Contini maggio 15 - Provincia di Trieste

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Contini maggio 15 - Provincia di Trieste
Giovanni Contini
Soprintendenza Archivistica per la Toscana
Shoah, stragi di civili, deportazione: i figli delle vittime
Premetto che nelle pagine che seguiranno spesso includo nelle seconde generazioni anche quelli che
al tempo dei massacri erano bambini o ragazzi. In un certo senso si tratterebbe di sopravvissuti ma
come si vedrà la loro posizione è di seconda generazione per quanto riguarda la formazione di una
memoria di comunità. Scopo di questa ricerca, ancora agli inizi, è quello di verificare le
conseguenze per i sopravvissuti e per i loro figli e nipoti di eventi traumatici come le stragi di civili
nell’estate del 1944 nell’Italia Centrale e la deportazione di Ebrei e di (cosiddetti) politici nei campi
di sterminio e di annientamento attraverso il lavoro.
Come considerazione generale bisogna dire che la memoria individuale delle stragi presso la
seconda e terza generazione è assai variabile, ma il tipo di memoria collettiva che si è stratificata nel
paese dopo la strage la determina molto.
A Civitella in Val di Chiana (Arezzo), dove i soldati della Hermann Goering uccisero oltre 200
persone il 29 giugno 1944, una nuova identità di paese si è venuta costruendo proprio partendo dal
racconto della strage. Si tratta di un processo che porta a quella che ho chiamato “memoria divisa”,
cioè alla costruzione di una memoria antipartigiana, largamente infondata da un punto di vista
storiografico ma profondamente creduta in paese: la vera colpa è dei partigiani, si dice, e se non
fossero intervenuti non ci sarebbe stata la strage; i tedeschi sono forze naturali aggressive e crudeli
(disumane come un terremoto o un animale feroce) che non avrebbero reagito se non fossero state
provocate dai partigiani. In questo contesto, tuttavia, non mi interessa analizzare questo punto di
arrivo della memoria comunitaria, ma di fermarmi un passo prima, cioè voglio concentrarmi su quel
particolare rapporto con il lutto che si viene creando in paese, un rapporto che di fatto ne impedisce
l’elaborazione e il superamento.
Invece di separare la memoria dei morti dalla quotidianità, che è quanto avviene nell'elaborazione
normale del lutto, si fondò una nuova quotidianità centrandola proprio sulla persistenza del ricordo
dei morti, sul racconto del modo terribile della loro morte.
Le protagoniste, quelle che di fatto crearono questa memoria identitaria furono le vedove, che non
vollero, o non riuscirono a sottrarsi al ricordo ossessivo della strage e furono obbligate a
ripercorrere senza fine l'evento con la memoria, a raccontarlo e a riascoltarlo incessantemente.
Quasi che un racconto totale dell'evento, finalmente raggiunto sommando insieme i cento piccoli
racconti parziali, potesse acquisire il potere di disfare quello che era accaduto, far sì che la strage
non fosse mai stata.
Non si risposarono perché un nuovo matrimonio sarebbe apparso come un tradimento; più
esattamente fu forse il continuo rispecchiamento del dolore nel dolore delle altre che impedì loro di
ricrearsi "una vita personale propria". Contemporaneamente imposero alla comunità uno stile di vita
e dei segni per il lutto collettivo che erano profondamente femminili.
Furono soprattutto le figlie a essere marchiate nel vestito. Le donne, che si vestono di nero,
“impongono quel colore anche alle giovani figlie, considerando disdicevole, anche tra tanta miseria,
indossare abiti colorati; bisogna servirsi di quello che è stato ritrovato, di ciò che fornisce la
pubblica assistenza e cercare di adattarlo alle esigenze del momento. Perciò si ricorre a infiniti
espedienti per smorzare i colori, per tingere e macchiare di nero. Una striscina a lutto, appuntata sul
petto con delle stelline per indicare il numero dei propri morti, costituisce il distintivo individuale"1
.
