A SCUOLA DI FAUNA

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A SCUOLA DI FAUNA
A SCUOLA DI FAUNA
Curiosità, modi di dire, proverbi, aneddoti, miti e leggende sugli animali
Graziano Fabris
A SCUOLA DI FAUNA
Graziano Fabris
Graziano Fabris
Fin da bambino ha sempre nutrito
un grande interesse per gli animali
in genere e per gli uccelli in particolare. Appassionato ornitofilo,
alleva fin dalla più giovane età
uccelli esotici, indigeni, canarini e
loro ibridi.
Dal 1994 è Presidente della
FIMOV e Direttore della rivista
OASI aci. Da 3 anni si occupa del
Progetto di Educazione Ambientale
della Provincia di Treviso. Ricopre
inoltre la carica di
Presidente
dell’Ente Feste Varaghesi che dal
1973 organizza tra l’altro, dei pre-
stigiosi appuntamenti per l’uomo
Sul retro
“Sagra dei Osei di Sacile”, agosto 1953
Foto Archivio Pro Sacile
con la flora e con la fauna.
Settore Gestione della Fauna
Via Cesare Battisti, 30 - 31100 Treviso
Tel. 0422.656.341 - Fax 0422 656.032
Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz
In copertina disegno di
Marialuisa Dal Poz
PREFAZIONE
Un occhio laico capace di cogliere preziose notizie del mondo animale.
Fabris è riuscito a capire con invidiabile eclettismo e curiosità le informazio-
ni sugli animali, ovunque esse si siano esplicitate o si siano nascoste.
Non importa che esse fossero celate nei suoi ricordi di ragazzo, o nella sua
esperienza di allevatore; non importa che esse fossero espresse in testi scien-
tifici o nei racconti di vecchi contadini o cacciatori; o che fossero nascoste
tra le righe di una favola, nella mitologia o nella letteratura.
L’autore, con abilità e passione, ha saputo scovare tutto quello che serve per
incuriosirci ovunque abbia ritenuto di poter cogliere un particolare, una tradizione o un aneddoto.
Ha saputo porsi come investigatore vivo e curioso per conoscere l’animale
nelle sue interazioni con chi lo sta osservando.
Auguro agli studenti di apprezzare questa raccolta per far luce sulla cono-
scenza del mondo degli animali e degli uomini che con essi condividono una
nicchia ecologica.
Agli insegnanti va il prezioso compito di aiutare i ragazzi a sistematizzare e
organizzare i numerosi e variegati spunti contenuti in questo lavoro.
Allo scrittore auguro che questa pubblicazione sia solo l’inizio e attendo con
curiosità le sue prossime storie.
Leonardo Muraro
Presidente Vicario della Provincia di Treviso
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE
Questo libro, è dedicato a tutti i ragazzi in età scolare che ho incontrato nell’ambito del progetto di educazione ambientale voluto dalla Provincia di Treviso.
In esso, non sono presenti le solite monografie che si trovano nei vari libri di animali, ma una raccolta di esperienze, di curiosità, di particolarità, di leggende, di
aneddoti e di proverbi, che per secoli sono stati vissuti, raccontati e tramandati,
quando uomini e animali vivevano gli uni accanto agli altri in un habitat ormai del
tutto scomparso.
Cari ragazzi, queste mie conoscenze partono da molto lontano, da quando ero un
ragazzino come voi e appena tornato da scuola e fatti i compiti, “scappavo” da
casa e andavo “per campi” dove potevo incontrarmi con un mondo animale, che
viveva in un habitat ideale, in perfetta simbiosi con l’uomo. E davanti ai miei occhi,
di bambino innamorato degli animali e della natura, potevo osservare questo
mondo fantastico, che con il passare degli anni ha finito con lasciarmi un segno
profondo fatto di ricordi, di attese, di incontri, di sensazioni, le stesse che erano state
di tanti altri bambini che le avevano vissute prima di me, ma che le mie generazio-
ni purtroppo non hanno saputo tramandare e che voi oggi, purtroppo, potete soltanto ascoltare e rivivere con un po’ di immaginazione come in una favola bella. E
sì, scappavo proprio di casa ogni qualvolta riuscivo ad eludere la vigilanza di
nonna Maria, che non poteva certo competere con la mia vivacità e doveva accon-
tentarsi di seguirmi da lontano, timorosa, che andassi, come si soleva dire allora, a
“pericolarmi”. Allora, erano i primi anni ‘50, la gente lavorava la terra con la
forza delle braccia, e, per questo, la campagna era molto frequentata da un nugo-
lo di bambini di tutte le età, da genitori, da nonni e da vicini di casa che prestavano la loro opera e che trascorrevano nei campi l’intera giornata. Il lavoro era così
tanto, che, per non perdere troppo tempo, spesse volte il frugale pranzo veniva por-
tato direttamente sul posto e i lavoranti si sedevano all’ombra di un albero per man-
giare quel poco che era stato cucinato per loro. La vita era disciplinata dal sole e
dal canto del gallo, che davano la sveglia e l’inizio al lavoro. Era poi scandita dalla
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campana che rintoccava il mezzogiorno, allora il lavoro s’interrompeva, e suonava la sera, quando il lavoro cessava. Ed era ancora la campana a suonare a festa,
la domenica, quando lavorare era peccato, quando finalmente si poteva mettere il
vestito buono e mangiare con tranquillità, magari un po’ di pane, anziché la solita
polenta. Nella campagna che si estendeva per qualche kilometro intorno a casa
mia, mi conoscevano tutti e nonostante fossero molto gelosi del loro terreno, guai
per esempio calpestare l’erba, quando mi
vedevano comparire mi accettavano di buon
grado, sapendo di questa mia grande pas-
sione. Sovente mi intrattenevo con i più vec-
chi e chiedevo di raccontarmi le loro espe-
rienze, i loro fortuiti incontri con gli anima-
li e, da essi, sapevo che in quel determinato
luogo potevo vedere un nido di Fringuello o
RAMARRO
la tana di un Riccio.
Raccoglievo tutte queste notizie e questi
insegnamenti nel mio (tipico per quegli
anni), quadernone con la copertina nera e i fogli bordati di rosso del quale ero gelosissimo. In esso, registravo pure i miei incontri e le mie esperienze. Ricordo ancora
adesso quelli con il Ramarro (Boretoeon), un lucertolone lungo una trentina di cen-
timetri che incuteva un certo timore anche agli adulti; mi sembra adesso quando lo
vedevo attraversare velocissimo un viottolo per scomparire subito dopo nella fitta
vegetazione di una siepe o in un campo coltivato. Era un lampo, una visione, che
durava pochi secondi, ma mi riempiva il cuore di una gioia immensa che mi ripagava abbondantemente per la passione che nutrivo per questo mondo fantastico.
Ricordo del Ramarro i suoi colori bellissimi, quel verde-giallo-azzurro, che ai raggi
del sole assumevano dei riflessi intensi e particolari. Qualche volta sul ciglio del
fossato quando si sentiva al sicuro, il “sauro”, si fermava e volgeva la testa verso
di me, avevo così qualche attimo di più per ammirarlo in tutta la sua bellezza.
Ricordo quando, al mattino, sentivo nonna Maria raccontare con partecipe dispia6
cere, che la Donnola (el Puisatt), aveva
distrutto il pollaio a “quella” famiglia; e
allora correvo in quel luogo, perché sapevo
che di lì a poco, sarebbe scattata la “cac-
cia” ai piccoli terribili mustelidi artefici del
“misfatto”, e allora volevo assistervi, anche
se provavo un certo dispiacere per la loro
uccisione. Proprio così, mi dispiaceva, perché pur sapendo che quella disinfestazione
RAGANELLA
era giustificata, la (Bea Donoea) (altro nome dialettale che indicava la Donnola),
era così bella ed elegante nelle sue movenze, che mi piangeva il cuore vederla uccidere e quasi tifavo perché qualche esemplare riuscisse a fuggire. Ma la lotta era
impari, e quando i mustelidi venivano stanati e uscivano dal loro rifugio, inseguiti
dai cani e dagli uomini, pur dimostrando di possedere un’agilità e una vivacità
incredibile (vendevano cara la pelle), finivano prima o dopo per cadere nelle fauci
dei cani e molto più spesso sotto i randelli degli uomini. Scene cruente, scene che
si ripetevano frequentemente nella quiete delle contrade dei nostri paesi, ma che
purtroppo erano atti dovuti perché il danno arrecato all’economia della povera
famiglia, era già molto grande e nessuno poteva permettersi il rischio che il misfatto si ripetesse dopo qualche giorno. Nel mio continuo peregrinare per la campagna
m’imbattevo sovente con la Raganella verde (a Racoeta), che prendevo in mano e
con la quale giocavo, divertendomi a farle
fare dei saltelli per poi lasciarla libera, in
mezzo al verde di un prato, non ancora
avvelenato dall’uomo. Nelle ore del mezzogiorno, mi dilettavo ad ascoltare il frinire
delle Cicale che cantavano in continuazio-
ne, così come la sera, me ne stavo seduto in
silenzio in mezzo all’erba ad ascoltare il
CICALA
canto dei Grilli e il gracidare dei Rospi. Per
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il gorgheggio dell’Usignolo poi, avevo una particolare predilezione, sapevo dove
potevo incontrare e ascoltare questi splendidi cantori, e allora mi nascondevo
all’interno della siepe e rimanevo rapito per ore, con la bocca aperta, trattenendo
persino il respiro per poter godere intensamente la melodia del principe degli uccelli cantori. Nell’interno della siepe, ero solito trascorrere molto del mio tempo. La
siepe, era un luogo dove crescevano alberi
di diversi tipi, unitamente a cespugli e arbu-
sti, e questo era l’habitat ideale dove trovavano protezione e cibo decine di specie di
animali. Nelle siepi, tra gli altri, erano presenti due alberi entrambi tagliati a capitoz-
za, un sistema di taglio questo che permetteva di ottenere dalla pianta dei pali dritti e
CINCIARELLA
vigorosi (atoe), molto utili nelle case per
costruire dei recinti e in agricoltura per
diversi impieghi. Questi alberi erano il
Salice bianco (el Selgher), e il Pioppo (el Talpon), che raggiunta una certa età apri-
vano nei loro tronchi una grande quantità di anfratti e buchi diventando così dei
veri e propri ricettacoli per mammiferi, uccelli e invertebrati. Su questi tronchi, in
parte marcescenti, prosperava una vita che mi appassionava e dove trovavano ospitalità: la Cinciarella (Parussoea), il Picchio, la Passera mattugia, il Pipistrello
(Notol), e poi la Donnola, il Topo di campagna, il Riccio, la Lucertola (Boretoea) e
via via tanti altri, e proprio questi alberi rappresentavano per questi animali delle
vere e proprie dispense, dove, senza tanta fatica, potevano trovare un’infinità di
insetti, larve, tenebrioni, mosche, formiche, chioccioline ecc. ecc.. Bastava sostare
in silenzio e nell’immobilità più assoluta, per poter assistere al via vai della vita fre-
netica di tutti questi animali specialmente quando arrivava la buona stagione. E’
rimanendo nelle siepi, che ho imparato ad affinare la mia vista e il mio udito, è stato
lì nelle siepi, che ho potuto assistere al dipanarsi della vita di tanti animali, ed è
stato ancora lì nelle siepi, che ho imparato a conoscerli e a capire quanto essi fos8
sero importanti per l’uomo. Sono ricordi molto nitidi, come quando ho avuto la fortuna di osservare nove “pullus” di Cinciarella, uscire dal nido per volare sui rami
più alti, e, poi, piano piano allontanarsi seguiti dai genitori instancabili nel nutrirli; o come quando a non più di tre metri, ho potuto vedere una cucciolata di cinque
Ricci, che in fila indiana, seguivano la propria madre, che vedendomi si fermò per
un attimo per poi, come se non esistessi, attraversare il fosso con la stessa tranquil-
lità con la quale era arrivata. Erano anni in cui le strade erano ancora in terra bat-
tuta, ed erano percorse da qualche carretto trainato dai buoi e solo raramente dalle
poche automobili che le percorrevano sollevando polveroni incredibili, e, il silenzio, era ancora un pregio di cui godere; ecco che allora, si potevano udire suoni,
voci, canti di una vita umana e animale che si spargeva nella campagna e nella
campagna si propagava. L’inquinamento acustico provocato dai rombi dei motori
delle vetture e dalle macchine industriali, era poca cosa, per questo, in primavera,
potevo sentire provenire, anche dalle case più lontane, il canto delle galline dopo la
deposizione dell’uovo, ed era questo un coro che si ripeteva in continuazione per
ore e rappresentava una gradita “comunicazione”, perchè questi canti venivano
addirittura contati dalle donne nei campi, le quali al ritorno, sapevano già quante
uova potevano raccogliere nei vari covi sparsi nel pollaio e nell’aia. In estate poi,
erano mille e mille, le voci che si potevano udire, perchè cantavano gli uomini nei
campi, e cantavano gli uccelli nell’aria ed erano tutti inni alla vita e alla gioia. Con
l’arrivo dell’inverno, i lavori diminuivano, la vita rallentava i suoi ritmi, ma il mese
di dicembre era dedicato all’uccisione del Maiale, così mi capitava di sentire il suo
grido di dolore e allora mi dirigevo verso quella casa, dove si stava compiendo
quello che era quasi un “rito” e in ogni caso un momento importante che la fami-
glia attendeva, e, per il quale, fremevano già da giorni, attese e preparativi.
