Recensioni - Rassegna di Teologia
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Recensioni - Rassegna di Teologia
MAURIZIO ALIOTTA Reciprocità di genere Temi, storia, teologia Cittadella, Assisi 2012 pp. 134, € 13,50 oggetto del volume, come afferma l’A. nell’introduzione, «non è lo studio della sessualità o della corporeità o della relazione donna-uomo in quanto tale. Si vorrebbe invece raggiungere un obiettivo più circoscritto: considerare la relazione da un punto di vista particolare, precisamente quello della sua qualità» (5-6). Il saggio è diviso in cinque parti. Il corposo impianto storico-antropologico delinea con particolare competenza e rigore come, lungo i secoli, la riflessione antropologica si sia sviluppata e come gli esiti delle scienze umane abbiano contribuito, da una parte, a segnalare aspetti nuovi della realtà sessuale e, dall’altro, a evidenziare i molteplici e complessi condizionamenti cui essa soggiace. Tuttavia, quanto più la sessualità è fatta oggetto di analisi scientifica, tanto più emerge nella sua profonda enigmaticità. Purtroppo l’odierno contesto culturale, sempre più incline a ridurre l’affetto a emozione e la ragione a calcolo, determina una razionalità astratta senza eros e un’affettività narcisistica senza legami, che minacciano l’unità dell’esperienza, la ricchezza delle relazioni, la realtà familiare, l’affidabilità sociale. Nel rapporto tra corporeità e dimensione spirituale, dove sono implicate l’identità dei soggetti e la capacità di relazione, c’è uno dei nodi antropologici dell’Occidente. «Le contrapposizioni – afferma l’A. – tra biologico e spirituale nascono da un dualismo fondamentale che regge la Weltanschauung della cultura eurocentrica, che considera la mente separata dal corpo […]. Vige la logica del dominio e della superiorità. Questa persistente dicotomia dell’antropologia contemporanea è la ripresa della dicotomia espressa in termini classici da Platone» (100). È possibile una diversa visione del rapporto donna-uomo nel quale trovino sintesi il sentire e il pensare, il coinvolgimento e il giudizio, il patire e l’agire? A queste e a molte altre domande l’A. risponde attraverso l’indagine storica e la riflessione sistematica, per dimostrare come sia possibile la coesistenza di gratuità e reciprocità nella relazione tra donna e uomo. Nel testo si osserva che i rapporti tra donna e uomo sono caratterizzati da un esercizio di potere che si traduce in un dominio dell’uno sull’altra (cf 55). Aliotta considera le ragioni teologiche che per secoli hanno giustificato la subordinazione della donna all’uomo e valuta i processi storici che, soprattutto nell’ultimo secolo, hanno determinato un mutamento della coscienza e dei vissuti. «Reciprocità è Recensioni L’ 317 diventata la parola chiave per indicare il cambiamento, anche se in realtà non è semplice definire cosa esattamente si intenda con essa. Si tratta, in ogni caso, del tentativo di attribuire alla persona, maschio o femmina, il mistero della convivenza di unicità e relazionalità, uguaglianza e differenza, comunione e distanza, dimensioni la cui apparente contraddittorietà rimanda appunto all’essere immagini di qualcos’altro e non realtà autonome e autosufficienti. L’indefinibilità del concetto di reciprocità è evidente per lo stesso rimando analogico al Dio trinitario» (62). Anche l’odierna esegesi biblica si muove su questa linea interpretativa. Le pagine bibliche non sono voce né di una ideologia, né di una metafisica. Esse non ci danno prove, ma dei segni nel loro svolgimento storico, dinamico e simbolico. Il più antico racconto della creazione, mostrando il rapporto fra l’uomo e Dio, ci dà un annuncio sulla sessualità, iscritta nel corpo dell’umano. Tra l’uomo e la donna non c’è nessun rapporto di sottomissione, di dominio, ma di corresponsabilità nei confronti del creato. «Proprio nella differenza sessuale, iscritta nel progetto del Creatore nella natura umana, vi è un riflesso della vita divina, vita di relazione, di comunione» (84). Ma il peccato crea tensione tra Dio e l’uomo, e la relazione passa attraverso dominio e odio fra i sessi. «Il poema biblico che canta l’amore tra donna e uomo, come segno dell’amore di Dio per il suo popolo, il Cantico dei cantici, riporta le cose al progetto originario di Dio. L’amore umano è inserito nel contesto del dialogo e della reciprocità» (65). Quest’opera, il cui ricco apparato di note ne completa lo studio, ci aiuta a capire con quali strumenti critici, con quale nuovo universo culturale, con quali fondamenti etici guardiamo al tema del rapporto donna-uomo da cittadini e da credenti. Un libro su cui meditare con attenzione perché ci propone una lettura essenziale, rigorosa ed esauriente con la chiarezza di cui abbiamo bisogno. Tina Buccheri PIETRO BOVATI – PASQUALE BASTA «Ci ha parlato per mezzo dei profeti» Ermeneutica biblica San Paolo – Gregorian & Biblical Press Cinisello Balsamo (MI) 2012, pp. 366, € 26 G li antichi Greci avevano dato forma a un diffuso e collaudato convincimento, che cioè tra la divinità e l’umanità doveva essere possibile, anzi necessaria, una comprensibile 318 modalità comunicativa. Il dio Ermes, figlio di Zeus e di Maia, faceva all’uopo: messaggero degli dèi e assai benevolo agli uomini. Questi si dotò di particolare abilità per svolgere la sua tà di sfrondare e potare quanto risulti ormai superfluo o storicamente superato, salvo poi innestare su basi più solide» (330). Perché deve sfrondare e potare? Non certo per un’insana passione nei riguardi della pars destruens, ma molto più semplicemente perché i contesti in cui opera la teologia e l’esegesi mutano, e il contesto attuale che non può essere trascurato «impone un dialogo con alcune istanze tipiche dell’uomo contemporaneo, sempre più in ricerca di un confronto, non più solo diffidente, tra la Bibbia e l’oggi, tra scienza e fede, tra rivelazione e pensiero filosofico» (330). Per dirla con slogan di immediata fruizione, nella Bibbia tra il “non è vero nulla” di uno scientismo di bassa lega, che purtroppo torna ad occupare imperioso la scena, e il “tutto è vero” dell’assunzione come puro dato di fede, si colloca un’ermeneutica che ha ben chiara la propria natura al di là delle sue applicazioni e, nello specifico, un’ermeneutica biblica che deve «necessariamente acquisire categorie solide, tali da poter resistere all’impatto che le proviene di volta in volta dalla scienza o dal pensiero laicista» (332). Un’ermeneutica che deve comunque provare ad entrare in dialogo con tali istanze, per non rimanere confinata in un ambito di poco peso o addirittura emarginata perché tacciata di mediocrità. Difatti, è preferibile evitare l’esclusività dell’ambito scientifico o di quello religioso, recuperando semmai il giusto spazio delle istanze fenomenologiche, quelle cioè che muovono dallo stesso dato biblico. Insomma, non semplicisticamente un modello teorico di lettura preoccupato di “giustificare” Recensioni delicata missione e, munito di sandali alati ai piedi, vinceva gli ostacoli frapposti giungendo all’obiettivo. La possibilità di comunicazione tra sfere diverse e impari era salva e, al di là della mitologia, la possibilità di comprendere il rapporto tra realtà conosciuta e soggetto conoscente, pur tra rischi, diventava fattibile, senza prevaricazione dell’una sull’altro e viceversa. Mutuando da questa icona pagana, è sostanzialmente così che va immaginato il lavoro, piuttosto arduo, dell’erme-neuta e, senza essere frainteso, anche dell’ermeneuta biblico, il quale non va subito assimilato all’esegeta tout court, che «pazientemente ricostruisce e interpreta» (329) o al teologo in senso classico, che «dogmaticamente ragiona» (329). Chi è allora? È colui che, dovendo assumere un atteggiamento onnicomprensivo e, in questo caso, c’è di mezzo la comprensione unitaria della Bibbia, potremmo dire l’assunzione dell’atteggiamento di sintesi, enuncia «le condizioni di possibilità e il senso dell’interpretazione stessa» (7) di un testo scritto specialissimo, assai complesso e sacro qual è la Bibbia, che proprio per la sua straordinaria ricchezza si presta a molteplici interpretazioni, all’“interpretazione infinita”. Nel panorama della ricerca l’ermeneuta si pone al suo cominciamento e alla sua terminazione quale vaglio critico tanto degli assunti dogmatici del teologo, quanto dei metodi utilizzati man mano dall’esegeta. L’ermeneutica biblica, dunque, riflette sul procedere metodologico dell’esegeta, detta i principi per una corretta assunzione dell’arte di interpretare e punta su una sorta di «indispensabile capaci- 319 la Bibbia: la veridicità della Scrittura, in quanto parte sacra, non ha bisogno di essere giustificata, ma un contributo perché essa sia finalmente «liberata del tutto per quel che concerne il suo infinito potenziale di senso» (332). Va riconosciuto il merito a P. Bovati e P. Basta, docenti al Pontificio Istituto Biblico di Roma, per aver pensato, quale frutto del loro collaudato insegnamento, al presente testo. Pur collocandosi nella scia di nomi monumentali quali A. Bea, A. Schökel, P. Grech, la pretesa degli autori (cf 11 e 332) è di aver prodotto un testo a mo’ di unicum dentro la scarsità di pubblicazioni sull’argomento, almeno in ambito italiano, o quanto meno un novum, giacché il format del volume prende il piglio non del “contenitore” che giustappone ingenuamente le posizioni di due studiosi, bensì del “dittico” composto, sì, a più mani ma con un’unica indole. I suoi pannelli infatti sono in armonica continuità, per l’esattezza sono stati concepiti in una geniale complementarietà: «L’ispirazione (profetica)» è il titolo della parte scritta da Bovati, la prima (4 capitoli [15-177]), mentre Basta titola la sua parte, cioè la seconda (una breve introduzione e 4 capitoli [179-332]), «L’interpretazione del testo profetico». Bovati, nelle ultime battute del suo lavoro (174-177), solleva le problematiche ermeneutiche specifiche derivate dall’assunzione della modalità della rivelazione sotto forma scritta (il testo scritto, il lettore dello scritto, la tradizione che consegna lo scritto) a mo’ di «semplice transizione alla seconda parte di questo volume, consacrata all’interpretazione» (174, cf 30), e Ba320 sta, dal canto suo, esordisce proprio ricordando la lunga riflessione «sul Dio della verità che parla nella Bibbia (oggetto)», condotta nella prima parte del saggio (181). Bovati, a partire da una prospettiva antropologica e teologica all’atto di lettura della Bibbia (non a caso titola il primo capitolo «Dal desiderio alla Rivelazione», ossia dal desiderio di verità nell’uomo al volere eterno di Dio di rivelare se stesso), si impegna a chiarire lo statuto epistemologico del profeta, della sua parola consegnata allo scritto, nel quadro della problematica legata all’ispirazione («l’ispirazione determina l’atto profetico, la profezia è perciò ispirata» [41]) che dice, a sua volta, il primato dell’iniziativa divina: è Dio che va incontro all’uomo manifestandosi nella parola del profeta. «È questo, essenzialmente, lo statuto profetico, per il quale parola umana e parola di Dio sono intimamente congiunte; la mediazione profetica, difficile da tematizzare, costituisce la prima e fondamentale questione ermeneutica che vogliamo affrontare» (40). Tutto il discorso di Bovati ruota dunque attorno al modello profetico per esprimere il rivelarsi di Dio all’uomo, ove va da sé che il concetto di parola stia al centro, parola raccolta nel testo scritto da considerarsi ispirato (la qualità divina della parola scritturistica), cosa notevole anche per l’esegeta che di fatto ha trascurato a vantaggio di competenze filologiche, storiche e letterarie. Giustamente «il presupposto di fede […] non può essere sospeso o negato nell’esercizio interpretativo» (42), per un’esplicita esegesi credente. Nel secondo capitolo perciò, dove l’argomentazio- lodevole nella modalità di procedere consiste nel fatto che le pagine sono trapunte di domande: ce ne sono più di 100 e indicano prospettive, indirizzano i possibili approfondimenti. Del resto si sa che porre domande intelligenti è più difficile che dare risposte banali. Adesso è la volta di ragionare sul