La memoria non è un vizio - Scuola di pace di Monte Sole
Transcript
La memoria non è un vizio - Scuola di pace di Monte Sole
La memoria non è un vizio http://www.corriereimmigraz ione.it/ci/2012/10/la- memoria- non- e- un- viz i/ October 16, 2012 La scuola di Pace di Monte Sole Mettere piede per la prima volta a Monte Sole vuol dire trovarsi circondati da cocuzzoli verdi immersi nella luce di un cielo azzurro e sentire la pace della natura. Attorno alla stele che commemora le 800 vittime innocenti del massacro nazifascista avvenuto fra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 si respirano silenzio e tranquillità. Una serenità così forte è insolita per un luogo che è stato teatro di un bagno di sangue e di una violenza inaudita. Non so se si può fare questo tipo di confronto con un altro crimine di guerra, ma a me è tornato in mente il massacro di Sabra e Chatila e la sensazione che ho provato visitando quel campo palestinese a Beirut nel 2009. A Sabra e Chatila tutto, la terra, i muri delle case, il cielo gridano ancora morte e vendetta, un’oscurità cupa avvolge un posto in cui non c’è mai stata giustizia. Tutto questo è lontano da Monte Sole nel tempo e nello spazio. Ma io ci ho pensato e voglio condividere questa riflessione con chi mi leggerà, convinta che una sensazione sincera e profonda meriti il suo spazio. Fra quelle cime sull’Appennino si sente la vita a ogni passo. È una continua rinascita. L’altra cosa che ho pensato immediatamente, vedendomi passare accanto un signore dalla pelle bruna e dai modi contadini, con il fazzoletto rosso attaccato al collo, è stata la grande capacità di memoria della generazione che ci precede, che ha saputo fino a oggi ricordare ciò che è stato. Ma la popolazione invecchia, la vita va avanti inesorabile e se il testimone non passa ai giovani, tutto questo potrebbe perdersi. Non so dire se noi giovani, abituati all’istante e alla velocità, sapremo essere così bravi nel radicare gli eventi importanti profondamente nella memoria collettiva. A Marzabotto ho stretto la mano a uno degli ultimi superstiti del massacro. In questo viaggio ho scoperto che nella strage che porta questo nome nessuno è stato ucciso nel paese di Marzabotto. Le armate tedesche cinsero d’assedio il Monte Sole che sovrasta Marzabotto e in una settimana uccisero donne, bambini, intere famiglie e preti di campagna trovati nei piccoli borghi e nelle casette delle frazioni montane. Ho imparato che i partigiani lottarono sì, ma si nascosero anche. Che gli uomini si misero in salvo. Ma davvero credevano che i tedeschi non avrebbero toccato le loro donne e i loro figli? O, nel segreto del loro cuore, temevano ciò che poi sarebbe successo? Certo non avrebbero potuto difenderli e impedirne la morte. Ma non avrebbero forse dovuto morire in prima fila, loro davanti a tutti quei civili inermi, trasformati dalla retorica delle propaganda in martiri e oppositori dei tedeschi? Questo non lo dico per criticare la storia così come ci è stata tramandata, ma perché ho capito che ancora non abbiamo trasformato quella sofferenza profonda, non abbiamo fatto pace con il nostro passato. Con l’idea della guerra in cui le prime vittime sono i più deboli, gli intrappolati del Monte Sole. A Monte Sole c’è una scuola di pace che fa incontrare israeliani e palestinesi, italiani e tedeschi. E c’è un ragazzino biondo di 19 anni mandato dall’Austria a fare il servizio civile in uno dei posti dove gli austriaci, inquadrati nelle truppe di Hitler, hanno commesso atrocità. Lo guardi e pensi al nostro processo di rimozione della memoria. Italiani brava gente che non sono mai stati davvero cattivi come i tedeschi. Somalia, Eritrea, Etiopia, Grecia. In questi Paesi c’è ancora qualcuno che ricorda cosa fecero i soldati italiani. Avevo 25 anni nel 2005 e partecipavo a un corso di inglese a Londra. Alla fine della lezione, una ragazza eritrea venne a dirmi che non mi sopportava perché ero italiana. Per tutto quello che gli italiani avevano fatto al suo Paese. Non mi conosceva. Per lei ero italiana e tanto bastava per odiarmi. La scuola di Pace di Monte Sole ha fatto una scelta coraggiosa. Solo i pionieri possono fare queste cose. Gli educatori, fortemente sostenuti dall’associazione dei famigliari delle vittime di Monte Sole, hanno deciso di rendere attuale il messaggio di Marzabotto. Di parlare di