ATTO PROCESSUALE N. 8

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ATTO PROCESSUALE N. 8
MINACCIA AGGRAVATA DALL’USO DI UN’ARMA
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PAOLO VENEZIANI
ATTO PROCESSUALE N. 8
MINACCIA AGGRAVATA DALL’USO DI UN’ARMA
LA TRACCIA
In primo grado, Mario Rossi è stato riconosciuto colpevole del delitto
di cui all’art. 612, primo e secondo comma, c.p., commesso in Milano,
per avere minacciato il vicino sig. Bianchi con il proprio fucile, legittimamente detenuto, e condannato ad una pena pecuniaria, concesse
le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante. In sede
di merito è stato accertato che il Rossi, durante un acceso diverbio con
il condomino Bianchi, si è allontanato rientrando nel proprio appartamento, per uscirne poco dopo portando con sé un fucile, e profferendo
all’indirizzo del Bianchi (rimasto nell’atrio di ingresso) la frase “adesso
voglio vedere se mi fai ancora paura”.
In secondo grado, la sentenza di condanna è stata integralmente confermata. In particolare, nonostante sia emerso pacificamente come il fucile
non sia mai stato puntato verso il Bianchi, entrambi i giudici di merito
non hanno dubitato che l’arma anzidetta fosse stata appresa, impugnata ed esibita dall’imputato al solo scopo di minacciare ed impaurire il
suo avversario. Inoltre, la condanna si è fondata sulla considerazione
che la semplice esibizione dell’arma all’avversario, in un contesto di elevata litigiosità, fosse pacificamente più che sufficiente a far intendere al
predetto che di quell’arma il possessore era propenso e disposto a far
uso contro di lui; e che quindi tale condotta fosse idonea ad intimorirlo,
secondo la comune sensibilità dell’uomo medio.
Il candidato, assunte le vesti del legale Tizio, rediga l’atto del caso, nell’interesse del Rossi, il quale intende altresì revocare il precedente difensore.
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LE NORME DI RIFERIMENTO
art. 52 c.p.;
art. 339 c.p.;
art. 612, commi 1 e 2, c.p.;
artt. 571, 606 c.p.p.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
F. DASSANO, voce Minaccia (diritto penale), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 334
ss.; E. MEZZETTI, voce Violenza privata e minaccia, in Dig. disc. pen., XV, Torino,
1999, 264 ss.
MASSIME GIURISPRUDENZIALI
Cass., Sez. V, 24-9-1984, n. 7355, RV165667.
Le frasi intimidatrici espresse in forma condizionata non integrano gli estremi
del reato di minaccia, quando siano dirette non già a restringere la libertà psichica
del soggetto passivo, bensì a prevenirne un’azione illecita, rappresentandogli la
reazione legittima determinata da un suo comportamento.
Cass., Sez. V, 15-2-2007 (dep. 27-2-2007), n. 7106/06.
La minaccia è un comportamento comunicativo. Quando il giudizio penale richiede l’interpretazione di fatti comunicativi, le regole del linguaggio e della comunicazione costituiscono il criterio di inferenza (premessa maggiore) che, muovendo dal testo della comunicazione o comunque dalla struttura del messaggio
(premessa minore), consente di pervenire alla conclusione interpretativa. Sicché
le valutazioni del giudice del merito sono censurabili solo quando si fondino su
criteri interpretativi inaccettabili (difetto della giustificazione esterna) ovvero applichino scorrettamente tali criteri (difetto della giustificazione interna). La stessa
individuazione del contesto comunicativo che contribuisce a definire il significato
di un documento o di un’affermazione o di un qualsiasi messaggio, invero, comporta una selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti, che è propria del giudizio di
merito. Sicché, quando l’interpretazione del significato di un testo o di un qualsiasi
fatto comunicativo è sorretta da un’adeguata motivazione, essa è incensurabile
nel giudizio di legittimità. (Nel caso di specie, è stata ritenuta illogica la motivazione dei giudici di merito, che avevano preso in considerazione il solo fatto dell’imputato di aver impugnato un’arma, prescindendo dalla frase contestualmente
pronunciata dal medesimo, tale da manifestare un intento puramente difensivo).
