Recensioni - Rassegna di Teologia

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Recensioni - Rassegna di Teologia
MAURIZIO ALIOTTA
Reciprocità di genere
Temi, storia, teologia
Cittadella, Assisi 2012
pp. 134, € 13,50
oggetto del volume, come afferma l’A. nell’introduzione, «non è
lo studio della sessualità o della corporeità o della relazione donna-uomo
in quanto tale. Si vorrebbe invece raggiungere un obiettivo più circoscritto:
considerare la relazione da un punto
di vista particolare, precisamente
quello della sua qualità» (5-6).
Il saggio è diviso in cinque parti.
Il corposo impianto storico-antropologico delinea con particolare competenza e rigore come, lungo i secoli,
la riflessione antropologica si sia sviluppata e come gli esiti delle scienze
umane abbiano contribuito, da una
parte, a segnalare aspetti nuovi della
realtà sessuale e, dall’altro, a evidenziare i molteplici e complessi condizionamenti cui essa soggiace. Tuttavia,
quanto più la sessualità è fatta oggetto
di analisi scientifica, tanto più emerge
nella sua profonda enigmaticità.
Purtroppo l’odierno contesto culturale, sempre più incline a ridurre
l’affetto a emozione e la ragione a
calcolo, determina una razionalità
astratta senza eros e un’affettività narcisistica senza legami, che minacciano l’unità dell’esperienza, la ricchezza delle relazioni, la realtà familiare,
l’affidabilità sociale. Nel rapporto
tra corporeità e dimensione spirituale, dove sono implicate l’identità dei
soggetti e la capacità di relazione, c’è
uno dei nodi antropologici dell’Occidente. «Le contrapposizioni – afferma
l’A. – tra biologico e spirituale nascono da un dualismo fondamentale che
regge la Weltanschauung della cultura
eurocentrica, che considera la mente
separata dal corpo […]. Vige la logica del dominio e della superiorità.
Questa persistente dicotomia dell’antropologia contemporanea è la ripresa
della dicotomia espressa in termini
classici da Platone» (100).
È possibile una diversa visione del
rapporto donna-uomo nel quale trovino sintesi il sentire e il pensare, il
coinvolgimento e il giudizio, il patire
e l’agire? A queste e a molte altre domande l’A. risponde attraverso l’indagine storica e la riflessione sistematica, per dimostrare come sia possibile
la coesistenza di gratuità e reciprocità
nella relazione tra donna e uomo. Nel
testo si osserva che i rapporti tra donna e uomo sono caratterizzati da un
esercizio di potere che si traduce in un
dominio dell’uno sull’altra (cf 55).
Aliotta considera le ragioni teologiche che per secoli hanno giustificato la subordinazione della donna
all’uomo e valuta i processi storici che,
soprattutto nell’ultimo secolo, hanno determinato un mutamento della
coscienza e dei vissuti. «Reciprocità è
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L’
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diventata la parola chiave per indicare il cambiamento, anche se in realtà
non è semplice definire cosa esattamente si intenda con essa. Si tratta, in
ogni caso, del tentativo di attribuire
alla persona, maschio o femmina, il
mistero della convivenza di unicità e
relazionalità, uguaglianza e differenza, comunione e distanza, dimensioni la cui apparente contraddittorietà
rimanda appunto all’essere immagini
di qualcos’altro e non realtà autonome e autosufficienti. L’indefinibilità
del concetto di reciprocità è evidente
per lo stesso rimando analogico al Dio
trinitario» (62).
Anche l’odierna esegesi biblica si
muove su questa linea interpretativa.
Le pagine bibliche non sono voce né
di una ideologia, né di una metafisica.
Esse non ci danno prove, ma dei segni
nel loro svolgimento storico, dinamico
e simbolico. Il più antico racconto della creazione, mostrando il rapporto fra
l’uomo e Dio, ci dà un annuncio sulla sessualità, iscritta nel corpo dell’umano. Tra l’uomo e la donna non c’è
nessun rapporto di sottomissione, di
dominio, ma di corresponsabilità nei
confronti del creato. «Proprio nella
differenza sessuale, iscritta nel progetto del Creatore nella natura umana, vi
è un riflesso della vita divina, vita di
relazione, di comunione» (84).
Ma il peccato crea tensione tra
Dio e l’uomo, e la relazione passa attraverso dominio e odio fra i sessi. «Il
poema biblico che canta l’amore tra
donna e uomo, come segno dell’amore di Dio per il suo popolo, il Cantico
dei cantici, riporta le cose al progetto
originario di Dio. L’amore umano è
inserito nel contesto del dialogo e della reciprocità» (65).
Quest’opera, il cui ricco apparato
di note ne completa lo studio, ci aiuta a capire con quali strumenti critici,
con quale nuovo universo culturale,
con quali fondamenti etici guardiamo
al tema del rapporto donna-uomo da
cittadini e da credenti. Un libro su
cui meditare con attenzione perché ci
propone una lettura essenziale, rigorosa ed esauriente con la chiarezza di
cui abbiamo bisogno.
Tina Buccheri
PIETRO BOVATI – PASQUALE BASTA
«Ci ha parlato per mezzo dei profeti»
Ermeneutica biblica
San Paolo – Gregorian & Biblical Press
Cinisello Balsamo (MI) 2012, pp. 366, € 26
G
li antichi Greci avevano dato
forma a un diffuso e collaudato
convincimento, che cioè tra la divinità e l’umanità doveva essere possibile,
anzi necessaria, una comprensibile
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modalità comunicativa. Il dio Ermes,
figlio di Zeus e di Maia, faceva all’uopo: messaggero degli dèi e assai benevolo agli uomini. Questi si dotò di
particolare abilità per svolgere la sua
tà di sfrondare e potare quanto risulti
ormai superfluo o storicamente superato, salvo poi innestare su basi più
solide» (330). Perché deve sfrondare e
potare? Non certo per un’insana passione nei riguardi della pars destruens,
ma molto più semplicemente perché i
contesti in cui opera la teologia e l’esegesi mutano, e il contesto attuale che
non può essere trascurato «impone
un dialogo con alcune istanze tipiche
dell’uomo contemporaneo, sempre
più in ricerca di un confronto, non
più solo diffidente, tra la Bibbia e l’oggi, tra scienza e fede, tra rivelazione
e pensiero filosofico» (330). Per dirla
con slogan di immediata fruizione,
nella Bibbia tra il “non è vero nulla” di
uno scientismo di bassa lega, che purtroppo torna ad occupare imperioso la
scena, e il “tutto è vero” dell’assunzione come puro dato di fede, si colloca
un’ermeneutica che ha ben chiara la
propria natura al di là delle sue applicazioni e, nello specifico, un’ermeneutica biblica che deve «necessariamente
acquisire categorie solide, tali da poter
resistere all’impatto che le proviene di
volta in volta dalla scienza o dal pensiero laicista» (332). Un’ermeneutica
che deve comunque provare ad entrare in dialogo con tali istanze, per
non rimanere confinata in un ambito
di poco peso o addirittura emarginata perché tacciata di mediocrità. Difatti, è preferibile evitare l’esclusività
dell’ambito scientifico o di quello religioso, recuperando semmai il giusto
spazio delle istanze fenomenologiche,
quelle cioè che muovono dallo stesso
dato biblico. Insomma, non semplicisticamente un modello teorico di
lettura preoccupato di “giustificare”
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delicata missione e, munito di sandali
alati ai piedi, vinceva gli ostacoli frapposti giungendo all’obiettivo. La possibilità di comunicazione tra sfere diverse e impari era salva e, al di là della
mitologia, la possibilità di comprendere il rapporto tra realtà conosciuta
e soggetto conoscente, pur tra rischi,
diventava fattibile, senza prevaricazione dell’una sull’altro e viceversa.
Mutuando da questa icona pagana, è sostanzialmente così che va immaginato il lavoro, piuttosto arduo,
dell’erme-neuta e, senza essere frainteso, anche dell’ermeneuta biblico, il
quale non va subito assimilato all’esegeta tout court, che «pazientemente
ricostruisce e interpreta» (329) o al
teologo in senso classico, che «dogmaticamente ragiona» (329). Chi è allora? È colui che, dovendo assumere un
atteggiamento onnicomprensivo e, in
questo caso, c’è di mezzo la comprensione unitaria della Bibbia, potremmo
dire l’assunzione dell’atteggiamento di
sintesi, enuncia «le condizioni di possibilità e il senso dell’interpretazione
stessa» (7) di un testo scritto specialissimo, assai complesso e sacro qual è la
Bibbia, che proprio per la sua straordinaria ricchezza si presta a molteplici
interpretazioni, all’“interpretazione
infinita”. Nel panorama della ricerca
l’ermeneuta si pone al suo cominciamento e alla sua terminazione quale
vaglio critico tanto degli assunti dogmatici del teologo, quanto dei metodi utilizzati man mano dall’esegeta.
L’ermeneutica biblica, dunque, riflette
sul procedere metodologico dell’esegeta,
detta i principi per una corretta assunzione dell’arte di interpretare e punta
su una sorta di «indispensabile capaci-
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la Bibbia: la veridicità della Scrittura,
in quanto parte sacra, non ha bisogno
di essere giustificata, ma un contributo perché essa sia finalmente «liberata
del tutto per quel che concerne il suo
infinito potenziale di senso» (332).
Va riconosciuto il merito a P. Bovati
e P. Basta, docenti al Pontificio Istituto Biblico di Roma, per aver pensato, quale frutto del loro collaudato
insegnamento, al presente testo. Pur
collocandosi nella scia di nomi monumentali quali A. Bea, A. Schökel,
P. Grech, la pretesa degli autori (cf 11
e 332) è di aver prodotto un testo a
mo’ di unicum dentro la scarsità di
pubblicazioni sull’argomento, almeno
in ambito italiano, o quanto meno un
novum, giacché il format del volume
prende il piglio non del “contenitore” che giustappone ingenuamente le
posizioni di due studiosi, bensì del
“dittico” composto, sì, a più mani ma
con un’unica indole. I suoi pannelli
infatti sono in armonica continuità,
per l’esattezza sono stati concepiti in
una geniale complementarietà: «L’ispirazione (profetica)» è il titolo della
parte scritta da Bovati, la prima (4 capitoli [15-177]), mentre Basta titola la
sua parte, cioè la seconda (una breve
introduzione e 4 capitoli [179-332]),
«L’interpretazione del testo profetico».
Bovati, nelle ultime battute del suo
lavoro (174-177), solleva le problematiche ermeneutiche specifiche derivate
dall’assunzione della modalità della
rivelazione sotto forma scritta (il testo
scritto, il lettore dello scritto, la tradizione che consegna lo scritto) a mo’
di «semplice transizione alla seconda
parte di questo volume, consacrata
all’interpretazione» (174, cf 30), e Ba320
sta, dal canto suo, esordisce proprio
ricordando la lunga riflessione «sul
Dio della verità che parla nella Bibbia
(oggetto)», condotta nella prima parte
del saggio (181).