oggi perché non accada più ciò che è successo ieri. Domenica 7 ottobre, per ricordare quella strage, abbiamo parlato di altri ‘intrappolati’. “La vita che non Cie” è il titolo di una trilogia di corti della regista Alexandra D’Onofrio, invitata al dibattito dagli educatori della Scuola di Pace, insieme alla campagna LasciateCIEntrare che ho avuto il compito di rappresentare. Occasione unica in cui abbiamo camminato come equilibristi sul filo sottile tra memoria, rimozione e propaganda. Con l’emozione di vedere cambiare opinione nel giro di un’ora agli “affezionati” che da decenni sempre tornano sul Monte Sole per ricordare il massacro. Persone comuni che non avevano mai sentito parlare dei centri di identificazione e di espulsione. Che all’inizio hanno avuto uno scompenso perché non trovavano il nesso fra le due cose e che ora invece vorrebbero vedere importanti programmi televisivi occuparsene. «Sono in gabbia da innocenti, dobbiamo uscire dall’idea che chi è rinchiuso in un centro con le sbarre è per forza un criminale- ha detto l’autrice del documentario – il mio intento era di raccontare le storie delle persone, renderle vere e reali al di là dei numeri e delle cifre sull’immigrazione». Alle radici della violenza più cieca c’è sempre la disumanizzazione dell’altro, l’idea che un essere umano sia “un po’ meno persona di noi”, abbia meno diritti. «Lo scopo della Scuola di Pace è di fare una ricerca sull’origine della violenza nazista a Monte Sole – ha spiegato Mattia Silingardi, educatore – i nazisti erano belve oppure erano esseri umani come noi? Come hanno potuto commettere una strage di questo tipo? Agli occhi dei soldati, le persone uccise non erano esseri umani ma loschi bacilli. Siamo qui per indagare la costruzione del nemico e dell’opposizione fra un “noi” e un “loro”». Una riflessione che parte dal linguaggio delle autorità, dagli eufemismi. «Dove leggiamo trattenimento dovremmo leggere detenzione; dove è scritto espulsione stiamo parlando di deportazioni forzate – ha detto Silingardi – la vita che non CIE è la vita negata di chi è rinchiuso nei centri, un po’ come fu negata la vita degli uccisi nella strage». E quando i diritti vengono sequestrati, questo avviene sempre sulla base di uno “stato di eccezione”. È lo “stato di eccezione” che rese possibili i campi di concentramento. In Italia esiste uno “stato di eccezione” che sospende i diritti costituzionali per i migranti? «Questa volta da Monte Sole deve partire un messaggio: noi italiani dopo la guerra siamo emigrati per lavoro nei Paesi del Nord Europa, dove vivevamo nei tuguri. Lo hanno fatto anche i sopravvissuti di Monte Sole questo viaggio. Come abbiamo potuto dimenticarlo e vedere nei migranti qualcuno diverso da noi e da respingere?» ha concluso Gianluca Lucarini, il presidente dell’Associazione dei famigliari delle vittime della strage. Lucarini aveva un libro sotto braccio. Un grosso volume con la copertina arancione di cui non ricordo il titolo. Dentro testimonianze di quest’altro pezzo di storia, del dopo Marzabotto. Finita la guerra, cosa abbiamo fatto? «In treno si mangiava quello che si aveva dietro. Una cassettina avevamo, con dentro un pezzo di pane, un pezzo di formaggio, una bottiglia e basta, due stracci, un paio di mutande. Chi aveva della roba allora? Nessuno. Io avevo una cassetta che l’aveva fatta mio fratello, che prima c’erano dentro dei proiettili della guerra . Con le assi abbiamo fatto quella cassetta lì, che c’ha anche i manici! Chi aveva una valigia? Mai vista una valigia prima». Arrivati in Belgio furono alloggiati in baracche, dove i tedeschi avevano rinchiuso i loro prigionieri, durante l’occupazione del Belgio e dove essi stessi vennero rinchiusi dopo la loro sconfitta. In questo momento ci sono migliaia di uomini e centinaia di donne in gabbia in Italia per quello che sono: migranti. Per il colore della loro pelle, non per qualcosa che hanno fatto. “Lasciamoliuscire”, “chiudiamo i Cie” è il messaggio che parte da Monte Sole. In tempo di “pace”, non serve nascondersi sulla montagna e le armi per combattere sono quelle della partecipazione. Scendiamo in prima fila e a viso aperto per dire “non nel mio nome, non in nome del popolo italiano”. Una generazione di anziani e pensionati che ha conosciuto la guerra e la fame non può che essere dalla nostra parte. Raf f aella Cosent ino