Il rischio di educare

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Il rischio di educare
Il rischio di educare
Seconda lezione al Corso educatori scuola La Traccia Calcinate (Bg), 19 febbraio 2010*
[…]
CAPITOLO III – VERIFICA PERSONALE DELL’IPOTESI EDUCATIVA
Passiamo allora alla terza parola de Il rischio educativo. Il titolo del capitolo dice così: Verifica personale
dell’ipotesi educativa come condizione del nascere della convinzione nel figlio, nell’alunno, nell’allievo. Prima
la tradizione, la lealtà con la tradizione, cioè l’offerta di un’ipotesi; poi un luogo, un’autorità dove questa
ipotesi è vissuta e testimoniata; a un certo punto è necessaria la verifica personale dell’allievo, del figlio. Il
figlio a un certo punto comincia a ragionare, comincia a paragonare le proprie esigenze, la propria vita, le cose
che vede, le cose che accadono intorno a lui con il suggerimento che i genitori gli danno, con i consigli, con i
valori, insomma con quell’ipotesi che l’adulto gli offre.
Don Giussani divide questo capitolo in tre parti. Prima cerca di far capire perché è necessaria questa verifica
personale; poi spiega a quali condizioni possa avvenire; infine quali siano le sue caratteristiche fondamentali,
le sue dimensioni. Questo è il tema del nostro incontro, unitamente alla parola « rischio », parola conclusiva e
terribile, perché è proprio quella che chiama in causa la questione della libertà, che gioca misteriosamente sulla
questione educativa ed è il grande dono che Dio ha fatto agli uomini.
1. Sua necessità
Leggerò qualche riga di come intenda don Giussani questa verifica, e quindi le condizioni e alcune caratteristiche della proposta stessa. « L’educazione oggi è manchevole per quel razionalismo di impostazione che
dimentica l’importanza dell’impegno esistenziale come condizione per una genuina esperienza di verità, e
quindi per una convinzione. Non si può capire la realtà se non “ci si sta”. Si capisce di essere perché si agisce.
Quanto più ci si impegna con le proprie energie vitali, tanto più ci si accorge che cosa si è. Di qui appare come
l’educatore odierno pecchi solitamente di superficialità e astrattezza; educare significa troppo spesso semplicemente chiarire delle idee. Ma una volta che le ragioni sono davanti agli occhi resta ancora molto da fare,
perché tali ragioni sono astratte, estranee; sono ancora suoni e parole. Occorre allora un intervento dell’energia,
della libertà. Con questa energia posso far aderire tutto il mio essere all’idea e al programma dell’intelligenza »1.
Spesso noi adulti abbiamo una fiducia un po’ eccessiva, magica nella parola: ci sembra che, una volta che le
cose sono dette, solo perché le abbiamo chiare noi in testa, questo basti a comunicarle; riteniamo cioè che le
parole, i discorsi possano avere una forza convincente tale da muovere nel ragazzo una reazione di energie e
di interesse. Una questione che ho capito bene tanti anni fa parlando con un alunno, che di suo padre mi disse
– con un sorriso un po’ cinico – proprio questo: « Sa, mio padre pensa che, per ciò stesso che dice le cose, le
cose esistano ». Uno così, convinto e sicuro di sé, ha le idee talmente chiare in testa che si stupisce, si scandalizza se le cose non vanno come ha detto lui; come se dirle bastasse a convincere l’altro della bontà di quello
che afferma. A questa astrattezza don Giussani contrappone invece un principio fondamentale: « Quando anche le idee fossero chiare (cioè fosse chiara la parola), non basta assolutamente; resta ancora molto da fare,
perché tali ragioni sono astratte, estranee, sono ancora suoni e parole ». Quand’anche io avessi e proponessi le
idee con estrema chiarezza, non è ancora scattato il fattore fondamentale, e cioè l’interesse o l’energia del
ragazzo, che possa far aderire lui e la sua libertà alla proposta fatta.
Nell’insegnamento questo fenomeno è addirittura eclatante, la malattia degli insegnanti di oggi sta proprio qui:
« Siccome io le cose le so, una volta che le ho dette tu le devi sapere ». Dimenticando un piccolo particolare:
l’uomo non apprende se non gioca in qualche modo la sua libertà. Ci dev’essere sempre una ragione affettiva,
un interesse di rapporto, per cui uno impari ciò che gli viene detto. Perché non è assolutamente né la chiarezza
delle idee né la modalità più raffinata possibile dell’esposizione che convince l’altro a imparare una cosa. Le
cose si imparano solo dentro un rapporto. Questo l’insegnante lo dovrebbe sempre sapere; in realtà, anche se
lo sa, quasi mai si chiede qual è la natura del rapporto che sta costruendo con i suoi alunni. Nel caso dei genitori
dovrebbe essere un po’ più immediato, più naturale; ma ahimè, mi pare che più il tempo passa meno sia naturale,
anche in famiglia: « Siccome io gli ho spiegato la cosa, lui deve comportarsi così ». Non è vero: di mezzo c’è
uno stacco, lo stacco della libertà. L’uomo impara soltanto ciò che, in qualche modo, ama già. Il rapporto, la
qualità del rapporto, è come la colla che ti fa rimanere appiccicato a ciò che l’altro ti dice. La percezione che
*
1
Franco Nembrini, Di padre in figlio. Conversazione sul rischio di educare, Ares, Milano 2011, pp. 59–100.
Luigi Giussani, Il rischio educativo, cit, p. 89. Ivi anche le citazioni successive.
1
uno studente ha in classe del fatto che l’insegnante di lui si disinteressa completamente, e spesso anche delle
cose che sta insegnando, è esattamente ciò per cui quell’alunno non vorrà imparare quel che l’insegnante gli
dice. Perché apprendere, « ad–prendere », vuol dire appiccicarsi, vuol dire proprio attaccarsi...
Qual è la ragione per cui una cosa « si apprende », si appiccica alla mente e al cuore di uno studente? Qual è
il motivo per cui quello che dici a tuo figlio viene appreso, gli si appiccica addosso, gli resta addosso? È la
qualità del rapporto. Alla fine è una questione – come avviene sempre nei rapporti fra gli uomini – di amore.
Senza un amore non c’è possibilità di apprendimento; tanto meno c’è possibilità di verifica di ciò che l’altro
mi propone come lavoro, cioè come « ipotesi educativa ». Se invece scatta questa molla, se c’è un coinvolgimento, allora il valore che il genitore, l’educatore mi propone diventa mio, diventa la scoperta della positività
di quello che mi viene insegnato. Siccome l’ho fatto mio e lo verifico sulla mia pelle, allora diventa interessante
e diventa un criterio mio; così che, se morisse mio padre e mancassero i miei insegnanti, giocherei io quel
valore lì nella mia vita. Senza la scoperta di questa positività o di questa convenienza per sé, provata sulla
propria pelle, non potrà mai nascere una convinzione. La convinzione nasce nel momento in cui quel che tu
dici, quel che tu affermi essere un bene per me, viene provato dentro un’esperienza: solo così diventa mio,
diventa esperienza mia, diventa carne e sangue miei. È la diversità tra parlare di gastronomia e di menù e
mangiare e bere: di quel che ti è stato proposto fai un’esperienza tale che, mangiandolo e bevendolo, diventa
tuo, per sempre. L’uomo diventa grande, anche dal punto di vista biologico e fisico, perché prende parte della
realtà e la assume, la fa propria, attraverso princìpi, criteri, strumenti precisissimi di cui l’organismo è dotato:
parte di quella realtà, mangiando e bevendo, diventa sua, sua per sempre, così per sempre da strutturare il suo
fisico che cresce e diventa grande. La personalità è un po’ così, ha bisogno di entrare nelle cose, nella realtà,
per un giudizio che dà, perché ci si sporca le mani, perché prova e riprova nel paragone continuo tra quel che
vede, quel che accade, i problemi che si pongono, e i criteri che le vengono dati, in una verifica continua. Prova
finché le cose diventano sue, finché quei criteri – magari corretti, magari aggiustati – vengono vissuti con una
profondità a volte maggiore di quella che il maestro o il genitore o l’adulto che avevi davanti ti aveva proposto.