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L’ATTO
CORTE DI CASSAZIONE
Sezione Penale assegnanda
Per il tramite della Cancelleria della Corte d’Appello di Milano
RICORSO PER CASSAZIONE
(artt. 571, 606 c.p.p.)
Il sottoscritto avv. Tizio, del Foro di . . . con studio in . . . , via . . . , iscritto all’Albo speciale degli Avvocati cassazionisti, in qualità di difensore di Rossi Mario,
nato a . . . , il . . . in forza di nomina con procura speciale in calce al presente atto,
PROPONE RICORSO PER CASSAZIONE
ai sensi dell’art. 606, 1° comma, lett. b) ed e), c.p.p., avverso la sentenza della
Corte d’Appello di Milano, . . . Sezione penale, in data . . . (dep. . . .) n. . . . R. Sent.,
con la quale e con riferimento al capo in cui è stata confermata l’appellata sentenza del Tribunale di Milano in composizione monocratica in data . . . , n. . . . . R.
Sent., di condanna del Rossi alla pena di euro . . . di multa, oltre al pagamento delle
spese processuali, per il delitto di cui all’art. 612, 1° e 2° comma, c.p., in relazione
all’art. 339 c.p. (in Milano, il . . .), per i seguenti
MOTIVI
1. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612 c.p. (art. 606, 1° comma,
lett. b), c.p.p.), sotto il profilo dell’insussistenza del fatto tipico di minaccia.
1.1. Le conclusioni cui sono giunti i Giudici di merito in punto di qualificazione
giuridica del comportamento tenuto da Rossi Mario risultano viziate da un’interpretazione dell’art. 612 c.p., erronea e sicuramente difforme dallo spirito dei consolidati insegnamenti della Suprema Corte circa l’interpretazione della struttura
oggettiva del fatto tipico di minaccia.
Giova premettere in sintesi l’aspetto centrale della vicenda, per come è stato
ricostruito nella sentenza della Corte d’Appello di Milano (pag. . . .): il Rossi, nel
corso di un contrasto verbale con Bianchi, entrò nel proprio appartamento e ne
uscì subito dopo impugnando un fucile e pronunciando la frase “adesso voglio
vedere se mi fai ancora paura”.
Al fine di un corretto inquadramento della condotta del Rossi, non si può prescindere innanzitutto da una valutazione congiunta, sia dell’azione consistita nel
ritornare al cospetto del Bianchi con l’arma, sia della frase rivolta al medesimo:
“adesso voglio vedere se mi fai ancora paura”.
La frase in questione non contiene, a ben vedere, alcuna minaccia. Mentre nella
prima fase della disputa, evidentemente, il Rossi si è sentito impaurito dal Bianchi,
tanto da essere indotto a munirsi dell’arma, in questa seconda fase il Rossi medesimo si è limitato a manifestare al proprio antagonista di non essere più intimorito,
di non avere più paura (essendo, ora, armato).
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1.2. E del resto, il fatto tipico di cui all’art. 612 c.p. richiede la minaccia di “un
ingiusto danno”. Ebbene, quale sia il danno ingiusto minacciato dal Rossi all’indirizzo del Bianchi, non è stato scritto nelle motivazioni delle sentenze di merito;
né poteva essere diversamente, per la semplice ragione che questo estremo – pur
necessario ai fini dell’integrazione degli estremi oggettivi del delitto in esame - non
si ravvisa in atti.
Sul punto, le osservazioni in diritto contenute nell’impugnata sentenza (laddove
si ritiene indubbio che il litigio in corso imponesse di ritenere che l’arma anzidetta
fosse stata appresa, impugnata ed esibita dall’imputato al solo scopo di minacciare
ed impaurire il suo avversario), oltre a risultare sostanzialmente apodittiche, non
tengono conto della necessità di apprezzare l’ingiustizia del danno minacciato.
