più celebre vi è la Rasphius House di Amsterdam, costruita nel 1595. Ed è
proprio dai modelli tipologici delle case di correzione, costituite da ambienti disposti
intorno ad una corte centrale, che deriva il progetto del carcere di San Michele, in cui
al posto della corte a cielo aperto, si trova il grande spazio coperto a botte. Questo
ambiente, insieme alle celle, costituisce il perfetto punto d’incontro tra lo spazio
punitivo, duro e disciplinato della prigione, con quello luminoso e sacro della
religione e della fede, proprio di una chiesa.
Il progetto di San Michele rappresenta comunque un’eccezione a livello
internazionale sia per le sue qualità estetiche che per le sue innovazioni tecniche. La
maggior parte delle prigioni dell’epoca non avevano di fatto ancora acquisito le
importanti novità introdotte nella prigione romana. La luce, la ventilazione e la
separazione dei prigionieri (caratteristiche che hanno conferito a San Michele parte
della sua fama), erano un ‘lusso’ ancora molto lontano da raggiungere per molte delle
prigioni europee visitate da John Howard (1726-1790). Fu proprio Howard che,
attraverso le sue visite nelle prigioni di tutta Europa, dette avvio a un processo di
riforma che investì ogni stato europeo, contribuendo a rinnovare le strutture
penitenziarie ormai non più accettabili né dai sovrani né dal popolo a causa delle
inumane condizioni in cui erano costrette le persone detenute. Nel 1777 Howard
pubblicò The State of the Prisons nel quale, oltre a denunciare le pessime condizioni
igienico-sanitarie e gli angusti spazi dove erano ammassati prigionieri senza nessuna
distinzione (uomini, donne, criminali recidivi e ladruncoli), elaborò sia un progetto
ideale di carcere, sia i primi ‘criteri’ da seguire per la progettazione di un nuovo
modello di penitenziario, in linea con i principi di umanità e dignità espressi
precedentemente da alcuni suoi contemporanei (come ad esempio Cesare Beccaria).
Ma i principi di umanità e dignità furono comunque subordinati a quelli di
utilitarismo e funzionalismo; criteri, questi ultimi, magistralmente rappresentati dal
progetto di Jeremy Bentham: il Panopticon o Inspection House [fig. 2].
Il progetto di Bentham consisteva in un unico edificio a pianta circolare al cui interno
erano disposte perimetralmente, su cinque o sei livelli, le celle singole; grazie ad una
torre di sorveglianza posta al centro del grande spazio coperto, il direttore del
penitenziario
poteva
controllare
ogni
movimento
dei
detenuti
rinchiusi
costantemente all’interno delle celle. Ognuna delle celle era dotata di un’apertura
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rivolta verso l’esterno per l’ingresso dell’aria e della luce, e di un cancello rivolto verso
l’interno, da cui i detenuti potevano essere osservati. L’effetto di controluce che si
creava grazie all’illuminazione proveniente dall’esterno consentiva ai sorveglianti che
si trovavano nella torre di osservare la silhouette dei prigionieri – e quindi controllare
ogni loro movimento – senza che questi potessero capire quando erano osservati. Ciò
rappresenta l’affermazione esatta del potere dello sguardo sviluppato nella prigione
di San Michele: l’esistenza di un’autorità onnisciente che vede tutto ma che al
contempo non può essere vista, verificata, inducendo così nel prigioniero uno stato
cosciente di sorveglianza: «egli avrà continuamente davanti a sé la torre dalla quale è
spiato, ma non saprà mai in quale istante lo sguardo è fisso su di lui; pertanto, si
troverà in uno stato di disagio permanente, dominato dalla paura che la più piccola
infrazione possa determinare una sanzione disciplinare nei suoi confronti»9. Il
progetto del Panopticon è il modello di reclusione che segna la trasformazione «della
prigione da monumento a macchina, da spazio di morte, allegorico, inerte, a puro
dispositivo disciplinare»10. Come ha ben spiegato Michel Foucault in Sorvegliare e
punire - Nascita della prigione, il Panopticon di Bentham era una macchina perfetta,
un dispositivo spaziale che permetteva di vedere senza interruzione, «una macchina
per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti,
senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti»11.
Il progetto di Bentham non è mai stato realizzato, a causa sia della sua forte rigidità
spaziale – e quindi dell’impossibilità di prevedere ampliamenti futuri –, sia
dell’enorme costo che una struttura di quel tipo avrebbe comportato. Bisogna
comunque sottolineare che negli Stati Uniti con l’Illinois Penitentiary di Stateville, e
in Europea, più precisamente nelle città olandesi di Breda, Haarlem e Arnheim, sono
stati costruiti alcuni penitenziari sul modello del Panopticon che hanno prodotto
effetti distruttivi sui prigionieri in essi rinchiusi.