Così che accade quello spettacolo incredibile che a volte avviene nell’educazione per cui un padre – ed è un
grande miracolo che tutti attendiamo – può diventare figlio dei suoi figli. Come dice Dante: « Vergine madre
figlia del tuo figlio »2. Questo è il vertice dell’educazione: che tuo figlio, prendendo da te un’ipotesi, la verifichi
a una profondità tale che è come se ti passasse avanti, ti superasse; e allora tu puoi cominciare a vederlo
crescere e a stupirti di quello che accade, e guardare incuriosito quel che accade a lui. Il discepolo che supera
il maestro, nel senso più profondo e più buono del termine! Bisogna avere tutta la pazienza di accompagnare i
figli in questa verifica personale perché maturi questa convinzione.
Sulla questione dell’esperienza occorre però fare chiarezza, perché ci imbattiamo spesso in equivoci clamorosi.
Il più eclatante è questo: chiamiamo « esperienze » in modo neutrale tutte le cose che un ragazzo può fare.
Invece non è vero che uno perché prova tante cose fa più esperienza. È la cultura in cui siamo immersi che ci
fa dire questa stupidaggine clamorosa. L’esempio che mi viene subito in mente è quello delle morose. Da tante
discussioni con i ragazzi sembra, a sentir loro, che uno quante più morose ha avuto, più ne ha provate, più
abbia esperienza. È una sciocchezza incredibile, perché la storia personale di molti dimostra esattamente il
contrario: dimostra che essersi bruciato in una serie di rapporti superficiali, mai portati fino alla loro conseguenza ultima, è esattamente quello che impedisce, spesso poi per tutta la vita, di avere un rapporto che sia
quello che dev’essere. Così arrivano a venti o venticinque anni, avendo le cosiddette « esperienze » alle spalle,
che costituiscono una serie infinita di cicatrici, le cicatrici di ferite aperte... Invece l’esperienza è la profondità
e la verità di una cosa a cui vai veramente fino in fondo. È il rapporto con la realtà portato fino al suo giudizio
estremo, la realtà assunta in tutte le sue dimensioni. Mentre questo mondo fa credere che quante più ne provano,
tanta più ricchezza ed esperienza ci sono. Come se per scegliere la donna giusta bisognasse provarle tutte! E
comunque, se ci mettiamo in questa prospettiva, il giudizio rimane sempre sospeso, perché resta sempre il
sospetto che la donna giusta possa essere quella che ti fa voltare la testa per strada domani.
Ed è sempre in dubbio perciò il rapporto con la realtà: non è mai fondato, mai certo. Per conoscere il bene e il
male non è necessario provare il male! Se io devo insegnare a un bambino che il fuoco scotta, non è detto che
gli debba mettere una decina di volte la mano sul fornello, perché poi si ustiona veramente; basta che lo aiuti
a capire la cosa giusta da fare. Il tempo non è mai neutrale; quello che fai oggi resta importante per tutta
l’eternità, e realizza il bene oppure il male.
Prendiamo l’esempio dell’uso che si fa della televisione. Non è indifferente il modo in cui tante volte si passano
ore e giorni in mezzo a questo mare di scemenza, di porcheria. E non mi riferisco in primo luogo alla sessualità:
noi siamo cresciuti in un ambiente un po’ sessuofobico, dove l’unico peccato sembrava quello sessuale; invece
2
Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 1.
2
c’è di peggio! C’è una cultura che è molto peggio della pornografia, più devastante dal punto di vista psicologico; perché un certo tipo di film, di libri, di fumetti, mina alla radice il sentimento della certezza del reale,
manda veramente fuori di testa. C’è tutta una cultura costruita apposta per crescere dei bambini – e quindi
degli adulti – senza una certezza sul reale. Un alunno una volta mi disse con terrore: « Lo sa professore che io
ho paura a entrare nel buio in camera di mia madre? ». « Perché? Hai paura del buio? ». « Sì, perché mia madre
potrebbe non essere quella che è! ». Ora, una frase così, detta a diciassette anni, chiaramente esprime una
patologia; ma guardate che nella generazione dei nostri figli questo sentimento è molto più diffuso di quanto
pensiate. La non certezza che le cose siano quello che l’evidenza mostra essere è uno dei dati fondamentali di
questa cultura in cui siamo, ed è il più devastante per la moralità e per la psicologia dei nostri ragazzi. Perché
dire « tua madre non sei sicuro che sia tua madre, potrebbe rivelarsi da un momento all’altro diversa, potrebbe
rivelarsi altro », esprime la facilità con cui i ragazzi stanno davanti alla realtà e all’orrore, senza distinguere,
senza neppure spaventarsi. Se io vedo un film dell’orrore provo orrore; i ragazzi invece si divertono. Hanno
una comunanza e una familiarità con l’orrido così gravi da non far loro più sentire orrore per ciò che è orrido.
Sono venuti meno i parametri di giudizio, in riferimento al brutto e al bello, al bene e al male, al vero e al falso.
Le tre distinzioni che permettono a un uomo di essere un uomo – bene e male, vero e falso, brutto e bello – la
cultura che respirano i nostri figli tende a farle saltare, nei nostri figli non sono affatto scontate.
Provate a immaginare che cosa vuol dire per quel ragazzo che dice « io ho paura di entrare al buio nella stanza
di mia madre perché mia madre potrebbe rivelarsi qualcosa d’altro » la parola « amicizia ». Quel ragazzo, se
non si fida di sua madre, è impedito per la vita ad avere un amico, perché non crederà mai che un amico sia
veramente tale. Non so se sarà in grado di innamorarsi di una donna, con un dubbio così nel cervello. Ripeto:
è un caso esasperato e patologico, ma la cultura in cui siamo immersi è di questo tipo, ed è veramente una
cultura devastante. In questo senso la nostra responsabilità di educatori deve affermare con chiarezza almeno
questi pilastri fondamentali; e non con la parola ma con la testimonianza. Perché se dici: « Questo è bello,
questo è brutto » in modo astratto, teorico, non serve a niente. Bisogna affermare un’esperienza che li possa
accompagnare, dentro cui li possiamo coinvolgere. Questa responsabilità è enorme oggi: fare esperienza del
bello, del bene e del vero, poter testimoniare a loro che questo è il vero e il bene e il bello, perché comporta
una felicità, una riuscita nella vita, una positività, un’energia, un coraggio nelle cose: questa è la testimonianza
che dobbiamo dare ai nostri figli. In fretta, perché il tempo stringe. Sono pieni di brutte cose, hanno la testa
piena di orrori, piena di immagini che a me, d’istinto, danno ribrezzo.
Allora io cerco di dire loro: guardate che, se non state attenti, la familiarità con l’orrido, con ciò che è falso,
con ciò che è negativo, vi lascia qualcosa addosso, non passa invano; non è che tu puoi dire: « Tanto io sono
bravo, sono intelligente, ho le idee chiare, perciò anche se passo quattro ore al giorno davanti alla televisione
a vedere quelle cretinate lì a me, tanto, non fanno niente ». Non è vero! Non è vero neanche per noi adulti; ma
è meno vero ancora a quell’età, perché l’impressionabilità è più forte. Allora bisogna spiegare ai ragazzi che
non è indifferente passare il tempo in un modo o in un altro; perché il male, se lo frequenti, ti resta addosso.
Qualcosa del male che frequenti ti resta appiccicato addosso; e poi ci vuole tempo, tanto tempo, per guarire,
perché il male che ti resta addosso vada via. Vi faccio un esempio un po’ stupido ma chiarificatore. Avete mai
pulito le acciughe sotto sale? Io sono un grande amante delle acciughe, ma quando si comprano hanno troppo
sale, perciò occorre lavarle sotto il rubinetto per toglierlo, poi eliminare le lische e quindi metterle sott’olio:
sono favolose! Il problema però è che, quando ho pulito le acciughe, se viene il momento di stringere la mano
a qualcuno, non posso farlo, perché l’odore si sente per almeno ventiquattr’ore. L’esempio delle acciughe
credo renda bene l’idea che il male ti si appiccica addosso (è qui tra l’altro che trova il suo fondamento il
concetto di indulgenza nella Chiesa cattolica. Il Purgatorio è quella realtà per cui, anche se il peccato è stato
perdonato, tu non puoi ancora andare in Paradiso perché non sei del tutto purificato, hai ancora del « negativo »
appiccicato addosso. Con l’indulgenza, anche se tu sei stato tanto connivente con il male, non solo il peccato
viene perdonato, ma viene cancellato anche ciò che di esso ti è rimasto dentro o addosso). Non pensate che
stare ore, giorni nel male lasci indifferenti; ci segna, e ci portiamo addosso l’odore di questo male, di questa
negatività. Perciò un’indicazione sull’uso del tempo diventa assolutamente fondamentale.