1.3. Inoltre, come puntualmente chiarito da codesta Suprema Corte, “le frasi
intimidatrici espresse in forma condizionata non integrano gli estremi del reato di
minaccia, quando siano dirette non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, bensì a prevenirne un’azione illecita, rappresentandogli la reazione legittima determinata da un suo comportamento” (Cass., Sez. V, 24-09-1984, n. 7355,
RV165667).
Tale massima può a fortiori essere richiamata nel caso di specie, in cui la frase
del Rossi si presta ad essere al più interpretata (non già come la minaccia di un
male ingiusto, ma) alla stregua di una manifestazione della volontà di difendersi
legittimamente, nel contesto di un litigio in corso, qualora il proprio antagonista
avesse inteso aggredirlo.
1.4. Erroneamente, dunque, l’impugnata sentenza focalizza l’attenzione in via
pressoché esclusiva su quella parte della condotta consistita nell’apprendere ed esibire l’arma, pretendendo di qualificare il fatto solo alla luce di tale aspetto, isolandolo dalla frase pronunziata (se non addirittura ricavando arbitrariamente da quest’ultima un significato intimidatorio ad essa estraneo) e dall’ulteriore contesto.
In altri termini, il caso di specie presenta tutta una serie di peculiarità, che inducono a ritenere non corretta la conclusione cui perviene la Corte d’Appello di Milano, secondo cui la semplice esibizione dell’arma all’avversario, in un contesto di
elevata litigiosità, era pacificamente più che sufficiente a far intendere al predetto
che di quell’arma il possessore era propenso e disposto a far uso contro di lui; e
quindi era idonea ad intimorirlo, secondo la comune sensibilità dell’uomo medio.
Vero è infatti che, secondo la Corte di Cassazione, anche la mera esibizione di
un’arma potrebbe costituire comportamento idoneo a incutere timore, realizzando pertanto il delitto di minaccia grave. Tuttavia, come si ritiene di avere chiarito
poc’anzi, la condotta dell’imputato, per come emersa in sede di merito, risulta ben
più articolata: sicché, laddove valutata nel suo complesso, non può essere qualificabile come minacciosa.
Si ritiene, più precisamente, che tale valutazione complessiva non possa prescindere dal dato pacifico che l’esibizione dell’arma è stata accompagnata da una frase
priva di reale contenuto intimidatorio, meramente diretta a negare l’esistenza di un
sentimento di paura in capo a colui che l’ha profferita (in sostanza: non ho paura, o
adesso non mi fai più paura, ovvero testualmente “adesso voglio vedere se mi fai ancora paura”), o al più implicitamente allusiva ad un intento difensivo. Si tratta invero
di elementi che, seppure emersi in sede di merito, non sono stati adeguatamente
valutati nella loro rilevanza ai fini di una corretta interpretazione dell’art. 612 c.p.
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Alla luce di tali elementi, va esclusa in diritto - già sul piano oggettivo - la sussistenza del fatto tipico di minaccia.
2. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612 c.p., in relazione all’art.
43, 1° comma, c.p. (art. 606, 1° comma, lett. b), c.p.p.), sotto il profilo dell’insussistenza del dolo.
2.1. Nella denegata ipotesi che Codesto Onorevole Collegio ritenesse infondate
le censure sopra esposte, si deve sottolineare come – in ogni caso, e quantomeno
– il presente giudizio avrebbe dovuto concludersi in sede di merito con una pronunzia assolutoria con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, stante
l’evidente difetto di dolo in capo al Rossi.
Invero, gli elementi già sottolineati in sede di esposizione del primo motivo di
ricorso, quand’anche non fossero reputati sufficienti ad escludere sotto il profilo
oggettivo la minaccia, paiono indubitabilmente incompatibili con la volontà di minacciare un danno ingiusto.