destinatario, il noi umano, sul soggetto che riceve e comprende quella parola divina nella Scrittura interpretandola. Meritevolmente l’A. riporta in primo piano la figura del lettore, appunto il soggetto che, leggendo, deve anche capire ciò che legge o essere messo in grado di farlo. Si ricordi il ministro di Candace, regina di Etiopia (cf At 8,30-31). Il lettore non è né va considerato un semplice recettore passivo. Ha il suo peso questa puntualizzazione troppo spesso, forse, data per scontata. Da qualche decennio, infatti, ha preso corpo una corrente di critica letteraria detta proprio “critica della risposta del lettore” (Reader-Response Criticism) che, spingendosi, arriva ad affermare che il lavoro letterario esiste solo nell’“atto di lettura”. Senza negare l’oggettività del processo di lettura, questa corrente critica mette l’accento sul ruolo del lettore (virtuale o implicito) e sulla sua partecipazione attiva alla “costruzione” del senso del testo. E questo in reazione alla corrente del New Criticism che insiste su un approccio puramente oggettivo all’opera scritta: il testo, cioè, è più importante dell’autore e del lettore. Invece «il lettore della Bibbia è presente nell’atto stesso della Scrittura trasmessa» (181), e ancora: il lettore-tipo è ispirato, ossia dotato dello stesso Spirito col quale lo Recensioni ne si fa piacevole, l’autore si dilunga sulla spiegazione dell’ispirazione profetica. Un simile approccio non è consueto nei manuali di ermeneutica biblica, pur essendo stato abituale per più di 1500 anni nei trattati di teologia, e Bovati intende recuperarlo per delle ragioni basilari (45-47). Il terzo capitolo, poi, si occupa di chiarire la natura, l’autorevolezza e la testimonianza del profeta e di illustrare quali siano secondo la Bibbia i criteri per discernere il vero dal falso “uomo di Dio”. Interessante, infine, è il quarto capitolo che sottolinea l’autorità dello scritto profetico, cioè il testo sacro. Scrive l’A.: «La capacità di discernere e di “giudicare”, donata alla Chiesa, ha fatto sì che potesse essere accolta come Parola di Dio non solo l’attestazione di chi si presentava esplicitamente come profeta, ma anche il lascito letterario, costituito da discorsi e racconti, di varia natura, nei quali la comunità credente ha ravvisato la medesima qualità ispirata dei testi profetici» (138), e ancora: «Se la Parola, trasmessa oralmente, supponeva, per essere riconosciuta, un dono dello Spirito presente nell’ascoltatore, la medesima Parola fatta libro postula nel lettore un’identica condizione spirituale, per poter essere capita, amata e seguita» (146). Nella seconda parte del saggio, chi legge si trova spesso acutamente provocato e l’intenzione di Basta pare stare proprio nel proposito di non stabilire de-finizioni, oltre a quelle già esistenti e da assumere come insindacabile patrimonio dottrinale, quanto piuttosto di mantenere aperta la ricerca su quest’ultimo per meglio presentarlo ai contemporanei. Un esempio 321 scrittore sacro ha scritto, ed è competente secondo metodologie adeguate che approcciano il testo santo. Egli è soprattutto non riducibile al singolo credente ma coincide con la comunità ecclesiale all’interno di un processo di trasmissione viva, efficace e vitale. In quattro capitoli (dal V all’VIII) Basta tenta così di determinare innanzitutto il delicato rapporto tra Scrittura e Tradizione (187-225) e, recuperando l’esempio ebraico di Torah scritta e Torah orale, riproponendo la validissima dottrina della Dei Verbum (nn. 7-9), marca la loro reciprocità di dipendenza alludendo al modello del circolo ermeneutico. L’A. passa poi alle parti che sono da valutare come canoniche e quindi normative (226-265), allargando però il discorso alla totalità quale principio fondamentale dell’interpretazione per giungere così a una accettabile teologia biblica, e biasimando, se così si può dire, la tentazione e il continuo tentativo di “parcellizzare”. È dunque la volta dell’inerranza della Bibbia, ossia della sua pretesa di verità (266-302): come intenderla? Senza naturalmente perdere di vista il suo colle- gamento con il grande tema dell’ispirazione, l’autore ne scandaglia i livelli di problematicità, mostrando come la verità di Dio si consegni all’interno dell’errore umano: la salutaris veritas nella parola storica. Infine, è spiegato secondo quali sensi il testo sacro chiede di essere interpretato (303-327), ribadendo che, nonostante i limiti specialmente nella realizzazione e dettati dal momento storico, naturalmente perfettibili mediante nuovi linguaggi e più specifiche metodologie, il tentativo degli antichi di stabilire dei rapporti tra la lettera e lo spirito, la profezia e il compimento, la figura e la realtà, l’antico e il nuovo, è ancora valido. Concludendo, la affabulazione didatticamente ferrata fa dell’opera (interamente considerata) un autentico “manuale” di ermeneutica biblica e con ciò non se ne fa certo una diminutio, giacché il libro è in grado di andare incontro non solo alle esigenze di studenti che si accostano per la prima volta alla problematica, ma anche a chi è già addentro alla questione e chiede il modo migliore per sistematizzarla. Vincenzo Appella EUGENIO CAPEZZUTO La molteplicità condivisa L’empatia come cognizione sociale Diogene Edizioni, Pomigliano d’Arco 2012 pp. 148, € 20 L a filosofia della mente, all’interno dell’orizzonte delle scienze cognitive (in particolare, la psicologia so- 322 ciale), procede oggi in stretto dialogo con le neuroscienze per studiare, sotto nuove angolazioni, antichi problemi to, sul piano filosofico, con i risultati della psicologia cognitiva e della neuro-fisiologia, o anche con gli apporti della neuro-imaging non invasiva («risonanza magnetica funzionale o fmri, magnetoencefalografia o meg, tomografia ad emissione di positroni o pet, e altre»: 17), mette i filosofi – come fanno queste pagine di Capezzuto, che valorizzano tutti i principali studi susseguitisi al caso clinico di Ph. Gage (l’operaio sopravvissuto ad un forte trauma cranico ai lobi frontali del cervello: cf 23) – in condizione di valutare i possibili esiti teoretici degli esperimenti neuropercettivi. Emblematici gli esperimenti sui neuroni-specchio ed i neuroni premotori, che G. Rizzolatti e il suo gruppo – neurofisiologi dell’Università di Parma che per primi hanno scoperto i neuroni-specchio – hanno descritto come «attivati non durante l’esecuzione di semplici movimenti, ma di azioni» (111). Tutto ciò consente di precisare sempre meglio non soltanto cosa significhi percepire un oggetto da parte di un soggetto e delle sue aree cerebrali, ma di aprire nuovi scenari agli studi, inaugurati da Th. Lipps sulle basi neurobiologiche dell’empatia. Un tema-problema quello dell’empatia che, a partire da E. Stein, diviene, in discontinuità con E. Husserl che la riteneva ancora un enigma, un «problema completamente autonomo dalla sua complessa e ambigua storia» (37). Rilanciato da alcuni psicoanalisti post-freudiani, questo tema dell’empatia, grazie agli studi «riguardanti il sistema mirror, ossia il meccanismo non cognitivistico di risonanza immediata, di corrispondenza tra l’io e l’altro» (38), oltre Recensioni cruciali, quali quello del rapporto tra mondo e organismo percettivo (fratturato almeno a partire dalla teorizzazione cartesiana delle due res), oppure quello della Mindreading (cf Introduzione, 7-11, qui 7). Procedendo con i suoi specifici oggetti e termini tecnici (illustrati ampiamente nel primo capitolo di questo volume, 13-36), tale filosofia affronta, su nuove basi sperimentali, il tradizionale tema del rapporto tra soggetto e oggetto nella fase della percezione sensibile e immaginativa, integrando (anche in un possibile modello unitario, come accade per il perception-action model di S.D. Preston e F.B.M de Waal: cf 63) su base neurofisiologica i due sistemi distinti del percettivo e del motorio nel controllo dell’azione, per cui il corpo ed i suoi movimenti non sono più delle entità inferiori rispetto alla mente. Nuova luce ricevono anche il problema dell’autocoscienza e del ruolo del sistema neuro-cerebrale nella produzione, ad esempio, della rappresentazione cosciente; come pure quello dell’intelligenza sociale, per cui la specie umana riesce ad operare la lettura della mente altrui, riconoscendo le intenzioni e le emozioni altrui non soltanto nella tradizionale linea dei simboli e delle rappresentazioni, ma anche dei meccanismi nervosi condivisi. In merito, la nozione di “trasparenza” viene, in studi di questo tipo, invocata spesso per indicare, appunto, che la rappresentazione cosciente «è trasparente quando il sistema che la utilizza non può, affidandosi alla sola introspezione, riconoscerla come rappresentazione» (81, n. 14). Il procedere in stretto contat- 323 alle connotazioni filosofico-fenomenologiche steiniane che ne facevano, inizialmente, un atto con cui ci si rende conto dell’altro (44) e, infine, lo caratterizzavano come il sentirsi interiormente toccato dall’altro soprattutto se egli soffre (55), acquisisce oggi una consistenza sperimentale notevole, dando ragione alle prime osservazioni teoretiche di Lipps, il quale aveva appunto parlato di empatia «per descrivere la relazione che si stabilisce tra un’opera d’arte e il suo osservatore» (39). In merito, se l’approccio ecologico di J. Gibson induce ad affermare «una nozione di soggetto sempre meno segregato rispetto al mondo che abita» (112), quello di V. Gallese insiste, a sua volta, nel sottolineare «il ruolo attivo dell’azione nel determinare il processo di significazione del mondo» (113), mentre il concetto di exaptation, proposto da S.J. Gould e R.C. Lewontin, segnala che le caratteristiche mentali utilizzano «in forma nuova risorse che erano state selezionate per un altro scopo» (114). Questo permette non soltanto, come mostra nei suoi cinque capitoli questo volume, di «ridefinire la triade percezione, azione e oggetto in un’ottica nuova», ma anche di «riformulare il problema della qualità fenomenica delle diverse sensazioni/percezioni» (114). Esse appaiono infatti non riducibili a flussi che accadono nella via sensoriale, ma risultano integrate in modo sensorio-motorio nella dinamica della mente, una modalità «più procedurale che strutturale» (114). In estrema sintesi, il dialogo tra filosofia e neuroscienze, soprattutto grazie alla dimostrazione delle basi 324 neurologiche dell’empatia (cf terzo capitolo, 57-74), infligge un ulteriore colpo ai riduzionismi meccanicistici del processo della percezione sensibile umana, che certamente non è più definibile come prodotto di processi che avvengono nel cervello, ma richiedono, come scritto dallo psicologo K. O’Regan, una visione più globale del rapporto tra mondo ed organismo (cf 115). Cadono, così, in primo luogo gli assunti del cognitivismo classico, per il quale il cervello sarebbe un organo computazionale, e per di più quasi divaricato rispetto alla mente. Si relativizzano altresì gli entusiasmi succedutisi alla scoperta dei neuroni-specchio, che avevano fatto sperare ad alcuni di aver quasi scoperto «le basi neurobiologiche dell’intersoggettività» (27). Piuttosto che algoritmi computazionali e meccanismi di deduzione logica, servono dei modelli che si aprano – come suggerisce la Theory of Mind (28) – ad un senso condiviso, non riducibile a nessi automatici ed involontari, tra esponenti della specie umana, per cui dei «meccanismi di simulazione motoria […] ci consentono di familiarizzare con il significato d’azioni, emozioni, sensazioni esperite dei nostri simili» (8). Meccanismi – provati ormai come presenti nel cervello umano –, i quali entrano in gioco «quando si attivano nel nostro cervello i “neuroni-specchio” (mirror neurons), ovvero cellule nervose situate in regioni del nostro sistema motorio fronto-parientale, ogni qualvolta riconosciamo e comprendiamo le componenti della cognizione sociale» (8-9). Pasquale Giustiniani EDOARDO CIBELLI Volontà, Libertà e autenticità in Bernard Lonergan Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012 pp. 216, € 20 A. cerca «di delineare un percorso teoretico centrato sul soggetto esistenziale» (183), muovendosi nel solco