A volte ho l’impressione che questo male abiti dentro i nostri ragazzi in un modo tale che non lo governano
più. Parlando con un ragazzo che aveva fatto una grossa sciocchezza, gli dicevo: « Non mi spaventa il fatto
che tu abbia fatto una sciocchezza; sai che cos’è che mi spaventa? Che tu non te ne accorga; è come se non ti
scalfisse più ». Il male abita dentro tutti quanti noi, di fronte a uno che mi irrita può venire anche a me l’idea:
« Lo ammazzerei ». Sì, in un impeto di rabbia è possibile. Ma l’adulto, l’uomo maturo, è quello che governa
questo male, che riesce a non farlo diventare il determinante della propria azione: è un’altra la cosa che mi
determina. Così, anche se il cervello è stato attraversato da quest’idea, non è quella che dà la forma al rapporto:
il rapporto tra me e la realtà sta in altro, nel giudizio più radicato, più sano, più intelligente che ho del valore
3
mio, suo o dell’amicizia che esiste tra noi. A quel ragazzino facevo un esempio più adatto a lui: se tu ti trovi
per strada e passa una bellissima ragazza, ti può attraversare nella mente l’idea di avere un rapporto sessuale
con lei; ma non per questo agisci di conseguenza. Te ne stai tranquillo, perché sai che questo non è il modo
adeguato per guardarla. Ti attraversa l’idea, ma chi la governa sei tu, che assumi un atteggiamento, un comportamento più vero. Ecco, i nostri figli non sono così; questa generazione di ragazzi è fatta in modo che
l’impulso istintivo li governa più di quanto dovrebbe essere.
Certo, il male c’è; in me, in te, in ciascuno di noi: non è questo che stupisce. Stupisce la loro fragilità nel
giudicarlo, che essi siano in balìa di questa istintività. Il che è pericolosissimo; perché basta che si creino le
condizioni, una serie di coincidenze, e questo male li può dominare al punto da determinare non più solo il
pensiero ma anche l’azione. E allora scoppiano le tragedie che sappiamo; basta una birra in più, bastano due
parole sbagliate, qualche secondo e succedono cose che non devono succedere. Dunque dobbiamo rivedere
l’idea di esperienza: non è necessario farle tutte e farle indifferentemente. Esiste il diritto di fare esperienza del
bene, del vero e del bello.
Dunque, è esattamente come per noi: il ragazzo, l’alunno, il figlio, dice don Giussani, « capisce di essere perché
agisce »3. È in azione che uno scopre sé stesso, è nell’azione che si misura, si pesa, dà veramente un giudizio
su di sé; è nell’azione, cioè nel rapporto con la realtà, che prende le misure anche di sé stesso e si conosce
veramente per quello che è. Non si può pensare di educare a furia di raccomandazioni e di discorsi e, fatto il
discorso, illudersi che il compito sia finito; e poi arrabbiarsi perché naturalmente al discorso l’altro non aderisce... La verifica personale nella quale dobbiamo accompagnare i nostri figli è una verifica della suprema
convenienza di ciò che diciamo; ma se non prova a viverlo dentro le cose, dentro la vita, dentro il reale, come
fa a sapere se conviene? Provate a leggere tutto il Vangelo: Gesù è il grande educatore, il maestro; aveva una
classe di dodici, con qualche testa dura perché qualcuno dopo tre anni gli fece ancora una domanda che lo
spazientì un po’; e Lui: « Ma Filippo, è tre anni che stiamo insieme e che te la dico in tutti i modi e tu non hai
ancora capito! »... Anche Gesù li ha sfidati a provare la suprema convenienza di quello che diceva. I miracoli
che cos’erano? Erano il modo in cui Gesù faceva vedere la suprema convenienza di quel che diceva: « Venitemi dietro ». « Perché dovremmo venirti dietro? ». « Perché vi conviene ». « Ma come facciamo a capire che
ci conviene? ». « Prova a gettare le reti ». « Ma piantala, abbiamo faticato tutta la notte e non si è vista neanche
una sardina ». « Buttala ». « Vabbè, sulla tua parola ci provo ». Tirò su « 153 grossi pesci », dice il Vangelo
(Gv 21, 11), tanto che fu un miracolo che le reti non si strappassero. Allora un piccolo dubbio ai discepoli è
venuto: forse andar dietro a questo qui conviene. Avevano fame, le cinquemila persone che lo avevano seguito,
e lui mosso a pietà dice: « Date qualcosa da mangiare a questa povera gente ». Non avevano niente, nessuno
si è ricordato di fare la spesa. « Che cosa facciamo? ». « Prepara due pesci che li distribuiamo! ». E c’era da
mangiare per tutti. I miracoli erano ciò che faceva venire alla gente il sospetto di una suprema convenienza
nelle parole che lui diceva. Tutti i miracoli sono così; perfino i discorsi che faceva per spiegarli erano così: « Il
regno dei cieli è simile a uno che trova un tesoro nel campo: se non è scemo sta zitto, va, vende tutto quello
che ha, compra il campo e si becca il tesoro. Il regno dei cieli è simile a una donna che ritrova la dracma
perduta ». « Il regno dei cieli, la proposta che io vi faccio di un rapporto con me, è pieno anche di sacrificio »
(perché diceva a tutti « prendi la tua croce e seguimi »), « ma è pieno di convenienza, è una convenienza,
provate ». Per far vedere che nella vita scaturiva questa convenienza suprema faceva i miracoli.
Invece noi purtroppo, per un’educazione sbagliata, deformata, spesso identifichiamo il bene con una legge,
con delle cose da fare. Si dice: « Devi fare così perché si deve, devi fare così perché bisogna far così », in
fondo identificando la nostra condotta educativa con una regola, con una legge. Invece il cristianesimo è esattamente la liberazione dalla legge! Questa è la questione: la liberazione dalla norma e dalla regola; perché è
invece una convenienza suprema che il giovane deve poter scoprire.
Per esempio, quando parliamo ai nostri figli del peccato, lo presentiamo quasi sempre come un’infrazione alla
legge. Invece il peccato è una cosa che non ti conviene, mentre far le cose in un altro modo è una cosa supremamente conveniente per te. Ai miei alunni facevo questo esempio: « Immaginate di essere in partenza per
una gita scolastica: tutti impazienti aspettate la gita, finalmente si va, durerà una settimana, come sarà bello...
Voi desiderate che tutta la classe ci sia, che i vostri amici partecipino; ma improvvisamente, quando siete vicini
al pullman e si sta per partire, uno non arriva. Vi domandate: “Perché non arriva? Stramaledetto!”. Finalmente
qualcuno telefona a casa sua e riceve la notizia, è caduto dalle scale e si è rotto una gamba. Così tutti dicono:
“Che peccato!”. Ecco: il “peccato” è questo: è il dispiacere di non poter fare qualcosa di grande e bello, qualcosa che sarebbe un bene ». Il peccato dobbiamo sentirlo, sulla nostra pelle, così. Immaginate di poter riuscire
a dire questo ai vostri figli – anzi non dire, non mi stancherò mai di ripeterlo, ma far vedere prima di tutto in
3
Cfr Luigi Giussani, Il senso religioso, cit, pp. 46–48.
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voi, perché l’uomo vale per quello che si vede dentro l’azione, perché è nell’azione che si dimostra ciò a cui
uno tiene. Allora testimonianza vuol dire che quel che conta è l’azione quotidiana: l’uso del tempo, dei soldi,
della casa, l’uso delle tue energie, come gestisci i rapporti... perché tuo figlio ti guarda sempre. Tu giudica la
realtà, vivila come la devi vivere, e sei testimone. Poi potrai anche parlarne, spiegare che il peccato non consiste
nel fatto che c’è una regola e, ahimè, l’hai infranta, così che devi ricevere una punizione (logica perversa e
diseducativa, che ottiene di norma l’effetto contrario); ma che ciò che proponi costituisce una suprema convenienza. Il peccato lo devono sentire così: « Che peccato che l’altro non possa venire in gita! », perché peccato
significa un bene minore. Sembra essere un di più e invece è un di meno. Capite che c’è una rivoluzione
nell’educazione morale nei confronti dei nostri figli? Che implica prima di tutto una rivoluzione nella nostra
testa, nel modo in cui pensiamo e viviamo il problema del male e del bene, magari tra marito e moglie, magari
nel consiglio di classe?
