Secondo la Corte di Cassazione il lavoro nero configura il reato di

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Secondo la Corte di Cassazione il lavoro nero configura il reato di
12-11-2007
Secondo la Corte di Cassazione il lavoro
nero configura il reato di estorsione
Corte di Cassazione, Sentenza n. 872 del 21 settembre 2007
a cura di FRANCESCA GARISTO, avvocato penalista consulente della CGIL di Milano
Una recente pronuncia della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione (n. 872 del 21 settembre
2007) è finalmente intervenuta per riconoscere la sussistenza del reato di estorsione nel caso in cui il
datore di lavoro abbia costretto il dipendente ad accettare trattamenti retributivi e condizioni
di lavoro contrari alla legge e ai contratti collettivi; più in generale caso quando lo stesso imponga al
lavoratore condizioni vessatorie di ogni genere, con la minaccia – sia pure implicita – del
licenziamento.
Occorre ricordare che l'estorsione, definita dall'art. 629 del codice penale, consiste nell'azione di
“chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, procura a sé o ad altri
un ingiusto profitto con altrui danno..”. Perchè venga integrato il reato occorre pertanto che siano
presenti tutti gli aspetti della condotta descritta dalla norma: la violenza o la minaccia finalizzata a
costringere qualcuno a fare o a non fare qualcosa contro la sua volontà, il profitto di chi agisce e il danno di
chi subisce.
La giurisprudenza di merito fino ad oggi si è dimostrata contraria ad individuare il reato previsto dall'art.
629 del codice penale nelle ipotesi simili a quella esaminata dalla suddetta sentenza. In particolare questa
contrarietà si è finora manifestata quando la minaccia del “male ingiusto” voluta dalla norma, non era
sufficientemente determinata ed evidente, o quando era intervenuto un accordo tra le parti che lasciava
presumere una libera determinazione del lavoratore (il quale deciderebbe spontaneamente di assoggettarsi
alle richieste, sia pure inique, di colui che trae vantaggio dall' accordo medesimo). In tal modo omettendo di
considerare che la libera determinazione del lavoratore subordinato è implicitamente e certamente
sempre limitata dalla condizione di subordinazione stessa e dal bisogno.
Qualche mese prima che intervenisse la richiamata sentenza della Corte di Cassazione, ad esempio, il
Tribunale di Monza era intervenuto esprimendosi in maniera diversa su un caso patrocinato da Cgil e Cisl di
Milano (sentenza n. 1772 del 06/07/2007).
Nello specifico il Giudice di Monza aveva escluso il reato di estorsione (ravvisando però quello di truffa) nel
caso in cui il datore di lavoro, pur avendo “eletto il lavoro nero derivante dallo sfruttamento di cittadini extracomunitari come una regola aziendale primaria” e pur riscontrando che “l'ingiusto profitto era stato eletto a
prassi aziendale, a tutti nota e da tutti accettata”, non esplicò nessuna minaccia quando indusse decine di
lavoratori extracomunitari coinvolti in una illecita richiesta di danaro finalizzata all'espletamento delle
pratiche per la loro regolarizzazione, a sborsare quanto richiesto.
A giudizio del Tribunale di Monza infatti, l'esborso veniva effettuato liberamente dai lavoratori pur di
ottenere l'agognato obiettivo previsto dalla “sanatoria” del 2002, o addirittura per avere la busta paga
necessaria per dimostrare la sussistenza del rapporto di lavoro, condizione necessaria per la loro
regolarizzazione sul territorio italiano. Pertanto secondo il Tribunale di Monza, non solo in quel caso non vi
fu nessuna minaccia nel senso voluto dalla norma incriminatrice, ma nemmeno il ”male ingiusto” che, a suo
avviso, nel caso di lavoratori extracomunitari sarebbe “il portato inevitabile di chi si trovava in una situazione di
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illegalità volontariamente cercata ed accetta: essendo clandestini..” e non già “un male” inflitto per volontà del
datore di lavoro.
In tal modo il Giudice ometteva di considerare che il “male ingiusto” voluto dalla norma è la negazione
arbitraria da parte del datore di lavoro di un diritto del lavoratore straniero ad essere
regolarizzato nel momento in cui è in possesso dei requisiti di legge e che una specifica normativa gli
riconosce tale possibilità; inoltre il Giudice non ha considerato che la minaccia che integra l'estorsione è
quella in grado di coartare la volontà della vittima in relazione alle circostanze concrete e alle
condizioni soggettive e ambientali della vittima.
Crediamo, all’opposto, che sia evidente come il lavoratore non abbia la libertà di decidere di sottrarsi alla
richiesta ingiusta del datore di lavoro senza subire conseguenze gravosissime per uno straniero: la sua
mancata regolarizzazione, sia del rapporto di lavoro che della sua presenza sul territorio italiano.
Diversamente la Seconda Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha a nostro avviso attribuito alla
norma che definisce il reato di estorsione il senso e l'interpretazione più consoni alla attuale
realtà sociale, ove la situazione del mercato del lavoro è particolarmente favorevole a chi – al di là di
esplicite minacce di licenziamento – si avvalga della evidente sproporzione tra offerta e richiesta di
lavoro per condizionare a suo favore il potere di autodeterminazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Lavoratori e lavoratrici i quali, pur di non incorrere nel rischio di perdere il lavoro, subiscono trattamenti
umani e retributivi illegittimi e normalmente inaccettabili.
Secondo la Cassazione la “minaccia” da cui consegue la “costrizione” della vittima può presentarsi in
molteplici forme e può essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata e finanche
assumere la forma di esortazioni o consigli. Ciò che rileva è sia il proposito perseguito da chi tale
minaccia mette in atto – inteso a raggiungere un ingiusto profitto con altrui danno – sia la
coartazione del soggetto che subisce la minaccia.
Dopo questa sentenza quindi, si apre uno spiraglio nuovo ad illuminare la realtà sommersa dei
lavoratori sottoposti quotidianamente alla tacita e insidiosa minaccia del licenziamento nel caso non
accettino quanto è legalmente ed umanamente inaccettabile.
E anche per il sindacato si rafforzano le possibilità di azione esercitabili secondo diverse modalità a
seconda della situazione:
- la promozione diretta di procedimenti penali contro certo genere di datori di lavoro proponendo la
denuncia alle autorità e intervenendo nel processo (denuncia peraltro procedibile d'ufficio)
- la costituzione di parte civile quale soggetto danneggiato
- l’intervento a sostegno dei lavoratori quale associazione a cui la legge riconosce finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato ai sensi degli artt. 91 e 93 del codice di procedura penale, qualora non sia
riscontrabile il danno del sindacato.
Nel caso di costituzione di parte civile il sindacato potrà chiedere ed ottenere un risarcimento del danno
ed esercitare una vera e propria difesa dei propri interessi nel processo. Nel caso di azione a sostegno dei
lavoratori, pur non potendo richiedere un risarcimento per sé, il sindacato potrà comunque intervenire –
seppure con poteri più limitati – a sostegno delle ragioni del lavoratore in maniera significativa (come
peraltro è avvenuto nel caso citato del Tribunale di Monza da parte di Cgil e Cisl di Milano).
Documenti
- Corte di Cassazione, seconda sezione penale – Sentenza n. 872 del 21 settembre 2007
- Tribunale di Monza – Sentenza n. 1772 del 3 settembre 2007
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