Bovati, a partire da una prospettiva antropologica e teologica all’atto di
lettura della Bibbia (non a caso titola il
primo capitolo «Dal desiderio alla Rivelazione», ossia dal desiderio di verità
nell’uomo al volere eterno di Dio di
rivelare se stesso), si impegna a chiarire lo statuto epistemologico del profeta,
della sua parola consegnata allo scritto,
nel quadro della problematica legata
all’ispirazione («l’ispirazione determina l’atto profetico, la profezia è perciò
ispirata» [41]) che dice, a sua volta, il
primato dell’iniziativa divina: è Dio
che va incontro all’uomo manifestandosi nella parola del profeta. «È questo, essenzialmente, lo statuto profetico,
per il quale parola umana e parola di
Dio sono intimamente congiunte; la
mediazione profetica, difficile da tematizzare, costituisce la prima e fondamentale questione ermeneutica che
vogliamo affrontare» (40). Tutto il discorso di Bovati ruota dunque attorno al modello profetico per esprimere
il rivelarsi di Dio all’uomo, ove va da
sé che il concetto di parola stia al centro, parola raccolta nel testo scritto da
considerarsi ispirato (la qualità divina
della parola scritturistica), cosa notevole anche per l’esegeta che di fatto ha
trascurato a vantaggio di competenze
filologiche, storiche e letterarie. Giustamente «il presupposto di fede […]
non può essere sospeso o negato nell’esercizio interpretativo» (42), per un’esplicita esegesi credente. Nel secondo
capitolo perciò, dove l’argomentazio-
lodevole nella modalità di procedere
consiste nel fatto che le pagine sono
trapunte di domande: ce ne sono più
di 100 e indicano prospettive, indirizzano i possibili approfondimenti. Del
resto si sa che porre domande intelligenti è più difficile che dare risposte
banali. Adesso è la volta di ragionare sul destinatario, il noi umano, sul
soggetto che riceve e comprende quella
parola divina nella Scrittura interpretandola. Meritevolmente l’A. riporta
in primo piano la figura del lettore,
appunto il soggetto che, leggendo,
deve anche capire ciò che legge o
essere messo in grado di farlo. Si ricordi il ministro di Candace, regina
di Etiopia (cf At 8,30-31). Il lettore
non è né va considerato un semplice
recettore passivo. Ha il suo peso questa puntualizzazione troppo spesso,
forse, data per scontata. Da qualche
decennio, infatti, ha preso corpo una
corrente di critica letteraria detta proprio “critica della risposta del lettore”
(Reader-Response Criticism) che, spingendosi, arriva ad affermare che il lavoro letterario esiste solo nell’“atto di
lettura”. Senza negare l’oggettività del
processo di lettura, questa corrente
critica mette l’accento sul ruolo del
lettore (virtuale o implicito) e sulla
sua partecipazione attiva alla “costruzione” del senso del testo. E questo in
reazione alla corrente del New Criticism che insiste su un approccio puramente oggettivo all’opera scritta: il
testo, cioè, è più importante dell’autore e del lettore. Invece «il lettore
della Bibbia è presente nell’atto stesso della Scrittura trasmessa» (181), e
ancora: il lettore-tipo è ispirato, ossia
dotato dello stesso Spirito col quale lo
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ne si fa piacevole, l’autore si dilunga sulla spiegazione dell’ispirazione
profetica. Un simile approccio non è
consueto nei manuali di ermeneutica
biblica, pur essendo stato abituale per
più di 1500 anni nei trattati di teologia, e Bovati intende recuperarlo per
delle ragioni basilari (45-47). Il terzo
capitolo, poi, si occupa di chiarire la
natura, l’autorevolezza e la testimonianza del profeta e di illustrare quali
siano secondo la Bibbia i criteri per
discernere il vero dal falso “uomo di
Dio”. Interessante, infine, è il quarto
capitolo che sottolinea l’autorità dello scritto profetico, cioè il testo sacro.
Scrive l’A.: «La capacità di discernere e
di “giudicare”, donata alla Chiesa, ha
fatto sì che potesse essere accolta come
Parola di Dio non solo l’attestazione di
chi si presentava esplicitamente come
profeta, ma anche il lascito letterario,
costituito da discorsi e racconti, di varia natura, nei quali la comunità credente ha ravvisato la medesima qualità
ispirata dei testi profetici» (138), e ancora: «Se la Parola, trasmessa oralmente, supponeva, per essere riconosciuta,
un dono dello Spirito presente nell’ascoltatore, la medesima Parola fatta
libro postula nel lettore un’identica
condizione spirituale, per poter essere
capita, amata e seguita» (146).
Nella seconda parte del saggio,
chi legge si trova spesso acutamente
provocato e l’intenzione di Basta pare
stare proprio nel proposito di non
stabilire de-finizioni, oltre a quelle già
esistenti e da assumere come insindacabile patrimonio dottrinale, quanto
piuttosto di mantenere aperta la ricerca su quest’ultimo per meglio presentarlo ai contemporanei. Un esempio
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scrittore sacro ha scritto, ed è competente secondo metodologie adeguate
che approcciano il testo santo. Egli è
soprattutto non riducibile al singolo
credente ma coincide con la comunità
ecclesiale all’interno di un processo di
trasmissione viva, efficace e vitale.
In quattro capitoli (dal V all’VIII)
Basta tenta così di determinare innanzitutto il delicato rapporto tra Scrittura
e Tradizione (187-225) e, recuperando
l’esempio ebraico di Torah scritta e Torah orale, riproponendo la validissima
dottrina della Dei Verbum (nn. 7-9),
marca la loro reciprocità di dipendenza alludendo al modello del circolo
ermeneutico. L’A. passa poi alle parti
che sono da valutare come canoniche e
quindi normative (226-265), allargando però il discorso alla totalità quale
principio fondamentale dell’interpretazione per giungere così a una accettabile teologia biblica, e biasimando,
se così si può dire, la tentazione e il
continuo tentativo di “parcellizzare”.
È dunque la volta dell’inerranza della
Bibbia, ossia della sua pretesa di verità
(266-302): come intenderla? Senza naturalmente perdere di vista il suo colle-
gamento con il grande tema dell’ispirazione, l’autore ne scandaglia i livelli
di problematicità, mostrando come
la verità di Dio si consegni all’interno
dell’errore umano: la salutaris veritas
nella parola storica. Infine, è spiegato
secondo quali sensi il testo sacro chiede di essere interpretato (303-327),
ribadendo che, nonostante i limiti specialmente nella realizzazione e dettati
dal momento storico, naturalmente
perfettibili mediante nuovi linguaggi e
più specifiche metodologie, il tentativo degli antichi di stabilire dei rapporti
tra la lettera e lo spirito, la profezia e il
compimento, la figura e la realtà, l’antico e il nuovo, è ancora valido.
Concludendo, la affabulazione didatticamente ferrata fa dell’opera (interamente considerata) un autentico
“manuale” di ermeneutica biblica e
con ciò non se ne fa certo una diminutio, giacché il libro è in grado di andare incontro non solo alle esigenze di
studenti che si accostano per la prima
volta alla problematica, ma anche a chi
è già addentro alla questione e chiede il
modo migliore per sistematizzarla.
Vincenzo Appella
EUGENIO CAPEZZUTO
La molteplicità condivisa
L’empatia come cognizione sociale
Diogene Edizioni, Pomigliano d’Arco 2012
pp. 148, € 20
L
a filosofia della mente, all’interno
dell’orizzonte delle scienze cognitive (in particolare, la psicologia so-
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ciale), procede oggi in stretto dialogo
con le neuroscienze per studiare, sotto
nuove angolazioni, antichi problemi
to, sul piano filosofico, con i risultati
della psicologia cognitiva e della neuro-fisiologia, o anche con gli apporti
della neuro-imaging non invasiva («risonanza magnetica funzionale o fmri,
magnetoencefalografia o meg, tomografia ad emissione di positroni o pet,
e altre»: 17), mette i filosofi – come
fanno queste pagine di Capezzuto,
che valorizzano tutti i principali studi
susseguitisi al caso clinico di Ph. Gage
(l’operaio sopravvissuto ad un forte
trauma cranico ai lobi frontali del cervello: cf 23) – in condizione di valutare i possibili esiti teoretici degli esperimenti neuropercettivi. Emblematici
gli esperimenti sui neuroni-specchio
ed i neuroni premotori, che G. Rizzolatti e il suo gruppo – neurofisiologi
dell’Università di Parma che per primi
hanno scoperto i neuroni-specchio –
hanno descritto come «attivati non
durante l’esecuzione di semplici movimenti, ma di azioni» (111). Tutto ciò
consente di precisare sempre meglio
non soltanto cosa significhi percepire
un oggetto da parte di un soggetto e
delle sue aree cerebrali, ma di aprire
nuovi scenari agli studi, inaugurati
da Th. Lipps sulle basi neurobiologiche dell’empatia. Un tema-problema
quello dell’empatia che, a partire da
E. Stein, diviene, in discontinuità con
E. Husserl che la riteneva ancora un
enigma, un «problema completamente autonomo dalla sua complessa e
ambigua storia» (37). Rilanciato da
alcuni psicoanalisti post-freudiani,
questo tema dell’empatia, grazie agli
studi «riguardanti il sistema mirror,
ossia il meccanismo non cognitivistico di risonanza immediata, di corrispondenza tra l’io e l’altro» (38), oltre
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cruciali, quali quello del rapporto tra
mondo e organismo percettivo (fratturato almeno a partire dalla teorizzazione cartesiana delle due res), oppure
quello della Mindreading (cf Introduzione, 7-11, qui 7). Procedendo con
i suoi specifici oggetti e termini tecnici (illustrati ampiamente nel primo
capitolo di questo volume, 13-36),
tale filosofia affronta, su nuove basi
sperimentali, il tradizionale tema del
rapporto tra soggetto e oggetto nella
fase della percezione sensibile e immaginativa, integrando (anche in un
possibile modello unitario, come accade per il perception-action model di
S.D. Preston e F.B.M de Waal: cf 63)
su base neurofisiologica i due sistemi
distinti del percettivo e del motorio
nel controllo dell’azione, per cui il
corpo ed i suoi movimenti non sono
più delle entità inferiori rispetto alla
mente. Nuova luce ricevono anche
il problema dell’autocoscienza e del
ruolo del sistema neuro-cerebrale
nella produzione, ad esempio, della rappresentazione cosciente; come
pure quello dell’intelligenza sociale,
per cui la specie umana riesce ad operare la lettura della mente altrui, riconoscendo le intenzioni e le emozioni
altrui non soltanto nella tradizionale
linea dei simboli e delle rappresentazioni, ma anche dei meccanismi
nervosi condivisi. In merito, la nozione di “trasparenza” viene, in studi di
questo tipo, invocata spesso per indicare, appunto, che la rappresentazione cosciente «è trasparente quando il
sistema che la utilizza non può, affidandosi alla sola introspezione, riconoscerla come rappresentazione» (81,
n. 14). Il procedere in stretto contat-
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alle connotazioni filosofico-fenomenologiche steiniane che ne facevano,
inizialmente, un atto con cui ci si
rende conto dell’altro (44) e, infine,
lo caratterizzavano come il sentirsi
interiormente toccato dall’altro soprattutto se egli soffre (55), acquisisce oggi una consistenza sperimentale
notevole, dando ragione alle prime
osservazioni teoretiche di Lipps, il
quale aveva appunto parlato di empatia «per descrivere la relazione che si
stabilisce tra un’opera d’arte e il suo
osservatore» (39). In merito, se l’approccio ecologico di J. Gibson induce
ad affermare «una nozione di soggetto sempre meno segregato rispetto al
mondo che abita» (112), quello di V.
Gallese insiste, a sua volta, nel sottolineare «il ruolo attivo dell’azione nel
determinare il processo di significazione del mondo» (113), mentre il
concetto di exaptation, proposto da
S.J. Gould e R.C. Lewontin, segnala
che le caratteristiche mentali utilizzano «in forma nuova risorse che erano
state selezionate per un altro scopo»
(114). Questo permette non soltanto,
come mostra nei suoi cinque capitoli
questo volume, di «ridefinire la triade
percezione, azione e oggetto in un’ottica nuova», ma anche di «riformulare
il problema della qualità fenomenica
delle diverse sensazioni/percezioni»
(114). Esse appaiono infatti non riducibili a flussi che accadono nella
via sensoriale, ma risultano integrate
in modo sensorio-motorio nella dinamica della mente, una modalità «più
procedurale che strutturale» (114).
In estrema sintesi, il dialogo tra filosofia e neuroscienze, soprattutto
grazie alla dimostrazione delle basi
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neurologiche dell’empatia (cf terzo
capitolo, 57-74), infligge un ulteriore
colpo ai riduzionismi meccanicistici
del processo della percezione sensibile umana, che certamente non è più
definibile come prodotto di processi
che avvengono nel cervello, ma richiedono, come scritto dallo psicologo K. O’Regan, una visione più
globale del rapporto tra mondo ed
organismo (cf 115). Cadono, così, in
primo luogo gli assunti del cognitivismo classico, per il quale il cervello
sarebbe un organo computazionale,
e per di più quasi divaricato rispetto
alla mente. Si relativizzano altresì gli
entusiasmi succedutisi alla scoperta
dei neuroni-specchio, che avevano
fatto sperare ad alcuni di aver quasi scoperto «le basi neurobiologiche
dell’intersoggettività» (27). Piuttosto
che algoritmi computazionali e meccanismi di deduzione logica, servono
dei modelli che si aprano – come suggerisce la Theory of Mind (28) – ad un
senso condiviso, non riducibile a nessi
automatici ed involontari, tra esponenti della specie umana, per cui dei
«meccanismi di simulazione motoria
[…] ci consentono di familiarizzare
con il significato d’azioni, emozioni,
sensazioni esperite dei nostri simili» (8). Meccanismi – provati ormai
come presenti nel cervello umano –,
i quali entrano in gioco «quando si
attivano nel nostro cervello i “neuroni-specchio” (mirror neurons), ovvero
cellule nervose situate in regioni del
nostro sistema motorio fronto-parientale, ogni qualvolta riconosciamo
e comprendiamo le componenti della
cognizione sociale» (8-9).