Se tu hai come proposta le regole sei finito, perché nelle regole non si riesce mai a stare, perché le regole sono
un meccanismo perverso che genera sempre nuove regole e nuove rotture delle regole, rendono la vita un
inferno, e la pedagogia e l’educazione come imposizione di regole è un inferno da cui i vostri figli scappano.
Aggiungo: per fortuna. La legge è la caratteristica più evidente del paganesimo in cui siamo ripiombati o stiamo
ripiombando. Gesù era venuto a liberarci dalla legge e a insegnare che le regole servono sì, ma servono all’impegno esistenziale della persona di fronte al reale: « Non l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo ». Era
venuto a dirci che le regole vanno bene, io non tocco niente della legge, la legge resta tutta; ma se mi chiedete
di condensarvela in un comandamento vi dico subito qual è: ama Dio, ama il prossimo, relazionati con il reale
in modo positivo, scopri l’infinita bontà del reale. Questa è la legge, questa è la nuova legge che Gesù è venuto
a portare e che ha costruito duemila anni di civiltà. Si vede che è venuto meno quel modo di essere anche da
questo, dal fatto che si ritorna a invocare la legge, la schiavitù della legge. E guardate che la schiavitù della
legge è sempre pericolosa, perché quando si diventa schiavi della legge vuol dire che si diventa schiavi di chi
la legge la fa, cioè del potere: quando noi usiamo le regole come i pagani, a scuola come a casa, rischiamo di
dare per scontato che vogliamo loro bene, ma in realtà ci proponiamo ai nostri figli come i custodi della legge,
i sacerdoti, i grandi sacerdoti della legge e delle regole.
Se noi diciamo ai ragazzi « il peccato è un’offesa fatta a Dio » diciamo una cosa vera – lo dice il Catechismo
di san Pio X, « il peccato è un’offesa grave, fatta a Dio » –, certamente; ma il problema è capire che l’offesa
fatta a Dio è un’offesa fatta a me stesso. « Chi commette peccato è schiavo del peccato », dice Gesù; cioè chi
commette peccato va contro sé stesso. Bisogna arrivare alla scoperta, sulla propria pelle e quindi nella propria
routine quotidiana, nel modo con cui si vive e perciò nella testimonianza data ai nostri figli, che il peccato è
qualcosa meno di quel che potrebbe essere: « Ci perdi a fare così! È di più la vita! ». Come una volta che in un
appartamento di universitari mi è capitato di trovare un’icona con la Madonna Nera di Czestochowa, e dietro
c’era attaccato un calendario Pirelli, di quelli con le bellezze discinte. Occorre saper spiegare perché è peccato
guardare anziché la Madonna Nera il calendario Pirelli. Se tu dici solo « perché è una brutta cosa », quello non
capisce e lo farà sempre di più. Ma se gli dici che ci perde, ci perde perché l’amore, il rapporto con le donne,
il sesso sono una cosa bellissima se vissuta nel giusto modo, allora capisce. Questo lo può capire. Allora quando
gli spieghi che è peccato devi poter dire questo, devi testimoniare questo: guarda che se consideri il rapporto
con le donne come fanno il tuo cane o il tuo gatto ci perdi. Allora gli interessa. Allora un ragazzo di quindici
anni, anche sbalestrato com’è dalla cultura in cui vive, ti ascolta; e ottieni qualche cosa, perché lo inviti a
verificare un criterio che gli proponi, a verificarlo sulla propria pelle, nella propria condizione. In questi termini
infatti può avvenire una verifica per cui la proposta educativa diventa, nel tempo e nella pazienza, convinzione
sua, « roba sua ».
È a questo livello che don Giussani chiede all’adulto di impegnarsi nell’accompagnare gli alunni e i giovani a
verificare la suprema convenienza della proposta. Aggiunge a un certo punto: « Se dai quattordici anni in
poi »... Permettetemi una parentesi. Credo che adesso ci si debba riferire a qualche anno meno; ma non perché
sono più svegli di un tempo, anzi! I bambini di oggi sembrano soltanto più svegli di quelli di una volta! Come
dico sempre ai miei alunni: i vostri bisnonni sembravano meno svegli, e io mi ricordo mia nonna che di fronte
a noi bambini diceva a mio papà: « Ma guarda come sono svegli questi bambini al giorno d’oggi » perché
rispondevamo a tono eccetera « e noi invece quando eravamo piccoli eravamo zitti zitti ». Chissà perché però
quella generazione lì a diciott’anni erano uomini e donne fatti e finiti, e mia nonna, rimasta vedova a trent’anni,
ha tirato su sei figli in tempo di guerra e di fame con una solidità e con una certezza incredibili. I cosiddetti
bambini svegli invece a trent’anni hanno i problemi dell’adolescenza da superare; per cui c’è qualche cosa che
non torna. Però è vero che certe problematiche si affacciano indubbiamente in modo precoce; diciamo che è
come un elastico: questa benedetta adolescenza che una volta durava tre, quattro anni, adesso dura trenta o
quaranta, si è anticipata da una parte e si allunga all’infinito dall’altra.
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Ma a diciott’anni i giochi sono già fatti ugualmente. Io dico sempre ai miei alunni: a vent’anni avete deciso
che cosa sarete nella vita; poi cambiare si può sempre, ma la struttura della personalità che vi siete costruiti tra
i dodici e i vent’anni è quella che vi accompagnerà nella vita. Per questo sono anni assolutamente decisivi, gli
anni in cui matura una convinzione personale, quella certezza psicologica che permette di diventare grandi
attorno a un’ipotesi che ci è stata offerta e che abbiamo visto vivere in alcuni adulti. Con un nota bene: bisogna
stare attenti a non staccare in modo troppo rigido le età. La dinamica educativa che abbiamo cercato di descrivere finora infatti comincia quando si nasce, comincia nel grembo materno, e semplicemente non finisce mai:
la libertà è un mistero così grande che ci permetterà a sessantanni e a settanta di buttare per aria tutto, di
cambiare nel bene o nel male in modo assolutamente radicale; c’è un’età però in cui questo passaggio avviene
in modo più evidente, più chiaro, almeno nelle sue contraddizioni fondamentali, che è l’età dell’adolescenza,
della giovinezza.
Dunque, riprendiamo: « Se dai quattordici anni in poi insistentemente e sistematicamente il ragazzo non è
aiutato a vedere la connessione tra il dato (la tradizione) e la vita, le sue nuove esperienze creano le premesse
perché egli assuma uno dei tre atteggiamenti nemici del cristianesimo: l’indifferenza – tanto è uguale – o il
tradizionalismo o l’ostilità. Il metodo decisivo per impedire a una certa età tali atteggiamenti sta nell’aiutare
la sperimentazione di ciò che è stato dato, che deve essere posto a confronto con ogni cosa »4. Pensate a come
dev’essere l’educatore, sempre « in campo », sempre attivo, sempre in attacco. L’educatore è colui che gioca
sempre in attacco, mai passivo, mai col pensiero che tante volte abbiamo avuto, che i figli possano diventare
grandi da soli; come se noi dovessimo garantire loro alcune cosette, magari anche semplicemente materiali,
alcune condizioni per vivere normalmente, ma poi diventeranno grandi da soli. Quando ci si accorge che i figli,
se non li hai tirati grandi tu, li ha tirati grandi il mondo, spesso è troppo tardi, o per lo meno sono stati fatti
danni incalcolabili. L’educatore, da quando comincia, da quando dà la vita, da quando apre la porta dell’aula,
o c’è o non c’è; e se c’è gioca d’attacco, gioca d’attacco sempre, proprio perché non è scontato che avvenga
questa maturazione, questa verifica personale dell’allievo fino a sperimentare una suprema convenienza.