“Da piccolo i miei primi ricordi sono questi: tutti i miei familiari piangevano ed erano vestiti di
nero. Io fui battezzato e registrato con il nome di Lazzaro (o Lazzero) uguale al mio babbo perché
Lui fu ucciso barbaramente un mese prima che io nascessi. I miei familiari ogni volta che
pronunciavano la parola “Lazzaro” scoppiavano a piangere. Allora mi chiamarono “Lazzarino”, ma
la situazione non cambiò molto” 2 .
In un primo tempo i giovani si scontrano con le vedove e il loro desiderio di istaurare in paese un
clima di austerità "volevano che si mantenesse il rispetto per questi caduti anche in maniera... un po'
troppo, ecco: drastica; un pochino troppo austera". Così ricorda Dino Tiezzi che insieme ai suoi
coetanei si divertiva a far scoppiare proiettili inesplosi, in un quartier generale costruito tra le
macerie della chiesa. Per i ragazzi di Civitella furono “anni avventurosi, passati a giocare con i
residuati bellici di ogni tipo. Si rischiava ogni giorno la vita a smontare bombe per recuperare
esplosivi che poi impiegavamo nei modi più impensati” (lui si ferisce gravemente)3.
Tutti si ribellano al clima che viene ad instaurarsi in paese, caratterizzato da "una normatività
fortemente pronunciata. Qualsiasi comportamento individuale ritenuto "deviante" viene
stigmatizzato con violenza. Spiccano ovviamente i tratti di una forte tendenza sessuofobica”
(Paggi). Lo scontro si fece più aspro fra le vedove e i ragazzi più grandi che cercavano di ballare,
forse per dimenticare; ma le vedove non volevano, consideravano ballare una mancanza di rispetto,
e si scontravano con i ragazzi. Non si doveva dimenticare, il lutto doveva continuare nel tempo.
Subito dopo la strage, nel corso dei primi anni di ricostruzione del paese, i giovani reagiscono
diventando aggressivi. L'aggressività è una caratteristica di personalità che molti testimoni dicono
di avere, per così dire, contratto in modo permanente dal trauma del 29 giugno '44. Si ribellano alle
1
- Ida Balò Valli (a cura di), Giugno 1944, Civitella racconta, Editrice Grafica Etruria, Cortona 1944, p. 162
- Ibidem, p. 442
3
- Ibidem, p. 301
2
condizioni di vita che si fanno, per gli orfani, molto più dure, ma anche alla triste austerità che le
madri cercano di imporre. Alcune figlie non sopportano le madri le presentino agli estranei come
orfane di guerra, e arrivano ad odiare quell'espressione.
Poi quasi tutti i giovani, mi par di capire non sempre di malavoglia, lasciano il paese; in qualità di
orfani di guerra possono godere di borse di studio che permettono loro di studiare fino alle medie
superiori, un destino che, se la strage non ci fosse stata, molti di loro non avrebbero certo
conosciuto
Ma le condizioni di vita per gli studenti orfani di guerra sono intollerabili e loro reagiscono con
aggressività. Come quando, per poter usufruire dell'opportunità di studiare, devono girare per i
collegi di mezz'Italia e a scuola vivono come in un ghetto, tra altri orfani di guerra, separati dai
ragazzi "normali".
Il paese diventa un luogo dove si torna durante le vacanze, d'estate. E in paese ci si divide tra la
socializzazione con gli amici e la nostalgia per il passato, che i luoghi testimoniano e ricordano.
Leonardo Paggi torna con la famiglia a Civitella nel 1948:
" Giravo per queste macerie, ricordavo questi scalini (della casa distrutta) dove io ero stato a giocare
da bambino (...) ci ho le fotografie di questi scalini: questa casa distrutta: sono rimasti gli scalini
d'ingresso. Ho trovato poi una foto di famiglia dove sono tutti su questi scalini..."4. Un elemento
importante del lutto per le stragi del ’44 è costituito dal fatto che ogni angolo del paese viene
continuamente associato a chi è morto proprio lì. Il racconto reiterato ricorda continuamente sia i
nomi dei morti che il luogo dove sono morti. Così il paese finisce per trasformarsi in una sorta di
cimitero, ogni luogo di eccidio diventa un marcatore e contribuisce al risvegliarsi continuo della
memoria dell’eccidio.