Pasquale Giustiniani
EDOARDO CIBELLI
Volontà, Libertà e autenticità in Bernard Lonergan
Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012
pp. 216, € 20
A. cerca «di delineare un percorso teoretico centrato sul soggetto
esistenziale» (183), muovendosi nel
solco della proposta metodologica di
B.J.F. Lonergan SJ (1904-1984). Lo
fa esponendo dapprima dettagliatamente il pensiero di Lonergan nelle
prime due Parti del volume. In concreto, la Parte prima (Analisi conoscitiva e metafisica di Lonergan [9-67]) è
dedicata alla gnoseo-metodologia del
filosofo e teologo canadese; la Parte
seconda (La fondazione della possibilità dell’etica, [69-123]) è invece dedicata all’etica). Si approda, infine,
ad una Parte terza (Lo sviluppo umano
integrato, [125-182]), che inserisce il
pensatore esplorato «nel più ampio
contesto teologico di ricerca contemporanea» (163) e, per quanto riguarda
la teologia fondamentale, lo assimila
alla caratterizzazione che, di questa
disciplina, ha dato H. Verweyen (cf
177, n. 47). In definitiva, ad avviso
dell’A., «la proposta lonerganiana si
inserisce […] nel più ampio dibattito
contemporaneo filosofico, teologico e
finanche scientifico con un recupero
del realismo critico» (184).
Il percorso del volume è chiaro e
lineare, come ben mostrano le periodiche sintesi nel procedere delle pagine. In primo luogo, quindi, si procede
ad una ricostruzione storico-culturale
della biografia intellettuale di Lonergan, un pensatore molto frequentato
dagli studiosi anglofoni ma, purtroppo, non molto presente nell’area italiana, sebbene abbia insegnato per
diversi anni teologia all’Università
Gregoriana. In secondo luogo, si propone un esame della peculiare teoria
conoscitiva del metodologo e teologo
(ma anche filosofo ed economista)
canadese, «che consente di stabilire la
centralità del soggetto conoscente, del
suo processo di auto-appropriazione,
delle attività del processo cognitivo
che conducono il soggetto stesso alla
scoperta della metafisica dell’essere
proporzionato all’umano conoscere e
alla successiva formulazione delle domande alle quali poter trovare risposte cognitivamente elaborate» (191),
compresa «la domanda sull’essere
trascendente» (106), ovvero sull’itinerarium mentis in Deum. In merito a
questo punto, Cibelli si dichiara convinto che i recenti studi neuroscientifici – soprattutto di B. Libet (cf 161)
– su emozioni e sentimenti rappresentino una sorta di conferma empirica
all’analisi lonerganiana sul dinamismo
intenzionale della coscienza nel suo
procedere (cf 153, n. 99). Inoltre, viene effettuata l’analisi critica della fon-
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L’
325
dazione lonerganiana della possibilità
di un’etica, che appare «fondata sulla
decisione responsabile del soggetto,
conseguente a giudizi di fatto e di valore» (192); in merito, estendendo il
principio dell’isomorfismo tra le strutture che definiscono il conoscere ed il
conosciuto, Cibelli è ugualmente convinto che Lonergan riesca a caratterizzare l’etica come un ambito fondato
sui giudizi di valore (cf 89, n. 36).
E veniamo a qualche aspetto specifico delle tre ricche e documentate
Parti del volume in esame.
Nella Prima, dedicata all’analisi
conoscitiva e metafisica degli scritti
di Lonergan (sia in originale, sia, se
disponibili, nella versione italiana), lo
studioso canadese viene caratterizzato, in sintesi, come un pensatore che,
nell’alveo della tradizione medievale e
scolastica, si ritaglia un suo specifico
ruolo, centrato sul «controllo metodologico» (cf 16) della teoria conoscitiva umana (in primo piano, tuttavia,
non sono più i principi primi della logica tradizionale, quanto il «dinamismo intenzionale della coscienza» [cf
39]). Tale controllo, a sua volta, appare funzionale all’elaborazione di un
metodo che, in definitiva, si configura
come un “metodo generalizzato”, cioè
applicabile a tutte le scienze, sia dello spirito che della natura, comprese
le discipline teologiche. La teologia,
pur nell’articolazione delle sue varie
parti o discipline, viene da Lonergan
concepita, infatti, come «un’unità
dinamica di parti interdipendenti»,
che il monumentale Method (edito
nel 1972) identificherà esattamente in otto “specialità” (quattro per la
theologia in oratione obliqua e quat326
tro per la theologia in oratione recta).
In tal modo, in Insight (edito nel
1957) – come in una sorta di primo
capitolo di un’impresa più vasta, che
approderà agli sviluppi di Method)
–, Lonergan esamina la cosiddetta
intellezione (Cibelli accoglie questa
nuova proposta di traduzione di S.
Muratore e N. Spaccapelo che appare nella nuova traduzione di Insight
del 2007). Insight, tuttavia, in quanto
intellezione, è sia attività conoscitiva
che conoscenza, miranti entrambe a
rispondere alle seguenti famose domande connesse: «Che cosa sto facendo quando conosco? Perché il fare
questo è conoscere? Che cosa conosco
quando faccio questo?» (49). L’uso
di un metodo, detto anche “genetico”, permetterebbe appunto di comprendere «lo sviluppo degli schemi
di ricorrenza che avvengono a livello
organico, psichico e intellettuale» nel
dinamismo intenzionale umano (53,
n. 54), fino a ritrovare che, nel processo del comprendere, un “metodo
empirico” viene dal soggetto applicato, non soltanto ai dati di senso (come
sostenevano l’empirismo e il metodo
scientifico moderno), ma anche ai
“dati di coscienza” (cf 53, n. 53), con
la conseguenza che si darebbe altresì
un “metodo empirico generalizzato”.
In tal modo, «lo studio del processo
cognitivo diviene – chiosa Cibelli – la
base filosofica sulla quale innestare la
proposta metodologica» (59), in vista
di un “metodo trascendentale”, applicabile, tra l’altro, anche alla teologia,
come diversi decenni dopo leggeremo
formalmente in Method.
Nella seconda Parte del volume,
l’esame di Cibelli, condotto anch’esso
latente verso il compimento di una
metafisica esplicita, attraverso la quale
può sollevare la domanda esplicita circa l’esistenza del formalmente incondizionato» (109). Tale incondizionato
viene fatto, da Lonergan, coincidere
con il Dio ricercato nella tradizione
tomista, non senza l’approdo alla controversa problematica della “giustificazione” del male incolpevole (che Lonergan cerca di risolvere, distinguendo
tra male fisico, male morale e peccato
fondamentale [cf 111]).
Si giunge così alla terza Parte del
bel volume, nella quale Cibelli, guidato da buoni maestri come S. Muratore e C. Taddei Ferretti, mostra come
«sia possibile un’integrazione più alta
del vivere umano» (127) di volontà,
libertà e autenticità; ma, in particolare (cf 163-193), cerca di collocare la
proposta metodologica di Lonergan
nello sforzo contemporaneo per portare la teologia cattolica all’altezza del
suo tempo, soprattutto nel suo versante teologico-fondamentale.
Pasquale Giustiniani
Recensioni
su una selezionata bibliografia primaria e secondaria (cf 197-210), riguarda
la fondazione, in Lonergan, della possibilità di un’etica: fase, questa, successiva alla fondazione della possibilità
della metafisica. Gli oggettivi influssi
dell’esistenzialismo e della fenomenologia (in particolare di M. Scheler
e D. von Hildebrand) conducono il
canadese alla significativa proposta
“dell’autenticità esistenziale”. L’etica risulta fondata da Lonergan dopo
«una previa elaborazione di alcune
nozioni quali, ad esempio, il bene,
la volontà, il valore e la libertà» (79),
riformulate, però, a debita distanza
«dalla visione kantiana e da visioni
freudiane» (87). In definitiva, «come
i principi della metafisica, così anche i
principi etici sono insiti nella struttura
del nostro stesso conoscere» (91) che,
tuttavia, non è chiuso nei limiti della
pura ragione, bensì aperto al trascendente, come si può verificare soprattutto nella formulazione della domanda su Dio, allorché «la mente umana
è spinta ad oltrepassare una metafisica
NICOLA CIOLA
Gesù Cristo Figlio di Dio
I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione
ecclesiale
Borla, Roma 2012
pp. 627, € 48
I
l presente saggio è diviso in tre parti,
così articolate: il profilo epistemologico della cristologia, la vicenda di
Gesù di Nazareth nel suo intreccio tra
fede e storia e gli sviluppi della cristologia ecclesiale. Nella prima parte, l’A.
esamina il rapporto fede-storia, segnalando pregi e difetti dell’attuale “terza
ricerca”. Nonostante siano dedicate
all’argomento non poche pagine, Ciola non indica quale sia il significato
di “storia”, limitandosi ad affermare
327
che essa è un concetto aperto ad un
“senso” e non va intesa in modo positivistico-scientista, per cui ha un legame con la fede. Sarebbe stato utile
richiamare qualche aspetto del dibattito odierno, dove emerge che la storia acquista senso in quanto “luogo”
in cui emerge l’uomo quale soggetto
che tenta di comprendere la propria
identità e nutre una profonda aspirazione a salvarsi, mentre sperimenta
l’impossibilità di riuscirci autonomamente. È in questo orizzonte che si
colloca la lettura cristiana della storia,
il cui momento culminante è l’ingresso personale di Dio nel cuore dell’umanità. Il percorso metodologico si
apre su varie prospettive che Ciola approfondisce in altrettante tematiche.
È nel ritmo pasquale come legge della
storia dell’era cristiana che si innesta
tutta la novità del Dio di Gesù Cristo:
l’amore assoluto di Dio è Amore trinitario e «la Trinità delle persone è il
fondamento ultimo della rivelazione
della Croce» (116). Opportuno sarebbe stato anche evidenziare che il ritmo pasquale mantiene intatta la stessa
forza dialettica della croce, nella quale
si riflettono il dramma dell’umanità
nel suo rifiuto della forza risanatrice
proveniente dalla verità di luce e dalla
stessa dimensione agapica e l’annuncio della forza della fede che ha vinto
il mondo. L’A. completa il discorso
presentando la dimensione cristologica in prospettiva universale, tra escatologia, pneumatologia e protologia. Se è
nel quadro trinitario che va collocata
ogni affermazione della singolarità,
unicità, assolutezza della mediazione
universale e salvifica di Gesù Cristo,
esso costituisce la vera base di dialogo
328
del cristianesimo con le altre credenze religiose. Tuttavia, è sempre utile
ricordare che l’interazione tra escatologia, pneumatologia e protologia
nella dimensione cristologica ha quale
“perno” la questione della “Persona in
Dio”: da un lato, infatti, c’è l’incomprensione del linguaggio di persona
attribuito a Dio nel cristianesimo da
parte delle religioni apofatiche e mistiche, e dall’altro c’è il problema della
concezione della persona nel contesto
delle religioni teistiche, le quali riducono il valore della relazionalità e interpersonalità di Dio, interpretandolo
solo nella dimensione di un rapporto
tra il Mistero e il mondo.
La seconda parte del lavoro presenta la vicenda di Gesù di Nazareth. Il lungo e convincente discorso
dell’A. risalta con chiarezza nel XIV
capitolo, dove sono presentati i contenuti essenziali delle confessioni di
fede e delle cristologie post-pasquali.
All’esposizione della cristologia
patristica e conciliare della terza parte
vanno riconosciuti due pregi: la completezza della panoramica storica, che
arriva sino al secondo Concilio di Nicea e le puntuali precisazioni sul significato di ciascun Concilio. Dopo due
capitoli relativamente brevi, in cui
l’A. tratteggia la cristologia medioevale e la cristologia tra epoca moderna
e contemporanea, si giunge all’ultimo
capitolo, dove vengono presentate alcune nuove prospettive, tra le quali
anzitutto la cristologia nell’orizzonte
della verità/la verità nell’orizzonte della
cristologia. Questa duplice traiettoria
indica, secondo Ciola, il riconoscimento che la verità di Cristo non è
mai accessibile senza la mediazione
che sussistono nella unicità della sua
persona di Verbo incarnato, l’aspetto
della relazionalità resta sullo sfondo.
Dispiace non trovare, alla fine di
ogni parte, delle linee di sintesi o dei
rilievi conclusivi che meglio avrebbero
aiutato il lettore a muoversi nel mare
magnum delle questioni trattate. La
bibliografia raccolta, di volta in volta,
per i temi di studio, invece, è specifica
per i singoli argomenti trattati. Questo saggio di cristologia costituisce un
valido strumento di studio e di approfondimento non solo per gli studenti, ma anche e soprattutto per gli
specialisti che vi troveranno rimandi
bibliografici, spunti, citazioni e note
molto interessanti. A confine tra approccio ontologico (l’identità di Gesù
quale Figlio di Dio) e prospettiva storico-funzionale (l’opera e la missione
di Gesù, il Messia), la cristologia che
ci propone Ciola non è né meramente dall’alto – anche se recupera la dimensione trinitaria e pneumatologica
del vissuto di Gesù, il Nazareno –, né
esclusivamente dal basso (secondo l’orizzonte kerygmatico o storico), bensì
una cristologia pensata a partire dal
centro, dal cuore della regula fidei.