La sentenza impugnata erroneamente prescinde da una verifica circa l’effettiva
sussistenza dell’elemento soggettivo, pretendendo di desumere il dolo dalla condotta di esibizione dell’arma, e dall’oggettiva idoneità della condotta medesima
ad incutere timore: una sorta di dolus in re ipsa, la cui inaccettabilità è da molto
tempo un punto fermo negli insegnamenti della Suprema Corte.
2.2. Ma non solo: la sentenza d’appello ha trascurato di valutare in maniera corretta la rilevanza in diritto gli elementi fattuali, che in modo inequivoco inducono
ad escludere che il Rossi si sia rappresentato ed abbia voluto realizzare un fatto di
minaccia in pregiudizio del Bianchi.
E precisamente:
2.2.1. La già citata frase pronunziata dal Rossi non pare affatto denotare una volontà di minaccia; al più forse, potrebbe evocare l’intenzione di difendersi, qualora
l’antagonista dovesse insistere nella sua condotta aggressiva.
2.2.2. L’arma, in base a quanto emerso in sede di merito, non è mai stata puntata
dal Rossi contro il Bianchi.
3. Manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo della sentenza
impugnata (art. 606, 1° comma, lett. e), c.p.p.).
3.1. Secondo la Corte d’Appello di Milano, la condotta del Rossi, sotto un profilo logico-ricostruttivo, non si presterebbe a interpretazioni diverse ed alternative
rispetto alla minaccia.
In realtà, dal punto di vista logico, la conferma della sentenza di condanna di
primo grado poggia su una serie di forzature nella ricostruzione della vicenda, di
particolare evidenza sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato.
Dalla condotta, come si è visto, i Giudici milanesi pretendono di desumere l’elemento soggettivo del delitto ascritto all’imputato, escludendo ogni differente interpretazione.
Al contrario, è manifestamente più logico ritenere che l’atteggiamento del Rossi
sia incompatibile con il dolo della minaccia.
Il Rossi prende infatti l’arma, ma – nella sua intenzione - non per minacciare
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l’avversario, quanto “per non avere più paura di lui”, come si desume dalla frase
pronunziata.
In quest’ottica, appare frutto di un manifesto salto logico il ravvisare la volontà
del Rossi di minacciare al Bianchi un danno, e per di più un danno avvertito come
ingiusto dall’imputato.
Per tali motivi, il sottoscritto ricorrente
CHIEDE
che codesta Ecc.ma Corte di Cassazione voglia annullare senza rinvio l’impugnata sentenza perché il fatto non sussiste, ovvero, in subordine, perché il fatto
non costituisce reato.
Con osservanza
Milano, . . . .
(f.to avv. Tizio)
NOMINA DEL DIFENSORE con PROCURA SPECIALE
ed ELEZIONE DI DOMICILIO
Il sottoscritto Rossi Mario, nato a . . . , il . . . ivi residente, via . . . , n. . . . , revocando ogni precedente nomina ed elezione di domicilio, nomina quale difensore
di fiducia l’avv. Tizio, del Foro di . . . , con studio in . . . , via . . . , n. . . . , iscritto
all’Albo speciale degli Avvocati cassazionisti, eleggendo domicilio presso lo studio del difensore medesimo, nonché conferendo allo stesso apposito mandato ex
artt. 571, c.3 e 613 c.p.p., nonché procura speciale per la proposizione del suesteso
ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, . . . Sezione penale, in data . . . (dep. . . .), n. . . . R. Sent., con la quale è stata confermata
l’appellata sentenza del Tribunale di Milano in composizione monocratica in data .
. . , n. . . . R. Sent., di condanna del sottoscritto Rossi Mario alla pena di euro . . . di
multa, oltre al pagamento delle spese processuali, per il delitto di cui all’art. 612,
1° e 2° comma, c.p., in relazione all’art. 339 c.p., nonché per il deposito del ricorso
per cassazione medesimo, ed ogni ulteriore incombente.
Milano, . . .
(f.to Rossi Mario)
É autentica
(f.to avv. Tizio)