della proposta metodologica di B.J.F. Lonergan SJ (1904-1984). Lo fa esponendo dapprima dettagliatamente il pensiero di Lonergan nelle prime due Parti del volume. In concreto, la Parte prima (Analisi conoscitiva e metafisica di Lonergan [9-67]) è dedicata alla gnoseo-metodologia del filosofo e teologo canadese; la Parte seconda (La fondazione della possibilità dell’etica, [69-123]) è invece dedicata all’etica). Si approda, infine, ad una Parte terza (Lo sviluppo umano integrato, [125-182]), che inserisce il pensatore esplorato «nel più ampio contesto teologico di ricerca contemporanea» (163) e, per quanto riguarda la teologia fondamentale, lo assimila alla caratterizzazione che, di questa disciplina, ha dato H. Verweyen (cf 177, n. 47). In definitiva, ad avviso dell’A., «la proposta lonerganiana si inserisce […] nel più ampio dibattito contemporaneo filosofico, teologico e finanche scientifico con un recupero del realismo critico» (184). Il percorso del volume è chiaro e lineare, come ben mostrano le periodiche sintesi nel procedere delle pagine. In primo luogo, quindi, si procede ad una ricostruzione storico-culturale della biografia intellettuale di Lonergan, un pensatore molto frequentato dagli studiosi anglofoni ma, purtroppo, non molto presente nell’area italiana, sebbene abbia insegnato per diversi anni teologia all’Università Gregoriana. In secondo luogo, si propone un esame della peculiare teoria conoscitiva del metodologo e teologo (ma anche filosofo ed economista) canadese, «che consente di stabilire la centralità del soggetto conoscente, del suo processo di auto-appropriazione, delle attività del processo cognitivo che conducono il soggetto stesso alla scoperta della metafisica dell’essere proporzionato all’umano conoscere e alla successiva formulazione delle domande alle quali poter trovare risposte cognitivamente elaborate» (191), compresa «la domanda sull’essere trascendente» (106), ovvero sull’itinerarium mentis in Deum. In merito a questo punto, Cibelli si dichiara convinto che i recenti studi neuroscientifici – soprattutto di B. Libet (cf 161) – su emozioni e sentimenti rappresentino una sorta di conferma empirica all’analisi lonerganiana sul dinamismo intenzionale della coscienza nel suo procedere (cf 153, n. 99). Inoltre, viene effettuata l’analisi critica della fon- Recensioni L’ 325 dazione lonerganiana della possibilità di un’etica, che appare «fondata sulla decisione responsabile del soggetto, conseguente a giudizi di fatto e di valore» (192); in merito, estendendo il principio dell’isomorfismo tra le strutture che definiscono il conoscere ed il conosciuto, Cibelli è ugualmente convinto che Lonergan riesca a caratterizzare l’etica come un ambito fondato sui giudizi di valore (cf 89, n. 36). E veniamo a qualche aspetto specifico delle tre ricche e documentate Parti del volume in esame. Nella Prima, dedicata all’analisi conoscitiva e metafisica degli scritti di Lonergan (sia in originale, sia, se disponibili, nella versione italiana), lo studioso canadese viene caratterizzato, in sintesi, come un pensatore che, nell’alveo della tradizione medievale e scolastica, si ritaglia un suo specifico ruolo, centrato sul «controllo metodologico» (cf 16) della teoria conoscitiva umana (in primo piano, tuttavia, non sono più i principi primi della logica tradizionale, quanto il «dinamismo intenzionale della coscienza» [cf 39]). Tale controllo, a sua volta, appare funzionale all’elaborazione di un metodo che, in definitiva, si configura come un “metodo generalizzato”, cioè applicabile a tutte le scienze, sia dello spirito che della natura, comprese le discipline teologiche. La teologia, pur nell’articolazione delle sue varie parti o discipline, viene da Lonergan concepita, infatti, come «un’unità dinamica di parti interdipendenti», che il monumentale Method (edito nel 1972) identificherà esattamente in otto “specialità” (quattro per la theologia in oratione obliqua e quat326 tro per la theologia in oratione recta). In tal modo, in Insight (edito nel 1957) – come in una sorta di primo capitolo di un’impresa più vasta, che approderà agli sviluppi di Method) –, Lonergan esamina la cosiddetta intellezione (Cibelli accoglie questa nuova proposta di traduzione di S. Muratore e N. Spaccapelo che appare nella nuova traduzione di Insight del 2007). Insight, tuttavia, in quanto intellezione, è sia attività conoscitiva che conoscenza, miranti entrambe a rispondere alle seguenti famose domande connesse: «Che cosa sto facendo quando conosco? Perché il fare questo è conoscere? Che cosa conosco quando faccio questo?» (49). L’uso di un metodo, detto anche “genetico”, permetterebbe appunto di comprendere «lo sviluppo degli schemi di ricorrenza che avvengono a livello organico, psichico e intellettuale» nel dinamismo intenzionale umano (53, n. 54), fino a ritrovare che, nel processo del comprendere, un “metodo empirico” viene dal soggetto applicato, non soltanto ai dati di senso (come sostenevano l’empirismo e il metodo scientifico moderno), ma anche ai “dati di coscienza” (cf 53, n. 53), con la conseguenza che si darebbe altresì un “metodo empirico generalizzato”. In tal modo, «lo studio del processo cognitivo diviene – chiosa Cibelli – la base filosofica sulla quale innestare la proposta metodologica» (59), in vista di un “metodo trascendentale”, applicabile, tra l’altro, anche alla teologia, come diversi decenni dopo leggeremo formalmente in Method. Nella seconda Parte del volume, l’esame di Cibelli, condotto anch’esso latente verso il compimento di una metafisica esplicita, attraverso la quale può sollevare la domanda esplicita circa l’esistenza del formalmente incondizionato» (109). Tale incondizionato viene fatto, da Lonergan, coincidere con il Dio ricercato nella tradizione tomista, non senza l’approdo alla controversa problematica della “giustificazione” del male incolpevole (che Lonergan cerca di risolvere, distinguendo tra male fisico, male morale e peccato fondamentale [cf 111]). Si giunge così alla terza Parte del bel volume, nella quale Cibelli, guidato da buoni maestri come S. Muratore e C. Taddei Ferretti, mostra come «sia possibile un’integrazione più alta del vivere umano» (127) di volontà, libertà e autenticità; ma, in particolare (cf 163-193), cerca di collocare la proposta metodologica di Lonergan nello sforzo contemporaneo per portare la teologia cattolica all’altezza del suo tempo, soprattutto nel suo versante teologico-fondamentale. Pasquale Giustiniani Recensioni su una selezionata bibliografia primaria e secondaria (cf 197-210), riguarda la fondazione, in Lonergan, della possibilità di un’etica: fase, questa, successiva alla fondazione della possibilità della metafisica. Gli oggettivi influssi dell’esistenzialismo e della fenomenologia (in particolare di M. Scheler e D. von Hildebrand) conducono il canadese alla significativa proposta “dell’autenticità esistenziale”. L’etica risulta fondata da Lonergan dopo «una previa elaborazione di alcune nozioni quali, ad esempio, il bene, la volontà, il valore e la libertà» (79), riformulate, però, a debita distanza «dalla visione kantiana e da visioni freudiane» (87). In definitiva, «come i principi della metafisica, così anche i principi etici sono insiti nella struttura del nostro stesso conoscere» (91) che, tuttavia, non è chiuso nei limiti della pura ragione, bensì aperto al trascendente, come si può verificare soprattutto nella formulazione della domanda su Dio, allorché «la mente umana è spinta ad oltrepassare una metafisica NICOLA CIOLA Gesù Cristo Figlio di Dio I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale Borla, Roma 2012 pp. 627, € 48 I l presente saggio è diviso in tre parti, così articolate: il profilo epistemologico della cristologia, la vicenda di Gesù di Nazareth nel suo intreccio tra fede e storia e gli sviluppi della cristologia ecclesiale. Nella prima parte, l’A. esamina il rapporto fede-storia, segnalando pregi e difetti dell’attuale “terza ricerca”. Nonostante siano dedicate all’argomento non poche pagine, Ciola non indica quale sia il significato di “storia”, limitandosi ad affermare 327 che essa è un concetto aperto ad un “senso” e non va intesa in modo positivistico-scientista, per cui ha un legame con la fede. Sarebbe stato utile richiamare qualche aspetto del dibattito odierno, dove emerge che la storia acquista senso in quanto “luogo” in cui emerge l’uomo quale soggetto che tenta di comprendere la propria identità e nutre una profonda aspirazione a salvarsi, mentre sperimenta l’impossibilità di riuscirci autonomamente. È in questo orizzonte che si colloca la lettura cristiana della storia, il cui momento culminante è l’ingresso personale di Dio nel cuore dell’umanità. Il percorso metodologico si apre su varie prospettive che Ciola approfondisce in altrettante tematiche. È nel ritmo pasquale come legge della storia dell’era cristiana che si innesta tutta la novità del Dio di Gesù Cristo: l’amore assoluto di Dio è Amore trinitario e «la Trinità delle persone è il fondamento ultimo della rivelazione della Croce» (116). Opportuno sarebbe stato anche evidenziare che il ritmo pasquale mantiene intatta la stessa forza dialettica della croce, nella quale si riflettono il dramma dell’umanità nel suo rifiuto della forza risanatrice proveniente dalla verità di luce e dalla stessa dimensione agapica e l’annuncio della forza della fede che ha vinto il mondo. L’A. completa il discorso presentando la dimensione cristologica in prospettiva universale, tra escatologia, pneumatologia e protologia. Se è nel quadro trinitario che va collocata ogni affermazione della singolarità, unicità, assolutezza della mediazione universale e salvifica di Gesù Cristo, esso costituisce la vera base di dialogo 328 del cristianesimo con le altre credenze religiose. Tuttavia, è sempre utile ricordare che l’interazione tra escatologia, pneumatologia e protologia nella dimensione cristologica ha quale “perno” la questione della “Persona in Dio”: da un lato, infatti, c’è l’incomprensione del linguaggio di persona attribuito a Dio nel cristianesimo da parte delle religioni apofatiche e mistiche, e dall’altro c’è il problema della concezione della persona nel contesto delle religioni teistiche, le quali riducono il valore della relazionalità e interpersonalità di Dio, interpretandolo solo nella dimensione di un rapporto tra il Mistero e il mondo. La seconda parte del lavoro presenta la vicenda di Gesù di Nazareth. Il lungo e convincente discorso dell’A. risalta con chiarezza nel XIV capitolo, dove sono presentati i contenuti essenziali delle confessioni di fede e delle cristologie post-pasquali. All’esposizione della cristologia patristica e conciliare della terza parte vanno riconosciuti due pregi: la completezza della panoramica storica, che arriva sino al secondo Concilio di Nicea e le puntuali precisazioni sul significato di ciascun Concilio. Dopo due capitoli relativamente brevi, in cui l’A. tratteggia la cristologia medioevale e la cristologia tra epoca moderna e contemporanea, si giunge all’ultimo capitolo, dove vengono presentate alcune nuove prospettive, tra le quali anzitutto la cristologia nell’orizzonte della verità/la verità nell’orizzonte della cristologia. Questa duplice traiettoria indica, secondo Ciola, il riconoscimento che la verità di Cristo non è mai accessibile senza la mediazione che sussistono nella unicità della sua persona di Verbo incarnato, l’aspetto della relazionalità resta sullo sfondo. Dispiace non trovare, alla fine di ogni parte, delle linee di sintesi o dei rilievi conclusivi che meglio avrebbero aiutato il lettore a muoversi nel mare magnum delle questioni trattate. La bibliografia raccolta, di volta in volta, per i temi di studio, invece, è specifica per i singoli argomenti trattati. Questo saggio di cristologia costituisce un valido strumento di studio e di approfondimento non solo per gli studenti, ma anche e soprattutto per gli specialisti che vi troveranno rimandi bibliografici, spunti, citazioni e note molto interessanti. A confine tra approccio ontologico (l’identità di Gesù quale Figlio di Dio) e prospettiva storico-funzionale (l’opera e la missione di