Cristiano Massimo Parisi
Recensioni
della verità dell’essere e tale istanza di
verità è in relazione con la cristologia
ed è da essa beneficamente fecondata.
Anche in questo caso, si potrebbe aggiungere che l’evento personale della
verità, che si realizza in Gesù Cristo,
è incentrato nell’incarnazione e nella Pasqua, ed è un evento nel quale
si adempie la rivelazione escatologica
del mistero trinitario di Dio e costituisce la norma fondamentale della
verità teologica. Altra prospettiva è la
proposta di ripensare l’unione ipostatica in senso relazionale. L’A. afferma
che questo modo di rileggere l’unione ipostatica può aprire piste inedite,
sia sul versante storico-patristico, sia
su quello speculativo. Nel primo caso
andrebbe rimessa in circolo la tematica relativa al rapporto Padre-Figlio,
che era stata ristretta dalla prospettiva calcedonese. Sul versante speculativo la testimonianza della Scrittura
su Cristo andrebbe riformulata con
categorie che ricavino dalla teologia
un’ontologia che comprenda l’essere
come relazione. Tuttavia, fino a quando il concetto di Persona – in cristologia – assolve la funzione di esprimere l’identità una di Gesù Cristo,
nella duplicità delle sue due nature,
JOACHIM GNILKA
I nazareni e il Corano ecclesiale
Paideia, Brescia 2012
pp. 153, € 16,50
N
el meraviglioso e delicato orizzonte del dialogo tra il cristianesimo e l’islam, il contributo di uno
dei più stimati biblisti cattolici dona
diversi spunti e provocazioni che possono aiutarci ad andare alla radice del
329
nostro Credo lanciando ponti di dialogo con le altre due religioni abramitiche. J. Gnilka riprendendo il tema
già lungamente trattato della stima e
del dialogo tra il nascente islam e il
primo cristianesimo, si avventura nel
sentiero alquanto inesplorato dello
svelamento dell’identità precisa di
quelli che, nel principale testo sacro
musulmano, vengono chiamati «i
nasārā».
Chi sono quelli che dal Co.
rano vengono comunemente tradotti
come «i nazareni» e che in maniera
alquanto approssimativa identifichiamo con i cristiani? In un cristianesimo ancora in fase di assestamento i
nasārā
con cui Muhammad
ibn‘Abd
.
.
Allāh è entrato in contatto erano i
gruppi ebrei gerosolimitani identificati con l’ancora non chiara corrente
del “giudeocristianesimo” o i gentili
che avevano accolto Gesù Cristo? In
un’unità dottrinale non ancora raggiunta possiamo trovare nel Corano
un riferimento alla corrente dei nicolaiti o degli ebioniti che negavano
la divinità di Cristo e consideravano
l’apostolo Paolo un eretico? O addirittura i nasārā
sono nient’altro che
.
la setta giudaica dei nazorei esistente
forse già prima di Cristo con i quali si
identificavano i mandei anticristiani?
Qual è il Vangelo con il quale il
Profeta dell’islam si è confrontato?
Quello che Paolo chiama nella Lettera
ai Galati il Vangelo per i circoncisi o
quello per i non circoncisi? E da dove
nasce il giudizio variabile del Corano riguardo ai cristiani che in alcune
parti sono ricoperti di considerazioni
positive e in altre parti associati al politeismo? Sono forse diverse le cristologie con le quali Muhammad
entra in
.
330
contatto? Ma soprattutto l’islam nasce
forse da una scissione interna del primo cristianesimo che sentiva l’articolarsi concettuale della dottrina della
Trinità come una eccessiva speculazione filosofica da parte di Bisanzio del
messaggio del Nazareno? Questi e altri
quesiti vengono sollevati dall’A. senza
la pretesa di dare risposte, ma con l’audacia e l’umiltà di porsi domande.
All’esame di alcune questioni
ancora aperte, l’A. dedica la seconda parte del suo testo all’esame del
materiale biblico, soprattutto neotestamentario, entrato nel Corano.
La riflessione pone in esame le motivazioni più recondite che portano il
Corano a negare la professione di fede
cristiana di Gesù Figlio di Dio. Così
come è ugualmente affrontato l’evidente anacronismo storico che nega
la croce di Gesù, considerata ancora
dalla nascente comunità musulmana
come sorte scandalosa per un degno
profeta di Dio.
Spalancando le finestre della ricerca teologica sulle citate questioni,
l’A. riporta il lettore ad un necessario
approfondimento della comune fede
monoteista delle due più grandi religioni al mondo perché possa esserci,
come accadeva nel sorgere dell’islam,
un reciproco dialogo improntato
sull’amicizia. Gnilka sottolinea le
attuali grandi asperità che il dialogo
presenta. Accade spesso sul piano letterario che l’uno parli dell’altro, non
con l’altro. Ecco perché il biblista ci
tiene a sottolineare che in origine invece era ancora possibile che teologi
cristiani bizantini e teologi islamici
dialogassero tra di loro. Si trattava
certo di dispute, talvolta anche accese,
to a titolo dimostrativo dal cristianesimo arabo e siriaco contro la chiesa
del santo Sepolcro, d’ispirazione bizantina. Due chiese, due cristologie
iniziali? Una imperiale, bizantina che
accoglieva il concilio di Calcedonia
(Gesù vero uomo e vero Dio), l’altra
araba e siriaca che avrebbe dunque
conservato una cristologia pre-nicena? Altra questione che emerge dalle
iscrizioni poste in esame è la ricerca
della storicità di Muhammad, il cui
nome appare sulla Cupola della Roccia più come un titolo che un nome
proprio. Ricerca che gli storici dell’islam dovranno poter meglio definire.
Il luogo sacro ospitato dalla spianata
del tempio, che non è oggi simbolo
di unità, viene sempre più riscoperto
come appello urgente al dialogo. Ed
è proprio Gerusalemme il luogo individuato dall’A. dal quale far ripartire
il dialogo che ritrova nel monoteismo
il terreno comune sul quale rendere
possibile l’incontro tra le tre religioni
per crescere nella consapevolezza di
essere fratelli e figli di Dio.
Giuliano Salvatore
Recensioni
ma questo contribuì alla definizione
delle rispettive dottrine nel confronto
teologico alla ricerca della verità.
Nella conclusione del lavoro,
Gnilka riporta le ultime ricerche sulle
iscrizioni nella Cupola della Roccia a
Gerusalemme che può essere considerata la testimonianza più antica di
architettura musulmana. La sorpresa
che, tuttavia, nasce dall’esame delle
iscrizioni è come questo patrimonio
di comune importanza per giudei,
cristiani e musulmani, può oggi avere grande valenza per l’incontro e il
dialogo tra esse. Da accurate analisi
filologiche di quelle che risultano essere le più antiche citazioni coraniche
si affaccia l’ipotesi che la pianta della
Cupola della Roccia, oltre ad essere
la spianata sulla quale sorgeva l’antico tempio in cui si adorava YHWH,
fosse in origine la base di un edificio
cristiano dove si venerava il sepolcro
di Cristo. Gli studi di Luxenberg, riportati dall’A., ci conducono a pensare che l’attuale seconda moschea
dell’islam sarebbe stata fino al VII
secolo un santuario cristiano edifica-
LEONARDO MESSINESE
Metafisica
ETS, Pisa 2012
pp. 161, € 12
I
l titolo stringato del libro non deve
trarre in inganno. Certamente l’argomento centrale è relativo al modo
in cui oggi si può e si deve parlare di
metafisica. Secondo l’A., tuttavia, l’obiettivo di fondo consiste nel privilegiare il tema metafisico per eccellenza
che riguarda la questione di Dio. Per331
tanto, mi sembra opportuno iniziare
dalle pagine finali per comprendere
lo scopo della ricerca di Messinese. Si
tratta di una rivisitazione del rapporto
fra il Dio della fede e il Dio della ragione e tale rapporto è da intendersi,
secondo l’A., come necessario per chi
voglia scavare più a fondo nella struttura dell’essere umano, anche se non
indispensabile per chi vive pienamente la sua esperienza religiosa.
Il pensiero razionale, d’altra parte,
non è un pensiero astratto, arido, ma
è, appunto, una componente dell’essere umano che deve essere tenuta in
considerazione, si potrebbe aggiungere, a livelli diversi di esercizio. Certamente l’esercizio filosofico è il massimo livello che possa essere raggiunto
dalla ragione umana e, attraverso tale
esercizio, è possibile dare un sostegno
notevole alla fede.
Poiché il Dio della metafisica è
«ciò che dà alla fede religiosa dell’uomo anche il conforto della ragione»
(158), non è superfluo cercare tale
conforto, sebbene vada tenuto conto
che il terreno sul quale ci si muove è
difficile e complesso, soprattutto nella
filosofia contemporanea. In essa sono
presenti numerosi rivoli prevalentemente caratterizzati dalla negazione
della validità della ricerca metafisica.
Messinese li cita e li individua sostanzialmente nelle correnti della filosofia
ermeneutica e della filosofia analitica,
ma gli autori con i quali discute prevalentemente sono, sul versante cosiddetto antimetafisco, Kant, Nietzsche e Heidegger; su quello metafisico
Bontadini, Severino e Molinaro.
Per quanto riguarda Kant, l’A.
sottolinea che, al di là del fatto che il
332
filosofo tedesco metta in guardia dalle
illusioni metafisiche, sostiene, in ogni
caso, che è necessario per il pensiero
umano dirigersi verso il sovrasensibile.
Al contrario, Heidegger critica fortemente la capacità logica della ragione
di attingere l’Assoluto. Per entrambi i
pensatori, però, l’Intero, che è oggetto
del pensiero metafisico, è presente sia
in Kant come idea della ragione, sia in
Heidegger come orizzonte ontologico. Si tratta, pertanto, non dell’eliminazione dell’oggetto della metafisica,
ma della critica rivolta alla modalità
della sua comprensione.
In riferimento alla posizione di
Heidegger, le pagine che Messinese
dedica all’analisi del suo pensiero in
generale e, in particolare, alla questione del problema teologico sono da tenere presenti per l’acutezza teoretica
ed “ermeneutica” che le caratterizza.
Chi vuole una chiarificazione di questo tormentato argomento deve leggere ciò che l’autore scrive, perché si
tratta di un’analisi essenziale, che coglie il nucleo profondo dell’impostazione heideggeriana. Tenterò di riassumere brevemente l’interpretazione
di Messinese, perché è nota l’influenza che tale posizione ha esercitato e
continua a esercitare anche nell’ambito degli studi teologici. La proposta di
Heidegger si muove indubbiamente
al confine fra le due discipline, ma la
comprensione di essa è possibile solo
sotto il profilo filosofico-metafisico.
Messinese ricorda che il tema proposto dal “fenomenologo” è quello relativo alla fondazione del sapere metafisico e, a questo proposito, la sua
prima presa posizione, che Messinese
ritiene valida, consiste nel mettere in
stabilendo un’assonanza con le posizioni di Anselmo e di Tommaso (cf A.
Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare
Dio. Credere in Dio, Padova 2005).
Quindi, si può dire che l’impostazione fenomenologica husserliana non
assolutizza l’apparire, come accade in
Heidegger; pertanto, si può osservare
che “fenomenologia” si dice in molti modi. Certamente la “fenomenologia” di Heidegger si distingue per
la sua peculiarità, anche perché non
viene applicata a questioni antropologiche e metafisiche, come accade in
Husserl, E. Stein, H. Conrad-Martius
e in altri esponenti della scuola fenomenologica. Ciò giustifica anche il
contrasto e la separazione di Husserl
da Heidegger. La differenza fra i due
è confermata, inoltre, dal legame che
Heidegger pone fra evento e storicità:
da qui l’accusa mossa a quest’ultimo
da Messinese di rimanere su tale piano, escludendo la possibilità di parlare di Dio.
L’apparire costituisce il filo conduttore che consente all’A. di compiere il passo successivo verso la posizione di Severino, messa a confronto con
quella del maestro di quest’ultimo,
Bontadini e con quella del suo proprio maestro, Molinaro.
Tale percorso muove da quella
che Messinese definisce la “torsione”
del pensiero di Heidegger operata
a proposito del carattere “temporale” dell’essere, criticato da lui, sulla
base di un’affermazione opposta: «la
metafisica prescinde dal tempo ed è
proprio nel suo collocarsi “sub specie
aeternitatis” che consiste la sua verità» (70). In realtà, Heidegger sostiene
che l’eternità di cui parla la metafisica
Recensioni
evidenza la differenza ontologica fra
ente ed essere. Tuttavia, in una seconda fase dell’indagine heideggeriana
prevale la critica all’onto-teo-logia,
che, a suo avviso, ha caratterizzato la
storia della metafisica occidentale.