Invece « la mentalità moderna » – continua Il rischio educativo – « insegna, purtroppo, ai giovani a seguire le
cose fino a una misura a essi comunque gradita e poi basta. Per cui quella “presenza” – la presenza positiva
della realtà, l’esistenza delle cose – è affrontata come spunto per affermare proprie preoccupazioni, propri
schemi e non per essere seguita fedelmente fino in fondo. Così, là dove quella presenza non corrisponde a
predeterminate preoccupazioni (cioè ai propri pregiudizi), il coro dei “se”, dei “ma” e dei “però” fa spesso da
copertura a una mancanza di disponibilità e di genuino amore al vero e al bene. Ecco allora quella diffusa paura
e la strana incapacità dei giovani ad affermare positivamente l’essere »5. Questa è la definizione più perfetta,
credo, che si possa dare della condizione esistenziale dei nostri ragazzi: una strana incapacità ad affermare
positivamente l’essere, una diffusa paura, perché tutta la mentalità moderna insegna a non impegnarsi con la
realtà. Perciò non bastano le parole e i discorsi, ma ci vuole l’impegno esistenziale. Vale a dire: è essenziale
che quel che l’educatore dice e cerca di insegnare sia presente da subito, dall’inizio del rapporto, da quando si
comincia. Nel caso dei genitori da quando nasce il figlio, per gli insegnanti dal momento in cui entrano in
classe: quello che dici dev’essere supportato sempre da una proposta, da un’azione in cui il giovane possa
verificare in te quello che dici. Senza questa mossa della sua libertà non esiste l’io e non comincia neanche
l’educazione.
C’è da constatare, con don Giussani, che siamo in un mondo che dice esattamente il contrario: meno ti impegni
con la realtà, meno vai fino in fondo alle cose, meno prendi sul serio la condizione in cui sei, l’ambiente in cui
ti tocca vivere, e più puoi essere felice; quindi non impegnarti troppo, non esagerare. Quante volte, ahimè,
questa formula diventa anche per noi genitori una formula educativa! Anzi, diseducativa, rispetto allo slancio
con cui, grazie a Dio, la natura butta i nostri figli di fronte alla realtà. Perché quando hanno una certa età è la
natura che spinge i nostri figli a uno slancio di curiosità, di energia dentro le cose; poi c’è tutta la cultura che,
in brevissimo, se non stiamo attenti, ammazza e decurta questo slancio naturale, e possono essere a vent’anni
vecchi e rimbambiti. Quante volte capita che noi siamo complici, magari inconsapevoli (perché altrimenti
sarebbe criminale), di questa mentalità: tutte le volte che un ragazzo, con tutta l’esagerazione propria dell’età,
si lancia nelle cose, e noi gli diciamo « frena » – in quel modo un po’ cinico che equivale a dire: « Ti passerà »
– e poi: « Adesso pensa a studiare ». È un bene invece che l’adolescente cominci a essere sanamente cambiato,
ad avere una sana curiosità rispetto alle grandi domande della vita.
Certo, è un cambiamento che può dare fastidio, ma consolatevi: spessissimo i figli si esprimono peggio di quel
che sono, esagerano i toni apposta, dicono cose che non pensano affatto... Sono così sicuri del rapporto con i
4
5
Ivi, p. 93.
Ivi, p. 90.
6
genitori che tendono a usarli come pattumiera, versando su di loro tutte le amarezze, tutto l’astio che hanno
addosso. Io più volte ho fatto la prova dicendo a uno dei miei figli: « Adesso vediamo se questa stupidaggine
enorme la pensi davvero. C’è un modo solo per vedere se la pensi: vai a chiamare i tuoi amici e dilla davanti
a loro. Se lo fai ti credo ». Nessuno l’ha mai fatto. Perché davanti agli amici si accorge che è un’emerita
stupidaggine, per cui ha vergogna di dirla. A te invece la dice con una sicurezza, con un’ arroganza che appunto
ti vien voglia di dargli uno scapaccione! Ma è perché è certo di te.
Quella che chiamiamo « crisi dell’adolescenza » dunque è la cosa più bella e salutare che possa accadere,
corrisponde a ciò per cui Gesù ha detto « Se non sarete come fanciulli non entrerete nel Regno dei cieli »: cioè
se non sarete per tutta la vita in crisi, in questo senso positivo, con questa domanda incessante che il Mistero
della vita si renda presente, se non siete pieni di domande e di slancio e di tensione nella vita, non entrerete nel
Regno dei cieli, cioè non parteciperete alla verità delle cose.
Ecco, siccome spesso questo slancio, questa tensione, questa domanda l’abbiamo magari persa noi, non la
riconosciamo più come buona neanche nei nostri figli, quando la natura la suscita in loro; allora ci spaventiamo
perché sono in crisi, perché gridano o si arrabbiano per niente o sono un po’ rigidi e magari un po’ irriguardosi,
un po’ esagerati in tutto. Allora che cosa diciamo? « Ti passerà! Adesso pensa a studiare! Vedrai che col tempo,
fra tre o quattro anni, diventerai rimbambito come me! ». Questo è il massimo di offerta educativa che tante
volte osiamo fare! Certo, non diciamo così, ma troppo spesso il senso è quello, il figlio lo percepisce in questo
modo e pensa: « Piuttosto di diventare rimbambito come te, se il resto della mia vita dev’essere questo, faccio
qualche stupidaggine! ».
« Quando sarai grande capirai... »: ti renderai conto che le domande che hai adesso sono ingenue, la vita è
un’altra cosa, è difficile, bisogna pensare a fare i soldi, è una lotta... Questo equivoco, invece di sostenere lo
slancio di libertà e la tensione dei nostri figli, glielo corrompe. Non è responsabilità da poco. Io lo considero
uno dei più gravi delitti che avvengono nell’educazione. Un delitto educativo: perché è uno sbaglio grave non
sentire come buona la domanda che, grazie a Dio, la natura, a una certa età, impone ai nostri figli, e che
potrebbe essere l’occasione per ringiovanire noi. Non nel senso di diventare come loro, nella posizione equivoca del padre che lascia la casa insieme al figlio ribelle; ma nel senso di accompagnare la loro domanda
sentendola fondamentalmente identica alla nostra. La mentalità moderna, che insegna ai giovani a seguire le
cose solo fino a un certo punto, a fare tutto senza esagerare, è in effetti la causa di quella tremenda incertezza
di fronte alla positività del reale, fonte e sorgente di tutti i cinismi, di tutte le violenze, di tutte le disperazioni,
di tutte le anoressie, di tutti i fenomeni che poi ciascuno interiorizza e somatizza a modo suo e che caratterizzano questa generazione. È come se crescessero in questa incertezza di fronte al reale e non avessero più punti
di riferimento e di paragone.
Perché le cose si capiscano occorre sia che l’intelligenza, la lucidità del pensiero, scopra in qualche modo
l’unitarietà e la positività della proposta; sia che, se vogliamo che questa proposta diventi vera convinzione, ci
sia un amore verificato nella dedizione all’esistenza, nella dedizione alla realtà, in quello slancio per cui normalmente a una certa età il ragazzo si butta nell’esistenza. Perciò per aiutare il determinarsi della convinzione,
l’educazione deve da un lato proporre chiaramente e decisamente un senso unitario delle cose, e dall’altro deve
spingere instancabilmente il giovane a confrontare questa ipotesi con tutto ciò con cui ha a che fare, ogni
incontro, ogni avvenimento, ogni aspetto della vita: impegnarsi in una personale esperienza, in una verifica
esistenziale, una verifica sua. La chiarezza delle idee non è ancora educazione: le idee possono cambiare per
le ragioni più stupide dalla sera alla mattina e dalla mattina alla sera; il giudizio, invece, che è frutto dell’esperienza, rimane nel tempo.
2) Sue condizioni
La necessaria verifica della proposta ricevuta avviene però, dice don Giussani, secondo tre condizioni: deve
avvenire nell’ambiente, dev’essere una Verifica comunitaria e deve compiersi nel tempo libero. Andiamo a
vedere brevemente ciascuna di queste tre condizioni.
a) Nell’ambiente
« Prima condizione perché l’adolescente possa verificare la sua ipotesi, è che egli sia aiutato a impegnarsi
secondo un ideale nel suo ambiente. Nulla di più deleterio e a lungo andare esasperante per un ragazzo, che il
non sentirsi umanamente aiutato ad affrontare un ambiente con la necessaria chiarezza e decisione »6. Che cosa
si intende per ambiente? Ambiente è prima di tutto il posto dove si vive, cioè la scuola: l’ambiente per eccellenza per un ragazzo è la scuola. Ci passa cinque ore al giorno tutti i santi giorni della settimana, domenica
6
Ivi, pp. 94–95.