Gesù, il Messia), la cristologia che ci propone Ciola non è né meramente dall’alto – anche se recupera la dimensione trinitaria e pneumatologica del vissuto di Gesù, il Nazareno –, né esclusivamente dal basso (secondo l’orizzonte kerygmatico o storico), bensì una cristologia pensata a partire dal centro, dal cuore della regula fidei. Cristiano Massimo Parisi Recensioni della verità dell’essere e tale istanza di verità è in relazione con la cristologia ed è da essa beneficamente fecondata. Anche in questo caso, si potrebbe aggiungere che l’evento personale della verità, che si realizza in Gesù Cristo, è incentrato nell’incarnazione e nella Pasqua, ed è un evento nel quale si adempie la rivelazione escatologica del mistero trinitario di Dio e costituisce la norma fondamentale della verità teologica. Altra prospettiva è la proposta di ripensare l’unione ipostatica in senso relazionale. L’A. afferma che questo modo di rileggere l’unione ipostatica può aprire piste inedite, sia sul versante storico-patristico, sia su quello speculativo. Nel primo caso andrebbe rimessa in circolo la tematica relativa al rapporto Padre-Figlio, che era stata ristretta dalla prospettiva calcedonese. Sul versante speculativo la testimonianza della Scrittura su Cristo andrebbe riformulata con categorie che ricavino dalla teologia un’ontologia che comprenda l’essere come relazione. Tuttavia, fino a quando il concetto di Persona – in cristologia – assolve la funzione di esprimere l’identità una di Gesù Cristo, nella duplicità delle sue due nature, JOACHIM GNILKA I nazareni e il Corano ecclesiale Paideia, Brescia 2012 pp. 153, € 16,50 N el meraviglioso e delicato orizzonte del dialogo tra il cristianesimo e l’islam, il contributo di uno dei più stimati biblisti cattolici dona diversi spunti e provocazioni che possono aiutarci ad andare alla radice del 329 nostro Credo lanciando ponti di dialogo con le altre due religioni abramitiche. J. Gnilka riprendendo il tema già lungamente trattato della stima e del dialogo tra il nascente islam e il primo cristianesimo, si avventura nel sentiero alquanto inesplorato dello svelamento dell’identità precisa di quelli che, nel principale testo sacro musulmano, vengono chiamati «i nasārā». Chi sono quelli che dal Co. rano vengono comunemente tradotti come «i nazareni» e che in maniera alquanto approssimativa identifichiamo con i cristiani? In un cristianesimo ancora in fase di assestamento i nasārā con cui Muhammad ibn‘Abd . . Allāh è entrato in contatto erano i gruppi ebrei gerosolimitani identificati con l’ancora non chiara corrente del “giudeocristianesimo” o i gentili che avevano accolto Gesù Cristo? In un’unità dottrinale non ancora raggiunta possiamo trovare nel Corano un riferimento alla corrente dei nicolaiti o degli ebioniti che negavano la divinità di Cristo e consideravano l’apostolo Paolo un eretico? O addirittura i nasārā sono nient’altro che . la setta giudaica dei nazorei esistente forse già prima di Cristo con i quali si identificavano i mandei anticristiani? Qual è il Vangelo con il quale il Profeta dell’islam si è confrontato? Quello che Paolo chiama nella Lettera ai Galati il Vangelo per i circoncisi o quello per i non circoncisi? E da dove nasce il giudizio variabile del Corano riguardo ai cristiani che in alcune parti sono ricoperti di considerazioni positive e in altre parti associati al politeismo? Sono forse diverse le cristologie con le quali Muhammad entra in . 330 contatto? Ma soprattutto l’islam nasce forse da una scissione interna del primo cristianesimo che sentiva l’articolarsi concettuale della dottrina della Trinità come una eccessiva speculazione filosofica da parte di Bisanzio del messaggio del Nazareno? Questi e altri quesiti vengono sollevati dall’A. senza la pretesa di dare risposte, ma con l’audacia e l’umiltà di porsi domande. All’esame di alcune questioni ancora aperte, l’A. dedica la seconda parte del suo testo all’esame del materiale biblico, soprattutto neotestamentario, entrato nel Corano. La riflessione pone in esame le motivazioni più recondite che portano il Corano a negare la professione di fede cristiana di Gesù Figlio di Dio. Così come è ugualmente affrontato l’evidente anacronismo storico che nega la croce di Gesù, considerata ancora dalla nascente comunità musulmana come sorte scandalosa per un degno profeta di Dio. Spalancando le finestre della ricerca teologica sulle citate questioni, l’A. riporta il lettore ad un necessario approfondimento della comune fede monoteista delle due più grandi religioni al mondo perché possa esserci, come accadeva nel sorgere dell’islam, un reciproco dialogo improntato sull’amicizia. Gnilka sottolinea le attuali grandi asperità che il dialogo presenta. Accade spesso sul piano letterario che l’uno parli dell’altro, non con l’altro. Ecco perché il biblista ci tiene a sottolineare che in origine invece era ancora possibile che teologi cristiani bizantini e teologi islamici dialogassero tra di loro. Si trattava certo di dispute, talvolta anche accese, to a titolo dimostrativo dal cristianesimo arabo e siriaco contro la chiesa del santo Sepolcro, d’ispirazione bizantina. Due chiese, due cristologie iniziali? Una imperiale, bizantina che accoglieva il concilio di Calcedonia (Gesù vero uomo e vero Dio), l’altra araba e siriaca che avrebbe dunque conservato una cristologia pre-nicena? Altra questione che emerge dalle iscrizioni poste in esame è la ricerca della storicità di Muhammad, il cui nome appare sulla Cupola della Roccia più come un titolo che un nome proprio. Ricerca che gli storici dell’islam dovranno poter meglio definire. Il luogo sacro ospitato dalla spianata del tempio, che non è oggi simbolo di unità, viene sempre più riscoperto come appello urgente al dialogo. Ed è proprio Gerusalemme il luogo individuato dall’A. dal quale far ripartire il dialogo che ritrova nel monoteismo il terreno comune sul quale rendere possibile l’incontro tra le tre religioni per crescere nella consapevolezza di essere fratelli e figli di Dio. Giuliano Salvatore Recensioni ma questo contribuì alla definizione delle rispettive dottrine nel confronto teologico alla ricerca della verità. Nella conclusione del lavoro, Gnilka riporta le ultime ricerche sulle iscrizioni nella Cupola della Roccia a Gerusalemme che può essere considerata la testimonianza più antica di architettura musulmana. La sorpresa che, tuttavia, nasce dall’esame delle iscrizioni è come questo patrimonio di comune importanza per giudei, cristiani e musulmani, può oggi avere grande valenza per l’incontro e il dialogo tra esse. Da accurate analisi filologiche di quelle che risultano essere le più antiche citazioni coraniche si affaccia l’ipotesi che la pianta della Cupola della Roccia, oltre ad essere la spianata sulla quale sorgeva l’antico tempio in cui si adorava YHWH, fosse in origine la base di un edificio cristiano dove si venerava il sepolcro di Cristo. Gli studi di Luxenberg, riportati dall’A., ci conducono a pensare che l’attuale seconda moschea dell’islam sarebbe stata fino al VII secolo un santuario cristiano edifica- LEONARDO MESSINESE Metafisica ETS, Pisa 2012 pp. 161, € 12 I l titolo stringato del libro non deve trarre in inganno. Certamente l’argomento centrale è relativo al modo in cui oggi si può e si deve parlare di metafisica. Secondo l’A., tuttavia, l’obiettivo di fondo consiste nel privilegiare il tema metafisico per eccellenza che riguarda la questione di Dio. Per331 tanto, mi sembra opportuno iniziare dalle pagine finali per comprendere lo scopo della ricerca di Messinese. Si tratta di una rivisitazione del rapporto fra il Dio della fede e il Dio della ragione e tale rapporto è da intendersi, secondo l’A., come necessario per chi voglia scavare più a fondo nella struttura dell’essere umano, anche se non indispensabile per chi vive pienamente la sua esperienza religiosa. Il pensiero razionale, d’altra parte, non è un pensiero astratto, arido, ma è, appunto, una componente dell’essere umano che deve essere tenuta in considerazione, si potrebbe aggiungere, a livelli diversi di esercizio. Certamente l’esercizio filosofico è il massimo livello che possa essere raggiunto dalla ragione umana e, attraverso tale esercizio, è possibile dare un sostegno notevole alla fede. Poiché il Dio della metafisica è «ciò che dà alla fede religiosa dell’uomo anche il conforto della ragione» (158), non è superfluo cercare tale conforto, sebbene vada tenuto conto che il terreno sul quale ci si muove è difficile e complesso, soprattutto nella filosofia contemporanea. In essa sono presenti numerosi rivoli prevalentemente caratterizzati dalla negazione della validità della ricerca metafisica. Messinese li cita e li individua sostanzialmente nelle correnti della filosofia ermeneutica e della filosofia analitica, ma gli autori con i quali discute prevalentemente sono, sul versante cosiddetto antimetafisco, Kant, Nietzsche e Heidegger; su quello metafisico Bontadini, Severino e Molinaro. Per quanto riguarda Kant, l’A. sottolinea che, al di là del fatto che il 332 filosofo tedesco metta in guardia dalle illusioni metafisiche, sostiene, in ogni caso, che è necessario per il pensiero umano dirigersi verso il sovrasensibile. Al contrario, Heidegger critica fortemente la capacità logica della ragione di attingere l’Assoluto. Per entrambi i pensatori, però, l’Intero, che è oggetto del pensiero metafisico, è presente sia in Kant come idea della ragione, sia in Heidegger come orizzonte ontologico. Si tratta, pertanto, non dell’eliminazione dell’oggetto della metafisica, ma della critica rivolta alla modalità della sua comprensione. In riferimento alla posizione di Heidegger, le pagine che Messinese dedica all’analisi del suo pensiero in generale e, in particolare, alla questione del problema teologico sono da tenere presenti per l’acutezza teoretica ed “ermeneutica” che le caratterizza. Chi vuole una chiarificazione di questo tormentato argomento deve leggere ciò che l’autore scrive, perché si tratta di un’analisi essenziale, che coglie il nucleo profondo dell’impostazione heideggeriana. Tenterò di riassumere brevemente l’interpretazione di Messinese, perché è nota l’influenza che tale posizione ha esercitato e continua a esercitare anche nell’ambito degli studi teologici. La proposta di Heidegger si muove indubbiamente al confine fra le due discipline, ma la comprensione di essa è possibile solo sotto il profilo filosofico-metafisico. Messinese ricorda che il tema proposto dal “fenomenologo” è quello relativo alla fondazione del sapere metafisico e, a questo proposito, la sua prima presa posizione, che Messinese ritiene valida, consiste nel mettere in stabilendo un’assonanza con le posizioni di Anselmo e di Tommaso (cf A. Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio. Credere in Dio, Padova 2005). Quindi, si può dire che l’impostazione fenomenologica husserliana non assolutizza l’apparire, come accade in Heidegger; pertanto, si può osservare che “fenomenologia” si dice in molti modi. Certamente la “fenomenologia” di Heidegger si distingue per la sua peculiarità, anche perché non viene applicata a questioni antropologiche e metafisiche, come accade in Husserl, E. Stein, H. Conrad-Martius e in altri esponenti della scuola fenomenologica. Ciò giustifica anche il contrasto e la separazione di Husserl da Heidegger. La differenza fra i due è confermata, inoltre, dal legame che Heidegger pone fra evento e storicità: da qui l’accusa mossa a quest’ultimo da Messinese di rimanere su tale piano, escludendo la possibilità di parlare di Dio. L’apparire costituisce il filo conduttore che consente all’A. di compiere il passo successivo verso la posizione di Severino, messa a confronto con quella del maestro di quest’ultimo, Bontadini e con quella del suo proprio maestro, Molinaro. Tale percorso muove da quella che Messinese definisce la “torsione” del pensiero di Heidegger operata a proposito del carattere “temporale” dell’essere, criticato da lui, sulla base di un’affermazione opposta: «la metafisica prescinde dal tempo ed è proprio nel suo collocarsi “sub specie aeternitatis” che consiste la sua verità» (70). In realtà, Heidegger sostiene che l’eternità di cui parla la metafisica Recensioni evidenza la differenza ontologica fra ente ed essere. Tuttavia, in una seconda fase dell’indagine heideggeriana prevale la critica all’onto-teo-logia, che, a suo avviso, ha caratterizzato la storia della metafisica occidentale. Ci si può domandare quale sia il nuovo “modo” di affrontare la differenza ontologica proposto da Heidegger. Messinese individua nel tema dell’evento, cioè dell’apparire dell’essere, la novità del pensiero di Heidegger e, quindi, la categoria che emerge è quella della possibilità che di volta in volta si realizza storicamente. Che cosa ha a che fare tutto ciò con la questione di Dio? Se l’Essere si riduce all’apparire degli enti è chiaro che non si può identificare l’Essere con Dio. Ed è proprio l’insistenza di Heidegger sulla questione dell’apparire che conduce ad escludere la validità del pensiero inferenziale e argomentativo. Messinese definisce Heidegger un “fenomenologo”, perché egli è interessato all’Erscheinung, a ciò che appare. Indubbiamente, Heidegger mantiene un legame con l’impostazione fenomenologica di Husserl nell’attenzione rivolta al tema della manifestazione, ma mi sembra opportuno sottolineare che Husserl non si è mai fermato a questa dimensione, ma, al contrario, ha sempre dato grande spazio alla logica e al procedimento argomentativo. Infatti, a mio avviso, la questione dell’inferenza distingue radicalmente i due pensatori, come ho cercato di mostrare nella mia ricerca sulla questione di Dio in Husserl, fino al punto che ho potuto avvicinare alcune sue affermazioni addirittura alle argomentazioni della metafisica classica, 333 è l’assolutizzazione del presente, cioè di una delle tre estasi temporali. Ed è proprio questo che Messinese contesta. Che cosa ritiene egli valido rispetto ai tre pensatori sopra citatati? Per quanto riguarda Severino, egli dissente dalla sua più recente interpretazione, secondo la quale la metafisica occidentale, in quanto tratta dell’apparire dell’essere, sia, piuttosto, una “fisica”, accettando in tal modo la lezione heideggeriana. Più convincente, secondo Messinese è, invece, la posizione iniziale di Severino, il quale aveva affermato che il compimento dell’ontologia avviene nella teologia. Si tratta, però, di giustificare tale assunto. Per farlo, è necessario affrontare la questione gnoseologica, prendendo posizione sia nei confronti del realismo, che presuppone l’indipendenza dell’essere dal pensiero, sia dell’idealismo, che sostiene la derivazione dell’essere dal pensiero. L’indagine di Messinese ruota intorno al concetto di trascendentale nel duplice senso dato a questo termine nella filosofia medievale e in quella moderna. Il punto di vista trascendentale, qui proposto sulla scia di Molinaro, consente di affermare che «l’essere è già originariamente ciò che il pensiero pone nell’atto del pensare» (87). La validità di questo riconoscimento permette, secondo l’A., di legare il trascendentale antico a quello moderno e di intendere la filosofia come l’aprirsi del trascendentale verso la trascendenza. In altri termini, non c’è solo esperienza degli enti, ma anche il pensiero dell’essere in quanto essere, che non assorbe in sé il piano feno334 menologico, ma al contrario lo lascia vivere nella sua autonomia. In questo senso si può notare che, anche se con modalità diverse, questa posizione sia vicina a quella proposta da Husserl, il quale, in primo luogo, cerca di superare la contrapposizione idealismo-realismo attraverso il tema dell’intenzionalità e, in secondo luogo, si riferisce all’Assoluto come giustificazione ultima, raggiunto attraverso una riflessione razionale. È chiaro che l’Assoluto, una volta raggiunto, si manifesta come il momento veritativo per eccellenza, e proprio sotto il profilo della verità non può essere in contrasto con l’oggetto dell’esperienza religiosa: tuttavia, in quest’ultimo caso non abbiamo a che fare solo con una verità ad intra, cioè la verità di ragione, ma con la verità ad extra, cioè la verità di fede. Si tratta, allora, di due verità o di due differenti modi di dire la verità? La seconda opzione è quella valida, secondo l’A.; infatti, la verità nel caso della metafisica è saputa, nel caso della fede è creduta; ciò non significa che sia falsa, ma per usare un’espressione cara ad Edith Stein, si presenta come “tenebra per l’intelletto” e non è sottoponibile alla dicotomia vero/falso secondo i procedimenti razionali. In questo senso, il metafisico deve assumere un atteggiamento che potrei definire “umile”, perché sa bene che ci sono altre domande alle quali non sa rispondere; il suo servizio, in ogni caso prezioso, è quello di mostrare – ed è questo il messaggio del libro – una terra solida sulla quale può incontrare Dio con il conforto della ragione. La posizione che Messinese assume in questo piccolo, ma densissimo volumetto – una piccola Summa delle questioni metafisiche – supera molte contrapposizioni: non solo quella già indicata, relativa al contrasto fra realismo e idealismo, ma anche quella fra razionalismo e fideismo, entrando nel cuore delle problematiche metafisiche del presente e del passato e proponendo una personale e originale soluzione al problema metafisico, problema che, accettato o respinto, continua a rimanere fondamentale nella speculazione occidentale. Angela Ales Bello ANTONIO ORBE Introduction à la théologie des IIe et IIIe siècles Cerf, Paris 2012 vol. I, pp. 774, € 80 vol. II, pp. 775-1680, € 90 ntonio Orbe (1917-2003), gesuita, docente di patristica all’Università Gregoriana (Roma) per oltre quarant’anni, è conosciuto non solo dagli specialisti del settore, ma anche da tanti altri cultori di teologia e scienze dell’antichità. Per ricordare l’importanza del suo insegnamento e della sua figura, a dieci anni dalla morte gli è stato dedicato un numero monografico della rivista Gregorianum (94/2), curato da A. Bastit. Nella sua attività di studioso l’A. ha mostrato particolare interesse per Ireneo e lo gnosticismo. Si può dire che da Ireneo, egli è passato a studiare il contesto in cui si inserisce la teologia del vescovo di Lione, e quindi a esplorare il mondo della gnosi, un mondo per lo più poco conosciuto negli anni in cui l’A. ha iniziato a studiarlo. In questa poderosa Introduction à la théologie des IIe et IIIe siècles che ab- braccia oltre 1500 pagine, Orbe passa in rassegna pressoché tutti gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli, ortodossi ed eterodossi. L’opera, inizialmente destinata agli studenti, ha suscitato subito l’interesse degli specialisti; così, dopo la traduzione italiana (1995), appare ora questa traduzione francese, frutto di una molteplice collaborazione scientifica. Il piano dell’opera è semplice: l’A. segue la storia della salvezza e presenta il pensiero dei diversi scrittori antichi attraverso i testi della Scrittura da essi utilizzati e commentati. La loro esegesi costituisce la loro teologia. Si parte dalla conoscenza del mistero di Dio, ci si ferma sulla concezione della Trinità, sulla rivelazione dell’AT, e si continua con la creazione del mondo, dell’uomo, il peccato, la punizione, l’esclusione dal paradiso, l’esilio e la profezia. Poi si passa all’analisi del Recensioni A 335 mistero di Cristo descritto nel NT: l’incarnazione, la nascita, l’infanzia e la vita nascosta, la predicazione del Battista, il battesimo del Signore, le tentazioni, la vita pubblica, i miracoli, la passione, la morte e risurrezione e infine l’escatologia. Lungo questo percorso noto, il lettore vede sfilare una serie impressionante di personaggi in gran parte sconosciuti e difficilmente accessibili, ma che Orbe presenta in maniera sobria, spiegandone in modo preciso il pensiero. Si resta sorpresi e ammirati per la grande erudizione e per l’attenzione con cui si sono raccolti in un’unica opera, al tempo stesso organica ed affascinante, i frammenti di autori preniceni dispersi in opere diverse. Il risultato è un grande affresco della vita dei primi secoli della Chiesa, in cui scrittori diversi si impegnano a comprendere la fede cristiana leggendo con passione la Scrittura. In queste pagine gli autori eterodossi si affiancano a quelli ortodossi, e a volte si potrebbe restare indecisi sulla valutazione del loro pensiero, perché certe posizioni sono più vicine di quanto ci si attenderebbe. Sono gli ortodossi che sono stati avvicinati agli eterodossi? O il pensiero di questi è stato “migliorato” nello sforzo di renderlo comprensibile? Di sicuro bisogna dire che la distanza tra ortodossia ed eresia allora doveva essere meno evidente di quanto oggi appaiono diversi cristianesimo e gnosticismo. In quei tempi questi autori vivevano nello stesso contesto culturale e affrontavano i medesimi problemi con strumenti teoretici simili. Non c’erano ancora le formule di fede che 336 furono precisate successivamente nei concili. Per comprendersi bisognava perciò usare lo stesso linguaggio e lo stesso tessuto concettuale. Orbe è stato accusato di simpatizzare troppo per gli gnostici di cui esponeva il pensiero e a cui attribuiva il merito di avere iniziato in modo serio la riflessione teologica (14). Egli non negava di nutrire questa “simpatia”, ma ricordava che il suo autore preferito restava sempre Ireneo, a cui anche in questi volumi è dedicata la parte principale (in particolare i cc. 25, 26, 40, 41, 46). Egli si sforza di mettersi dal punto di vista degli gnostici, cercando di capire il loro pensiero per ciò che essi volevano dire. Questo ha comportato uno sforzo per mettere in evidenza i numerosi aspetti positivi della loro riflessione, non per approvarne le concezioni, ma piuttosto per mostrare come il confronto con la forza speculativa della gnosi avrebbe permesso di cogliere meglio la portata delle affermazioni dei grandi autori ortodossi da lui puntualmente presentati: Giustino, Teofilo d’Antiochia, Tertulliano, Clemente d’Alessandria, Origene, Ippolito e altri. Sarebbe comunque troppo lungo soffermarsi sui tanti temi trattati e sulle domande che possono emergere. Ovviamente su alcuni argomenti il dibattito resta aperto, e la ricerca successiva potrà dare una interpretazione più precisa del pensiero di singoli autori. Ma il quadro generale rimarrà quello descritto in questi volumi, composti da uno studioso che conosceva bene la situazione del cristianesimo primitivo. Il rapporto tra la gnosi e la grande Chiesa nei secoli II e III ha avuto fasi cultura e la teologia dei nostri giorni. D’altra parte, lo sforzo compiuto dai Padri per individuare nella massa delle speculazioni gnostiche gli elementi utilizzabili per la comprensione della fede, potrebbe (e dovrebbe) stimolare i ricercatori di oggi ad avvicinare senza timidezza le affermazioni della modernità per selezionare e sviluppare creativamente le intuizioni positive adatte a fare crescere la conoscenza della fede. A questa edizione francese dell’opera di Orbe hanno dato il proprio contributo diversi studiosi: la traduzione è stata fatta dal gesuita J.L. de Castro ed è stata rivista da A. Bastit e da J.