Ricordo, quel pentolone fumante ricolmo di acqua bollente, attorno al quale si
affaccendavano uomini e donne, e un gruppo di bambini di tutte le età un po’disco-
sti che assistevano in silenzio, così, come ricordo quei visi paonazzi per il freddo,
sui quali si vedeva disegnata una gioia immensa, che di certo non proveniva dal
fatto che avevano ucciso un animale, ma perché sapevano che esso rappresentava
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un “bene” immenso, un elemento essenziale per la loro sopravvivenza. Ed era
grande la cura e la conoscenza con la quale trattavano quell’animale e le sue
carni, dividendole, sezionandole, secondo la loro particolarità, perché ognuna era
adatta ad un tipo di salume che successivamente veniva sapientemente lavorato,
asciugato e conservato per tutto l’anno. Nell’occasione, non mancava il classico
tradizionale, immancabile scherzo, che alla fine provocava risate e scherno da
parte degli adulti, e un po’di rabbia da parte di chi lo aveva subito. E’toccato del
resto a tutti i ragazzini, ed era un po’il pedaggio che ognuno doveva pagare prima
di essere accettato nel mondo dei più grandi. Si soleva infatti dire che dopo que-
sto scherzo: “ti saresti fatto uomo, ti saresti svegliato”. Accadeva, che ad un certo
punto, si faceva avanti il salumiere e con fare deciso ti diceva: vai in quella casa
e chiedi a “Piero”, che ti dia lo “stampo per i salami”. Sembrava quasi che “Il
Piero” ti stesse aspettando, che fosse stato nel frattempo informato del tuo arrivo,
eppure non c’era ancora il telefono e nessuno lo avrebbe potuto informare anche
perché, quel tratto di strada tu lo avevi fatto correndo velocemente. Dopo qualche
attimo di attesa, “Piero” ti consegnava un sacco pesantissimo, che con tutte le tue
forze riuscivi a stento a trascinare fin da dove eri partito, e consegnarlo al salumiere. Arrivavi sfinito, ma anche felice perché pensavi di esserti reso utile. Una
volta però aperto il sacco, vedevi che esso era pieno di mattoni, pezzi di ferro e
altri materiali pesanti, che niente avevano a che fare con uno “stampo per i salami”, stampo, che in realtà non poteva esistere. Del resto a farti capire che c’eri
“caduto dentro” erano le risate degli adulti, ma per fortuna come per “riparare”,
provvedeva la nonna di casa (alla quale facevi pena). La nonna era una figura
molto importante nella famiglia (a parona), essa ti faceva sedere attorno al tavo-
lo e ti serviva un po’ di pasta fresca di salame, cotta sulla piastra della “cucina
economica”, ed allora, anche per te, era un po’festa, tanto che dimenticavi anche
lo scherzo e ci facevi insieme ai presenti una bella risata. Ecco, mi rendo conto di
aver evocato momenti che non ritorneranno più, momenti, che sembrano d’altri
tempi, tempi lontanissimi, ma che invece appartengono a ieri momenti di vita che
io ho vissuto e che mi auguro di farvi rivivere attraverso questo libro.
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“Le parole diventano piume e raccontano storie
da me vissute, silenziose e timide, come speranze
che ricamano giorni, che il tempo colora di
malinconia e ripercorrono la mia favola bella
Sono frammenti di ricordi che continuo a raccontare
un po’ orgoglioso che altri non sappiano”.
Graziano Fabris
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Graziano Fabris
A SCUOLA DI FAUNA
Curiosità, modi di dire, proverbi,
aneddoti, miti e leggende
sugli animali
Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz
LA COLORAZIONE DEGLI UCCELLI
………in precedenza, secondo il racconto biblico, Dio aveva creato la luce,
le acque, gli alberi, il sole, la luna e le stelle, i pesci e gli uccelli. Il settimo
giorno si riposò.
Il giorno dopo Dio passeggiando fra le nuvole scorse che su una di esse erano
riuniti in “assemblea”, tutti gli uccelli che aveva creato. Si avvicinò senza
farsi scorgere e ascoltò i loro discorsi. Essi, si lamentavano perché erano sì
diversi in quanto a forma, ma erano tutti del medesimo colore: bianco/ grigio
e non avevano nemmeno un nome.
Dio capì che con gli uccelli non aveva fatto cosa buona e giusta e allora, presa
tavolozza e colori, si avvicinò ad essi, li chiamò presso di sé uno dopo l’altro
e incominciò a colorarli e a battezzarli.
Lavorò tutto il giorno finchè arrivò sera. Stava per andarsene quando guar-
dando meglio in fondo alla nuvola si accorse che alcuni uccelli stavano ancora chiacchierando fra di essi e li sollecitò a presentarsi al suo cospetto per rice-
vere la loro colorazione. Arrivò quindi la prima coppia di questi ritardatari;
Dio osservò la sua tavolozza dove i colori erano pressoché finiti, erano rimasti solo dei rimasugli. Raccolse allora con il pennello un po’ di nero, un po’ di
rosso, un po’ di bianco, un po’ di giallo, un po’ di grigio e un po’ di bruno con
i quali dipinse i nuovi arrivati; guardò il suo lavoro e rivolgendosi al maschio
disse: “Scendi sulla terra; sei veramente
bello, ti chiamerai Cardellino.”
Subito dopo arrivò una nuova coppia.
Dio si rese conto che nella sua tavolozza
era rimasto solo un po’ di bruno e un po’
di grigio, pennellò il dorso di bruno, il
petto e il ventre di grigio agli uccelli che
aveva davanti e disse loro: “figli miei ho
CARDELLINO
esaurito i colori dovete accontentarvi di
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quello che ho potuto fare per voi.
Scendete sulla terra”. Ma il maschio pro-
testò, si sentiva troppo brutto; allora Dio
nella sua infinita bontà lo richiamò nuo-
vamente presso di sé, con un dito toccò la
sua gola e gli disse: “Vai adesso, tu sarai
USIGNOLO
l’ Usignolo e sarai il più grande cantore”.
E venne ancora una coppia e Dio raschiò
veramente il fondo della sua tavolozza
tanto che a malapena riuscì a mettere insieme una pennellata di bruno, anco-
ra più sbiadito del precedente, e un’altra di grigio e anche in questo caso ci
furono proteste, ma Dio questa volta fu però irremovibile e disse: non posso
proprio fare di meglio, ma abbiate fede, non preoccupatevi, sarà sulla terra
che il figlio mio, terminerà la mia opera nei vostri confronti. Andate con
fiducia.
Arrivò infine l’ultima coppia, i due si presentarono tenendosi “sotto l’ala” al
cospetto di Dio che non aveva più colori nella sua tavolozza. Aveva solamen-
te un po’ di giallo rimasto su di un pennello, con il quale dipinse il becco del
maschio. Li guardò e disse loro: “Siete dei Merli scendete sulla terra così
come siete, non posso fare più niente per voi”. I due, intristiti e sempre tenendosi “sotto l’ala” percorsero il tragitto dal cielo alla terra e arrivarono a desti-
nazione che era molto freddo; era infatti
inverno inoltrato ed esattamente il 29 di
gennaio. La femmina si guardò intorno e,
scorto che da un camino usciva del fumo
nero, pensò che se c’era del fumo, signi-
ficava che c’era pure del fuoco e quindi
del calore. Con un breve cenno del capo,
indicò al proprio compagno quella fonte
di calore e i due volarono insieme sul
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COPPIA DI MERLI
tetto della casa avvicinandosi a quel camino dove rimasero per 3 giorni a
riscaldarsi. Quando scesero, si accorsero con gioia di essere diventati neri, a
causa del fumo che li aveva avvolti e il maschio era più nero della femmina
perché, più freddoloso, era stato più vicino al fumo. Quei tre giorni il 29, 30
e 31 di gennaio, solitamente i giorni più freddi dell’anno, sono da tempo
immemore ricordati: come “i giorni della Merla”.