7
esclusa, e se studia ci si impegna altre due, tre ore al giorno. Uscito di casa, è lì il luogo privilegiato dove si
gioca il rapporto con il reale dentro cui verificare l’ipotesi che i genitori gli hanno offerto: è l’ambiente. « Famiglia e scuola hanno, a questo proposito, responsabilità formative così gravide di conseguenze per la convinzione del giovane che a malapena è concepibile la loro massiccia e spesso inconsapevole faciloneria »7.
Se consideriamo « ambiente » il mondo esterno, che ormai è entrato nelle nostre case, quante riflessioni dovremmo fare su questa illusione che i nostri figli, siccome navigano in Internet e sembrano informati su tutto,
hanno accesso a tutto, sembra che abbiano accesso al sapere universale e perciò all’universo: è una menzogna
clamorosa. Guardiamoci da questa illusione, lo dico agli insegnanti e ai genitori. Come è capitato a me, una
mia ex alunna diciannovenne mi chiama e mi dice: « Franco, sono stata invitata a un incontro a Milano ». « E
qual è il problema? ». « Io non sono mai andata a Milano, mi hanno detto che c’è da prendere la metropolitana,
come si fa? ». Questa è una ragazza sveglissima, normalissima, probabilmente messa davanti a un computer
spacca il mondo; ma non è capace di andare a Milano. Dobbiamo assolutamente tener conto di questo aspetto:
ormai c’è una separazione tra il mondo immaginario di cui è piena la testa dei ragazzi e il mondo reale, una
separazione devastante dal punto di vista della conoscenza. Tu pensi di conoscere il mondo intero perché navighi in Internet e sai benissimo dov’è qualche città americana e vedi in diretta la notte degli Oscar; ma in
realtà non sai niente, perché a diciannove anni non sai andare a Milano, e forse ti chiedi se Entratico è in
Venezuela o in Bangladesh mentre è a cinque chilometri da casa tua.
A monte di questa situazione c’è una questione molto grave: l’ambiente, quest’aria che i nostri figli respirano,
apparentemente così universale e aperta al reale, spesso è velenosa, perché è piena di immagini false e costruite.
Le teste dei nostri ragazzi sono piene di un immaginario – di film, di telenovelas, di cartoni animati di un certo
tipo – i cui protagonisti hanno sempre un carattere di straordinarietà, di eccezionalità. Che siano eroi positivi
o negativi, che sia Superman o il cantante, il divo piuttosto che la velina, pensate che cosa vuol dire per i nostri
figli essere venuti su da quando avevano tre, quattro, cinque anni pieni di questo immaginario: il risultato è
che a quindici anni non sopportano più l’ordinario. A loro sembra assolutamente banale, vuoto, indegno della
vita quello che tocca loro vivere, il loro paesello, la famigliola, i quattro amici al bar, questa scuola insopportabile, questi libri da guardare e da studiare. Ma che cosa ha di straordinario la mia giornata? Niente, è la cosa
più banale, più vuota, più stupida e più odiosa che si possa immaginare; allora la ricerca dello straordinario
diventerà una terribile tentazione. E questo malessere, di fronte all’ordinarietà insopportabile della vita, può
trasformarsi addirittura in un’avversione a sé stessi, in malattie psicologiche e altre patologie. Bisogna stare
molto attenti alla potenza dell’ambiente, che ha questa capacità di debilitare le energie, le possibilità di rapporto
con il reale. « Mai come oggi l’ambiente, inteso come clima mentale e modo di vita, ha avuto a disposizione
strumenti di così dispotica invasione delle coscienze »8. Non pensiate che voglia demonizzare le nuove tecnologie, va benissimo Internet, il computer è importante, non voglio neanche discutere; sto solo lanciando un
allarme su questo fatto: l’ambiente, inteso come mondo che ci raggiunge dentro le nostre case e dentro le nostre
scuole, non ha mai avuto a disposizione strumenti di così dispotica invasione delle coscienze come oggi:
« Oggi più che mai l’educatore o il diseducatore sovrano è l’ambiente con tutte le sue forme espressive. Perciò
la crisi si profila in primo luogo come inconsapevolezza che rende gli educatori stessi collaboratori magari
incoscienti di questo ambiente, e in secondo luogo come mancata vitalità nell’atteggiamento educativo che
non fa combattere con sufficiente energia la negatività dell’ambiente, in quanto attesta tali educatori su posizioni schematicamente tradizionali, formalistiche, invece che portarli a rinnovare l’eterno Verbo redentore
nello spirito della nuova lotta ».
È una lotta. In questo senso dicevo che la verifica che il ragazzo deve fare a fronte di un ambiente deve vedere
noi decisi in questa lotta contro l’ambiente e le sue negatività. Decisi però in una proposta positiva; non basta
dire « Non guardare la Tv! », perché l’ambiente entra comunque, entra dalle fessure, entra dall’aria che respirano. Ciò che entra nella testa non esce più! Vale anche quando avete i figli davanti alla Tv a tre anni e gli fate
vedere i cartoni animati della Walt Disney (io, nonostante regalassi sempre per Santa Lucia9 l’abbonamento
ai miei figli, odio Topolino, perché è un mondo totalmente senza padri, senza maestri, senza educatori. Sono
tutti perennemente innamorati e sono tutti nipoti e zii, non c’è una famiglia come Dio comanda).
Insomma sempre dobbiamo essere all’erta. Guai ai genitori che ragionassero con la domanda: « Che male
c’è? »: sono già sconfitti, son già persi. Se tu, da quando sono nati, di fronte alle scelte che fai con i figli hai
come criterio la domanda « Che male c’è? », hai già perso: vincerà l’ambiente, ti sostituirà l’ambiente, perché
tu sei fermo. La domanda dell’educatore non è mai: « Che male c’è? », ma « Che bene c’è? ». Che cosa posso
7
Ivi.
Ivi, anche la citazione successiva.
9 Nella bergamasca, come in altre zone d’Italia, si è mantenuta l’antica tradizione per cui a portare regali non sono Babbo Natale o
Gesù Bambino, bensì santa Lucia; la notte dei doni è perciò quella fra il 12 e il 13 dicembre.
8
8
proporre in questo momento a mio figlio? Che cosa guarda mio figlio? A che cosa si sta attaccando mio figlio,
che proposta di bene faccio a mio figlio? « Che bene c’è? » è la grande domanda dell’educatore che sfida
l’ambiente in cui suo figlio sta crescendo. Chiedendosi che male c’è ha già perso, l’ha già consegnato all’ambiente nel senso deleterio del termine di cui ho detto prima. Come faranno i nostri figli a crescere sentendo che
si può essere straordinari, che può essere straordinaria la vita quotidiana di tutti noi? Del papà, della mamma,
dei professori, della giornata a scuola, come farà a rintracciare, se non siamo noi per primi a farlo, lo straordinario dell’esistenza sua, e perciò a verificarne l’assoluta convenienza? Giovanni Paolo II quando è andato a
Norcia e ha voluto sintetizzare in uno slogan meraviglioso l’opera dei benedettini – di questi anonimi frati che
lentamente e pazientemente hanno rifatto l’Europa lavorando la terra, scavando, tirando su i muri, tracciando
canali, costruendo ponti, nell’anonimato più assoluto, pazienti come buoi al lavoro – ha detto: « Bisognava
che il quotidiano diventasse eroico e l’eroico quotidiano ». Questa è la sfida educativa di oggi. Dobbiamo
paragonarci con questa sfida: bisogna che noi sentiamo la nostra vita eroica, cioè grande, così piena di bene da
lasciare senza fiato, da commuovere e perciò da muovere i nostri figli. In questo modo saranno aiutati a intravedere la straordinarietà della loro vita, della loro esperienza, l’unicità, l’irripetibilità di quello che sono, e non
saranno sconfitti da questo sentimento di grigiore, di inutilità, di evanescenza di tutto quel che vivono, tanto
da doversi rifugiare in quelli che sono stati chiamati i paradisi artificiali.
b) Comunitariamente
Seconda condizione: bisogna che questa verifica sia comunitaria; e comunitaria vuol dire che non basta più la
tua testimonianza. La più grande, la più perfetta, la più santa delle famiglie non è mai bastata neanche prima;
ma oggi in modo assolutamente clamoroso. Bisogna che la proposta che fai il figlio la senta come un pezzo di
mondo che funziona in modo diverso da questo ambiente che ha davanti. Faccio un esempio. Mio figlio Andrea,
quando era in seconda liceo, fece a me e a mia moglie questa domanda: « Ma papà, tu ci stai tirando su normali?