Nel trascorre del tempo il testimone della memoria passa di mano: progressivamente i giovani, che
in un primo tempo si rifiutavano di lasciarsi coinvolgere da un'atmosfera di mestizia perpetua e da
un racconto che ininterrottamente restaurava il lutto, cominciano a entrare nella visione del mondo
elaborata localmente dalle madri vedove. Si impadroniscono della storia separata di Civitella e la
fanno propria.
C’è chi non resiste alla nostalgia malinconica per il passato della famiglia prima della tragedia e si
toglie la vita. I più sono spinti a far propria la memoria della strage così come le madri l'avevano
elaborata, così il ricordo della strage esce dal contesto dove era stato originariamente elaborato, la
conversazione dolente delle vedove. Ora la discussione sulle cause e sulle responsabilità trabocca e
investe i figli, che lentamente si convincono che la strage è stata l'evento fondamentale, quello che
ha dato un segno indelebile alla loro vita.
Anche chi come Leonardo Paggi non ha fatto propria l’avversione nei confronti dei partigiani, la
memoria divisa che è diventata un elemento importante dell’identità locale, farà i conti con la strage
negli anni della sua maturità: tornerà in paese dopo una lunga assenza e organizzerà
l’importantissimo convegno internazionale del giugno di 21 anni fa, “In memory: per una memoria
europea dei crimini nazisti” a partire dal quale le stragi naziste sono diventate un argomento
storiografico a sé stante, e non vengono più studiate come un’appendice della storia della
4
- G.Contini, La memoria divisa, Rizzoli ed., Milano 1997, p. 254.
Resistenza. Notevole il fatto che Paggi, negli anni della sua prima giovinezza, avesse scelto il
tedesco come sua prima lingua straniera, e la Germania come paese dove amava passare le sue
vacanze.
Di fronte a questa situazione centrata, se così posso dire, su un eccesso di memoria della strage, sui
racconti ad essa relativi, abbiamo situazioni opposte. Quella di Vinca, per esempio. Dove il reparto
esplorante del SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS capitanato da Walter Reder uccise tra
il 24 e il 27 agosto 173 persone, in una strage che si protrasse per tre giorni e vide la volenterosa
collaborazione dei “Maimorti” , cioè dei brigatisti neri di Apuania .
In realtà in molti paese colpiti da strage troviamo in varie gradazioni una narrazione simile a quella
di Civitella, una “memoria divisa” che di fatto sposta la colpa dai “perpetrators” ai partigiani. Il
caso di Vinca, quindi, è abbastanza particolare, perché qui la memoria antipartigiana quasi non
esiste, e soprattutto perché a Vinca pare che non esista alcuna memoria del massacro, dal momento
che di esso non si è quasi mai parlato. Fino a tempi recentissimi (quest’anno è uscito il libro di
Luigi Leonardi, “la strage nazifascista di Vinca. 24 agosto 1944”, Mursia ed.) non esisteva neppure
una di quelle pubblicazioni più o meno amatoriali che di norma troviamo quasi sempre nei paesi
colpiti da strage.
Perché la memoria collettiva del paese abbia assunto questa forma “afona” non so bene. Forse la
reiterazione della strage per tre giorni aveva creato una sorta di blackout mentale nei superstiti, o
forse ci si sentiva abbastanza risarciti dal fatto che nel dopoguerra il processo per i fatti di Vinca si
fosse svolto e alcuni fascisti fossero stati condannati. Infatti molti processi per strage, com’è noto,
non si celebrarono e i fascicoli compilati da inglesi e americani vennero “temporaneamente”
archiviati, e restarono per decenni in quello che con un’espressione un po’ imprecisa è stato
chiamato “l’armadio della vergogna”.