-M. Roessli; le note sono state completate e arricchite da P. Moliniè; la bibliografia è stata aggiornata da Roessli, aggiungendo gli studi apparsi negli ultimi anni; gli indici sono stati curati da B. Jacob. Nell’insieme abbiamo una edizione fornita di strumenti che facilitano la lettura del testo e consentono di capire meglio la complessità della materia teologica trattata. Domenico Marafioti SJ Recensioni alterne, non senza confronti drammatici, soprattutto per quanto riguarda l’antropologia, l’escatologia e la funzione di Cristo. L’impegno esegetico e teoretico dei Padri della Chiesa ha permesso di valorizzare il contributo della cultura greca, distinguendo ciò che aiutava a comprendere meglio la fede cristiana e ciò che portava verso speculazioni ardite, ma incompatibili con la testimonianza trasmessa dagli apostoli e consegnata nella Scrittura. Gran parte del dibattito tra gnostici e ortodossi infatti verteva proprio sul modo di leggere la Scrittura (vedi i cc 24 e 32), sulla possibilità di raggiungere un senso oggettivo, e sul valore normativo per la fede del contenuto del testo biblico. Diverse tematiche affrontate in quel periodo rimangono un compito di urgente attualità per la Chiesa di tutti i tempi. Il pluralismo teologico che Orbe ha fatto emergere nei primi secoli cristiani può costituire un modello per comprendere senza meravigliarsi la situazione pluralistica in cui si trova la GIANLUIGI PASQUALE Chiara d’Assisi donna di luce Lindau, Torino 2012 pp. 174, € 13 I l volume di G. Pasquale, noto studioso del francescanesimo, ripercorre l’esperienza umana e cristiana di una santa che ha impresso indelebilmente, nella storia della spiritualità francescana, la sua fisionomia di “don- na di luce” per la radicalità evangelica con cui ha vissuto la sequela di Cristo alla scuola di Francesco d’Assisi. Questa biografia, che nasce nell’ottavo centenario della nascita di Chiara di Assisi, si propone di descri337 verne la vita e la spiritualità lasciando parlare i documenti, sapientemente intessuti in una narrazione che rispetta la storia, ma racconta in maniera avvincente, quasi romanzata, l’avventura coraggiosa di una giovane donna dell’Umbria che diventa, ben presto, madre di una schiera numerosa di altre donne, unite da un unico ideale: far rivivere il Vangelo in tutta la sua affascinante radicalità per riportare l’umanità smarrita dal peccato alla sua originaria bellezza. Analizzando il contesto storico in cui avviene tale vicenda, l’A. ripercorre le tappe che portano la nobile Chiara a lasciare il suo palazzo patrizio e gli agi della sua famiglia fino a fondare, a San Damiano, il secondo Ordine francescano, ossia l’Ordine delle Povere Dame, oggi conosciute come Clarisse o, meglio, Sorelle Povere di Santa Chiara. Per loro Chiara, prima nella storia della Chiesa, scrive una regola di vita monastica che difese strenuamente, finanche nei confronti del Papa, pur di ottenere il privilegio della povertà assoluta. Il racconto biografico presenta, quindi, lo sviluppo della personalità di Chiara partendo dall’infanzia, caratterizzata dalla predilezione per i poveri, fino alla scoperta della vocazione di Francesco e della sua fuga, nottetempo, per seguirlo nello stesso cammino. Scrive, infatti, nel suo Testamento: «Poco dopo la conversione di Francesco, insieme con poche sorelle che il Signore mi aveva dato poco dopo la conversione mia, promisi a lui volontariamente obbedienza […] e mosso a pietà verso di noi, Francesco si ob338 bligò con noi di avere, da se stesso e per mezzo della sua religione, cura diligente e sollecitudine speciale per noi come per i suoi frati. E così per volontà di Dio e del nostro beatissimo padre Francesco, andammo alla chiesa di San Damiano per dimorarvi, dove il Signore in breve tempo, per sua misericordia e grazia, ci moltiplicò». L’A. prosegue, poi, nella descrizione della vita delle Povere Dame a San Damiano, dove, in breve tempo, giunsero anche la sorella e la mamma di Chiara, mettendo in evidenza le virtù che la santa testimoniò: l’umiltà nel servizio alle consorelle, la carità nel prendersi cura di tutti, specialmente di poveri e ammalati che bussavano alla porta del monastero, l’ardente preghiera, che le ottenne numerose guarigioni e miracoli (come quello famoso della cacciata dei saraceni), la penitenza e la pratica della povertà, fino al beato transito, avvenuto l’11 agosto 1253. Ne emerge un quadro nitido della personalità di una donna forte e intrepida nella sua fede, luminosa e trasparente nel suo rapporto con Dio, serena e amabile nelle sue relazioni con gli altri, un modello che risulta attuale anche per il contesto odierno, come giustamente spiega l’A., fin dalle prime pagine, affermando che nello scenario attuale si proclama che “Dio è morto” perché «non fa più mondo», come scrive U. Galimberti. Proprio in questo contesto Chiara insegna che, per superare la crisi che attanaglia la coscienza dell’uomo di ogni tempo, è necessario distruggere gli idoli dell’orgoglio, dell’egoismo e del piacere che hanno infranto trop- pi equilibri per riedificare il proprio essere alla luce del Vangelo, dove si apprende lo spirito di carità, di abnegazione e di sacrificio che porta alla vera realizzazione di se stessi. Il lavoro di G. Pasquale può essere definito come uno studio prezioso per la conoscenza della vicenda di santa Chiara di Assisi, grazie all’uso competente delle fonti, sempre citate con meticolosa precisione e, nello stesso tempo, ad una scrittura creativa che avvince il lettore e lo incuriosisce senza stancarlo, invitandolo ad una meditazione che, andando al di là dei personaggi e dagli eventi raccontati, lo aiuta a rivivere il presente alla luce dell’esempio di una santa che, come ama concludere l’A., citando Tommaso da Celano, è «una donna tanto così», ossia «chiara per nome, più chiara per la vita, chiarissima per le virtù». Daniela Del Gaudio ARMIDO RIZZI Rifare la spiritualità Dio alla ricerca dell’uomo Oltre Edizioni, Sestri Levante 2012 pp. 118, € 15 n perfetta consonanza con la sua lunga riflessione di saggista e teologo attento ai temi della spiritualità, e quasi a coronamento di essa, A. Rizzi dà alle stampe un testo che sotto tanti aspetti rappresenta una novità e, ancor di più, una provocazione. Il libro Rifare la spiritualità – ripresa e ampliamento di un suo testo pubblicato nel 1987 – contiene già nel titolo una intenzione programmatica resa esplicita dalla prospettiva suggerita dal sottotitolo «Dio alla ricerca dell’uomo». L’ambizioso progetto di cui Rizzi intende in questo lavoro disegnare come il plastico, il modello di riferimento per successive indagini e ulteriori approfondimenti, si colloca – a dire dello stesso A. – nell’ambito di quella parte della teologia che ha come oggetto la spiritualità vissuta, cioè la teologia spirituale. Un progetto ambizioso – si diceva – dal momento che si propone come obiettivo non semplicemente un ritocco, ma un vero e proprio capovolgimento nel modo di intendere e di capire la spiritualità cristiana. Un capovolgimento considerato come l’inevitabile approdo della piena applicazione dell’insegnamento conciliare e del cammino avviato dall’istanza del Vaticano II di una teologia, di una spiritualità e di una prassi ecclesiale sempre più saldamente fondate nelle radici bibliche. È muovendo da questa spinta conciliare che l’A. vede come necessaria una vera e propria “conversione” della spiritualità a partire da ciò che di essa insegna proprio il testo biblico. A giudizio di Rizzi, l’ambito della spiritualità è quello in cui è più facilmente rintracciabile il segno dell’ellenizzazio- Recensioni I 339 ne del cristianesimo, avvenuta a partire dal II secolo, che fa da substrato all’ellenizzazione teologica testimoniata dall’acquisizione di concetti come natura o ipostasi o dalla dottrina sulla creazione e sul male. Pertanto, secondo una visione non coerente con quanto emerge dalla Scrittura, «la spiritualità tradizionale ha come asse attorno a cui tutto si organizza il desiderio umano di Dio; noi offriamo il profilo di una spiritualità che si sviluppa coerentemente attorno all’amore divino per l’uomo» (16). Ecco chiarita, dalle parole stesse dell’autore, la tensione ideale che anima e attraversa queste pagine di teologia spirituale. Tuttavia lo stesso Rizzi si sente in dovere di precisare che la critica a cui la spiritualità tradizionale viene sottoposta nel testo non ha di mira – e non potrebbe pretendere di averla – l’«esistenza spirituale delle generazioni cristiane del passato e, ancora, di molte componenti odierne del popolo cristiano» (17). L’occhio è puntato, invece, sulle forme e sulle oggettivazioni che la spiritualità cristiana ha assunto nel tempo le quali, in quanto comprensioni e rappresentazioni storiche, possono e devono essere passate al vaglio di una leale critica teologica. Leggendo il dato con sguardo attento, in una visione olistica della storia della spiritualità cristiana, non si potrà non cogliere, a mio avviso, la costante consapevolezza di un movimento di Dio verso l’uomo che precede e rende possibile il movimento dell’uomo verso Dio. Certo, si tratta di una consapevolezza a volte tacita e forse, in alcuni casi, del tutto taciuta non senza colpevolezza. Tuttavia, mi 340 sembra che quello proposto nel testo in analisi, costituisca uno spostamento di accenti – o se si vuole di assi – che non muta il contenuto centrale della spiritualità cristiana, ma ne trasforma in maniera radicale l’impostazione di fondo, le categorie espressive, le modalità di comprensione. Pertanto quello auspicato da Rizzi è senza dubbio un ri-assestamento della spiritualità quanto mai importante, prezioso e da perseguire soprattutto per la concezione autenticamente biblica, e perciò autenticamente cristiana, della spiritualità stessa che propone e valorizza. La spiritualità tradizionale che trova il suo paradigma espressivo nella spiritualità monastica si sviluppa intorno ad alcuni “temi forti” quali la fuga mundi, il cammino spirituale dell’uomo inteso come reditus, ritorno a Dio in risposta al suo exodus, alla sua uscita o discesa verso l’uomo compiuta in Gesù Cristo. L’uomo è visto come portatore di un insopprimibile desiderio di infinito per appagare il quale deve prendere le distanze dal terreno e dal mondano. Questo porterà – anche se le generalizzazioni soprattutto negli infinita munda della storia della spiritualità sono sempre da evitare – a una negazione del creaturale e ad una esclusione vicendevole tra Dio e la creatura. Quest’ultima non è in se stessa negativa ma «ha in sé una positività che può farne, di fronte alla capacità d’amore dell’uomo, l’antagonista di Dio» (28). A chi taccia di un certo “orizzontalismo” la nuova spiritualità di cui egli è rappresentante, Rizzi risponde ricordando che, anche se di “verticalismo” si vuole parlare a proposito del messaggio cristiano, bisogna precisare che si tratta “nuova” impostazione di matrice biblica. La condizione dell’uomo emergente dalle pagine bibliche e letta alla luce della realtà attuale è osservata e descritta da quattro punti prospettici, come quattro angoli che corrispondono alle relazioni fondamentali che l’uomo vive e sperimenta nella sua esistenza; questi punti o angoli convergono tutti in un centro che è l’uomo stesso. La prima prospettiva, la prima posizione relazionale osservata è quella che pone l’uomo di fronte a Dio. A partire dall’idea tradizionale della redamatio, ossia della risposta amorosa e colma di gratitudine dell’uomo che si scopre infinitamente e immeritatamente amato da Dio, la fede si presenta, secondo Rizzi, come intelligenza del mondo; il mondo appare per quello che è: grazia. La fede è però, secondo l’antropologia biblica, soprattutto fiducia. Fiducia che, se nell’AT si fondava sul dono dell’alleanza, nel NT si radica nel dono e nell’esperienza della giustificazione e del perdono offerto in Gesù. Infine la fede si delinea come obbedienza. È precisamente quest’ultimo atteggiamento, tipico dell’uomo biblico e del cristiano in particolare, a costituire la più esplicita e compiuta forma di redamatio, di risposta grata all’amore di Dio che spinge l’uomo a rendersi pienamente disponibile al progetto di Dio, mettendosi al servizio degli uomini. Come nota l’A., c’è qui una visione completa e comprensiva di quell’atteggiamento umano che è la fede e che coniuga insieme «tre momenti sostanziali dell’esistenza spirituale: la fede nell’amore di Dio, l’amore per Dio come obbedienza, l’amore al prossimo come carità e servizio» (59). Recensioni non di un “verticalismo ascensionale” ma “discendente”, che ha per soggetto Dio e che «avvia il movimento “orizzontale” della missione, della testimonianza, del servizio» (37). Espressiva di tutto ciò è la netta linea di demarcazione tracciata dal NT tra eros e agape dove è esclusivamente il secondo a definire l’identità e l’agire di Dio. L’eros, senza necessariamente considerarlo nel senso negativo di un sentimento egoistico, «è un egocentrismo connaturato; è la stessa natura desiderante dell’io, dell’essere umano», mentre l’agape è definito dal movimento di una «uscita da sé per andare all’altro» (41). Il rivelarsi di Dio come agape, come amore che si mette alla ricerca dell’uomo, per donarsi ad esso e ammetterlo all’amicizia ed alla comunione con