Al Panopticon si deve però il merito di aver suggerito la nascita di un altro modello
tipologico di penitenziario, ovvero quello radiale [fig. 3]. Le prigioni a schema radiale
che si sono diffuse nel XIX secolo in tutta Europa e in America, conservavano il
principio di un unico punto di osservazione espresso dal Panopticon, con la differenza
che le celle si trovano disposte lungo i bracci della croce, anziché lungo il perimetro
circolare, nella cui intersezione è posto il punto di osservazione. Questo schema
molto più economico da realizzare e capace di accogliere ampliamenti futuri
riscuoterà enorme successo tanto che ancora oggi in Italia sono attivi alcuni
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penitenziari ottocenteschi costruiti secondo questo modello (San Vittore a Milano,
Regina Coeli a Roma, e Poggio Reale a Napoli).
Nel corso del XIX secolo oltre all’evoluzione delle forme dello spazio della detenzione,
vengono messi a punto i primi sistemi penitenziari che prevedono una particolare
corrispondenza tra il regime penitenziario a cui sono sottoposti i detenuti e
l’organizzazione dello spazio del carcere. I due sistemi principali sono quello
‘auburniano’ (Auburn System o Silent system) e quello ‘filadelfiano’ (Pennsylvania
system o Solitary system), ideati entrambi in America all’inizio dell'Ottocento per poi
diffondersi progressivamente, seppur con alcune variazioni, in tutta Europa.
Il sistema ‘auburniano’ prevedeva che i detenuti rimanessero nelle singole celle solo
durante la notte; durante il giorno erano costretti invece a lavorare in comune in
rigoroso silenzio. In questo modello le celle, poiché occupate solo nelle ore notturne,
erano molto piccole e senza finestre; l’areazione avveniva in maniera indiretta da
un’apertura posta nella galleria d’accesso alle celle ed erano previsti appositi spazi per
lo svolgimento del lavoro in comune. Il primo edificio nel quale venne applicato
questo regime fu il penitenziario di Auburn – da cui deriva il suo nome –, nelle
vicinanze della città di New York.
Il modello ‘filadelfiano’ prevedeva invece che i detenuti fossero continuamente
rinchiusi nelle loro celle sia di notte sia di giorno. Anche il lavoro, obbligatorio per
tutti i reclusi, si svolgeva individualmente all’interno di questi ambienti, ragion per
cui essi erano molto più spaziosi rispetto a quelli del carcere di Auburn – anche se il
costante isolamento all’interno di uno spazio ristretto causava forti danni alla psiche
dei prigionieri. Il primo penitenziario in cui fu applicato il ‘sistema filadelfiano’ fu
quello di Walnut Street a Cherry Hill vicino Philadelphia, città che – come nel
precedente caso – ha dato il nome a questo tipo di regime penitenziario.
I due regimi penitenziari descritti e le differenti geometrie succedutesi nel corso dei
decenni rappresentano la definitiva affermazione dell’istituzione del carcere nelle
società contemporanee. Sin dalla costruzione del primo penitenziario di Stato in
Inghilterra, la prigione di Millbank a Londra (sulle sponde del Tamigi, dov’è oggi
situata la Tate Britain) [fig. 4], sorsero in ciascuna nazione europea sistemi
penitenziari statali; istituzioni costituite con il compito di programmare,
amministrare e mantenere l’apparato carcerario che stava acquisendo sempre
maggiore complessità. Ciò ha fatto sì che si succedessero numerosi modelli di carcere,
ognuno basato su svariate organizzazioni e geometrie che hanno dato forma a
7
differenti spazi per la detenzione, talvolta inducendo pazzia, alienazione e stress,
talaltra – molto più raramente –, producendo effetti positivi sulle persone recluse al
loro interno.
Uno di questi rari esempi è costituito dal caso della Svezia, le cui strutture
penitenziarie già presenti nella prima metà del Novecento mostravano particolare
attenzione alla qualità dello spazio interno del carcere. L’idea alla base del sistema
carcerario svedese consiste nel ricreare all’interno del penitenziario condizioni simili
a quelle della vita libera, sia per quanto riguarda il mantenimento delle relazioni
sociali, sia rispetto all’organizzazione quotidiana della vita e quindi dello spazio
dell’abitare. A questo proposito risulta interessante citare le parole scritte nell’articolo
pubblicato sulla rivista Rassegna critica di architettura nel novembre del 1952:
«Tutto il sistema penitenziario svedese è basato su due principi fondamentali:
1) L’unica pena che può avere valore intimidatorio è la privazione della libertà.