Forse a Vinca l’evento era talmente sproporzionato agli occhi di una popolazione isolata da sempre
nel mezzo delle Apuane che non si fu proprio in grado di riconoscerlo, un po’ come gli aborigeni
australiani che di fronte alle navi inglesi che per la prima volta arrivavano sul continente non le
“vedevano” e si comportavano come se non esistessero.
Sta di fatto che in alcune interviste da me condotte ormai più di dieci anni or sono rimasi colpito dal
fatto che alcuni ragazzi, intervistati sulla strage, di fatto non ne avevano alcun ricordo o ne avevano
una memoria molto stereotipata. Ricordavano l’episodio più efferato, una madre incinta alla quale
era stato aperto il ventre per strapparne il feto, del resto riprodotta in marmo nel cimitero/sacrario
del paese. Per il resto non ricordavano o ricordavano male: la strage sarebbe durata cinque giorni e
non tre, i tedeschi avrebbero ucciso per rappresaglia dieci italiani per ogni tedesco (ma nei giorni
precedenti era stato ucciso un solo tedesco, quindi il rapporto sarebbe stato, semmai, di uno a 173),
e così via.
Molti anziani intervistati in quella occasione sembravano parlarne per la prima volta, e certamente,
al contrario dei ragazzi, avevano conservato una memoria molto particolareggiata del massacro, ma
si trattava di una memoria di tipo personale/familiare, non di un ricordo collettivo “di paese”.
Davano l’impressione di parlarne quasi per la prima volta o, almeno, di raccontarla per esteso per la
prima volta, ricucendo in una narrazione lunga, dall’inizio alla fine, le brevi osservazioni e i ricordi
episodici coi quali si erano occasionalmente commentati i vari aspetti del massacro nel corso dei
decenni precedenti, nel quotidiano confronto faccia a faccia.
Sandra Morani aveva 29 anni al momento dell’intervista nel settembre del 2000 (è nata nel 1971), e
è nipote del fratello della donna sventrata, che quindi era la sorella del nonno. Aveva sempre sentito
parlare dell’atroce sorte della zia, che le era stata però sempre raccontata come un evento isolato,
cioè un’uccisione che aveva interessato unicamente la sua famiglia (sua figlia Sharon, otto anni,
presente all’intervista, raccontava che quando passava vicino al luogo dell’uccisione portava
“sempre un fiorellino alla zia”). Ma della strage i nonni di Sandra non avevano mai parlato (suo
padre non era ancora nato), così lei ne venne a conoscenza nel 1978, quando la maestra della quarta
classe elementare organizzò una piccola ricerca di storia orale. “mi fa più male averlo saputo così
(…) non mi sarei aspettata che tanta gente che conoscevo avesse passato una storia così brutta”. “Le
persone piangevano, dovevano smettere le interviste perché piangevano” “ci sono rimasta proprio
male”. Anche dopo le mie interviste, fatte a Vinca nei primi mesi del 2000, poco prima
dell’incontro con Sandra Morani, le vicine di case avevano iniziato a parlare, anche quelle che non
l’avevano mai fatto, e sempre con grande commozione.
Conoscere con tanto ritardo un passato così sanguinoso, che aveva interessato praticamente tutto il
paese e tutte le persone che incontrava ogni giorno, aveva fatto nascere in Sandra Morani un
sentimento di insicurezza. Il piccolo paese dove era nata e cresciuta ora assumeva un aspetto
inquietante, se prima era un luogo rassicurante ora lo era molto meno. Anche il passato era diverso
da come era sembrato, forse anche il futuro avrebbe riservato sorprese terribili? E questa
insicurezza nasceva sia dalle persone, che improvvisamente erano apparse sotto una luce nuova, che
dai luoghi: località notissime entravano adesso nella topografia della strage e, per così dire, si
tingevano di sangue. Sia pure con un ritardo di alcuni decenni anche Vinca, agli occhi di Sandra,
aveva assunto quell’aspetto cimiteriale che Civitella aveva conosciuto fin dai primi giorni
successivi alla strage.