sé, rivela anche l’identità autentica dell’uomo, che non è definita tanto dalla categoria del desiderio quanto da quella della povertà. L’uomo è povertà, radicale povertà, strutturale debolezza, un essere posto in una condizione di bisogno. «La povertà radicale è povertà sul piano ontologico. Ma proprio questo puro esistere è il polo della relazione originaria Dio-uomo. Questa povertà, che in sé non ha nulla né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio» (47). Questo passaggio suggestivo pone davvero il fondamento della spiritualità cristiana al centro dell’atto rivelatore di Dio e manifesta la fondatezza e la serietà della proposta che l’A. avanza nel suo testo. Nei capitoli successivi l’A. trae le conseguenze del discorso fatto fin qui, esplicitando le implicazioni di una spiritualità rivisitata secondo questa 341 La seconda prospettiva presa in esame è quella dell’uomo di fronte all’altro, di fronte al prossimo. In questo ritrovarsi “di fronte” da parte di “due finiti”, si scontrano ancora una volta due forze, o forse meglio, le due possibili espressioni dell’amore: l’eros e l’agape. Quando l’eros, forza positiva e connaturale all’uomo, si deteriora in forme aggressive prevale la logica della competizione che in ambito religioso può assumere i connotati aberranti della guerra santa, estrema e volgare negazione del Dio biblico e del vero senso della sua trascendenza. L’unica àncora di salvezza diventa, allora, l’apertura all’agape di Dio, all’agape che è Dio. L’accoglimento di questo amore gratuito e sconvolgente di Dio abilita l’uomo ad una nuova capacità di amare, che gli fa superare la logica della competizione o della chiusura ideologica per divenire egli stesso portatore e diffusore attivo di questo agape, nel senso di un soggetto di libertà che è amato da persona libera ed ama da persona libera. Solo così l’amore può diventare comandamento, cioè la più grande pro-vocazione che Dio lancia all’uomo, appello martellante rivolto alla sua libertà. Particolarmente interessante risulta l’osservazione condotta da Rizzi circa la terza posizione relazionale dell’uomo, quella che lo pone di fronte a se stesso. L’autore osserva come vi sia sostanziale, sebbene parziale, convergenza tra quanto emerge da una spiritualità biblica come quella che nel testo egli propone e la crisi attuale del soggetto che ha i suoi prodromi filosofici e culturali nella critica della ragione di Kant e nella critica della coscienza religiosa 342 dei filosofi del sospetto. Entrambe le posizioni, infatti, convergono nella pars destruens che consiste «nel rifiutare di considerare il desiderio umano come la via d’accesso a Dio, e nell’insegnare l’accettazione e la realizzazione della finitezza» (80). Ma la divergenza emerge e diventa abissale quando si tratta di passare alla pars construens. Questa, di fatto, semplicemente non si dà nell’attuale crisi del soggetto in cui la finitezza dell’uomo diventa assenza di identità ontologica, liquidità identitaria e relazionale. Nella spiritualità biblica, al contrario, il riconoscimento e l’accettazione della finitezza “imposta” all’uomo dalla Parola di Dio che è amore sempre più grande, è per lui il passaggio obbligato e previo per accedere al suo nuovo volto; il volto di uno che non soltanto “esiste” ma che “è” proprio perché amato nella sua finitudine: diligor ergo sum. Come quarta prospettiva di osservazione dell’uomo, l’A. considera la condizione dell’uomo posto di fronte al mondo. Il mondo è «inteso come luogo delle realtà – le “cose” – che costituiscono l’habitat» (89) dell’esistenza umana. L’uomo può rapportarsi a queste “cose” secondo tre dimensioni: pragmatico-strumentale, gratuita o estetico-affettiva e spirituale. Quest’ultima corrisponde alla dimensione biblica di rapporto al mondo in cui le cose sono viste come dono di Dio, sua benedizione, frutto della sua charis/ grazia. Dopo questa presentazione di una teologia spirituale impiantata nell’antropologia biblica, Rizzi propone ancora due riflessioni nei capitoli conclusivi del libro. cipio la coscienza, vera «irruzione del soprannaturale» (107); come oggetto l’umano, povertà ma anche ricchezza di beni e di valori; come soggetto la comunità di coscienze, che è l’intera comunità degli uomini portatrice di competenza spirituale e di sapienza di vita. Compito della comunità ecclesiale in questa visione laica della spiritualità e della santità è, sostiene Rizzi, essere segno della Rivelazione di Dio e dell’agire dello Spirito attraverso la vita dei credenti che, alimentata dalla Parola e dai sacramenti, fruttifica in opere di giustizia e di amore. Questo diventa un motivo ulteriore per prendersi cura della propria identità, della propria vita spirituale, valorizzando ancor più intensamente l’inestimabile tesoro che la tradizione spirituale cristiana consegna oggi alla Chiesa. Il testo, qui delineato nelle sue strutture portanti, rappresenta davvero uno stimolo fecondo, una forte e affascinante provocazione a continuare a indagare la ricchezza multiforme e sempre sorprendente della spiritualità cristiana, tenendo i piedi ben piantati nel terreno stabile della rivelazione biblica, unico suo vero fondamento. Pierpaolo Arabia Recensioni La prima è relativa al rapporto tra spiritualità e teologia della liberazione. L’A. afferma che quanto è stato ribadito con forza da quei teologi che fanno in qualche modo riferimento a G. Gutiérrez circa l’uomo come fine ultimo della creazione, con al centro la dimensione del lavoro, stimola ulteriormente una ridefinizione della spiritualità nel suo complesso. Tale ridefinizione deve avvenire a partire dall’“altro” come luogo teologico privilegiato. Anzitutto è Dio che per primo deve essere definito a partire dall’“altro”, cioè dall’uomo. Infatti il fondamento della vita spirituale cristiana non è l’Essere per essenza bensì il Dio di Israele e di Gesù Cristo, il Dio della relazione e dell’agape che si esprime perfettamente nell’amore per il povero che Dio ama in ogni uomo. L’ultima considerazione dell’A. è concernente il rapporto tra laicità e confessionalità. Egli afferma che dopo la de-clericalizzazione della santità promossa dal Concilio si rende necessaria anche una sua de-confessionalizzazione per affermarne la piena laicità, in forza dell’acquisizione teologica di una salvezza che è presente anche al di fuori dei confini istituzionali della Chiesa. Una santità che abbia come prin- GIOVANNI RIZZI Il ritorno di Elia Charles De Foucauld, il mormorio leggero dello Spirito nell’Islam Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012 pp. 200, € 20 I l primo capitolo ripercorre la complessa vicenda biografica e spirituale di Ch. De Foucauld fino alla sua uscita dalla Trappa. In essa il leggero mormorio dello Spirito profetico di Elia (cf 1Re 19,12-13) lo spinge su strade ine343 dite per realizzare progressivamente un originale carisma che come tale «rimane unico, irripetibile e improponibile, ma la spiritualità della sua missione verso l’islam può essere oggi una vera strada da seguire nella Chiesa» (35) per rispondere alla sfida della presenza dell’islam anche in casa nostra. Il secondo capitolo prende in esame il soggiorno presso i tuareg del Sahara, tappa decisiva dell’itinerario di De Foucauld. Qui egli vive come «eremita, sacerdote e missionario tra i mussulmani» (53), animato da una fraternità universale che ha la sua sorgente nella vita nascosta di Gesù, da lui precedentemente scoperta a Nazareth. Tra i tuareg egli sperimenta parecchie tensioni tra vita eremitica ed esigenze apostoliche, una persistente mancanza di compagni e, infine, ripetuti fallimenti nella difficile opera di evangelizzazione dei mussulmani. Questi fallimenti, ben lungi da scoraggiarlo, lasciano al contrario sempre più emergere in lui un progressivo svuotamento di sé animato da un radicale amore per Gesù, che si rivela così essere la ragione ultima e definitiva del suo permanere ed operare tra i tuareg, un amore costantemente nutrito dalla preghiera e dall’adorazione e che si identifica con la santità. Ciò spiega perché «dissodare senza arrivare a seminare, senza neppure desiderare di vedere il frutto della propria fatica era il suo atteggiamento di fondo» (77), consapevole «che non avrebbe visto nessun risultato tangibile della sua dedizione appassionata» (81), destinata ad essere «una preparazione remota, di cui altri si sarebbero avvantaggiati» (85). Ora, «mentre la sua identità di monaco eremita era chiara 344 e restava punto fisso di tutta la sua vicenda spirituale […], l’essere in terra di missione in contesto islamico era oggetto di continua revisione» (100), fino a fare di lui un «Elia che prepara il cuore dei mussulmani e dei cristiani» (ivi). E questo proprio in ragione dell’appassionato desiderio di far conoscere Gesù, un desiderio che non può non interrogarci se dall’universale volontà salvifica di Dio deduciamo erroneamente l’inutilità della missione, e se crediamo ancora «abbastanza alla pienezza di vita portata all’umanità dall’incarnazione del Verbo di Dio» (102). Il terzo capitolo documenta come, in questa appassionata ricerca pastorale, De Foucauld, pur condividendo il pregiudizio del suo tempo che fa dell’occidentalizzazione la premessa dell’evangelizzazione, lo assume all’interno di un’apertura illuminata tale per cui, nell’arco di un decennio, egli diverrà consapevole dei limiti dell’ideologia coloniale francese, al punto che alla fine «l’insuccesso politico e strategico e il fallimento dell’evangelizzazione gli sembrano ormai imminenti» (116). Non a caso, proprio pochi giorni prima di morire, finirà per affermare, in modo oscuramente profetico, che per essere francesi i tuareg avrebbero dovuto prima di tutto essere cristiani. Secondo Rizzi questo complesso e dinamico itinerario è portatore di un messaggio molto attuale per la Chiesa che si interroga sull’evangelizzazione dell’islam. Il cuore di questo messaggio è la testimonianza dell’imprescindibilità di una spiritualità «che si nutre del mistero dell’Eucarestia, del nascondi- mento, della preghiera, della meditazione della Scrittura, che si manifesta nella condivisione quotidiana, attenta, vivace» (118), tutti elementi che verranno attualizzati nel quarto capitolo, all’interno del quale l’A. prende esplicita distanza dalla falsa tesi dell’inutilità dell’evangelizzazione, fondata su «sofismi intellettualistici» (132) e mette in guardia anche dal pericolo di un «eclettismo confusionario» (128). Evitando «una contrapposizione adolescenziale e campanilistica» (143), si tratta invece «di attingere alle più vere e profonde energie della vita in Cristo e di agire di conseguenza» (ib.), con una radicalità che non è altro che quella della santità. La tragica morte di De Foucauld è infatti «un fallimento solo per coloro che non conoscono la vita come risposta a una vocazione specifica da parte del Signore Gesù» (145). Non a caso egli può essere annoverato «tra coloro che hanno contribuito a segnare una svolta metodologica nell’approccio cristiano e scientifico all’islam» (127). Alla fine di questo illuminante studio vi sono alcune appendici tra le quali troviamo, non senza un’impressione di forzata giustapposizione, anche un articolato commento – a tratti anche un po’ ripetitivo – della famosa Lettera dei 138, giudicata come «un primo abbozzo, ancora imperfetto e pieno di lacune, ma gli elementi positivi di novità superano di gran lunga i pur evidenti elementi di perplessità» (235), tanto più che «il suo eventuale fallimento approfondirebbe in modo drammatico quel fossato tra cristiani e mussulmani, che già ora è notevolmente pesante» (238). Mario Imperatori SJ Recensioni BERNARD SESBOÜÉ Salvati per grazia Il dibattito sulla giustificazione dalla Riforma ai nostri giorni EDB, Bologna 2012 pp. 320, € 29,50 G esuita e direttore della nota Storia dei dogmi in 4 voll. (19941996), B. Sesboüé ci offre, con il presente saggio, un’aggiornata sistemazione, ecumenicamente rilevante, sulla teologia della salvezza. Il teologo affronta il tema della salvezza correlato a quello della grazia e analizza, con ampia documentazione, le diverse declinazioni che esso ha conosciuto nel cattolicesimo, nel cristianesimo della Riforma e nell’Ortodossia. La giustificazione per grazia mediante la fede è il tema simbolico che ha separato cattolici e luterani al tempo della Riforma (cf 9). La dottrina è del tutto cristiana, biblicamente fondata nell’insegnamento paolino. Tutti, sia cattolici che protestanti, hanno inteso custodirla nella sua verità e genuinità eppure – ed è questa la situazione paradossale – si è giunti a posizioni di rottura. 