Ci si può domandare quale sia il
nuovo “modo” di affrontare la differenza ontologica proposto da Heidegger. Messinese individua nel tema
dell’evento, cioè dell’apparire dell’essere, la novità del pensiero di Heidegger e, quindi, la categoria che emerge
è quella della possibilità che di volta
in volta si realizza storicamente. Che
cosa ha a che fare tutto ciò con la
questione di Dio? Se l’Essere si riduce
all’apparire degli enti è chiaro che non
si può identificare l’Essere con Dio.
Ed è proprio l’insistenza di Heidegger sulla questione dell’apparire che
conduce ad escludere la validità del
pensiero inferenziale e argomentativo.
Messinese definisce Heidegger un
“fenomenologo”, perché egli è interessato all’Erscheinung, a ciò che appare.
Indubbiamente, Heidegger mantiene
un legame con l’impostazione fenomenologica di Husserl nell’attenzione
rivolta al tema della manifestazione,
ma mi sembra opportuno sottolineare che Husserl non si è mai fermato a
questa dimensione, ma, al contrario,
ha sempre dato grande spazio alla logica e al procedimento argomentativo. Infatti, a mio avviso, la questione
dell’inferenza distingue radicalmente
i due pensatori, come ho cercato di
mostrare nella mia ricerca sulla questione di Dio in Husserl, fino al punto che ho potuto avvicinare alcune
sue affermazioni addirittura alle argomentazioni della metafisica classica,
333
è l’assolutizzazione del presente, cioè
di una delle tre estasi temporali. Ed
è proprio questo che Messinese contesta.
Che cosa ritiene egli valido rispetto ai tre pensatori sopra citatati?
Per quanto riguarda Severino, egli
dissente dalla sua più recente interpretazione, secondo la quale la metafisica occidentale, in quanto tratta
dell’apparire dell’essere, sia, piuttosto,
una “fisica”, accettando in tal modo
la lezione heideggeriana. Più convincente, secondo Messinese è, invece,
la posizione iniziale di Severino, il
quale aveva affermato che il compimento dell’ontologia avviene nella
teologia. Si tratta, però, di giustificare tale assunto. Per farlo, è necessario
affrontare la questione gnoseologica,
prendendo posizione sia nei confronti
del realismo, che presuppone l’indipendenza dell’essere dal pensiero, sia
dell’idealismo, che sostiene la derivazione dell’essere dal pensiero. L’indagine di Messinese ruota intorno al
concetto di trascendentale nel duplice
senso dato a questo termine nella filosofia medievale e in quella moderna. Il punto di vista trascendentale,
qui proposto sulla scia di Molinaro,
consente di affermare che «l’essere è
già originariamente ciò che il pensiero pone nell’atto del pensare» (87).
La validità di questo riconoscimento
permette, secondo l’A., di legare il
trascendentale antico a quello moderno e di intendere la filosofia come
l’aprirsi del trascendentale verso la
trascendenza. In altri termini, non c’è
solo esperienza degli enti, ma anche il
pensiero dell’essere in quanto essere,
che non assorbe in sé il piano feno334
menologico, ma al contrario lo lascia
vivere nella sua autonomia.
In questo senso si può notare che,
anche se con modalità diverse, questa
posizione sia vicina a quella proposta
da Husserl, il quale, in primo luogo,
cerca di superare la contrapposizione
idealismo-realismo attraverso il tema
dell’intenzionalità e, in secondo luogo, si riferisce all’Assoluto come giustificazione ultima, raggiunto attraverso una riflessione razionale.
È chiaro che l’Assoluto, una volta
raggiunto, si manifesta come il momento veritativo per eccellenza, e proprio sotto il profilo della verità non
può essere in contrasto con l’oggetto
dell’esperienza religiosa: tuttavia, in
quest’ultimo caso non abbiamo a che
fare solo con una verità ad intra, cioè
la verità di ragione, ma con la verità
ad extra, cioè la verità di fede.
Si tratta, allora, di due verità o di
due differenti modi di dire la verità?
La seconda opzione è quella valida,
secondo l’A.; infatti, la verità nel caso
della metafisica è saputa, nel caso della
fede è creduta; ciò non significa che sia
falsa, ma per usare un’espressione cara
ad Edith Stein, si presenta come “tenebra per l’intelletto” e non è sottoponibile alla dicotomia vero/falso secondo
i procedimenti razionali.
In questo senso, il metafisico deve
assumere un atteggiamento che potrei
definire “umile”, perché sa bene che
ci sono altre domande alle quali non
sa rispondere; il suo servizio, in ogni
caso prezioso, è quello di mostrare – ed è questo il messaggio del libro – una terra solida sulla quale può
incontrare Dio con il conforto della
ragione.
La posizione che Messinese assume in questo piccolo, ma densissimo
volumetto – una piccola Summa delle
questioni metafisiche – supera molte
contrapposizioni: non solo quella già
indicata, relativa al contrasto fra realismo e idealismo, ma anche quella fra
razionalismo e fideismo, entrando nel
cuore delle problematiche metafisiche
del presente e del passato e proponendo una personale e originale soluzione al problema metafisico, problema
che, accettato o respinto, continua a
rimanere fondamentale nella speculazione occidentale.
Angela Ales Bello
ANTONIO ORBE
Introduction à la théologie des IIe et IIIe siècles
Cerf, Paris 2012
vol. I, pp. 774, € 80
vol. II, pp. 775-1680, € 90
ntonio Orbe (1917-2003), gesuita, docente di patristica all’Università Gregoriana (Roma) per oltre
quarant’anni, è conosciuto non solo
dagli specialisti del settore, ma anche da tanti altri cultori di teologia
e scienze dell’antichità. Per ricordare
l’importanza del suo insegnamento
e della sua figura, a dieci anni dalla
morte gli è stato dedicato un numero
monografico della rivista Gregorianum (94/2), curato da A. Bastit.
Nella sua attività di studioso l’A.
ha mostrato particolare interesse per
Ireneo e lo gnosticismo. Si può dire
che da Ireneo, egli è passato a studiare
il contesto in cui si inserisce la teologia
del vescovo di Lione, e quindi a esplorare il mondo della gnosi, un mondo
per lo più poco conosciuto negli anni
in cui l’A. ha iniziato a studiarlo.
In questa poderosa Introduction à
la théologie des IIe et IIIe siècles che ab-
braccia oltre 1500 pagine, Orbe passa
in rassegna pressoché tutti gli scrittori
ecclesiastici dei primi secoli, ortodossi ed eterodossi. L’opera, inizialmente
destinata agli studenti, ha suscitato
subito l’interesse degli specialisti; così,
dopo la traduzione italiana (1995),
appare ora questa traduzione francese,
frutto di una molteplice collaborazione scientifica.
Il piano dell’opera è semplice: l’A.
segue la storia della salvezza e presenta il pensiero dei diversi scrittori antichi attraverso i testi della Scrittura da
essi utilizzati e commentati. La loro
esegesi costituisce la loro teologia. Si
parte dalla conoscenza del mistero di
Dio, ci si ferma sulla concezione della
Trinità, sulla rivelazione dell’AT, e si
continua con la creazione del mondo,
dell’uomo, il peccato, la punizione,
l’esclusione dal paradiso, l’esilio e la
profezia. Poi si passa all’analisi del
Recensioni
A
335
mistero di Cristo descritto nel NT:
l’incarnazione, la nascita, l’infanzia e
la vita nascosta, la predicazione del
Battista, il battesimo del Signore, le
tentazioni, la vita pubblica, i miracoli, la passione, la morte e risurrezione
e infine l’escatologia.
Lungo questo percorso noto, il
lettore vede sfilare una serie impressionante di personaggi in gran parte
sconosciuti e difficilmente accessibili,
ma che Orbe presenta in maniera sobria, spiegandone in modo preciso il
pensiero. Si resta sorpresi e ammirati
per la grande erudizione e per l’attenzione con cui si sono raccolti in un’unica opera, al tempo stesso organica
ed affascinante, i frammenti di autori
preniceni dispersi in opere diverse.
Il risultato è un grande affresco della vita dei primi secoli della Chiesa,
in cui scrittori diversi si impegnano a
comprendere la fede cristiana leggendo con passione la Scrittura.
In queste pagine gli autori eterodossi si affiancano a quelli ortodossi,
e a volte si potrebbe restare indecisi
sulla valutazione del loro pensiero,
perché certe posizioni sono più vicine di quanto ci si attenderebbe. Sono
gli ortodossi che sono stati avvicinati
agli eterodossi? O il pensiero di questi è stato “migliorato” nello sforzo
di renderlo comprensibile? Di sicuro
bisogna dire che la distanza tra ortodossia ed eresia allora doveva essere
meno evidente di quanto oggi appaiono diversi cristianesimo e gnosticismo. In quei tempi questi autori vivevano nello stesso contesto culturale
e affrontavano i medesimi problemi
con strumenti teoretici simili. Non
c’erano ancora le formule di fede che
336
furono precisate successivamente nei
concili. Per comprendersi bisognava
perciò usare lo stesso linguaggio e lo
stesso tessuto concettuale.
Orbe è stato accusato di simpatizzare troppo per gli gnostici di cui
esponeva il pensiero e a cui attribuiva il merito di avere iniziato in modo
serio la riflessione teologica (14). Egli
non negava di nutrire questa “simpatia”, ma ricordava che il suo autore preferito restava sempre Ireneo, a
cui anche in questi volumi è dedicata
la parte principale (in particolare i cc.
25, 26, 40, 41, 46). Egli si sforza di
mettersi dal punto di vista degli gnostici, cercando di capire il loro pensiero per ciò che essi volevano dire.
Questo ha comportato uno sforzo per
mettere in evidenza i numerosi aspetti
positivi della loro riflessione, non per
approvarne le concezioni, ma piuttosto per mostrare come il confronto
con la forza speculativa della gnosi
avrebbe permesso di cogliere meglio la
portata delle affermazioni dei grandi
autori ortodossi da lui puntualmente
presentati: Giustino, Teofilo d’Antiochia, Tertulliano, Clemente d’Alessandria, Origene, Ippolito e altri. Sarebbe
comunque troppo lungo soffermarsi
sui tanti temi trattati e sulle domande
che possono emergere. Ovviamente
su alcuni argomenti il dibattito resta
aperto, e la ricerca successiva potrà
dare una interpretazione più precisa del pensiero di singoli autori. Ma
il quadro generale rimarrà quello descritto in questi volumi, composti da
uno studioso che conosceva bene la
situazione del cristianesimo primitivo.
Il rapporto tra la gnosi e la grande
Chiesa nei secoli II e III ha avuto fasi
cultura e la teologia dei nostri giorni.
D’altra parte, lo sforzo compiuto dai
Padri per individuare nella massa delle speculazioni gnostiche gli elementi
utilizzabili per la comprensione della
fede, potrebbe (e dovrebbe) stimolare
i ricercatori di oggi ad avvicinare senza
timidezza le affermazioni della modernità per selezionare e sviluppare creativamente le intuizioni positive adatte a
fare crescere la conoscenza della fede.
A questa edizione francese dell’opera di Orbe hanno dato il proprio
contributo diversi studiosi: la traduzione è stata fatta dal gesuita J.L. de
Castro ed è stata rivista da A. Bastit
e da J.-M. Roessli; le note sono state
completate e arricchite da P. Moliniè;
la bibliografia è stata aggiornata da
Roessli, aggiungendo gli studi apparsi
negli ultimi anni; gli indici sono stati
curati da B. Jacob. Nell’insieme abbiamo una edizione fornita di strumenti
che facilitano la lettura del testo e consentono di capire meglio la complessità della materia teologica trattata.
Domenico Marafioti SJ
Recensioni
alterne, non senza confronti drammatici, soprattutto per quanto riguarda
l’antropologia, l’escatologia e la funzione di Cristo. L’impegno esegetico
e teoretico dei Padri della Chiesa ha
permesso di valorizzare il contributo
della cultura greca, distinguendo ciò
che aiutava a comprendere meglio la
fede cristiana e ciò che portava verso
speculazioni ardite, ma incompatibili
con la testimonianza trasmessa dagli
apostoli e consegnata nella Scrittura.
Gran parte del dibattito tra gnostici
e ortodossi infatti verteva proprio sul
modo di leggere la Scrittura (vedi i cc
24 e 32), sulla possibilità di raggiungere un senso oggettivo, e sul valore
normativo per la fede del contenuto
del testo biblico. Diverse tematiche
affrontate in quel periodo rimangono
un compito di urgente attualità per la
Chiesa di tutti i tempi.