2) La finalità di ogni pena è il ricupero del condannato: egli quindi non deve
vedere nella società una vendicatrice, né nel direttore degli stabilimenti
carcerari e nei custodi gli esecutori crudeli di queste vendette, ma uomini
soccorrevoli che intendono adattarlo o riadattarlo alla vita sociale.»12
Tale sensibilità per la condizione dei detenuti si riflette non solo nei programmi
riabilitativi e nelle attività offerte ad essi, ma soprattutto nell’organizzazione dello
spazio. Negli istituti di tipo ‘aperto’ (per detenuti non pericolosi), gli alloggi hanno
l’aspetto di case di campagna distribuite all'interno di un’area verde di proprietà del
carcere nella quale i detenuti lavorano. L’interno delle abitazioni assomiglia in tutto e
per tutto a una normale casa [fig. 5], tentando di ricreare un ambiente domestico nel
quale possano essere attenuati gli effetti negativi causati dalla detenzione. Come ben
delinea un altro brano del citato articolo: «Questo trattamento e l’alto tenore di vita
nelle carceri svedesi non è considerato criminogeno perché viene considerata pena
sufficiente la privazione della libertà, e anzi è visto come un mezzo per la
socializzazione del delinquente […]»13.
Ecco quindi che la dimensione spaziale e di conseguenza la qualità dello spazio
detentivo assumono un ruolo rilevante nel processo riabilitativo assegnato al carcere;
non solo l’insieme teorico delle leggi e dei regolamenti imprimono un particolare
indirizzo ai sistemi detentivi, ma anche la ricerca di equilibrio tra le esigenze di
sicurezza e protezione, così come le qualità spaziali e formali degli ambienti carcerari,
giocano un ruolo fondamentale nella ‘partita del carcere’. Lo spazio carcerario, per
8
quanto limitato e ristretto debba essere, dovrebbe comunque recuperare il proprio
significato essenziale, ovvero quello di luogo dello scambio per la socializzazione e
l’interazione tra individui, dei quali deve essere stimolato il senso di responsabilità e
di appartenenza verso la società al di là del muro di cinta.
Leonardo Scarcella, “L'edilizia penitenziaria tra modelli architettonici e piani d'intervento prima e
dopo la riforma del 1975”, in Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi (a cura di), Il corpo e lo
spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse, Roma, 2011, pp. 55-56.
2
Pietro Laureano, Giardini di pietra. I sassi di Matera e la civiltà mediterranea, Bollati
Boringhieri, Torino, 2012.
3
Mauro Palma, “Due modelli a confronto: il carcere responsabilizzante e il carcere
paternalista”, in Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi (a cura di), Il corpo e lo spazio della
pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse, Roma, 2011, p. 31.
4
A testimonianza di ciò è utile citare una tra le più antiche raccolte di leggi pervenute fino a
noi, costituite dal codice di Hammurabi, re babilonese che regnò tra il 1792-1750 a.C. La raccolta
contiene circa trecento leggi che regolavano tutti i principali aspetti della vita nel regno babilonese e le
punizioni a cui i trasgressori sarebbero stati soggetti nel caso in cui avessero commesso un fatto
ritenuto reato.
5 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Newton Compton editori, Roma, 2012, p. 13.
6 Ivi, p. 32.
7 Michel Foucault, Sorvegliare e punire - Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino, 1976, p. 9.
8
Renzo Dubbini, Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880),
Franco
Angeli, Milano, 1986, p. 11.
9 Ivi, p. 34.
10 Ivi, p. 32.
11 Michel Foucault, Sorvegliare e punire - Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino, 1976, p.
220.
12
Vivina Rizzi, “Il sistema penitenziario svedese”, Rassegna critica di architettura, n. 28,
novembre-dicembre 1952, pp. 17-37.
13 Ivi, p. 19.
1
IMMAGINI:
1. Carlo Fontana, Casa di Correzione del San Michele, Roma. Veduta prospettica
dall'interno, 1704.
2. Jeremy Bentham, Panopticon, la casa di ispezione, 1794.
3. Variazioni della prigione a schema radiale.
4. Penitenziario di Millbank, Londra, 1816.
5. Interno di una cella in un carcere svedese di tipo aperto, 1952.
9