C’era ancora un uccellino che girava per
il mondo alla ricerca della sua colorazione. Dio, lassù su quella nuvola, qualche
tempo prima, gli aveva promesso che il
suo lavoro lo avrebbe terminato suo
figlio. Così, nel suo girovagare per il
mondo, questo uccellino volò un giorno
PETTIROSSO
sul monte Calvario dove vide un uomo in
croce con una corona di spine attorno
alla testa. Mosso da compassione egli
volò sul capo del Crocefisso e con il becco
tanto lavorò, che riuscì a togliere una spina che era profondamente conficca-
ta sulla sua testa. A questo punto una goccia di sangue gli cadde sul petto.
Sentì allora che con un filo di voce il Crocefisso, che era Gesù Cristo il Figlio
di Dio, gli disse: “Sei stato buono e caritatevole, il rosso del mio sangue
rimarrà per sempre sul tuo petto. Da oggi ti chiamerai “Pettirosso”.
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“Cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali
scomparissero l’uomo morirebbe di una grande
solitudine di spirito. Poiché qualunque cosa capiti
agli animali, presto capiterà anche all’uomo”.
Capo Pellerossa Sealt
I CHIODI DI MIO NONNO
Era il 28 agosto 1953. Allora poco più che decenne, convinsi mio padre ad
accompagnarmi a Sacile dove avrei potuto vedere per la prima volta la grande
fiera degli uccelli di cui tanto avevo sentito parlare. “Beppi”, mio padre, a dif-
ferenza di suo padre, mio nonno, non c’era mai stato e conosceva a malapena
la strada per arrivarci. Ricordava solamente che “nonno Nino” partiva da
Varago, ovviamente a piedi, dopo la frugale cena del sabato sera, quando il sole
non era ancora del tutto calato, attraversava la Piave fra Maserada e
Cimadolmo, là dove il guado era più facile e con in tasca qualche “palanca”
andava puntualmente ogni anno alla “Sagra
dei Osei”. Nonno Nino amava gli animali,
anche se aveva una particolare predilezione
per gli uccelli, e, a ricordarlo anche dopo la
sua morte, sono rimasti per anni conficcati
sul muro davanti a casa i chiodi fatti a mano
sui quali appendeva le gabbie con dentro
ORGANETTO
Fringuelli e Tordine. Dalla fiera, egli tornava sempre con qualche esemplare che, con
infinito amore, deteneva allietandosi del
loro canto. Quando nonno Nino morì, io non ero ancora nato; i suoi uccelli furono donati ad altri appassionati e, a testimoniare quella sua grande passione,
rimasero per lunghi anni quei chiodi sul muro, che nonna Maria, non volle mai
togliere. Ricordo, quella mia prima volta, dopo oltre cinquant’anni, come se
fosse ieri. Andai a letto molto presto, perché la sveglia era prevista per l’una di
notte, ma ovviamente non chiusi occhio; finalmente sarei andato alla fiera,
finalmente avrei visto tanti uccelli tutti insieme e questo stato d’animo, non mi
permetteva certo di addormentarmi. Mio padre, falegname provetto, mi aveva
costruito tre bellissime gabbie, così avevo evitato di spendere dei soldi per il
loro acquisto e potei conservare interamente quelle mille lire, frutto di tante pic19
cole “mancette” per i vari lavoretti fatti in casa. Con quei soldi, avrei potuto
acquistare (ma temevo tanto che non bastassero) un fringuello, un lucherino, un
cardellino e magari anche qualche altro piccolo uccellino. Quando mio padre
venne in camera per svegliarmi, mi trovò già in piedi, vestito e con una dose
abbondante di brillantina sui capelli, ero già pronto per la partenza. Sistemate
due gabbie sul portapacchi della bici di mio padre e una sulla mia (in realtà la
bici, era di mia madre), partimmo per la “grande avventura”. Sulla Piave non
c’era acqua e così, sia pure con qualche difficoltà di orientamento (era una
notte senza luna), riuscimmo ad attraversare le Grave di Papadopoli, per pro-
seguire “di là” della Piave alla volta di Sacile. Dopo Codognè fummo sorpassa-
ti e sorpassammo altri ciclisti e soprattutto pedoni, vecchi e giovani che si diri-
gevano sicuramente verso la stessa meta, trainando dei carrettini carichi di gabbie: seppi più tardi che erano i concorrenti ai concorsi canori, ma pure vendito-
ri e compratori che provenivano dalla sinistra Piave.
Cento e più volte chiesi a mio padre quanta strada mancasse e che ora fosse,
quando finalmente, comparve un cartello con la scritta “SACILE”, che la fioca
luce dei fanali rischiarò per un attimo. Eravamo arrivati e, sulle strade, erano
ormai le quattro del mattino, c’era già molta gente. Sistemate le bici in “custo-
dia”, ci avviammo con le gabbie in mano verso quello che, lo comprendemmo
fatti pochi passi, era il centro del paese, il cuore della fiera. Un forte e sgrade-
vole odore di vischio e un vociare sempre più intenso, mi fece capire che eravamo davvero arrivati. Man mano che
albeggiava, potei vedere quella gente: me
la ricordo ancora con il cappello all’alpina
e la piuma di fagiano sulla tesa, i pantaloni alla “zuava” (abbottonati appena sotto
il ginocchio) e la giacca di velluto (ad
agosto) “ciuciata” (strettissima) da non
starci quasi dentro. Mi ricordo di tantissi-
CIUFFOLOTTO
mi giovani, ragazzi e bambini di tutte le
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età, con i pantaloni corti, con gli zoccoli, e con i capelli tagliati all’“umberta”
(una moda di quei tempi che voleva i capelli tagliati cortissimi, come li porta-
va il Re, ma in realtà per andare meno volte dal barbiere e quindi risparmiare
dei soldi), o con la testa ricoperta da un
berretto dalle fogge più svariate. E poi, le
tante gabbie posate per terra, lunghe e
basse e tutte piene di uccelli in vendita.
Sopra queste gabbie su di un pezzo di
carta gialla (fatta con la paglia) i vari prezzi: Lucherini 250£, Fringuelli 300£,
Cardellini 280£. Con un rapido calcolo,
capii che i soldi, che tenevo stretti nel
pugno dentro la tasca, mi sarebbero bastati e che, finalmente, avrei potuto avere i
LUCHERINO
miei primi animaletti, nello specifico degli uccellini. Ripercorrendo a ritroso
sotto il sole allo zenith, la stessa strada percorsa nel buio pesto della notte pre-
cedente, mi sembrò enormemente più lunga, interminabile. Tuttavia non senza
qualche peripezia, giunsi nel tardo pomeriggio finalmente a casa con i miei pic-
coli Amici.
Quei chiodi, piantati sul muro davanti a casa molti anni prima da mio nonno,
ritornarono utili, perché vi appesi quelle mie prime gabbie. E qui, ricordo il
volto di mia nonna, che, sorprendendomi davanti alle stesse con l’identica
espressione negli occhi che per tanti anni aveva visto a mio nonno, pianse com-
mossa. Ho desiderato raccontare quella mia prima volta, perchè penso a quanti
altri bambini e ragazzi avranno iniziato prima di me proprio così, e a quanti
altri, negli anni, animati dalla mia stessa passione rivivranno attimi e sensazio-
ni come le mie. Sì, perché il rapporto uomo-animale, rimarrà tale, credo anzi
che diventerà ancora più forte, perché mai come adesso, l’uomo ha tanto biso-
gno della compagnia di un animale da accarezzare, da sentire vicino, e al quale
dedicare tutte le sue cure.
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PILLOLE DI SAPERE: GLI UCCELLI
Sono animali vertebrati omeotermi, hanno il corpo ricoperto da piume e penne
e con arti superiori trasformati in ali, nella maggior parte dei casi atte al volo. In
fatto di lunghezza il più piccolo degli uccelli è una specie di Colibrì, l’Acestrura
bombus, che non raggiunge i 6 cm, il Pavone raggiunge i 230 cm e una razza
di Gallo giapponese, il Phoenix, prezioso
per le sue penne, supera in qualche esemplare i 600 cm. Il più alto è lo Struzzo che
raggiunge i 300 cm. Il primato dell’aper-
tura alare spetta all’Albatros urlatore con i
suoi 340 cm, superato sino ad una cin-
quantina di anni fa solo dall’Avvoltoio del
Nevada con i suoi 5 m. Questo gigantesco
uccello oggi è estinto. Il peso dei pullus al
momento della schiusa varia dai 0,19 gr
del Colibrì, ai 1000 gr dello Struzzo;
STRUZZO
anche se un suo consimile, lo Struzzo del Madagascar (oggi estinto anch’esso)
raggiungeva i 6.500 gr. Il peso degli uccelli adulti varia dai 1,6 gr del Colibrì ai
140kg dello Struzzo, ancora una volta superato finchè era presente sulla terra
dalla varietà del Madagascar che raggiungeva lo straordinario peso di 450 kg.
Le piccolissime ali del Colibrì battono in
maniera vorticosa arrivando a 75-80 battiti al secondo, ciò consente a questo pic-
colo uccello di rimanere sospeso nel-
l’aria mentre si nutre aspirando il nettare
dai fiori. Un Rondone può compiere ogni
giorno la straordinaria distanza di 7/800km
alla ricerca del cibo, ma neppure la
COLIBRI
Cinciallegra scherza superando i 100 km.
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Sempre i Rondoni passano oltre 14 ore al giorno in volo mantenendo una velocità di 60-65 km orari. In quanto a velocità in volo, il Codirosso è il più lento
con i suoi 30-35km orari, mentre il più veloce è il Rondone del Tibet che in
picchiata può raggiungere e superare i 375. Per salire verso l’alto, il Passero lo
fa in maniera quasi verticale, ma come tanti altri uccelli non va oltre 110 m, il
record di altitudine appartiene ad un’Oca selvatica che può raggiungere gli
8.800m. Durante le migrazioni, gli uccelli compiono migliaia di km. La
Rondine di mare artica è l’uccello che percorre più strada arrivando a 40.000
km, la Cicogna arriva a 23.000, il Rondone a 13.000. Nelle traversate dei mari
gli uccelli in alcuni casi volano senza mai posarsi anche per 3.500 km, tuttavia
la distanza media che percorrono giornalmente varia dai 300 ai 700 km. I più
lenti nella migrazione, sono i Corvidi in genere, il Fringuello e le Rondini che
hanno una velocità massima di 50/55 km orari, mentre i più veloci sono gli
Anatidi che raggiungono e talvolta superano gli 80km orari.
L’espirazione e l’inspirazione negli uccelli hanno una frequenza assai notevole.