Il pluralismo teologico che Orbe
ha fatto emergere nei primi secoli cristiani può costituire un modello per
comprendere senza meravigliarsi la situazione pluralistica in cui si trova la
GIANLUIGI PASQUALE
Chiara d’Assisi donna di luce
Lindau, Torino 2012
pp. 174, € 13
I
l volume di G. Pasquale, noto studioso del francescanesimo, ripercorre l’esperienza umana e cristiana
di una santa che ha impresso indelebilmente, nella storia della spiritualità
francescana, la sua fisionomia di “don-
na di luce” per la radicalità evangelica
con cui ha vissuto la sequela di Cristo
alla scuola di Francesco d’Assisi.
Questa biografia, che nasce
nell’ottavo centenario della nascita di
Chiara di Assisi, si propone di descri337
verne la vita e la spiritualità lasciando
parlare i documenti, sapientemente
intessuti in una narrazione che rispetta la storia, ma racconta in maniera
avvincente, quasi romanzata, l’avventura coraggiosa di una giovane donna
dell’Umbria che diventa, ben presto,
madre di una schiera numerosa di altre donne, unite da un unico ideale:
far rivivere il Vangelo in tutta la sua
affascinante radicalità per riportare
l’umanità smarrita dal peccato alla sua
originaria bellezza.
Analizzando il contesto storico in
cui avviene tale vicenda, l’A. ripercorre le tappe che portano la nobile
Chiara a lasciare il suo palazzo patrizio e gli agi della sua famiglia fino a
fondare, a San Damiano, il secondo
Ordine francescano, ossia l’Ordine
delle Povere Dame, oggi conosciute
come Clarisse o, meglio, Sorelle Povere di Santa Chiara. Per loro Chiara,
prima nella storia della Chiesa, scrive
una regola di vita monastica che difese
strenuamente, finanche nei confronti
del Papa, pur di ottenere il privilegio
della povertà assoluta.
Il racconto biografico presenta,
quindi, lo sviluppo della personalità di Chiara partendo dall’infanzia,
caratterizzata dalla predilezione per i
poveri, fino alla scoperta della vocazione di Francesco e della sua fuga,
nottetempo, per seguirlo nello stesso
cammino.
Scrive, infatti, nel suo Testamento:
«Poco dopo la conversione di Francesco, insieme con poche sorelle che il
Signore mi aveva dato poco dopo la
conversione mia, promisi a lui volontariamente obbedienza […] e mosso
a pietà verso di noi, Francesco si ob338
bligò con noi di avere, da se stesso e
per mezzo della sua religione, cura
diligente e sollecitudine speciale per
noi come per i suoi frati. E così per
volontà di Dio e del nostro beatissimo
padre Francesco, andammo alla chiesa
di San Damiano per dimorarvi, dove
il Signore in breve tempo, per sua misericordia e grazia, ci moltiplicò».
L’A. prosegue, poi, nella descrizione della vita delle Povere Dame a
San Damiano, dove, in breve tempo,
giunsero anche la sorella e la mamma
di Chiara, mettendo in evidenza le
virtù che la santa testimoniò: l’umiltà
nel servizio alle consorelle, la carità nel
prendersi cura di tutti, specialmente
di poveri e ammalati che bussavano
alla porta del monastero, l’ardente
preghiera, che le ottenne numerose
guarigioni e miracoli (come quello
famoso della cacciata dei saraceni), la
penitenza e la pratica della povertà,
fino al beato transito, avvenuto l’11
agosto 1253.
Ne emerge un quadro nitido della personalità di una donna forte e
intrepida nella sua fede, luminosa e
trasparente nel suo rapporto con Dio,
serena e amabile nelle sue relazioni
con gli altri, un modello che risulta
attuale anche per il contesto odierno,
come giustamente spiega l’A., fin dalle prime pagine, affermando che nello
scenario attuale si proclama che “Dio
è morto” perché «non fa più mondo»,
come scrive U. Galimberti.
Proprio in questo contesto Chiara
insegna che, per superare la crisi che
attanaglia la coscienza dell’uomo di
ogni tempo, è necessario distruggere
gli idoli dell’orgoglio, dell’egoismo e
del piacere che hanno infranto trop-
pi equilibri per riedificare il proprio
essere alla luce del Vangelo, dove si
apprende lo spirito di carità, di abnegazione e di sacrificio che porta alla
vera realizzazione di se stessi.
Il lavoro di G. Pasquale può essere definito come uno studio prezioso
per la conoscenza della vicenda di
santa Chiara di Assisi, grazie all’uso
competente delle fonti, sempre citate con meticolosa precisione e, nello
stesso tempo, ad una scrittura creativa
che avvince il lettore e lo incuriosisce
senza stancarlo, invitandolo ad una
meditazione che, andando al di là dei
personaggi e dagli eventi raccontati,
lo aiuta a rivivere il presente alla luce
dell’esempio di una santa che, come
ama concludere l’A., citando Tommaso da Celano, è «una donna tanto così», ossia «chiara per nome, più
chiara per la vita, chiarissima per le
virtù».
Daniela Del Gaudio
ARMIDO RIZZI
Rifare la spiritualità
Dio alla ricerca dell’uomo
Oltre Edizioni, Sestri Levante 2012
pp. 118, € 15
n perfetta consonanza con la sua
lunga riflessione di saggista e teologo attento ai temi della spiritualità, e
quasi a coronamento di essa, A. Rizzi
dà alle stampe un testo che sotto tanti
aspetti rappresenta una novità e, ancor
di più, una provocazione. Il libro Rifare
la spiritualità – ripresa e ampliamento
di un suo testo pubblicato nel 1987 –
contiene già nel titolo una intenzione
programmatica resa esplicita dalla prospettiva suggerita dal sottotitolo «Dio
alla ricerca dell’uomo». L’ambizioso
progetto di cui Rizzi intende in questo lavoro disegnare come il plastico, il
modello di riferimento per successive
indagini e ulteriori approfondimenti, si colloca – a dire dello stesso A. –
nell’ambito di quella parte della teologia che ha come oggetto la spiritualità
vissuta, cioè la teologia spirituale.
Un progetto ambizioso – si diceva
– dal momento che si propone come
obiettivo non semplicemente un ritocco, ma un vero e proprio capovolgimento nel modo di intendere e di
capire la spiritualità cristiana. Un capovolgimento considerato come l’inevitabile approdo della piena applicazione
dell’insegnamento conciliare e del cammino avviato dall’istanza del Vaticano
II di una teologia, di una spiritualità e
di una prassi ecclesiale sempre più saldamente fondate nelle radici bibliche.
È muovendo da questa spinta conciliare che l’A. vede come necessaria
una vera e propria “conversione” della spiritualità a partire da ciò che di
essa insegna proprio il testo biblico. A
giudizio di Rizzi, l’ambito della spiritualità è quello in cui è più facilmente
rintracciabile il segno dell’ellenizzazio-
Recensioni
I
339
ne del cristianesimo, avvenuta a partire dal II secolo, che fa da substrato
all’ellenizzazione teologica testimoniata dall’acquisizione di concetti come
natura o ipostasi o dalla dottrina sulla
creazione e sul male.
Pertanto, secondo una visione non
coerente con quanto emerge dalla
Scrittura, «la spiritualità tradizionale
ha come asse attorno a cui tutto si organizza il desiderio umano di Dio; noi
offriamo il profilo di una spiritualità
che si sviluppa coerentemente attorno
all’amore divino per l’uomo» (16). Ecco
chiarita, dalle parole stesse dell’autore,
la tensione ideale che anima e attraversa queste pagine di teologia spirituale.
Tuttavia lo stesso Rizzi si sente in
dovere di precisare che la critica a cui la
spiritualità tradizionale viene sottoposta nel testo non ha di mira – e non potrebbe pretendere di averla – l’«esistenza spirituale delle generazioni cristiane
del passato e, ancora, di molte componenti odierne del popolo cristiano»
(17). L’occhio è puntato, invece, sulle
forme e sulle oggettivazioni che la spiritualità cristiana ha assunto nel tempo le quali, in quanto comprensioni e
rappresentazioni storiche, possono e
devono essere passate al vaglio di una
leale critica teologica.
Leggendo il dato con sguardo attento, in una visione olistica della
storia della spiritualità cristiana, non
si potrà non cogliere, a mio avviso, la
costante consapevolezza di un movimento di Dio verso l’uomo che precede e rende possibile il movimento
dell’uomo verso Dio. Certo, si tratta
di una consapevolezza a volte tacita e
forse, in alcuni casi, del tutto taciuta
non senza colpevolezza. Tuttavia, mi
340
sembra che quello proposto nel testo
in analisi, costituisca uno spostamento
di accenti – o se si vuole di assi – che
non muta il contenuto centrale della
spiritualità cristiana, ma ne trasforma
in maniera radicale l’impostazione di
fondo, le categorie espressive, le modalità di comprensione. Pertanto quello
auspicato da Rizzi è senza dubbio un
ri-assestamento della spiritualità quanto mai importante, prezioso e da perseguire soprattutto per la concezione
autenticamente biblica, e perciò autenticamente cristiana, della spiritualità stessa che propone e valorizza.
La spiritualità tradizionale che trova
il suo paradigma espressivo nella spiritualità monastica si sviluppa intorno ad
alcuni “temi forti” quali la fuga mundi,
il cammino spirituale dell’uomo inteso
come reditus, ritorno a Dio in risposta
al suo exodus, alla sua uscita o discesa
verso l’uomo compiuta in Gesù Cristo. L’uomo è visto come portatore di
un insopprimibile desiderio di infinito
per appagare il quale deve prendere le
distanze dal terreno e dal mondano.
Questo porterà – anche se le generalizzazioni soprattutto negli infinita munda della storia della spiritualità sono
sempre da evitare – a una negazione del
creaturale e ad una esclusione vicendevole tra Dio e la creatura. Quest’ultima
non è in se stessa negativa ma «ha in sé
una positività che può farne, di fronte
alla capacità d’amore dell’uomo, l’antagonista di Dio» (28).
A chi taccia di un certo “orizzontalismo” la nuova spiritualità di cui egli
è rappresentante, Rizzi risponde ricordando che, anche se di “verticalismo” si
vuole parlare a proposito del messaggio
cristiano, bisogna precisare che si tratta
“nuova” impostazione di matrice biblica.
La condizione dell’uomo emergente dalle pagine bibliche e letta alla luce
della realtà attuale è osservata e descritta da quattro punti prospettici, come
quattro angoli che corrispondono alle
relazioni fondamentali che l’uomo vive
e sperimenta nella sua esistenza; questi
punti o angoli convergono tutti in un
centro che è l’uomo stesso.
La prima prospettiva, la prima posizione relazionale osservata è quella che
pone l’uomo di fronte a Dio. A partire
dall’idea tradizionale della redamatio,
ossia della risposta amorosa e colma
di gratitudine dell’uomo che si scopre
infinitamente e immeritatamente amato da Dio, la fede si presenta, secondo
Rizzi, come intelligenza del mondo; il
mondo appare per quello che è: grazia.
La fede è però, secondo l’antropologia
biblica, soprattutto fiducia. Fiducia
che, se nell’AT si fondava sul dono
dell’alleanza, nel NT si radica nel dono
e nell’esperienza della giustificazione e
del perdono offerto in Gesù. Infine la
fede si delinea come obbedienza. È precisamente quest’ultimo atteggiamento,
tipico dell’uomo biblico e del cristiano
in particolare, a costituire la più esplicita e compiuta forma di redamatio, di
risposta grata all’amore di Dio che spinge l’uomo a rendersi pienamente disponibile al progetto di Dio, mettendosi al
servizio degli uomini. Come nota l’A.,
c’è qui una visione completa e comprensiva di quell’atteggiamento umano
che è la fede e che coniuga insieme «tre
momenti sostanziali dell’esistenza spirituale: la fede nell’amore di Dio, l’amore
per Dio come obbedienza, l’amore al
prossimo come carità e servizio» (59).
Recensioni
non di un “verticalismo ascensionale”
ma “discendente”, che ha per soggetto
Dio e che «avvia il movimento “orizzontale” della missione, della testimonianza, del servizio» (37).
Espressiva di tutto ciò è la netta linea di demarcazione tracciata dal NT
tra eros e agape dove è esclusivamente
il secondo a definire l’identità e l’agire
di Dio. L’eros, senza necessariamente
considerarlo nel senso negativo di un
sentimento egoistico, «è un egocentrismo connaturato; è la stessa natura
desiderante dell’io, dell’essere umano»,
mentre l’agape è definito dal movimento di una «uscita da sé per andare
all’altro» (41). Il rivelarsi di Dio come
agape, come amore che si mette alla ricerca dell’uomo, per donarsi ad esso e
ammetterlo all’amicizia ed alla comunione con sé, rivela anche l’identità
autentica dell’uomo, che non è definita tanto dalla categoria del desiderio
quanto da quella della povertà. L’uomo
è povertà, radicale povertà, strutturale
debolezza, un essere posto in una condizione di bisogno. «La povertà radicale è povertà sul piano ontologico. Ma
proprio questo puro esistere è il polo
della relazione originaria Dio-uomo.