È una preoccupazione che ho, perché tu mi insegni certe cose e io ci credo, mi convinci anche, mi piace questo
tipo di vita che faccio con te, con la mamma, con i miei fratelli; ma il mondo va tutto da un’altra parte. Sei
sicuro che mi tiri su abilitato a stare nel mondo, non è che poi mi trovo come un pesce fuor d’acqua, incapace
di stare al mondo? ». Mi ricordo che mia moglie e io ci riflettemmo molto, perché la domanda era serissima:
che cosa dobbiamo fare perché i figli crescano con la percezione che l’ipotesi che proponiamo loro è veramente
percorribile? Bisogna che vedano che non solo il papà e la mamma nella loro solitudine tentano disperatamente
questa resistenza contro il mondo, ma che c’è un pezzo di mondo che funziona così: ci sono tanti amici che
vivono così, c’è tanta brava gente da guardare, ci sono tanti maestri da seguire. Allora capite come cambia
l’uso del tempo di una famiglia, e l’uso della casa, e l’uso dei soldi, e il pensiero delle ferie: andare a far vedere
ai figli che il mondo è grande e che, per cattivo che sia, c’è tanto da vedere. C’è quello che ti insegnano il papà
e la mamma e c’è La Traccia (sempre che ti fidi de La Traccia): se c’è da fare questa lotta giorno per giorno,
pezzo per pezzo, articolo di giornale per articolo di giornale, una guerra quotidiana, avere la scuola come
alleata non è come averla contro; in questo senso, come è prezioso avere la possibilità di una scuola così!
Questa lotta non può essere roba da cavalieri contro i mulini a vento, il figlio deve vedere che la proposta che
gli fai è condivisa da tanti; e allora diventa veramente un modo di impostare la casa, di aprirla a tutte le possibili
amicizie e presenze, di uscire per andare a vedere tutto quello che di buono, di bene e di grande c’è nel mondo.
Mi ricordo per esempio che alla festa di Ognissanti si diceva ai figli: « Perché non andiamo a trovare qualche
santo? È la loro festa ». Andammo a trovare un ragazzo che loro conoscevano, che non stava bene e stava
morendo da santo (è stato scritto anche un libro su di lui10), e io rimasi colpitissimo perché i miei figli mi
avevano portato a conoscere un santo. A uno viene allora una creatività nell’uso della casa, nell’uso dei soldi
e nell’uso del tempo. C’è tanto da fare, c’è tanto da guardare, perché dove non entri tu entra l’ambiente, un
figlio di qualcosa si riempie: o di quel che gli proponi tu o di altro. Tu educatore devi essere sul fronte così,
pieno di proposta che non ti basta la giornata per le cose grandi che vorresti fare con lui, e non basta la settimana,
e non bastano le ferie (mentre quante volte invece le ferie sono l’occasione della grande noia mortale che
ammazza i figli...).
Questo apre anche un’altra questione interessantissima: questa apertura a ciò che c’è di bene, ai grandi testimoni del nostro tempo, questo modo di scegliere i libri, di leggere i giornali, di accendere o di spegnere la
televisione, è un modo di essere che implica nell’adulto una decisione. Rispondo così a una domanda che
spesso mi viene fatta alla fine di questi percorsi: ma se è così, chi educherà noi adulti? Chi educa te? Da che
cosa ti lasci colpire, da che cosa ti lasci educare, che cosa vuol dire per te padre, per te madre, per te insegnante
avere come nella coda dell’occhio sempre il vero, il bene, il bello? Che cosa vuol dire che quel che ti muove
10
Nicola Fambri, Ne vedremo delle belle. Lettere agli amici, Itacalibri, Castelbolognese 2007.
9
nella giornata è un attaccamento a ciò che c’è di grande, a ciò che rende grande la vita? Tu a che cosa guardi,
tu a chi vai dietro? Non si educa se non si è continuamente educati: l’educatore è prima di tutto un educato,
uno che si lascia educare. «Tutto ciò che c’è di grande, di bello, di buono, di vero, sia l’oggetto dei vostri
pensieri», dice san Paolo (Fil 4, 8), dei pensieri di voi adulti, perché possa essere dei vostri figli.
Per poter fare questo non dobbiamo essere soli! Sarebbe triste se qualcuno di voi alla domanda del figlio « Tu
a chi appartieni? A chi vai dietro? Per poter convincere me a venire dietro a te, padre, madre, insegnante, tu
chi segui? », dovesse rispondere che in fondo non va dietro a niente, non va dietro a nessuno. Invece non puoi
non scegliere qualcuno o qualcosa cui appartenere con tutta la devozione e il coraggio e lo slancio di cui sei
capace.
Così tu dovresti parlare a tuo figlio della bellezza della Chiesa. Ma non esiste « la Chiesa » genericamente. La
Chiesa può solo essere un modo determinato di appartenere alla Chiesa. Quando parli della Chiesa a tuo figlio,
tuo figlio deve avere in mente certe facce, certi amici che frequenti, certi raduni a cui vai, certe parole che dici,
certi libri che leggi, certa gente a cui offri i tuoi soldi e dai il tuo sostegno; deve avere in mente una storia, un
pezzettino di storia. La parola « Chiesa », per essere proposta in modo educativo, veramente significativo, deve
avere una specificazione concreta, precisa: dev’essere verificabile, perché la Chiesa in generale non l’ha mai
verificata e incontrata nessuno.
Per usare un’immagine, la Chiesa è come un treno lunghissimo. Siete mai riusciti a prendere un treno « genericamente »? No. Per prendere un treno devi salire su una determinata carrozza. Quella carrozza è il tuo modo
di prendere il treno; o stai giù, o se decidi di prenderlo devi scegliere una carrozza, anzi, uno scompartimento;
quello è il tuo modo di stare sul treno. Poi il treno è grande, ci sono le carrozze più diverse; ognuno ha la sua,
trova il suo posto e il treno va, ed è così lungo che non vedi più neanche la locomotiva, che è Gesù Cristo. È
così lungo il treno che la locomotiva non la vedi più, ma il fatto che il treno vada ti fa giurare che la locomotiva
c’è e che va che è un piacere. Il treno va, il popolo di Dio cresce, va avanti nel tempo e nella storia; ma tu lo
agganci soltanto salendo su una carrozza particolare. E se a tuo figlio devi dire: « Prendi il treno con me »,
devi dirgli: « Saltiamo su quella carrozza lì, che mi piace più delle altre! ». Così le proposte che facciamo ai
nostri figli o hanno questa verificabilità, concreta, operativa, esistenziale, o quel pezzo di mondo di cui parliamo loro, quell’ipotesi positiva di cui parliamo è così generica, astratta, che non glie ne importa nulla. In
questo senso credo si debba intendere l’aspetto comunitario di cui parlava don Giussani.
c) L’uso del tempo libero
Terza e ultima condizione: l’uso del tempo libero. « Un’educazione incapace di affascinare il giovane nel suo
tempo libero è certamente angusta, non adeguata umanamente »: non si può fare come certa catechesi dove il
problema del tempo libero è tenerli buoni, dove il problema del tempo libero è che non facciano certe cose;
occorre invece affrontare direttamente, senza finzioni, il giovane con una seria proposta di impegno con i valori,
proprio in quel tempo di cui lui solo può disporre. I giovani questo lo capiscono e restano: così il compito
educativo è seriamente impostato. « Attraverso l’impegno con l’ideale nel tempo libero, l’adolescente imparerà
a perseguire la sua ipotesi anche nel restante tempo, dove la pressione della necessità rende la cosa per lui più
difficile »11. Perché dico che questa è un’intuizione geniale? Perché ha dentro un criterio educativo, anche
psicologico, decisivo: « Ogni impazienza esigente degli educatori, che si tratti della scuola o della famiglia,
riguardo a questo passaggio è ingiustificata, rivela astrattezza e non consapevolezza della evolutività sicura
del fenomeno educativo ».