Nel Colibrì, per esempio, l’uccello a riposo ha una frequenza di circa 230 atti di
respirazione al minuto e questi atti salgono fino a 3100 quando è in volo; nel
Colombo questi atti scendono a 450 quando è in volo, a 200 quando si muove
sul terreno e scendono a 30 quando è a riposo. Molto varia è la lunghezza della
vita degli uccelli. I Pappagalli sono ritenuti i più longevi e alcuni esemplari di
grande taglia come Cenerini, Are e Cacatua, possono arrivare anche a 80-85
anni; qualche naturalista sostiene che certi esemplari di Cenerino siano arrivati
al secolo di vita, anche i Gabbiani reali vivono a lungo con una aspettativa intor-
no ai 28 anni. Generalmente gli uccelli di piccola taglia come i fringillidi, allo
stato libero, vivono mediamente dai 3 agli 8-9 anni. L’uovo più grande è quello
dello Struzzo: esso è pari a circa 25-30 uova di Gallina e a 1 kg di peso; può essere conservato in frigorifero per un anno intero e per renderlo sodo sono necessa-
rie 2 ore di cottura. Sempre lo Struzzo è l’uccello più veloce; lanciato in corsa
compie 3m ad ogni falcata e raggiunge una velocità di “crociera” di circa 50km
orari con punte anche di 70-75. Un naturalista tedesco grande appassionato del
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Picchio in genere, ha analizzato 665 pasti del Picchio rosso. Ebbene contò che la
sua dieta è composta in totale da 2347 animaletti diversi; fra essi vi erano molti
parassiti di alberi e circa 2000 bruchi dello stesso genere (Limantria monaca). Un
biologo finlandese ha invece osservato il Picchio rosso maggiore e ha cercato di
valutare numericamente i pinoli consumati da questo uccello; ebbene, ha stabili-
to che in un’ora esso è capace di divorarne circa 165-170. Calcolando che la sua
attività giornaliera si protrae per un massimo di 17 ore vorrà dire che questo uccello divorerà circa 2850 di questi semi. Il Torcicollo nutre i suoi piccoli prevalen-
temente con le ninfe di formica, ed una covata di piccoli abbisogna giornalmente di circa 11-12.000 di queste prede. Anch’esso possiede una lunga lingua
vischiosa particolarmente adatta a catturare le formiche. Quando la introduce in
un formicaio e la ritrae, ad essa rimangono attaccate larve, ninfe e insetti adulti
che vengono successivamente inoltrati nel sacco della gola, il quale riesce a con-
tenerne fino a 160. Aiutata da dispositivi particolari posti nel cranio, la lingua dei
Picchi può uscire dal becco in maniera incredibile. Nel caso del Picchio verde
fuoriesce per oltre 11cm. Diversi studiosi hanno inciso su nastri il rullio di diver-
se specie di Picchi; ebbene è risultato che il Picchio nero è il campione in asso-
luto con i suoi 39-45 colpi al minuto, il Picchio cenerino 28-31, seguono tutti gli
altri con 12-18 colpi al minuto. L’Allodola è fra i piccoli uccelli quello che sulla
terraferma riesce a muoversi più velocemente, infatti grazie alle sue grandi
zampe raggiunge, e talvolta supera, una velocità di 8 km/h. Questo uccello non
fa mai il bagno nell’acqua, ma si limita a
strofinarsi su steli d’erba bagnati dalla
rugiada e preferisce un bagno nella polvere in piccole fossette appositamente scava-
te per lo scopo. Il Tordo bottaccio è uno
dei magnifici cantori che compongono il
“coro delle fiere degli uccelli”. Il suo canto
melodioso e variabile è composto da 3-4
TORDO BOTTACCIO
strofe, ognuna delle quali è costituita da
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varie sillabe che intercala a brevi pause riprendendo subito dopo con grande rapi-
dità. Un alimento importante per la sua dieta estiva è costituito dagli acini dell’uva, da cui deriva la denominazione dialettale: “tordo da ua”. Un’altra preda di
cui egli è ghiotto sono le lumache, il cui guscio viene infranto sbattendolo con
forza contro un sasso (sempre lo stesso) che viene chiamato “fucina del Tordo”.
Contrariamente agli altri uccelli che portano all’interno del loro nido materiale
soffice, sul quale deporre le uova e far nascere i propri piccoli, il Tordo spalma
il suo interno con una mistura di fango e legno marcito intriso di saliva che funziona da collante. Si ritiene che ciò sia dovuto al fatto che la schiusa delle uova
abbisogna di un alto tasso di umidità, prerogativa, questa, che si ottiene proprio
sostituendo piume e sottilissimi steli con questo rigido e impermeabile rivesti-
mento. Fino ad una sessantina d’anni fa era d’uso raccogliere i nidi di Pendolino
e conservarli per l’inverno quando venivano usati dai bambini piccoli come
calde pantofole. Il primato per il maggior numero di uova deposte in una covata
spetta alla Starna che ne può covare da 16 a 28.
La fiaba
“Il Gracchio e gli uccelli”
Zeus volendo dare un Re agli Uccelli, fissò loro un appuntamento; essi doveva-
no presentarsi al suo cospetto affinché egli potesse scegliere il più bello di tutti
per poterlo far regnare sopra di essi. Allora tutti gli uccelli incominciarono a
lisciarsi le piume e le penne e a farsi più belli. Il Gracchio, nero e brutto resosi
conto che non avrebbe mai potuto competere, pensò di raccogliere tutte le piume
e le penne che erano cadute agli altri uccelli e di attaccarsele al proprio corpo.
Con questo espediente, gli riuscì di essere il più bello di tutti. Il giorno stabilito
tutti gli uccelli sfilarono davanti a Zeus, e fra di essi anche il Gracchio coperto
di piume di ogni colore, e Zeus colpito da tanta bellezza stava già per designar-
lo Re. Ma gli altri uccelli si indignarono e gli strapparono ognuno le proprie
piume e le proprie penne; spogliato di ciò che non era suo, il povero Gracchio
ritornò ad essere quello che in realtà era. (Esopo)
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“Gli alberi sono il sostegno del mondo, se li tagliamo
il firmamento cadrà sopra di noi.”
…da un’antica leggenda Indios
IL CIGNO REALE
Il Cigno reale con la sua maestosa bellezza dovuta all’armoniosa figura, nello
stesso tempo fiera e dolce, rende nobile qualsiasi laghetto o corso d’acqua, che
diversamente, sarebbe misero e squallido. Famosi sono i Cigni del Tamigi volu-
ti dalla Regina Vittoria intorno al 1.850. Rispetto agli altri Cigni (quello minore, quello selvatico e quello nero) è decisamente più grande. Si caratterizza
anche per il colore del becco giallo arancio con una protuberanza nera più mar-
cata nel maschio. In acqua si distingue anche in lontananza per la caratteristica
posizione a “S” del collo mentre negli altri cigni è eretta. I “pullus” nascono
ricoperti da un piumino color beige-grigio che poi, alla prima “muta” diventa
bianco, ma per una ragione sconosciuta, i “pullus” di Cigno che nascono in
Polonia sono di color bianco come gli adulti. L’elegante bellezza e austerità di
questo animale ha sempre stimolato la fantasia degli uomini, del resto quando
si pavoneggia gonfio e impettito specchiandosi sulla superficie dell’acqua,
continua a stimolare sempre sensazioni estetiche che mai un corvo potrebbe
suscitare. Un’antica leggenda lo fa nascere per mano di Apollo che avrebbe
trasformato nel candido uccello il re dei Liguri Cinco, musico e cantore che
disperato piangeva la morte dell’amato amico Fetonte con melodiosi lamenti.
In seguito Apollo, non soddisfatto del pur grande privilegio accordato a Cinco,
lo condusse in cielo e lo trasformò in una costellazione che ancora oggi dal
Cigno prende il nome. Tanta è la leggiadria del Cigno, che il divino Giove, che
non disdegnava gli inganni più astuti per far cadere nelle sue brame anche fem-
mine note per la loro castità e molto fedeli ai propri compagni, avrebbe assun-
to le sue sembianze per affascinare e sedurre Leda che finì con l’accoppiarsi
con il bellissimo pennuto. Quella stessa notte Leda, evidentemente non appa-
gata dal rapporto divino, giacque anche con il marito Tindaro re di Sparta. Da
questa tumultuosa attività amorosa, Leda generò un uovo da cui nacquero i due
gemelli Castore e Polluce, uno figlio di “Zeus Cigno” e l’altro figlio del sovrano marito. Anche il colore bianco è stato motivo di lode e di infamia per que29
sti poveri e inconsapevoli pennuti. Basti pensare alla celebre fiaba di
Andersen in cui l’anatroccolo, brutto e grigio, si trasforma, dopo tutta una
serie di incredibili peripezie, per la sua gioia e per quella degli altri animali
dello stagno, in un regale bianco Cigno. E non va dimenticato come anche
l’arte, attraverso la musica di Cajkovskij e il libretto di Begicev, sia stata affa-
scinata da questo straordinario pennuto.
La storia vuole che il principe Sigfrido si innamori di Odette, la regina dei
Cigni, una donna che di giorno si trasforma in Cigno a causa di un incantesi-
mo operato da uno stregone. Odette racconta che è destinata a rimanere nelle
sembianze di questa creatura finchè non verrà salvata dal grande ed eterno
amore di un uomo. Incantato dalla sua bellezza il principe le promette il suo
eterno amore ottenendo così la fine dell’incantesimo. Ma in seguito, durante
una festa, egli viene ingannato dallo stesso stregone che lo convince a dichiarare il suo amore a Odile, la malvagia sorella di Odette.
Sigfrido invita Odile a ballare con lui, ma in quel momento una grande nuvola oscura per un attimo il cielo e il principe si accorge che Odette si è nuovamente trasformata in Cigno.
Compreso il suo involontario tradimento egli si precipita al lago. Odette con
il cuore spezzato per quello che considera un tradimento cerca conforto fra le
sue compagne in riva al lago. Raggiuntala, Sigfrido ne scongiura il perdono,
ma la fanciulla muore di crepacuore tra le sue braccia. Gli antichi credevano
che il Cigno cantasse e che il suo canto
più bello, fosse quello che precedeva la
sua morte. Ha un’apertura alare di circa
220 cm, una lunghezza di 150/155 cm,
un peso corporeo intorno ai 12/16 kg e
una aspettativa di vita di 12/15 anni.
Depone da 5 a 8 uova, di color grigio
verde brunastro, che cova per 35/37 gior-
CIGNO
ni. Ha uno status esistenziale ottimo.