Questa povertà, che in sé non ha nulla
né è nulla di amabile, viene amata da
Dio e da lui colmata: e in questo gesto
Dio si rivela Dio» (47). Questo passaggio suggestivo pone davvero il fondamento della spiritualità cristiana al
centro dell’atto rivelatore di Dio e manifesta la fondatezza e la serietà della
proposta che l’A. avanza nel suo testo.
Nei capitoli successivi l’A. trae le
conseguenze del discorso fatto fin qui,
esplicitando le implicazioni di una
spiritualità rivisitata secondo questa
341
La seconda prospettiva presa in esame è quella dell’uomo di fronte all’altro, di fronte al prossimo. In questo
ritrovarsi “di fronte” da parte di “due
finiti”, si scontrano ancora una volta
due forze, o forse meglio, le due possibili espressioni dell’amore: l’eros e
l’agape. Quando l’eros, forza positiva
e connaturale all’uomo, si deteriora in
forme aggressive prevale la logica della
competizione che in ambito religioso
può assumere i connotati aberranti
della guerra santa, estrema e volgare
negazione del Dio biblico e del vero
senso della sua trascendenza. L’unica
àncora di salvezza diventa, allora, l’apertura all’agape di Dio, all’agape che
è Dio. L’accoglimento di questo amore
gratuito e sconvolgente di Dio abilita
l’uomo ad una nuova capacità di amare, che gli fa superare la logica della
competizione o della chiusura ideologica per divenire egli stesso portatore
e diffusore attivo di questo agape, nel
senso di un soggetto di libertà che è
amato da persona libera ed ama da
persona libera. Solo così l’amore può
diventare comandamento, cioè la più
grande pro-vocazione che Dio lancia
all’uomo, appello martellante rivolto
alla sua libertà.
Particolarmente interessante risulta
l’osservazione condotta da Rizzi circa
la terza posizione relazionale dell’uomo, quella che lo pone di fronte a se
stesso. L’autore osserva come vi sia sostanziale, sebbene parziale, convergenza tra quanto emerge da una spiritualità biblica come quella che nel testo egli
propone e la crisi attuale del soggetto
che ha i suoi prodromi filosofici e culturali nella critica della ragione di Kant
e nella critica della coscienza religiosa
342
dei filosofi del sospetto. Entrambe le
posizioni, infatti, convergono nella
pars destruens che consiste «nel rifiutare di considerare il desiderio umano
come la via d’accesso a Dio, e nell’insegnare l’accettazione e la realizzazione
della finitezza» (80). Ma la divergenza
emerge e diventa abissale quando si
tratta di passare alla pars construens.
Questa, di fatto, semplicemente non si
dà nell’attuale crisi del soggetto in cui
la finitezza dell’uomo diventa assenza
di identità ontologica, liquidità identitaria e relazionale. Nella spiritualità
biblica, al contrario, il riconoscimento
e l’accettazione della finitezza “imposta” all’uomo dalla Parola di Dio che
è amore sempre più grande, è per lui
il passaggio obbligato e previo per accedere al suo nuovo volto; il volto di
uno che non soltanto “esiste” ma che
“è” proprio perché amato nella sua finitudine: diligor ergo sum.
Come quarta prospettiva di osservazione dell’uomo, l’A. considera la
condizione dell’uomo posto di fronte
al mondo. Il mondo è «inteso come
luogo delle realtà – le “cose” – che costituiscono l’habitat» (89) dell’esistenza umana. L’uomo può rapportarsi a
queste “cose” secondo tre dimensioni:
pragmatico-strumentale, gratuita o
estetico-affettiva e spirituale. Quest’ultima corrisponde alla dimensione biblica di rapporto al mondo in cui le
cose sono viste come dono di Dio, sua
benedizione, frutto della sua charis/
grazia.
Dopo questa presentazione di una
teologia spirituale impiantata nell’antropologia biblica, Rizzi propone ancora due riflessioni nei capitoli conclusivi del libro.
cipio la coscienza, vera «irruzione del
soprannaturale» (107); come oggetto
l’umano, povertà ma anche ricchezza
di beni e di valori; come soggetto la
comunità di coscienze, che è l’intera
comunità degli uomini portatrice di
competenza spirituale e di sapienza di
vita. Compito della comunità ecclesiale in questa visione laica della spiritualità e della santità è, sostiene Rizzi,
essere segno della Rivelazione di Dio e
dell’agire dello Spirito attraverso la vita
dei credenti che, alimentata dalla Parola e dai sacramenti, fruttifica in opere
di giustizia e di amore. Questo diventa
un motivo ulteriore per prendersi cura
della propria identità, della propria
vita spirituale, valorizzando ancor più
intensamente l’inestimabile tesoro che
la tradizione spirituale cristiana consegna oggi alla Chiesa.
Il testo, qui delineato nelle sue
strutture portanti, rappresenta davvero
uno stimolo fecondo, una forte e affascinante provocazione a continuare
a indagare la ricchezza multiforme e
sempre sorprendente della spiritualità
cristiana, tenendo i piedi ben piantati
nel terreno stabile della rivelazione biblica, unico suo vero fondamento.
Pierpaolo Arabia
Recensioni
La prima è relativa al rapporto tra
spiritualità e teologia della liberazione.
L’A. afferma che quanto è stato ribadito con forza da quei teologi che fanno
in qualche modo riferimento a G. Gutiérrez circa l’uomo come fine ultimo
della creazione, con al centro la dimensione del lavoro, stimola ulteriormente
una ridefinizione della spiritualità nel
suo complesso. Tale ridefinizione deve
avvenire a partire dall’“altro” come
luogo teologico privilegiato. Anzitutto
è Dio che per primo deve essere definito a partire dall’“altro”, cioè dall’uomo.
Infatti il fondamento della vita spirituale cristiana non è l’Essere per essenza
bensì il Dio di Israele e di Gesù Cristo,
il Dio della relazione e dell’agape che si
esprime perfettamente nell’amore per
il povero che Dio ama in ogni uomo.
L’ultima considerazione dell’A. è
concernente il rapporto tra laicità e
confessionalità. Egli afferma che dopo
la de-clericalizzazione della santità promossa dal Concilio si rende necessaria
anche una sua de-confessionalizzazione per affermarne la piena laicità, in
forza dell’acquisizione teologica di una
salvezza che è presente anche al di fuori dei confini istituzionali della Chiesa. Una santità che abbia come prin-
GIOVANNI RIZZI
Il ritorno di Elia
Charles De Foucauld, il mormorio leggero
dello Spirito nell’Islam
Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012
pp. 200, € 20
I
l primo capitolo ripercorre la complessa vicenda biografica e spirituale
di Ch. De Foucauld fino alla sua uscita
dalla Trappa. In essa il leggero mormorio dello Spirito profetico di Elia (cf
1Re 19,12-13) lo spinge su strade ine343
dite per realizzare progressivamente un
originale carisma che come tale «rimane unico, irripetibile e improponibile,
ma la spiritualità della sua missione
verso l’islam può essere oggi una vera
strada da seguire nella Chiesa» (35)
per rispondere alla sfida della presenza
dell’islam anche in casa nostra.
Il secondo capitolo prende in esame il soggiorno presso i tuareg del
Sahara, tappa decisiva dell’itinerario
di De Foucauld. Qui egli vive come
«eremita, sacerdote e missionario tra
i mussulmani» (53), animato da una
fraternità universale che ha la sua sorgente nella vita nascosta di Gesù, da lui
precedentemente scoperta a Nazareth.
Tra i tuareg egli sperimenta parecchie
tensioni tra vita eremitica ed esigenze
apostoliche, una persistente mancanza
di compagni e, infine, ripetuti fallimenti nella difficile opera di evangelizzazione dei mussulmani. Questi
fallimenti, ben lungi da scoraggiarlo,
lasciano al contrario sempre più emergere in lui un progressivo svuotamento
di sé animato da un radicale amore per
Gesù, che si rivela così essere la ragione
ultima e definitiva del suo permanere
ed operare tra i tuareg, un amore costantemente nutrito dalla preghiera e
dall’adorazione e che si identifica con
la santità. Ciò spiega perché «dissodare
senza arrivare a seminare, senza neppure desiderare di vedere il frutto della
propria fatica era il suo atteggiamento
di fondo» (77), consapevole «che non
avrebbe visto nessun risultato tangibile
della sua dedizione appassionata» (81),
destinata ad essere «una preparazione
remota, di cui altri si sarebbero avvantaggiati» (85). Ora, «mentre la sua
identità di monaco eremita era chiara
344
e restava punto fisso di tutta la sua vicenda spirituale […], l’essere in terra
di missione in contesto islamico era
oggetto di continua revisione» (100),
fino a fare di lui un «Elia che prepara
il cuore dei mussulmani e dei cristiani» (ivi). E questo proprio in ragione
dell’appassionato desiderio di far conoscere Gesù, un desiderio che non
può non interrogarci se dall’universale
volontà salvifica di Dio deduciamo erroneamente l’inutilità della missione,
e se crediamo ancora «abbastanza alla
pienezza di vita portata all’umanità
dall’incarnazione del Verbo di Dio»
(102).
Il terzo capitolo documenta come,
in questa appassionata ricerca pastorale, De Foucauld, pur condividendo
il pregiudizio del suo tempo che fa
dell’occidentalizzazione la premessa dell’evangelizzazione, lo assume
all’interno di un’apertura illuminata
tale per cui, nell’arco di un decennio, egli diverrà consapevole dei limiti dell’ideologia coloniale francese,
al punto che alla fine «l’insuccesso
politico e strategico e il fallimento
dell’evangelizzazione gli sembrano
ormai imminenti» (116). Non a caso,
proprio pochi giorni prima di morire,
finirà per affermare, in modo oscuramente profetico, che per essere francesi i tuareg avrebbero dovuto prima
di tutto essere cristiani. Secondo Rizzi
questo complesso e dinamico itinerario è portatore di un messaggio molto
attuale per la Chiesa che si interroga
sull’evangelizzazione dell’islam. Il
cuore di questo messaggio è la testimonianza dell’imprescindibilità di
una spiritualità «che si nutre del mistero dell’Eucarestia, del nascondi-
mento, della preghiera, della meditazione della Scrittura, che si manifesta
nella condivisione quotidiana, attenta, vivace» (118), tutti elementi che
verranno attualizzati nel quarto capitolo, all’interno del quale l’A. prende
esplicita distanza dalla falsa tesi dell’inutilità dell’evangelizzazione, fondata
su «sofismi intellettualistici» (132) e
mette in guardia anche dal pericolo di
un «eclettismo confusionario» (128).
Evitando «una contrapposizione adolescenziale e campanilistica» (143),
si tratta invece «di attingere alle più
vere e profonde energie della vita in
Cristo e di agire di conseguenza» (ib.),
con una radicalità che non è altro che
quella della santità. La tragica morte
di De Foucauld è infatti «un fallimento solo per coloro che non conoscono
la vita come risposta a una vocazione
specifica da parte del Signore Gesù»
(145). Non a caso egli può essere
annoverato «tra coloro che hanno
contribuito a segnare una svolta metodologica nell’approccio cristiano e
scientifico all’islam» (127).
Alla fine di questo illuminante
studio vi sono alcune appendici tra le
quali troviamo, non senza un’impressione di forzata giustapposizione, anche un articolato commento – a tratti
anche un po’ ripetitivo – della famosa
Lettera dei 138, giudicata come «un
primo abbozzo, ancora imperfetto e
pieno di lacune, ma gli elementi positivi di novità superano di gran lunga
i pur evidenti elementi di perplessità»
(235), tanto più che «il suo eventuale
fallimento approfondirebbe in modo
drammatico quel fossato tra cristiani
e mussulmani, che già ora è notevolmente pesante» (238).
Mario Imperatori SJ
Recensioni
BERNARD SESBOÜÉ
Salvati per grazia
Il dibattito sulla giustificazione dalla Riforma
ai nostri giorni
EDB, Bologna 2012
pp. 320, € 29,50
G
esuita e direttore della nota Storia dei dogmi in 4 voll. (19941996), B. Sesboüé ci offre, con il
presente saggio, un’aggiornata sistemazione, ecumenicamente rilevante,
sulla teologia della salvezza. Il teologo
affronta il tema della salvezza correlato a quello della grazia e analizza, con
ampia documentazione, le diverse declinazioni che esso ha conosciuto nel
cattolicesimo, nel cristianesimo della
Riforma e nell’Ortodossia. La giustificazione per grazia mediante la fede è il
tema simbolico che ha separato cattolici e luterani al tempo della Riforma
(cf 9). La dottrina è del tutto cristiana,
biblicamente fondata nell’insegnamento paolino. Tutti, sia cattolici che
protestanti, hanno inteso custodirla
nella sua verità e genuinità eppure –
ed è questa la situazione paradossale
– si è giunti a posizioni di rottura.