Non siate impazienti, la legge dell’educazione è l’amore, ha i suoi tempi; il tempo dell’educazione si chiama
pazienza, la virtù dell’educatore è la pazienza, perché ci vuole tutto il necessario sviluppo perché quel che
accade in un punto di verità investa tutta la vita. Ci vuole tempo, non si può pretendere da un ragazzo, da un
bambino, da un adolescente, una totalità di impegno con l’esistenza, è una cosa che viene gradualmente (non
siamo capaci di farlo noi adulti alle volte...). La si propone, certo, è lo scopo dell’educazione; ma c’è una
gradualità da rispettare. Dopo di che don Giussani aggiunge: « Sarà perciò fuor di luogo il richiamare l’individuo all’impegno nel dovere scolastico, familiare, come a una priorità in contrasto con una già vissuta dedizione ideale nel tempo libero ». Provo a dirlo così: « Comincia a studiare che poi vedremo, dopo se ne parla;
prima il dovere, poi il piacere ». Queste sciocchezze che a volte diciamo come se si trattasse di acqua fresca,
distruggono: bisogna fare l’inverso. Un genitore mi viene a dire che il figlio non studia e non vuol più venire
a scuola; però si scopre che quando decide lui, cioè nel suo tempo libero, se è impegnata la sua responsabilità,
lì si attacca a qualcosa di vero, a qualcosa di buono, a qualcosa di grande. È una sciocchezza dirgli « Prima il
dovere », perché la dinamica educativa e psicologica prevede l’inverso. Tu scopri che il figlio, che in questo
11
Ivi, pp. 98–99. Ivi anche le citazioni successive.
10
momento odia la scuola, ha un amico interessante, e tu lo conosci e sai che è un bravo ragazzo. Il figlio è un
disastro, non vuole studiare, non ha voglia di fare i compiti, non vuole fare niente, a casa è intrattabile, crepa
se ti dà una mano, ma va volentieri da quel ragazzo (non dico ragazza, perché io suggerisco sempre di non
avere il problema a questa età, oggi la morosa è facilmente la tomba dell’educazione, e ai ragazzi bisogna
spiegarlo e dirlo con delle ragioni. Perché l’innamoramento è la cosa più bella del mondo, lo sappiamo bene
tutti, ma ogni cosa ha il suo tempo, e il vuoto della vita sta facendo arretrare progressivamente l’età in cui
fanno la morosa o il moroso; ma è il riempitivo di un vuoto assoluto, di un vuoto che quando si rivelerà tale
anche lì, li porterà a una sorda disperazione. Bisogna avvertirli: guardate ragazzi che non funziona così!). Ma
quando vedessi mio figlio attaccarsi a quell’amico buono, quando capisco che quella compagnia gli fa bene,
quale sarà la cosa peggiore che posso dirgli? Sarà fargli sentire la decisione presa nel suo tempo libero in
contrasto con i suoi doveri e dirgli: « No, tu non vai più da quello là finché non metti la testa a posto, finché
non cominci a studiare, a obbedire alla mamma... ». È un disastro! Il genitore saggio invece che cosa fa? Si
attacca con i denti e con tutta la speranza a quel rapporto, perché può essere il punto che, pian pianino, per
osmosi, invaderà tutto il resto della vita. Quante volte facciamo questo errore, di mettere in contrasto l’unica
ipotesi positiva dei nostri figli con i doveri che dovrebbero rispettare; e così otteniamo non i doveri, ma una
arrabbiatura cosmica, e in più togliamo loro l’unica possibilità di verifica personale che avevano. Il buon educatore invece è attento a quel che accade nel tempo libero, a quel che il figlio o l’alunno sceglie responsabilmente; perché è da quel punto lì, affettivamente significativo, che può ripartire tutto. Se mio figlio ha un amico
con la testa, a maggior ragione se fosse un amico grande, un parente, il prete, il professore, chiunque, se capisco
che è in un momento di grave disagio, prego tutte le sere che non lo perda, che si attacchi ancora di più, perché
quello che è uscito dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra. Coltivando quel rapporto potrà lentamente e
nella pazienza e nel tempo recuperare il significato dello studio, recuperare il rispetto per la famiglia, per il
papà e per la mamma; non il contrario.
3) Sue dimensioni
Ultimo punto, solo brevemente accennato: don Giussani parla delle dimensioni di questa verifica personale;
ed è interessantissimo perché la questione si ricollega a quello che abbiamo detto all’inizio, al fatto che il
nostro cuore e quello dei nostri figli esige per sua natura di conoscere il vero, di praticare il bene, e che la vita
sia, con il tempo che passa, una cosa bella, una positività, una cosa grande. Dice don Giussani: bisognerà che
nostro figlio o il nostro alunno faccia questa verifica in tutte le sue dimensioni, secondo le dimensioni di ogni
atto umano, cioè secondo le sue tre caratteristiche: è fatto di conoscenza, è fatto di affezione, è fatto di certezza
sul futuro, sul presente e perciò sul futuro. Fede, speranza, carità.
a) Culturale
Come si traducono questa sete di sapere, questa sete di amare, questa sete di bellezza e di bene dell’alunno?
Lui le traduce così: « Motivo per impegnarsi a verificare l’ipotesi educativa dev’essere che essa si propone
come totale spiegazione di tutto, senso ultimo della vita, del mondo e della storia. Ogni scetticismo ed enciclopedismo per cui la cultura sia solamente materiale, incapace di vitale spiegazione di ogni brano di realtà;
ogni conseguente fideismo per cui la religione e la fede siano “al di fuori” di una “cultura”, incapaci di rendere
conto di ogni realtà o problema che emerga, lascerà il giovane freddo e ostile »12. Dev’essere un’ipotesi: pensate che responsabilità abbiamo! Ma se la verifica che nostro figlio deve fare è culturale, cioè del paragone con
tutto, chi glielo insegnerà se non genitori, insegnanti e scuola che la vivono in prima persona? Dove imparerà
a paragonare tutto con la proposta che gli è stata fatta per andare a vedere se è vera?
b) Caritativa
Seconda dimensione della verifica è che ci vuole una grande carità, nel senso più genuino: bisogna aiutare e
accompagnare i figli ad amare quello che incontrano, a stimare il reale, a voler bene alle cose, a voler bene a
sé e alle cose che hanno davanti. L’amore, lo sapete bene, non è una cosa che si può insegnare con le parole,
l’attaccamento alle cose può esser solo testimoniato, e se desideri che un altro ami, questo può avvenire solo
per trascinamento. È così forte il tuo attaccamento alle cose, è così grande l’amore che hai tu per il reale che è
come se trascinassi dentro questa aura positiva tutto quello che incontri, in primo luogo i tuoi figli e i tuoi
alunni. Trascinare l’alunno, trascinare il figlio dentro questo attaccamento al reale che vivi tu, perché anche
lui lo possa scoprire. Apprendere vuol dire appiccicarsi, attaccarsi. Quando un ragazzo apprende (cioè gli si
12
Ivi, p. 101–102.
11
attaccano le cose, diventano sue), è per questa affezione, per questo voler bene, è per questo sentimento positivo delle cose, è dentro questa prima mossa positiva di fronte alla realtà che bisogna accompagnarli, a cui
bisogna educarli, cioè che bisogna pazientemente testimoniare.
c) Missionaria
Da ultimo parla addirittura di « dimensione missionaria », cioè afferma che ciò che è proposto non è vero per
te se non è vero per il mondo intero. La proposta che fai, l’ipotesi che vivi, deve avere a che fare con il mondo
intero: si dice « cattolico » ciò che ha a che fare con tutto, che non lascia fuori niente, non lascia fuori niente
neanche delle dimensioni spaziotemporali. Noi ci abbiamo tenuto tanto che la nostra scuola mantenesse, coltivasse, approfondisse il rapporto con la Sierra Leone, perché non è uguale a zero che tu sia in una scuola che
ha a cuore la Sierra Leone, un pezzo di mondo dimenticato dagli uomini ma non da Dio, perché vuol dire che
tu vai a La Traccia ma lì c’è il mondo, almeno come tentativo. C’è un tentativo di stare aperti sul mondo intero,
è una scuola «cattolica», cioè dove niente del mondo va tralasciato, niente di ciò che esiste, niente di quel che
è umanamente significativo è estraneo: questo vuol dire essere cattolici. Allora capite in che senso un’educazione deve avere come dimensione fondamentale la cattolicità, l’apertura al mondo. Quanto aiuta l’educazione,
quanto sostiene l’educazione questa apertura al mondo!
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