30
La Fiaba
“Il Cigno preso per un’Oca”
Un Uomo allevava nel medesimo cortile un Cigno ed un’Oca . Il Cigno per il
canto e l’Oca per la sua prelibata carne. Venne il momento che l’Oca dove-
va fare la fine per la quale era stata allevata, quella notte era molto buio e
l’uomo recatosi dove i due Uccelli dormivano non fu in grado di distinguere
l’uno dall’altra, e così fu preso il Cigno al posto dell’Oca. Ma a questo punto
ecco che esso intona un canto che prelude la morte; in questo modo rivela la
sua identità e, grazie a ciò, evita di essere ucciso. (Esopo)
L’ OCA SELVATICA
Pur iniziando gli accoppiamenti già a 18/20 mesi di età, raggiunge la sua
piena maturità sessuale solamente al quarto anno di vita. Il vincolo della cop-
pia rimane tale fino alla morte di uno dei due partners. Grande volatrice,
durante il periodo della muta perde in pochi giorni, e non gradatamente, le
penne delle ali e della coda; per questo
rimane, gioco forza, a terra dove riesce a
spostarsi da un pascolo all’altro o sfuggi-
re a qualche predatore, correndo molto
velocemente. Riacquisterà però la padro-
nanza del volo dopo solo quattro settima-
ne. Durante questo periodo l’Oca è parti-
colarmente sospettosa e timorosa. Si
suole dire che coloro che hanno in casa
delle Oche non abbisognano della guar-
dia di un Cane. Leggendarie rimangono
OCA SELVATICA
infatti, le Oche del Campidoglio che con il loro schiamazzo misero in allerta
i difensori che intervennero contro gli invasori. Molto apprezzato è il suo piu-
mino con il quale si imbottiscono dei caldi piumoni e dei preziosi giubbotti.
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Nelle Oche non esiste un notevole dimorfismo sessuale in quanto maschi e
femmine sono pressoché uguali; si possono tuttavia riconoscere a prima vista
dalla taglia, che è molto più grande nei maschi. Un altro aspetto curioso e
unico riguarda la disposizione delle piume nella parte alta del collo; esse assu-
mono una singolare disposizione che le allinea in rilevate striature verticali, per
cui il collo di questi uccelli assume un aspetto zigrinato. Vivono in branchi
numerosissimi ed essendo volatili molto timorosi e prudenti, hanno l’abitudine
di piazzare delle sentinelle incaricate di dare l’allarme in caso di pericolo.
Un tempo si tendeva ad ingrassare forzatamente le Oche all’inverosimile.
Questo risultato veniva ottenuto per mezzo dell’ingozzamento a forza, prati-
ca questa in uso fin dai tempi più antichi. L’animale veniva immobilizzato,
dopo di che si introduceva un imbuto nel suo esofago lungo il quale si face-
va scendere una gran quantità di granoturco, sfarinati vari e, in tempi più anti-
chi, anche fichi e noci, fino al totale riempimento del gozzo. Con questo sistema il peso delle povere Oche raddoppiava. L’ingozzamento veniva praticato
per oltre un mese e richiedeva una notevole esperienza per non soffocare
l’animale. In questo modo la sua carne diventava saporita e tenera, ma altret-
tanto prelibato era il suo grasso che fatto bollire con il latte, una volta raffreddato e conservato, veniva usato al posto del burro. Fra le tante razze d’Oca,
molto celebre è l’Oca di Tolosa allevata in Francia per la produzione del
“fegato grasso” dal quale si ricava il famoso “patè de foi gras”. Il peso del
fegato di quest’Oca, sottoposta anch’essa all’ingrasso con gli stessi metodi
dell’ingozzamento, aumenta a dismisura passando dai 3/400 grammi della
norma, ai 2-3 kilogrammi.
Ha un’apertura alare di circa 155 cm, una lunghezza di 75/80 cm, un peso cor-
poreo di 4/6 kg e un’aspettativa di vita di 9/13 anni. Depone da 6/9 uova, di colore bianco grigio, che cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale ottimo.
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L’AIRONE CENERINO
Fa parte della grande famiglia degli “Ardeidi” nella quale troviamo anche la
Garzetta, tipica abitatrice di canali, piccoli corsi d’acqua e addirittura degli
scoli in campo aperto. L’Airone ha abitudini gregarie e nidifica in numerose
colonie note con il nome di “Garzaie”. Possiede un collo molto lungo, un
becco anch’esso lungo e appuntito e gambe lunghissime che sembrano dei
veri e propri trampoli. Molto allungate sono pure le quattro dita, mentre, fatto
curioso è rappresentato dall’unghia del dito medio dotata di una dentellatura
sul margine interno che viene usata per riassettare il piumaggio. Un’altra
curiosità dell’Airone è la pressocché mancanza della coda. Ha abitudini diur-
ne, ma nel periodo della riproduzione quando deve alimentare i suoi piccoli,
esce anche di notte. Molto rumoroso durante il periodo della riproduzione,
diventa estremamente silenzioso nei periodi di riposo. Una curiosa abitudine
dei pullus nel nido, che è anche un efficace metodo di difesa, è quella di “vomi-
tare” addosso ai disturbatori della colonia. La credenza popolare ritiene che
questo comportamento sia dovuto al fatto
che con lo stomaco vuoto sia più facile e
veloce sfuggire alla cattura da parte dei
loro consimili adulti, tutti potenziali predatori. Una singolare curiosità deriva dal
fatto che in questo uccello, la ghiandola
dell’uropigio è atrofizzata. Ma tanto
AIRONE
l’Airone Cenerino, quanto pure tutti gli altri componenti della sua famiglia,
suppliscono la mancanza della secrezione protettiva per le piume e per le
penne (indispensabile per gli altri uccelli), distribuendo sul suo piumaggio dei
minutissimi frammenti della desquamazione, prodotti da particolari cuscinet-
ti di piume situati nella zona inguinale e sul petto. In questi cuscinetti, le
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piume crescono in continuazione, e, disgregandosi alle estremità, producono
una specie di cipria, che viene raccolta dal becco dell’uccello e cosparsa sul
suo piumaggio rendendolo in tal modo impermeabile. Questa operazione,
come del resto tutta la lisciatura del piumaggio viene facilitata dalla partico-
lare conformazione del dito medio della zampa che, possiede come già detto,
un bordo dentellato.
Ha un’apertura alare di circa 185 cm, una lunghezza di 85/90 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 1800/2000 gr e un’aspettativa di vita di 11/20 anni. Depone
4/6 uova, di color verde azzurrino, che cova per 25/27 giorni. Ha uno status
esistenziale buono.
IL GERMANO REALE
E’ il più comune dei nostri uccelli acquatici ed è famoso per la sua peculiari-
tà di sollevarsi in volo senza bisogno di prendere nessuna rincorsa, così come
fa un elicottero. Un’altra curiosità deriva dal fatto che le due timoniere centrali non sono dritte e rigide, bensì dei morbidi ricci rivolti verso l’alto. Molto
caratteristico è lo specchio alare, uguale sia nel maschio che nella femmina,
di un bel colore viola/porporino delimitato da due barre bianche che si evi-
denzia quando il Germano è in volo. Il maschio assume il piumaggio comple-
to da ottobre a maggio e va in eclisse, da giugno a settembre; in questo periodo il suo piumaggio perde le caratteristi-
che e i colori tipici, tanto da poter essere
confuso con quello delle femmine se non
fosse per la sua maggiore mole e per
alcune parti del corpo dove il piumaggio
è più scuro e rossiccio. Non è raro che il
Germano reale nidifichi sopra la capitozza di qualche pianta anziché sul terreno
GERMANO REALE
in mezzo ai cespugli, come tendenzial34
mente è portato a fare. In questo caso, quando i piccoli nasceranno, saranno
portati a terra con il becco dai genitori che li reggeranno per le zampe; in altri
casi i pullus si butteranno letteralmente al suolo o nell’acqua circostante. I
Germani in cattività sono molto longevi e possono superare agevolmente i
vent’anni di vita.
Nei Germani reali è sempre la femmina a conquistare il maschio. Uno degli
atteggiamenti al quale ricorre con maggiore frequenza è, ad esempio, il nuoto
serpentino, una specie di parata nuziale al femminile, che si conclude davan-
ti al maschio prescelto; se questi l’accetterà, incomincerà a nuotare dietro di
lui in segno di sottomissione. Per secoli le sue soffici piume sono state utilizzate per cucire dei soffici e vaporosi piumoni da letto, le famose “colsare” che
riparavano dal freddo pungente durante le notti.
Ha un’apertura alare di circa 80/90 cm, una lunghezza di 55/58 cm, un peso
corporeo intorno ai 900/1100 gr e una aspettativa di vita di 5/10 anni. Depone
8/12 uova, di color oliva-beige, che cova per 28/29 giorni. Ha uno status di
presenza ottimo.
IL CORMORANO
Uccello pescatore per antonomasia compie vere e proprie razzie in alleva-
menti ittici. Nei suoi luoghi originari in buona parte dell’Asia, l’uomo lo preleva dal suo nido subito dopo la schiusa dell’uovo e lo alleva “allo stecco”,
sostituendosi quindi alla madre, in questo modo lo abitua alla sua presenza
tanto che il piccolo, lo seguirà ovunque come se fosse proprio la madre.
Appena svezzato egli sarà addestrato alla pesca e seguirà sul bordo della barca
insieme ad altri suoi consimili, “l’uomo madre” che, giunto sul luogo di
pesca, gli infilerà attorno al collo un anello e lo farà scendere in acqua per
pescare. Il Cormorano, risalirà di lì a poco con il becco e il collo pieno di
pesci che non potrà ingoiare a causa dell’anello che gli stringe la gola e che,
rigurgiterà dopo una leggera pressione delle mani “dell’uomo madre” sul
35
collo. Continuerà instancabile a fare questo “lavoro”, fino a che non avrà ottenu-
to una buona pesca e così giorno dopo
giorno, in cambio di qualche pesciolino o
di scarti di quel pesce più pregiato da lui
stesso pescato. Quando è posato a terra,
CORMORANO
assume la caratteristica posa eretta che lo
fa assomigliare ad un pinguino, ancora
caratteristico è il suo atteggiamento ad
ali aperte che assume frequentemente per accelerare i tempi di asciugatura del
suo piumaggio.
Ha un’apertura alare di circa 150 cm, una lunghezza di 85/95 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 2100/2400 gr ed un’aspettativa di vita di 13/15 anni. Depone
da 3 a 5 uova di color bruno chiaro, che cova per 27/28 giorni. Ha uno status
esistenziale molto buono.
IL TUFFETTO
Lo dice il suo nome: è un’Anatra tuffatrice ed è uno spettacolo osservare le
sue esibizioni. Si tuffa in continuazione per cercare nel fondo del corso
d’acqua insetti, lumache, crostacei e, d’inverno, anche piccoli pesci dei quali
si nutre unitamente alle alghe più tenere.