345
Di fatto però «la radicalizzazione che
ha causato la rottura ha riguardato la
Chiesa più che la giustificazione» (9).
Dopo un tempo di conflitti, allontanamenti e sclerotizzazione di punti di
attrito si è giunti ad una nuova stagione ecumenica, caratterizzata da un
accordo fondamentale che in ordine
di tempo è testimoniato dalla Dichiarazione comune luterana-cattolica sulla
giustificazione. Il saggio di Sesboüé
vuole tracciare in maniera sistematica
il cammino che va dalla controversia
alla riconciliazione. Esso si struttura
in due ampie parti. La prima parte si
concentra sul confronto tra la prospettiva cattolica e quella luterana. È dato
particolarmente spazio alla giustificazione come cuore del cristianesimo di
Lutero, alla Confessione di Augsburg
(1530) e al Concilio di Trento, con
l’analisi dettagliata e il commento
dottrinale del Decreto della Sessione
VI dell’assise tridentina (cap. IV).
La seconda parte testimonia i passi
compiuti verso la riconciliazione. L’A.
nota che «la giustificazione non sta in
primo piano all’interno della controversia: questa è incentrata assai più
esplicitamente sulla Chiesa, sui ministeri e sui sacramenti» (147). Partendo dai primi dialoghi teologici sulla
giustificazione, con particolare attenzione a K. Barth, H.U. von Balthasar,
L. Bouyer, H. Küng e H. Bouillard,
il teologo gesuita mette in luce il passaggio da una teologia di controversia
a una teologia di dialogo che cerca di
«comprendere la dottrina dell’altro e
sentire la parte di verità che la anima»
(187). Tale passaggio apre la strada ai
346
dialoghi ecumenici che ricevono impulso dal Concilio Vaticano II. Dopo
il lungo percorso attraverso i diversi
dossier del dibattito plurisecolare sulla giustificazione, la seconda parte si
chiude con la questione dell’annuncio
del Vangelo della giustificazione in un
modo credibile e coraggioso all’uomo
post-moderno.
Il saggio di Sesboüé è un contributo lodevole al dialogo di verità
tra cattolici e luterani. È la testimonianza del desiderio che il cammino
di riconciliazione possa continuare a
compiere passi avanti verso la piena
comunione, sostenuto da un autentico spirito di conversione, di parresia
e soprattutto di carità. Non basta il
lavoro dei teologi, non bastano gli
sforzi degli esperti: «il dialogo teologico non può progredire se non è
supportato da uno slancio assai forte
di reciproco amore. Carità e verità
vanno di pari passo anche per la vita
delle comunità cristiane» (273). Il testo può considerarsi come un tentativo di ri-dire con linguaggio nuovo il
significato della giustificazione al nostro odierno mondo culturale; esso si
rivela come preziosa occasione di dialogo nella convinzione profonda che
occorre sempre più ascoltare l’altro.
Tra le righe del saggio si legge l’invito dell’A. a cercare con ostinazione e
coraggio non più le vie della conciliazione a basso prezzo, ma quelle della
riconciliazione autentica dei rispettivi punti di vista, nella speranza che
la loro complementarietà è fonte di
fecondità e ricchezza (cf 12).
Agostino Porreca
ROBERTO TAMANTI
Corso di morale fondamentale
Cittadella, Assisi 2012
pp. 357, € 25,50
o studio è un valido tentativo di presentare i fondamenti della teologia
morale mantenendo un impianto classico, ma, allo stesso tempo, avvalendosi
di contributi interpretativi interessanti
relativi a due grandi problemi dibattuti
nell’ambito delle discipline: la morale
autonoma e l’opzione fondamentale.
L’A. segue l’itinerario della Veritatis
splendor e fa di essa un punto di riferimento costante che illumina il cammino intrapreso. Vanno anche menzionati gli interessanti studi relativi alla
storia della morale e l’apporto della Sacra Scrittura così rilevante per qualsiasi
approfondimento (OT, 16). L’autore
predilige due chiavi di lettura nell’ambito della ricerca: la prima riguarda il
corretto approccio alla natura umana:
«essa è un essere che indica un dover
essere, ma è sempre necessaria una mediazione razionale/culturale per cogliere cosa, di ciò che fa parte della natura
umana, è indicativo di una vocazione e
quindi di un dover essere, e ciò che invece è un semplice dato di fatto, quindi
modificabile» (33). La seconda, invece,
riguarda l’accoglienza dei dati messi a
disposizione della scienza: «non tutto
ciò che la scienza e la tecnica mettono a
disposizione dell’uomo è ipso facto buono per l’uomo stesso, considerato nella
sua integralità. In questa prospettiva la
teologia morale deve svolgere una fun-
zione critica nei confronti del progresso» (ivi).
Nel complesso, l’opera affronta
tre grandi temi fondamentali: la legge
morale, la coscienza, il peccato. Circa
la legge morale, dopo le affermazioni
classiche in parte desunte dalla Veritatis splendor, l’aspetto più rilevante
sembra essere contenuto nelle considerazioni relative alla morale naturale. L’A. sostiene che «la legge morale
naturale è la persona umana stessa,
con le sue strutture e le sue finalità
tipicamente umane» (132). Da questo punto di vista si comprende bene
quanta influenza possa avere questa
tesi in ordine alla personalizzazione
della teologia morale.
Il tema della coscienza è affrontato
con equilibrio, ma anche con una certa
dose di apertura. «La persona è tenuta,
per essere moralmente buona, ad agire
secondo la propria coscienza, purché
sia retta e certa» (211). E in riferimento ai rapporti con il magistero l’A. sostiene che: «nel caso in cui seguire la
propria coscienza retta e certa significhi
fare una scelta diversa da quella indicata dal magistero, occorre dire che la
persona, pur commettendo oggettivamente un male, propriamente parlando non commette peccato» (230).
Non potevano mancare nella disanima dell’A. le affermazioni classi-
Recensioni
L
347
che sul peccato condite da una certa
leggerezza onnicomprensiva relativa
alla concezione della “gradualità”. Comunque l’A. riconferma la tesi dell’esortazione Reconciliatio et paenitentia
(1984) per cui «fra peccato che distrugge la carità e peccato che uccide la vita
soprannaturale non si dà via di mezzo»
(327). Circa le complesse discussioni relative all’opzione fondamentale
e alla morale autonoma sembra che
l’A. abbia una certa comprensione per
le dinamiche della scelta umana in sé
considerata. In particolare, relativa-
mente alla tesi della morale autonoma
l’A., rifacendosi in pieno alla Veritatis
splendor, boccia senza mezzi termini le
prospettive autonomiste.
L’opera, nel complesso meditata,
equilibrata e multidirezionale segue la
via sicura tracciata dalla Veritatis splendor senza tuttavia esimersi da alcune
aperture interessanti e degne di ogni
considerazione. Per la completezza
dell’informazione e per la vastità delle
nozioni presentate il lavoro si raccomanda a professori e studenti.
Bruno Marra SJ
MASSIMO FAGGIOLI
Vera Riforma
Liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II
EDB, Bologna 2013
pp. 192, € 20
L
a Sacrosanctum Concilium è un
testo fondamentale e un’utile
chiave ermeneutica per la comprensione del Concilio Vaticano II e per
la riforma che ne è seguita. «Nella
storia dell’ermeneutica del Vaticano
II, la riforma liturgica sembra soffrire
una nemesi – una specie di punizione per aver trascurato i legami tra la
costituzione liturgica e l’ermeneutica
generale del Vaticano II» (10).
L’opera di Faggioli vuole rispondere al bisogno di una riflessione
accurata sulla relazione tra la Costituzione liturgica e l’intero risultato
del Vaticano II e sul rapporto tra
liturgia ed ecclesiologia al Concilio.
L’A. accoglie le intuizioni e le idee di
348
G. Dossetti, secondo il quale la SC
rappresenta il vero e proprio nucleo
ecclesiologico del Vaticano II. Sulla
base dell’Eucaristia come norma normans della vita della Chiesa, Dossetti
paragona l’ecclesiologia eucaristica
della SC ai tratti giuridici della Lumen gentium, vedendo nella SC non
solo un’ecclesiologia cronologicamente precedente, ma anche la sua
priorità teologica su tutto il corpus
del Vaticano II (cf 14). Lo studio è
articolato in sei capitoli. Il capitolo I è dedicato alla SC nel contesto
dell’ermeneutica globale del Vaticano II. La liturgia ha il suo ruolo nella
Chiesa come una theologia prima, un
locus theologicus e culmen et fons. Per-
che non fa parte materialmente del
corpus del Vaticano II, ma appartiene
pienamente alle sue finalità, esprime «più chiaramente il tentativo del
Vaticano II di fare della Chiesa un
“sacramento di riconciliazione” per
l’umanità» (96) e consiste in una visione riconciliata e unificante della
Chiesa, della vita cristiana, del rapporto Chiesa-mondo. Il capitolo V
è dedicato allo studio della relazione
tra riforma della liturgia e riforma
della Chiesa. Una riforma liturgica
che ridisegna la forma della celebrazione dell’Eucaristia, sacramento che
fa la Chiesa, rappresenta e anticipa
una grande riforma della Chiesa. La
riforma liturgica presume l’idea di
una Chiesa semper reformanda, in
cui «l’Eucaristia, non una particolare interpretazione ecclesiologica, è
la forza trainante della comunione»
(132). L’ultimo capitolo considera
la ricezione della riforma liturgica
del Vaticano II a cinquant’anni dalla
sua conclusione. Molto spesso la riforma liturgica è diventata la prima
vittima, in uno sbalorditivo esempio
di relativismo teologico, degli sforzi di minimizzare l’aggiornamento
del Vaticano II (cf 157). Il saggio di
Faggioli aiuta a leggere in profondità
la portata teologica della riforma liturgica. «La liturgia del Vaticano II è
costituzionalmente necessaria per la
sopravvivenza teologica del Vaticano II. Annullare la riforma liturgica
del Vaticano II porta allo smantellamento della Chiesa del Vaticano
II» (160). Con il suo studio, l’A. ha
sottolineato l’importanza di comprendere sempre più chiaramente le
profonde connessioni tra riforma li-
Recensioni
ciò l’A. delinea il cammino del suo
studio: la SC è il frutto precoce e al
tempo stesso maturo di un Concilio
basato sull’idea che: 1) il ressourcement è la fonte più potente ed efficace di aggiornamento e di riforma per
il cattolicesimo globale nel mondo
moderno; 2) la riforma liturgica dà
l’avvio a un ripensamento dell’ecclesiologia in un modo più profondo e
duraturo della definizione di Chiesa nella LG; 3) l’ecclesiologia eucaristica della SC fornisce le basi per
l’atteggiamento fondamentale del
Vaticano II, il cosiddetto rapprochement, dentro e fuori la Chiesa; 4) ressourcement, ecclesiologia eucaristica e
rapprochement richiedono una spinta
per una piena attuazione del Vaticano II (cf 24-25). Il capitolo II affronta il rapporto tra riforma liturgica
e il ressourcement. Per il Vaticano II
il ressourcement rappresenta la forza
centrale, seppur nascosta, della riforma liturgica (cf 36). Il capitolo III è
consacrato alla relazione tra riforma
liturgica ed ecclesiologia. La tesi che
l’A. porta avanti è che la riforma liturgica è parte dell’ecclesiologia del
Vaticano II, per cui mettere in discussione questa riforma è il modo
più sicuro possibile per annullare il
Vaticano II e la sua ecclesiologia (cf
63). I cambiamenti ecclesiologici più
importanti operati dalla SC inaugurano il passaggio da un’ecclesiologia
giuridica a una fondata sulla comunione, e una nuova comprensione
del sacerdozio da un modello sacrale
a uno più sacramentale. Nel capitolo
IV l’attenzione è posta sul rapporto tra riforma liturgica e rapprochement. Il concetto di rapprochement,
349
turgica, riforma della Chiesa e teologia del Vaticano II nella sua totalità.
Contro ogni tentativo ideologico e
nostalgico di delegittimazione della
riforma liturgica del Vaticano II, a
50 anni dall’evento del Vaticano II,
350
occorre ricordare le profonde implicazioni teologiche della SC, diventata il simbolo del concilio stesso, capace di ricostruire il legame vitale tra
teologia, liturgia e vita della Chiesa.
Agostino Porreca