Queste tipologie di memoria, quella che parla troppo del massacro e quella che non ne parla affatto,
compaiono a Civitella e a Vinca nella loro forma idealtipica, in molti altri paesi troviamo spesso
una mescolanza dei due tipi di memoria, sia nella generazione che fu vittima degli eventi che in
quella successiva.
Vorrei terminare queste riflessioni relative ai paesi colpiti da stragi
per osservare come anche qui troviamo situazioni molto simili a quelle di cui parla Dina Wardi ne
Le candele della memoria nella memoria dei figli di un secondo matrimonio, dopo che alcuni o
addirittura tutti i figli e la moglie del primo erano stati uccisi. Emblematico, ma non unico, il caso
dei figli di secondo letto dell’oste Mario Oligeri, che a Bardine San Terrenzo, un piccolo paese della
Lunigiana, fu costretto a servire un pranzo a Walter Reder il 19 agosto ’44. Nelle stesse ore il
reparto esplorante del SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS capitanato da Walter Reder
sterminava la moglie e i cinque figli di Oligeri, che avevano dai 19 ai 3 anni, in una località poco
distante, Valla, insieme ad altre cento vittime; contemporaneamente a Bardine venivano uccise altre
53 persone.
Dopo la guerra Oligeri si era risposato e dal secondo matrimonio erano nati Andrea e Roberto. Nel
corso di una recente intervista5 è emersa una forte differenza tra di due fratelli rispetto alla memoria
del massacro della prima famiglia del padre. Il maggiore, Andrea, tendeva a minimizzare la
presenza e l’influenza della strage sulla sua vita e per lui il problema si riduceva al fatto che suo
padre era molto più vecchio di quelli degli altri compagni si scuola. Per Roberto invece la strage era
sempre presente alla mente del padre, che però non parlava mai della moglie e dei figli perduti.
Iniziava a “ribollire” nei giorni che precedevano la ricorrenza ma la mestizia dominava tutto l’anno
e aveva, per così dire, costruito un clima domestico nel quale i figli non dovevano divertirsi troppo
(“non divertitevi troppo: come se non si potesse”); ai bambini non si dovevano regalare doni
effimeri e divertenti, i giocattoli che piacciono ai piccoli, ma solo cose utili come abiti o libri.
Quando un parente regalò un fuciletto giocattolo a Roberto (“avrò avuto sette, otto anni”) “ricordo
mio padre terreo in volto, di fronte a tutti i famigliari compreso l'ospite che aveva portato il dono,
agguantare il giocattolo e spezzarlo come un fuscello facendo leva con le ginocchia, in preda ad una
furia incontenibile "In questa casa armi ce ne sono già state anche troppe -disse in un silenzio di
tomba- chi la pensa diversamente può tornare da dove è venuto!". E sempre in silenzio, tutti
iniziarono a mangiare”.
Ma in casa, secondo lui, la presenza più drammatica era quella del fratello non sposato del padre,
terribilmente pessimista, che Roberto non ricorda di aver mai visto ridere una sola volta, anche se
possedeva un corrosivo humor “inglese”. Dalle lettere che scriveva appare chiaro come
“spiritualmente avesse finito di vivere in quell’epoca là”, cioè nei giorni del massacro. Col suo
sarcasmo distruggeva qualunque progetto del nipote: “fondamentalmente era spento, ogni cosa che
gli presentavi era un diniego, non tollerava nessun entusiasmo. Un mondo di pessimismo, un mondo
piatto”. Il risultato era che Roberto finiva per chiedersi “ma son venuto nel mondo a fare che?” La
tristezza dello zio lo influenzava, era molto contagiosa.