Rimane sott’acqua anche 35/40 secondi per riapparire nello stesso posto, ma
molto più spesso anche molti metri più in là. Il Tuffetto non supera mai i sette
metri di profondità. In genere vive in acque dolci e raggiunge il mare soltanto al termine del periodo riproduttivo.
Il fittissimo rivestimento di piume, molto morbide e perfettamente impermea-
bilizzate, protegge durante le sue continue immersioni il corpo dall’acqua. In
passato queste “piume-pelliccia” vennero impiegate nella fabbricazione di
colletti e accessori, proprio in luogo delle vere pellicce. I piccoli sono rivesti36
ti da un piumino variopinto e striato, e, non appena usciti dall’uovo, si raccol-
gono sotto le ali dei genitori e tra le folte piume che ne ricoprono il dorso; in
questo modo, si immergono e nuotano insieme ad essi finchè, trascorse alcu-
ne settimane, imparano a nuotare e a tuf-
farsi da soli. In genere i Tuffetti raggiungono un aspetto simile a quello dei geni-
tori solamente al loro secondo anno di
vita. Il Tuffetto sa anche catturare insetti
volanti compiendo un salto in alto fuori
dall’acqua per afferrarli. Possiede ali
molto corte e nuota anche sott’acqua,
aiutandosi quasi esclusivamente con le
zampe che hanno il tarso compresso late-
ralmente e le dita lobate. Considerata
TUFFETTO
infine la sua spiccata abilità nel nuoto e nel tuffo, la natura per contro lo ha
reso poco incline al volo.
Ha un’apertura alare di circa 43 cm, una lunghezza di 26/28 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 100/120 gr e una aspettativa di vita di 8/13 anni. Depone da
4 a 7 uova, di colore bianco brunastro, che cova per 20/22 giorni. Ha uno sta-
tus esistenziale discreto.
LO SVASSO MAGGIORE
Lo Svasso, durante il periodo degli amori acquisisce sul capo vari ornamenti
(sia nel maschio che nella femmina), che vengono usati nel corteggiamento e
nel cerimoniale amoroso, ma che servono pure per “rinforzare”particolari
atteggiamenti del comportamento sociale o di difesa del proprio territorio.
Questi ornamenti, tra l’altro molto belli e caratteristici, con l’arrivo dell’au-
tunno e dell’inverno cadranno per ricomparire d’incanto la primavera succes-
siva. Curiosa e caratteristica è la struttura delle sue piume che hanno un aspet37
to serico, ma anche “peloso”, a causa del rapido consumarsi delle barbule.
Questa particolarità, unita alla distribuzione fitta e continua delle piume sulle
parti inferiori, rende il piumaggio degli Svassi molto simile ad una pelliccia,
tanto che fino a una cinquantina d’anni fa le “pelli di Svasso” erano usate per
foderare cappotti e mantelli, per fabbricare dei caldi manicotti per protegger-
si dal freddo e molto più spesso per fasciare le parti del corpo colpite da artrosi e artriti. Un’altra curiosità tipica degli Svassi (e anche del Tuffetto), è quella di ingerire abitualmente piume del
proprio corpo. La funzione digestiva che
ne deriva, pur non essendo chiara, deve
essere molto importante dato che i piccoli vengono imbeccati dai genitori con una
grande quantità di piume fin dalla loro
nascita. A questo proposito esiste una
SVASSO MAGGIORE
credenza popolare che attribuisce alle
piume nello stomaco la proprietà di trat-
tenere le spine più grosse di alcuni pesci
e le parti indigeribili di molti invertebra-
ti acquatici. Come nei Rapaci anche lo Svasso (e il Tuffetto suo consimile pur
se molto più piccolo) espelle queste sostanze attraverso le “borre”. I piccoli
di Svasso, contrariamente ad altri uccelli acquatici, non nascono con il piu-
maggio impermeabile ma lo acquisiscono nel tempo, per questo si arrampica-
no da tergo sul dorso dei genitori e da essi si fanno trasportare. Anche quando gli adulti si tuffano loro rimangono attaccati al corpo dei genitori. Una
volta però che saranno diventati indipendenti non saranno più tollerati sul
dorso degli adulti che li scacceranno a colpi di becco.
Ha un’apertura alare di circa 85 cm, una lunghezza di 45/48 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 800/900 gr ed un’aspettativa di vita di 8/14 anni. Depone da
3 a 6 uova, biancastre con riflessi celesti, che cova per 27/29 giorni. Ha uno
status esistenziale discreto.
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LA GALLINELLA D’ACQUA
Pur essendo un uccello acquatico, non possiede le zampe palmate caratteristi-
che della specie. Riesce però a nuotare abbastanza agevolmente aiutandosi
con movimenti ritmici, “avanti e indietro”, del capo e del collo. Un altro par-
ticolare che non sfugge all’occhio attento dell’osservatore, è che nuota man-
tenendo il corpo più emerso rispetto a quello di altri uccelli acquatici: sembra
infatti che galleggi; ciò per avere un
minore attrito con l’acqua e spostarsi
così il più velocemente possibile. E’
molto abile nel tuffarsi e nel nuotare sott’acqua dove può restare in apnea per
oltre un minuto. Compie dei brevi voli
tenendo le zampe pendenti. Quando
decide di alzarsi in un volo medio lungo,
ha bisogno di correre sul pelo dell’acqua
per diverse decine di metri prima di
potersi sollevare. Come la Folaga,
GALLINELLA D’ACQUA
costruisce quasi sempre un nido galleggiante che può spostarsi dal sito origi-
nario con l’alzarsi dell’acqua in seguito a temporali e con il perdurare del mal-
tempo. Durante il periodo della muta questi uccelli, per la contemporanea
caduta delle remiganti, divengono inetti al volo e di conseguenza sono molto
vulnerabili. La loro carne tuttavia risulta pressoché immangiabile, sicché sono
pochi i pericoli che essi corrono.
Ha un’apertura alare di circa 53 cm, un peso corporeo intorno ai 190/250 gr
ed un’aspettativa di vita di 11/13 anni. Depone da 6 a 10 uova di color beige
giallastro punteggiate di marroncino che cova per 20/22 giorni. Ha uno sta-
tus esistenziale ottimo.
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LA MARZAIOLA
E’ una piccola e aggraziata anatra che prende il nome di Marzaiola perché la
sua migrazione di ritorno si conclude nel mese di Marzo. E’ l’anatra che ha il
più lungo periodo di eclisse del piumaggio. Il maschio perde i suoi colori in
luglio e li riacquista solamente a febbraio, quando inizia il periodo della riproduzione.
Nei mesi eclissali assomiglia molto alla femmina e si differenzia da essa uni-
camente perché mantiene la tinta grigio-bluastra delle copritrici alari.
Caratteristica del maschio è una lunga e larga barra bianca che parte dall’oc-
chio e finisce dietro la nuca. In un primo momento si potrebbe confondere con
l’Alzavola, ma in pratica la distinzione avviene a prima vista, osservando la
colorazione dello specchio alare che è di colore assai meno intenso nella
Marzaiola.
Come tutte le Anatre anche la Marzaiola ha le zampe molto spostate all’indie-
tro, per questo si muove con grande difficoltà sulla terraferma; è infatti priva
del lobo del dito posteriore, per questo motivo dondola lateralmente tanto da
sembrare zoppicante.
Ha ali lunghe e appuntite che le consentono di sollevarsi dall’acqua con una certa
facilità, senza dover prendere un lungo slancio. Queste anatre, si tuffano assai di
rado, preferiscono immergere il capo, il collo e la parte anteriore del corpo cercando accuratamente il cibo sul fondo,
mentre la regione posteriore emerge completamente dall’acqua. Ha un’apertura
alare di circa 55 cm, una lunghezza di
35/37 cm, un peso corporeo intorno ai 250/
350 gr ed un’aspettativa di vita di 8/10
anni. Depone da 7 a 12 uova, di color
bruno oliva chiaro, che cova per 22/23
MARZAIOLA
giorni. Ha uno status esistenziale precario.
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LA VOLPOCA
E’ la più grande delle anatre ed è consi-
derata, per la bellezza dei suoi colori, una
delle più attraenti. La curiosità sta nel
fatto che la colorazione del maschio e
della femmina è pressoché uguale. Il
maschio però si differenzia dalla femmi-
na per il grosso tubercolo che gli orna il
becco partendo dall’attaccatura dello
stesso con la testa. Nel periodo della
riproduzione, la colorazione del becco
tende ad essere di un bel colore rosso che
VOLPOCA
sbiadisce nei mesi estivi fino a diventare arancio giallo. Vive e si alimenta nei
corsi d’acqua, ma nidifica anche molto lontano dalla riva scegliendo tane
abbandonate dai conigli selvatici o anfratti naturali. Covando in questi siti
riparati, nascosta alla vista dei predatori, anche la femmina si può permettere
un piumaggio intensamente colorato.
Contrariamente, i piccoli quando nascono sono dotati invece di un piumaggio
mimetico, e rimangono più a lungo di anatroccoli di altre specie in prossimi-
tà della “tana nido” prima di avventurarsi in acqua seguendo i genitori.
Un’ultima curiosità di questa specie è rappresentata dalle sue uova, che ten-
dono ad avere una forma stranamente arrotondata.
Ha un’apertura alare di circa 125 cm, una lunghezza di 56/58 cm, un peso corporeo intorno ai 900/1350 gr ed un’aspettativa di vita di 6/13 anni. Depone da
8 a 14 uova, di colore beige chiaro, che cova per 28/30 giorni. Ha uno status
esistenziale buono.
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L’ANATRA MANDARINA
E’ sicuramente la più famosa anatra nella letteratura e nell’arte sia giapponese che cinese. Simbolo della fedeltà coniugale, è stata addirittura considerata
sacra in certi villaggi. Il ciuffo sul capo, la colorazione da “ stampa giapponese”, le sue vele che si uniscono tanto da
sembrare il tetto di una pagoda, i suoi
colori vivaci, la fanno apprezzare dagli
appassionati. E’ considerata un’anatra di
bosco in quanto nidifica nei vecchi tron-
chi d’albero; il nido rivestito di morbido
piumino, viene sempre collocato anche a
notevole altezza dal suolo. Quando i pic-
ANATRA MANDARINA
coli nascono, sono muniti di unghie affi-
latissime adatte ad arrampicarsi lungo il
tronco dell’albero per ritornare nel nido
dal quale, per scendere, si lanciano letteralmente nel vuoto da qualunque
altezza. Quasi mai avvengono incidenti in seguito a questi spericolati atterraggi, infatti lo scarso peso e le piccole “alucce” anche se ancora poco sviluppate, riescono in qualche modo ad attutire la caduta. Gli antichi Samurai hanno
sicuramente copiato per foggia e colori i loro costumi da questa splendida
anatra. Naturalmente anche il maschio di questa specie, va in eclisse di piu-
maggio e nei mesi estivi assomiglia molto alla femmina perdendo quasi totalmente il suo splendido e particolare apparato nuziale.