345 Di fatto però «la radicalizzazione che ha causato la rottura ha riguardato la Chiesa più che la giustificazione» (9). Dopo un tempo di conflitti, allontanamenti e sclerotizzazione di punti di attrito si è giunti ad una nuova stagione ecumenica, caratterizzata da un accordo fondamentale che in ordine di tempo è testimoniato dalla Dichiarazione comune luterana-cattolica sulla giustificazione. Il saggio di Sesboüé vuole tracciare in maniera sistematica il cammino che va dalla controversia alla riconciliazione. Esso si struttura in due ampie parti. La prima parte si concentra sul confronto tra la prospettiva cattolica e quella luterana. È dato particolarmente spazio alla giustificazione come cuore del cristianesimo di Lutero, alla Confessione di Augsburg (1530) e al Concilio di Trento, con l’analisi dettagliata e il commento dottrinale del Decreto della Sessione VI dell’assise tridentina (cap. IV). La seconda parte testimonia i passi compiuti verso la riconciliazione. L’A. nota che «la giustificazione non sta in primo piano all’interno della controversia: questa è incentrata assai più esplicitamente sulla Chiesa, sui ministeri e sui sacramenti» (147). Partendo dai primi dialoghi teologici sulla giustificazione, con particolare attenzione a K. Barth, H.U. von Balthasar, L. Bouyer, H. Küng e H. Bouillard, il teologo gesuita mette in luce il passaggio da una teologia di controversia a una teologia di dialogo che cerca di «comprendere la dottrina dell’altro e sentire la parte di verità che la anima» (187). Tale passaggio apre la strada ai 346 dialoghi ecumenici che ricevono impulso dal Concilio Vaticano II. Dopo il lungo percorso attraverso i diversi dossier del dibattito plurisecolare sulla giustificazione, la seconda parte si chiude con la questione dell’annuncio del Vangelo della giustificazione in un modo credibile e coraggioso all’uomo post-moderno. Il saggio di Sesboüé è un contributo lodevole al dialogo di verità tra cattolici e luterani. È la testimonianza del desiderio che il cammino di riconciliazione possa continuare a compiere passi avanti verso la piena comunione, sostenuto da un autentico spirito di conversione, di parresia e soprattutto di carità. Non basta il lavoro dei teologi, non bastano gli sforzi degli esperti: «il dialogo teologico non può progredire se non è supportato da uno slancio assai forte di reciproco amore. Carità e verità vanno di pari passo anche per la vita delle comunità cristiane» (273). Il testo può considerarsi come un tentativo di ri-dire con linguaggio nuovo il significato della giustificazione al nostro odierno mondo culturale; esso si rivela come preziosa occasione di dialogo nella convinzione profonda che occorre sempre più ascoltare l’altro. Tra le righe del saggio si legge l’invito dell’A. a cercare con ostinazione e coraggio non più le vie della conciliazione a basso prezzo, ma quelle della riconciliazione autentica dei rispettivi punti di vista, nella speranza che la loro complementarietà è fonte di fecondità e ricchezza (cf 12). Agostino Porreca ROBERTO TAMANTI Corso di morale fondamentale Cittadella, Assisi 2012 pp. 357, € 25,50 o studio è un valido tentativo di presentare i fondamenti della teologia morale mantenendo un impianto classico, ma, allo stesso tempo, avvalendosi di contributi interpretativi interessanti relativi a due grandi problemi dibattuti nell’ambito delle discipline: la morale autonoma e l’opzione fondamentale. L’A. segue l’itinerario della Veritatis splendor e fa di essa un punto di riferimento costante che illumina il cammino intrapreso. Vanno anche menzionati gli interessanti studi relativi alla storia della morale e l’apporto della Sacra Scrittura così rilevante per qualsiasi approfondimento (OT, 16). L’autore predilige due chiavi di lettura nell’ambito della ricerca: la prima riguarda il corretto approccio alla natura umana: «essa è un essere che indica un dover essere, ma è sempre necessaria una mediazione razionale/culturale per cogliere cosa, di ciò che fa parte della natura umana, è indicativo di una vocazione e quindi di un dover essere, e ciò che invece è un semplice dato di fatto, quindi modificabile» (33). La seconda, invece, riguarda l’accoglienza dei dati messi a disposizione della scienza: «non tutto ciò che la scienza e la tecnica mettono a disposizione dell’uomo è ipso facto buono per l’uomo stesso, considerato nella sua integralità. In questa prospettiva la teologia morale deve svolgere una fun- zione critica nei confronti del progresso» (ivi). Nel complesso, l’opera affronta tre grandi temi fondamentali: la legge morale, la coscienza, il peccato. Circa la legge morale, dopo le affermazioni classiche in parte desunte dalla Veritatis splendor, l’aspetto più rilevante sembra essere contenuto nelle considerazioni relative alla morale naturale. L’A. sostiene che «la legge morale naturale è la persona umana stessa, con le sue strutture e le sue finalità tipicamente umane» (132). Da questo punto di vista si comprende bene quanta influenza possa avere questa tesi in ordine alla personalizzazione della teologia morale. Il tema della coscienza è affrontato con equilibrio, ma anche con una certa dose di apertura. «La persona è tenuta, per essere moralmente buona, ad agire secondo la propria coscienza, purché sia retta e certa» (211). E in riferimento ai rapporti con il magistero l’A. sostiene che: «nel caso in cui seguire la propria coscienza retta e certa significhi fare una scelta diversa da quella indicata dal magistero, occorre dire che la persona, pur commettendo oggettivamente un male, propriamente parlando non commette peccato» (230). Non potevano mancare nella disanima dell’A. le affermazioni classi- Recensioni L 347 che sul peccato condite da una certa leggerezza onnicomprensiva relativa alla concezione della “gradualità”. Comunque l’A. riconferma la tesi dell’esortazione Reconciliatio et paenitentia (1984) per cui «fra peccato che distrugge la carità e peccato che uccide la vita soprannaturale non si dà via di mezzo» (327). Circa le complesse discussioni relative all’opzione fondamentale e alla morale autonoma sembra che l’A. abbia una certa comprensione per le dinamiche della scelta umana in sé considerata. In particolare, relativa- mente alla tesi della morale autonoma l’A., rifacendosi in pieno alla Veritatis splendor, boccia senza mezzi termini le prospettive autonomiste. L’opera, nel complesso meditata, equilibrata e multidirezionale segue la via sicura tracciata dalla Veritatis splendor senza tuttavia esimersi da alcune aperture interessanti e degne di ogni considerazione. Per la completezza dell’informazione e per la vastità delle nozioni presentate il lavoro si raccomanda a professori e studenti. Bruno Marra SJ MASSIMO FAGGIOLI Vera Riforma Liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II EDB, Bologna 2013 pp. 192, € 20 L a Sacrosanctum Concilium è un testo fondamentale e un’utile chiave ermeneutica per la comprensione del Concilio Vaticano II e per la riforma che ne è seguita. «Nella storia dell’ermeneutica del Vaticano II, la riforma liturgica sembra soffrire una nemesi – una specie di punizione per aver trascurato i legami tra la costituzione liturgica e l’ermeneutica generale del Vaticano II» (10). L’opera di Faggioli vuole rispondere al bisogno di una riflessione accurata sulla relazione tra la Costituzione liturgica e l’intero risultato del Vaticano II e sul rapporto tra liturgia ed ecclesiologia al Concilio. L’A. accoglie le intuizioni e le idee di 348 G. Dossetti, secondo il quale la SC rappresenta il vero e proprio nucleo ecclesiologico del Vaticano II. Sulla base dell’Eucaristia come norma normans della vita della Chiesa, Dossetti paragona l’ecclesiologia eucaristica della SC ai tratti giuridici della Lumen gentium, vedendo nella SC non solo un’ecclesiologia cronologicamente precedente, ma anche la sua priorità teologica su tutto il corpus del Vaticano II (cf 14). Lo studio è articolato in sei capitoli. Il capitolo I è dedicato alla SC nel contesto dell’ermeneutica globale del Vaticano II. La liturgia ha il suo ruolo nella Chiesa come una theologia prima, un locus theologicus e culmen et fons. Per- che non fa parte materialmente del corpus del Vaticano II, ma appartiene pienamente alle sue finalità, esprime «più chiaramente il tentativo del Vaticano II di fare della Chiesa un “sacramento di riconciliazione” per l’umanità» (96) e consiste in una visione riconciliata e unificante della Chiesa, della vita cristiana, del rapporto Chiesa-mondo. Il capitolo V è dedicato allo studio della relazione tra riforma della liturgia e riforma della Chiesa. Una riforma liturgica che ridisegna la forma della celebrazione dell’Eucaristia, sacramento che fa la Chiesa, rappresenta e anticipa una grande riforma della Chiesa. La riforma liturgica presume l’idea di una Chiesa semper reformanda, in cui «l’Eucaristia, non una particolare interpretazione ecclesiologica, è la forza trainante della comunione» (132). L’ultimo capitolo considera la ricezione della riforma liturgica del Vaticano II a cinquant’anni dalla sua conclusione. Molto spesso la riforma liturgica è diventata la prima vittima, in uno sbalorditivo esempio di relativismo teologico, degli sforzi di minimizzare l’aggiornamento del Vaticano II (cf 157). Il saggio di Faggioli aiuta a leggere in profondità la portata teologica della riforma liturgica. «La liturgia del Vaticano II è costituzionalmente necessaria per la sopravvivenza teologica del Vaticano II. Annullare la riforma liturgica del Vaticano II porta allo smantellamento della Chiesa del Vaticano II» (160). Con il suo studio, l’A. ha sottolineato l’importanza di comprendere sempre più chiaramente le profonde connessioni tra riforma li- Recensioni ciò l’A. delinea il cammino del suo studio: la SC è il frutto precoce e al tempo stesso maturo di un Concilio basato sull’idea che: 1) il ressourcement è la fonte più potente ed efficace di aggiornamento e di riforma per il cattolicesimo globale nel mondo moderno; 2) la riforma liturgica dà l’avvio a un ripensamento dell’ecclesiologia in un modo più profondo e duraturo della definizione di Chiesa nella LG; 3) l’ecclesiologia eucaristica della SC fornisce le basi per l’atteggiamento fondamentale del Vaticano II, il cosiddetto rapprochement, dentro e fuori la Chiesa; 4) ressourcement, ecclesiologia eucaristica e rapprochement richiedono una spinta per una piena attuazione del Vaticano II (cf 24-25). Il capitolo II affronta il rapporto tra riforma liturgica e il ressourcement. Per il Vaticano II il ressourcement rappresenta la forza centrale, seppur nascosta, della riforma liturgica (cf 36). Il capitolo III è consacrato alla relazione tra riforma liturgica ed ecclesiologia. La tesi che l’A. porta avanti è che la riforma liturgica è parte dell’ecclesiologia del Vaticano II, per cui mettere in discussione questa riforma è il modo più sicuro possibile per annullare il Vaticano II e la sua ecclesiologia (cf 63). I cambiamenti ecclesiologici più importanti operati dalla SC inaugurano il passaggio da un’ecclesiologia giuridica a una fondata sulla comunione, e una nuova comprensione del sacerdozio da un modello sacrale a uno più sacramentale. Nel capitolo IV l’attenzione è posta sul rapporto tra riforma liturgica e rapprochement. Il concetto di rapprochement, 349 turgica, riforma della Chiesa e teologia del Vaticano II nella sua totalità. Contro ogni tentativo ideologico e nostalgico di delegittimazione della riforma liturgica del Vaticano II, a 50 anni dall’evento del Vaticano II, 350 occorre ricordare le profonde implicazioni teologiche della SC, diventata il simbolo del concilio stesso, capace di ricostruire il legame vitale tra teologia, liturgia e vita della Chiesa. Agostino Porreca