La casa era la stessa dove avevano vissuto i fratelli uccisi e quindi la loro presenza era ovunque: una
grande foto di tutti loro con il padre e la madre, poi tante foto individuali con sotto un piccolo lume
votivo. I loro nomi sui vocabolari e sugli altri libri scolastici, i loro compiti a scuola che
emergevano dalla soffitta. Ma nessuno parlava mai di loro, l’unica persona che di tanto in tanto li
ricordasse era una vecchia governante, che rammentava certe caratteristiche individuali dell’uno o
dell’altra.
“ Posso dire che noi abbiamo avuto un'infanzia alquanto negata e comunque "malata". Mi sono
"salvato" un po’ durante l'estate perché mia madre mi mandava dai nonni e dagli zii a Fano, nelle
Marche,
di
dov'era
originaria;
vivevano
in
un
podere
in
campagna e lì fra polli, mucche, campi di grano e filari di granoturco ho conosciuto la felicità
dovuta
ai
bambini;
al
rientro
a
casa,
era
tutta
un'altra
storia...”
Passo a svolgere alcune considerazioni sulle seconde generazioni della deportazione, politica e
razziale.
La vicenda precedente ricorda da vicino quella di Daniel Vogelmann. Anche lui figlio della seconda
famiglia di suo padre, che aveva perduto la prima moglie e la figlia bambina ad Auschwitz, poi si
5
- Intervista con Andrea e Roberto Oligeri, Bardine di San Terenzo (Massa Carrara), gennaio 2015
era risposato. Nel dopoguerra era nato Daniel. Come nel caso di altri figli della Shoah suo padre,
che era anziano, parlava poco della sua esperienza ad Auschwitz, lavorava moltissimo e non
giocava mai col figlio “oggi penso che non poteva permettersi di affezionarsi completamente a me
come aveva fatto con (la prima figlia): come avrebbe potuto sopportare un’altra perdita?”6. Anche
la madre non aveva con lui un rapporto affettivamente molto intenso. “Per fortuna viveva con noi
una cara vecchia tata, l’indimenticabile Gilda. Come mi disse in seguito uno dei miei analisti, è lei
che mi ha salvato la vita”. Dopo un periodo nel quale, forse per superare il padre che considerava
un “eroe” da quanto aveva saputo che era un sopravvissuto di Auschwitz, decise “di diventare uno
studente modello, il primo della classe. (…) passai quindi gli anni del liceo a studiare come un
matto trascurando quasi completamente tutti gli spensierati divertimenti della gioventù. E quindi
finii il liceo col massimo dei voti”. Ma poi, quando si trattò “semplicemente di scegliere cosa fare
nella vita” entrò in una crisi sempre più profonda. Si chiedeva “cosa si doveva e poteva fare oltre
che sopravvivere, ammesso che dopo la Shoah sopravvivere valesse davvero la pena”. Pensò anche
al suicidio, ma scartò l’idea per non dare un altro grandissimo dolore al padre. Sprofondò in una
depressione sempre più forte, “E’ difficile non pensare, col senno di poi che anch’io, indirettamente,
soffrivo della sindrome del sopravvissuto, con l’aggravante che io ad Auschwitz non c’ero stato e
quindi non avevo il “diritto” di star male” anzi, come dicevano i suoi genitori, “avevo tutto per
essere felice”. Lo salvò il matrimonio, la nascita di un figlio, il lavoro che, guarda caso, aveva ed ha
molto a che fare con la storia della Shoah. Scoprì “che io non ero il solo figlio di un sopravvissuto
ad avere seri disturbi psicologici, ma che avevo tanti fratelli e sorelle con i miei stessi problemi, la
cosiddetta seconda generazione. Purtroppo erano lontani, negli Stati Uniti o in Israele”. Nonostante
il miglioramento della sua situazione ancora oggi gli accade di essere “preso da tremende crisi
depressive” che lo lasciano tramortito. “ancora oggi, a ora incerta, il mostro si riaffaccia”.