Ha un’apertura alare di circa 70 cm, una lunghezza di 42/48 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 500/600 gr ed un’aspettativa di vita di 8/12 anni. Depone da
9 a 10 uova, di color beige chiaro, che cova per 28/30 giorni. Ha uno staus
esistenziale buono.
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IL MARTIN PESCATORE
Da secoli il Martin pescatore, nonostante non sia un uccello tipico da compa-
gnia o da canto, continua a richiamare l’attenzione dell’uomo eccitandone la
fantasia. Secondo antiche leggende si dice che originariamente il suo piumaggio avesse una colorazione grigiastra e quindi insignificante. Narra una leg-
genda che Noè avesse comunque provveduto a caricare sulla sua arca anche
una coppia di questi uccelli. Al termine del diluvio universale quando tutti gli
animali abbandonarono l’arca per tornare sulla terraferma e nei cieli, il Martin
pescatore lo fece con un tale impeto che andò a sbattere contro il sole al tra-
monto con la parte ventrale del suo corpo che divenne brunita, mentre il
dorso, sbattuto dall’impatto con il sole, andò a cozzare contro il cielo pren-
dendone il colore azzurro acciaio. Un’altra leggenda racconta che gli antichi
Greci erano convinti che questo uccello deponesse e covasse in un nido
costruito sopra le onde in mare aperto, da cui il nome greco “halkyon” (colui
che concepisce sul mare). E si pensava che gli dèi fossero cosi propizi nei suoi
confronti che durante il periodo riproduttivo spianassero le onde del mare per
tutta la durata del ciclo riproduttivo. Un’altra leggenda mitologica narra che
un Martin pescatore sposò Ceice figlia della stella della sera Espero. Quando
l’uccello morì annegato, Ceice disperata si precipitò in mare a gridare tutta la
sua disperazione, fu così che gli dèi, impietositi la tramutarono in Martin
pescatore. Questo uccello si nutre di
pesciolini scegliendo sempre i più piccoli del branco o esemplari malati e vecchi,
per farlo usa una tecnica particolare: si
posa su di un ramo che passa sopra un
corso d’ acqua, per lo più sempre limpidissima, e quando avvista la preda pre-
scelta si tuffa catturandola con il forte
becco lungo un terzo del suo corpo. Una
43
MARTIN PESCATORE
volta portata la preda sul ramo prende a sbatacchiarla ripetutamente fino a che
la lisca e le spine non si staccheranno dal corpo rimanendo conficcate nel
legno del ramo, dopo di che porta la preda alla femmina in attesa accanto al
nido, che successivamente alimenta i suoi piccoli. La razione giornaliera dei
“pullus” di Martin pescatore è di 6-7 pesciolini, va da sé che una nidiata composta mediamente da 6 piccoli abbisogna di una quarantina di prede al giorno.
Questo uccello ha un’altra particolarità, non si vede mai in branchi, ma sempre e solo in coppia e ha bisogno di un habitat abbastanza esteso di circa 150
metri lungo un corso d’acqua, all’interno del quale non tollera la presenza di
suoi
consimili.
Teme in modo particolare il freddo e in certi inverni molto rigidi la sua popo-
lazione può ridursi anche del 70-80%.
Ha un’apertura alare di circa 25 cm, una lunghezza di 14/16 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 35 gr ed un’aspettativa di vita di 6/9 anni. Depone in una
cavità del terreno da 5 a 7 uova, di color bianco, che cova per 19/21 giorni.
Ha uno status esistenziale preoccupante.
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“Dio si fa conoscere attraverso la maestosa
bellezza della natura.”
Galileo Galilei
LA RONDINE
Costruisce il suo nido in maniera molto singolare. Non sceglie né rami di
alberi né cavità né anfratti, ma da provetto muratore qual è, la Rondine
costruisce il suo nido sui muri sotto i tetti o sotto una trave sia in legno che in
cemento. Per far ciò si posa al suolo e con il becco, appallottola la terra con
degli steli d’erba mescolandoli con la saliva; ottiene così tanti piccoli matton-
cini che attacca uno sotto l’altro, ottenendo una coppa semicircolare perfettamente attaccata al muro.
All’interno però, il suo nido è foderato di materiale molto soffice costituito da
sottili fili d’erba e piume di Gallina. Si ritiene che gli antichi, quando iniziaro-
no a costruire i primi mattoni per edifica-
re le loro case, si siano ispirati proprio al
lavoro della Rondine impastando paglia e
fango e pigiando il tutto con i piedi.
Un tempo, quando non si sapeva che gli
uccelli migravano verso i paesi più caldi,
si pensava che la Rondine, che con il
giungere del freddo scompariva, andasse
in letargo o si ibernasse. Un’altra credenza popolare, del resto molto verosimile,
diceva che quando la Rondine volava
RONDINE
alta il tempo era buono, quando invece volava bassa sarebbe arrivata una per-
turbazione e quindi la pioggia. Ciò perché la Rondine, dovendo catturare gli
insetti volatili di cui si nutre, era costretta a seguirli in alto o in basso a seconda delle condizioni atmosferiche in arrivo. E’ vero infine che la Rondine ritorna al suo nido. Lo si è scoperto spruzzando un po’ di vernice indelebile su
diversi esemplari in partenza per la migrazione, alcuni dei quali, quelli
sopravvissuti alla grande fatica, sono infatti tornati al loro nido lasciato l’anno
precedente. In questo caso si limitano a riassettarlo e a ristrutturarlo, laddove
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necessita, per poter così accogliere una nuova covata.
Ha un’apertura alare di circa 33 cm, una lunghezza di 16/18 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 20 gr ed un’aspettativa di vita di 3/5 anni. Depone da 4 a 6
uova, di color bianco, picchiettate di marrone, che cova per 13/14 giorni. Ha
uno status esistenziale preoccupante.
La fiaba
“L’Usignolo e la Rondine”
Una Rondine molto amica di un Usignolo lo invitò a nidificare come lei, sotto
il tetto delle case degli uomini e a condividere la loro dimora, ma quello
rispose:“scusami ma non desidero rivivere le mie antiche sventure che ho
subito vivendo accanto all’uomo; per questo voglio vivere in luoghi solitari”.
(Esopo)
IL RONDONE
Costruisce il suo nido nelle cavità degli alberi e dei muri, sotto le tegole e non
disdegna i “nidi artificiali”. Un tempo andato, i torrioni dei castelli, intere
pareti di palazzi e di campanili presentavano dei fori collegati con l’interno e
chiusi da uno sportellino. Su questi fori andavano a nidificare i Rondoni i cui
pullus, una volta raggiunta la maturità e quindi poco prima dell’involo, veni-
vano prelevati dalla servitù per arricchire le mense dei loro signori. Si diceva
che fossero “el boccon dei siori e dei preti”. Questo uccello si accoppia più
frequentemente in volo, non si posa al suolo per bere, ma lo fa rasentando il
corso d’acqua; terminato il periodo della riproduzione trascorre tutto il gior-
no e anche la notte in volo. Non si posa mai per terra o su di un ramo, prefe-
rendo riposarsi per brevi periodi, aggrappato ad un tronco di un albero, su una
parete verticale o su di una roccia.
Il Rondone si nutre solo ed esclusivamente di insetti volanti catturati in volo;
questi insetti sono abbondanti con il tempo buono e ovviamente scarseggiano
48
con il perdurare delle cattive giornate, ed
è ovvio che, in queste situazioni, egli sia
costretto per sopravvivere a cercare il
cibo a decine e decine, e talvolta anche a
centinaia, di chilometri lontano dal suo
nido. In questi periodi di magra, fatto
davvero curioso ed inspiegabile, la fem-
mina interromperà per alcuni giorni la
sua deposizione se questa fosse già ini-
RONDONE
ziata, per riprenderla di lì a qualche giorno; ma nel caso stesse già covando
abbandonerà le uova per alcuni giorni, senza che queste, pur raffreddandosi,
rallentino il loro sviluppo embrionale. Anche i piccoli già nati possono rima-
nere a digiuno senza morire per diversi giorni, cadendo in uno stato di inedia
durante il quale, per sopravvivere, attingeranno alle loro riserve di grasso. Se
il digiuno perdurerà, i piccoli Rondoni perderanno il controllo della tempera-
tura corporea, diventeranno cioè a “sangue freddo” cadendo in una specie di
torpore che però consentirà loro di sopravvivere fino a quando non potranno
essere nuovamente alimentati regolarmente. Fino a qualche anno fa era fre-
quente ammirare il suo volo in stormo, molto bello e spettacolare, ad altissi-
ma velocità intorno a chiese e campanili. Al Rondone del Tibet, che del resto
non si discosta molto da quello che conosciamo, spetta il primato della velo-
cità in picchiata che raggiunge i 375 kilometri orari.
Ha un’apertura alare di circa 45 cm, una lunghezza di 15/18 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 45/55 gr ed un’aspettativa di vita di 7/9 anni. Depone da 2 a
5 uova, di colore bianco grigio, che cova per 13/14 giorni. Ha uno staus esi-
stenziale preoccupante.