Alla fine degli anni Ottanta Andrea Devoto, uno psichiatra che aveva sempre avuto un forte
interesse per la Deportazione e per quello che allora si chiamava Olocausto, intervistò per conto di
ANED (Associazione nazionale ex deportati) i sopravvissuti della deportazione razziale e politica.
Dei 559 che erano ritornati nel 1945 trent’anni dopo solo 105 erano ancora vivi. Ne vennero
intervistati 69, 60 “politici” e 9 Ebrei. Quasi nessuno è ancora tra noi. Le interviste che raccolgono i
loro racconti sono interessanti perché Devoto era psichiatra e intervistava prima che alle interviste
agli ex deportati fosse stata impressa una torsione ottimista, costruendo un “lieto fine”7 che doveva,
forse, servire a equilibrare il messaggio profondamente pessimista di quei racconti. Devoto
intervistava quindi con un interesse non solo per quanto i deportati avevano dovuto subire allora,
nel lager, ma anche per quello che da quell’esperienza era rimasto nella loro vita, dopo la
liberazione.
Così i testimoni molto spesso si rappresentano come “non più normali”, come persone la cui
emotività è stata stravolta in modo permanente e che si comportano in famiglia in modo improprio
“sono diventato diffidente (pausa) sospettoso (pausa) permaloso. Invece (…) io facevo parte di un
6
- Daniel Vogelmann “Piccola testimonianza di un cosiddetto figlio della Shoah” testo inviatomi da Daniel il 5 maggio
2015.
7
- L’esempio più emblematico di questo atteggiamento è il modo con cui si sono raccolte le oltre 50.000 interviste
della Shoah Foundation.
altro carattere, insomma, l’è stato tutto un travolgimento di cose, di nervosismi, poi. Anche con la
famiglia stessa, magari: tante volte (pausa) rifletto: fo delle cose ‘un dovrei fare anche in casa,
insomma; la mi’ mogli l’ha avuto abbastanza sopportazione, ecco (lunga pausa). Comportamento
non normale, ecco (Lucano Paoli)”.
Spesso, come si vede nel caso riportato, si ricordano le mogli, più raramente la famiglia. Quasi mai
i figli e le figlie, anche se presumibilmente sono stati proprio loro quelli che hanno subito più
fortemente la presenza di un genitore affetto da disturbi psichici più o meno gravi.
Talvolta dei figli si parla, ma solo per dire che a loro non si è raccontato quasi niente, “non tramite
me, l’anno saputo tramite la mi’ moglie, qualche cosellina” e si afferma che è “come se avessero
vissuto la vita che ho vissuto io” e che “ sanno già tutto quello che è avvenuto tramite questi libri
che hanno letto”. Come si vede ci sono tutti gli elementi per la costruzione di “candele della
memoria”.
E infatti tra i figli dei deportati ci sono depressioni, persino suicidi, del resto abbastanza numerosi
anche tra le seconde generazioni nei paesi colpiti dalle stragi. Naturalmente si tratta di materiale
ultra sensibile per quanto riguarda la privacy, quindi utilizzabile in modo molto indiretto, e
certamente anonimo, nella ricerca.
Particolare interesse rivestono i deportati cosiddetti politici. Prima di tutto perché nella stragrande
maggioranza dei casi politici non erano per niente, ma si trattava di giovani arrestati più o meno a
caso nel giorno degli scioperi che si svolsero in alcune città toscane nel marzo del 1944. Gli arresti
furono effettuati dai repubblichini e poi gli arrestati vennero consegnati, con la qualifica di politici,
alla vendetta dei tedeschi. Che li internarono in vari lager: Mauthausen, Ebensee,Dachau,
Buchenwald, Mittelbau-Dora. E tutta la galassia di sotto-campi collegati ai campi principali.
Quasi mai erano “politici”, spesso anzi di politica non sapevano proprio niente, erano la prima
generazione integralmente fascista. Nei lager quindi non poterono usufruire di quelle sia pur
minime reti di protezione che aiutavano i veri politici, per giunta la loro totale ignoranza del tedesco
li esponeva a un di più di violenza.
Quando paragoniamo questi superstiti ai sopravvissuti ebrei, appare evidente come la situazione che
trovarono al loro ritorno dai campi fosse molto diversa, molto migliore. Raramente scoprirono che
nel frattempo un membro della famiglia era morto, le loro famiglie e quelle dei loro amici erano,
nella grande maggioranza, illese. Ma per i sopravvissuti proprio la tranquillità di chi era rimasto a
casa era destinata a diventare, progressivamente, un grosso problema, difficile da superare. Amici e
familiari erano, come tutti gli altri, impegnati a ricostruire le proprie vite nell’Italia del dopoguerra,
ma per i superstiti era molto difficile essere in sintonia con loro. Essi non potevano, come i loro
compagni di detenzione ebrei, vedere le loro sofferenze come parte di una gigantesca tragedia
epocale. Una volta tornati a casa, i deportati "politici" scoprivano che il loro mondo era stato
trasformato solo superficialmente dalla guerra, e questo è il motivo per cui spesso si lamentavano
che amici e familiari non credessero ai loro racconti. Penso che questa incredulità fosse spesso
reale, ma che il rimprovero che i superstiti rivolgevano a familiari e amici ‘loro non volevano
ascoltare, non ci credevano’ fosse piuttosto un indizio di quanto forte fosse stata la loro estraneità di
superstiti
e
il
loro
isolamento
nell’Italia
del
dopoguerra.
Avevano subito uno straordinario livello di violenza, umiliazione e terrore, un'esperienza che non
potevano cancellare e che continuava a perseguitarli. Ma se loro non potevano sfuggire alla
sofferenza tutti gli altri, a casa, avevano sperimentato, tra il 1940 e il 1945, un grado di violenza e di
sofferenza che era incommensurabilmente inferiore; parenti e amici non volevano ricordare la
guerra e si trovavano piacevolmente immersi nel clima ottimistico ed euforico dell’Italia del
dopoguerra, negli anni di quella che venne chiamata la ricostruzione. I superstiti, invece, erano e si
sentivano diversi. Per molti anni non erano stati aiutati da nessuno, la loro associazione ANED, fu
fondata solo nel 1968. Inoltre per molti anni l'attenzione del pubblico si era concentrata
esclusivamente sui partigiani e la Resistenza, ignorando completamente i deportati. «Era il tempo
dei partigiani, e tutti quelli che non erano partigiani erano fascisti», sottolinea Giovanni Muraca.
Così per lungo tempo «si ritirarono nel (loro) guscio come le lumache, e parlarono solo con i (loro)
compagni di prigionia», per citare di nuovo Luciano Paoli. Forse proprio per la difficoltà di ottenere
un pubblico riconoscimento gli ‘anti-fascisti’ sopravvissuti ai campi di annientamento ricordavano
così spesso i loro problemi psicologici, quasi che la singolarità della loro sofferenza potesse essere
riconosciuta solo in forma di malattia mentale e il loro trauma potesse essere tematizzato e
raccontato soltanto in termini psichiatrici.
Finora ho potuto lavorare soprattutto su quanto gli stessi deportati raccontano del “dopo”, e in
particolar modo sulla loro consapevolezza di aver pesantemente condizionato la vita della famiglia,
e come ho già detto spesso si concentrano sulla moglie come vittima del loro stato mentale alterato
in modo permanente. Oggi, anche perché anche le mogli rimaste in vita sono pochissime, stiamo
lavorando a un progetto di interviste con i figli e le figlie, una ricerca abbastanza difficile da
realizzare perché le persone che vorremmo ascoltare spesso si rifiutano di parlare, oppure
cancellano all’ultimo momento l’incontro fissato. Sembra un errore insistere, è necessario che la
proposta sedimenti. Abbiamo così iniziato a proporre il progetto nei mesi passati e tra pochi giorni
cominceremo con le prime interviste.