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IL CUCULO
Si pensava un tempo che il suo canto portasse poco di buono. Va premesso
che il Cuculo più che cantare, emette a brevi sequenze un suono un po’ lugu-
bre; ebbene si pensava che a chi capitava di sentire questi versi, venissero
comunicati gli anni che ancora aveva da vivere…e questi versi purtroppo per
lui erano sempre pochi. Tutto ciò, per fortuna, non è affatto vero, ma in pas-
sato (ancora oggi nella zona del Cansiglio), qualcuno ci credeva. Piuttosto è
vera, ed è da sempre confermata, la fama di parassita del Cuculo: infatti que-
sto uccello, non ha voglia di fare niente, non vuole cercarsi il sito dove
costruirsi il nido e ovviamente non lo costruisce, non vuole covare le proprie
uova e men che mai intende allevare i suoi piccoli. Ecco che allora ha sviluppato alcune caratteristiche che gli consentono in ogni modo (pur fasendo el
mestier del Miceasso, magnar e bevar e andar a spasso) senza fare nulla, di
dare continuità alla sua specie. In una stagione riproduttiva una femmina di
Cuculo deposita, a giorni alterni, fino ad una quindicina di uova, uno in ogni
nido di specie anche diverse l’una dall’altra. Le sue uova inspiegabilmente si
avvicinano alla colorazione di quelle deposte nel nido ospitante, pur essendo
ovviamente più grandi. E qui, viene da chiedersi quali conoscenze di chimica
esso abbia acquisito per ottenere questi risultati. Generalmente tutti gli uccelli depongono le loro uova nelle prime ore del mattino, contrariamente al
Cuculo che invece le depone il pomeriggio. Dopo la deposizione del proprio
uovo, questo autentico parassita provvede ad asportarne uno di quelli che già
si trovano nel nido “ospitante” (a volte l’uovo viene mangiato, a volte viene
buttato via), in modo che il numero rimanga invariato. Per la sua deposizione
egli sceglie sempre nidi di piccolissimi insettivori con netta preferenza per
Cannaiole, Pigliamosche, Magnanine e Capinere. E anche in questo caso si
rimane colpiti da questa sua conoscenza, se infatti andasse a deporre in nidi
di uccelli granivori la sua prole non vivrebbe. L’uovo del Cuculo, anche que-
sto è straordinario, si schiude sempre un giorno prima degli altri; appena nato
50
l’istinto del piccolo Cuculo lo porta a
sospingere fuori dal nido le uova che ha
intorno a sé e quasi sempre riesce a
disfarsene, ma se non ce la facesse a fare
piazza pulita e il giorno dopo dovesse
nascere qualche piccolo, terminerebbe il
suo “misfatto” buttando letteralmente
fuori dal nido anche questo, in modo da
rimanere da solo. Questo perché il cibo
CUCULO
che riusciranno a portare i suoi ignari genitori adottivi sarà sufficiente sola-
mente per lui, che alla fine risulterà essere almeno venti volte più grande e
grosso di essi. Il Cuculo adulto è un animale vorace che si nutre in prevalenza dei bruchi pelosi trascurati dagli altri volatili a causa delle sostanze urticanti in essi contenute. Esaminando l’interno dello stomaco del Cuculo, si è
trovato la membrana gastrica ricoperta da “peletti” di questi bruchi tanto da
apparire come un tessuto vellutato; l’eliminazione di queste sostanze indige-
ribili avviene periodicamente mediante la muta della stessa membrana gastrica.
Non essendo animale commestibile, non viene né cacciato né predato.
Ha un’apertura alare di circa 63 cm, una lunghezza di 30/33 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 110/125 gr ed un’aspettativa di vita di 8/10 anni.
Depone da 12 a 15 uova, di colore vario, su nidi di altri uccelli, che schiudono dopo 12 giorni di cova. Ha uno status esistenziale buono.
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IL PICCHIO
Nel suo genere è un uccello dalle diverse curiosità. Possiede una coda molto
rigida, infatti le sue timoniere servono da supporto quando si arrampica o
rimane appeso per scavare il nido negli alberi o per cercare il cibo. Per il
Picchio, la coda è talmente importante che nel periodo della muta le timonie-
re centrali cadono solamente quando quelle laterali sono già cresciute, in
modo da non lasciarlo privo di questo prezioso sostegno. Il suo becco, molto
forte a forma di punteruolo, gli permette di scavare nel tronco di un albero con
una certa facilità. Le sue narici sono ricoperte di piume setolose che lo ripa-
rano dalla polvere quando scava nei tronchi. La sua particolare caratteristica
è però rappresentata dalla sua lingua, incredibilmente lunga, che riesce a spingere fuori dal palato in maniera notevole,
ciò grazie alla particolare struttura e
dimensione delle ossa del cranio che la
sostengono. La punta della lingua è rigida e orlata di setole e barbe uncinate. Ma
non basta, perché questo organo è anche
ricoperto da una sostanza collosa, prodotta da ghiandole secernenti muco
PICCHIO
vischioso, il tutto nel suo insieme costituisce un efficacissimo strumento per
catturare le prede più ambite come larve,
tenebrioni, insetti in genere e formiche, ma anche per succhiare la linfa degli
alberi. Quando è spaventato, allunga a dismisura il collo e lo fa ondeggiare
lateralmente imitando in tal modo il comportamento dei serpenti. I piccoli
sono in grado di abbandonare il nido arrampicandosi sui tronchi e sui rami già
prima di saper volare.
Il Picchio, è stato considerato fin dall’antichità un uccello sacro e numerose
sono le leggende e i simbolismi che lo accompagnano. In antichità secondo
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un mito, veniva considerato come un inviato sulla terra di Marte e Giove e
dunque capace di trasmettere la loro volontà, per cui, un essere importantissi-
mo al quale rivolgersi, per i buoni auspici nell’andamento delle guerre e delle
pacifiche attività agricole e pastorali. Un Picchio appare anche nella leggen-
da della fondazione di Roma. Infatti, sotto l’ombra del fico, dove si sarebbe
arenata la cesta con Remo e Romolo, giunsero una Lupa e un Picchio per
nutrirli e allevarli. E Plutarco infatti scrive di quanto questi due animali furo-
no ritenuti sacri e come i Latini abbiano sempre avuto per il Picchio una
venerazione particolare. Il Picchio infine, nelle sembianze del re di Albalonga
(che si chiamava Pico cioè Picchio), era non solo l’istitutore del matrimonio,
il protettore delle nascite e il detentore del potere oracolare, ma, tramite il
potere di intercessione su Giove, dominava sul fulmine, sul tuono, e sulle
piogge benefiche che permettevano un buon raccolto. Questi forti simbolismi
si ritroveranno poi sia nel Medioevo come nel Rinascimento, tanto che si arri-
vò a vedere nel Picchio predatore dei vermi nascosti che scova con il becco
appuntito, un simbolo del Cristo che contrasta dappertutto il nemico.
Ha un’apertura alare di circa 37 cm, una lunghezza di 21/22 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 75/90 gr ed un’aspettativa di vita di 5/9 anni. Depone da 4 a
8 uova, di colore bianco grigiastro, che cova per 15/16 giorni. Ha uno status
esistenziale buono.
L’USIGNOLO
E’ il re degli uccelli cantori. Il maschio si pone sulla cima di un albero della
siepe nella quale ha il suo nido e, da quel sito, emette forte e melodioso il suo
canto. Con il canto l’Usignolo intende soprattutto far capire ad eventuali
intrusi che quello è il suo territorio e che non accetta vicini; è molto raro infat-
ti, sentir cantare nei paraggi altri Usignoli. Racconta un chioccolatore (imita-
tore del canto degli uccelli), che un giorno volle “sfidare” un Usignolo per
studiarne la reazione. Messosi un sacco di juta sopra la testa, entrò nella siepe
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dove, sopra un albero, un Usignolo stava
cantando. Mimetizzandosi a dovere e
coprendosi con il sacco e delle frasche,
incominciò a cantare imitandolo, questi
reagì alzando il tono della sua voce; il
chioccolatore fece altrettanto e iniziò
USIGNOLO
così la sfida fra i due. Ad un certo punto
l’Usignolo si avvicinò all’uomo e gli si
pose sopra la testa mimetizzata con il
sacco e cominciò a colpirlo con il becco; ma l’uomo imperterrito continuò a
cantare e allora successe l’incredibile; il maschio, comprendendo di aver per-
duto il “confronto” volò via e la femmina, che stava covando poco più in là,
abbandonò il nido e si avvicinò all’uomo con fare sottomesso: aveva accetta-
to il nuovo maschio. L’uomo ad un certo punto smise e se ne andò e allora la
femmina “scoperto il giochetto” ritornò nel suo nido, così come l’Usignolo
ritornò a cantare sul suo albero.
Ha un’apertura alare di circa 24 cm, una lunghezza di 15/16 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 22/25 gr ed un’aspettativa di vita di 3/4 anni. Depone da 4 a
6 uova di color grigio piombo, che cova per 12/13 giorni. Ha uno status esi-
stenziale preoccupante.
LA CINCIALLEGRA
La Cinciallegra è un bell’uccellino che costruisce il suo nido all’interno di un
buco di un albero. Questo nido è il più soffice che esista in quanto interna-
mente è tutto rivestito di lana vergine, infatti la Cinciallegra percorre chilo-
metri e chilometri alla ricerca dei ciuffetti di lana lasciati negli arbusti e nei
rami bassi degli alberi dalle pecore durante la loro transumanza.
La femmina depone nove-dodici uova, una al giorno, e durante questo lasso
di tempo non cova e si allontana dal nido. Prima di abbandonare le uova, le
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copre accuratamente nascondendole sotto lo stesso materiale con il quale ha
costruito il nido. Nel corso di una stagione riproduttiva una Cinciallegra può
dunque deporre in tre covate fino a trenta uova dalle quali nasceranno altrettanti pullus.
Durante l’allevamento però circa un terzo dei nati muore per vari fattori, e se
ciò non bastasse, la mortalità continuerà a colpire le giovani Cinciallegre
anche in seguito, tanto che dei venti giovani che potrebbero essere mediamen-
te svezzati, ben il 70/80% perirà entro i
primi dieci mesi di vita, così che arriverà
in età adulta e quindi all’attività produttiva un numero piuttosto esiguo di esemplari. Anche la vita media della
Cinciallegra adulta è comunque molto
bassa, essa può vivere in media dai due ai
tre anni pur se alcuni esemplari, molto
raramente però, possono arrivare anche a
6-7. I suoi piccoli vengono alimentati in
continuazione tant’è vero che si calcola
CINCIALLEGRA
che una coppia in allevamento porti l’imbeccata ai piccoli per oltre cinquan-
tamila volte. Un detto popolare dice che la Cinciallegra porti la primavera: è
infatti il primo uccello che si sente cantare e il suo verso sembra dire: “fuori
tutti, fuori tutti fuori tutti”……che l’inverno è finito e la bella stagione sta per
iniziare.
Ha un’apertura alare di circa 24 cm, una lunghezza di 13/15 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 18/22 gr ed un’aspettativa di vita di 2/3 anni. Depone da 6 a
12 uova di color bianco punteggiate di beige che cova per 12/13 giorni. Ha
uno status esistenziale discreto. Nell’ambito del progetto di educazione
ambientale della Provincia di Treviso, vengono inseriti nei cortili delle scuole delle cassette nido per la reintroduzione nel territorio di alcuni uccelli. La
Cinciallegra fra gli altri è quella maggiormente presente.
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L’ AVERLA
E’ tipico abitatore dei vigneti e di zone ricche di cespugli; se eccitato muove
la coda in qua e in là. Non è un rapace pur avendo tante affinità con questa
specie. E’ infatti dotato di un forte becco leggermente adunco e dentato e pos-
siede dei veri e propri artigli al posto delle unghie.
Ad accostarlo ancora di più ai falconidi è la sua alimentazione in quanto le
sue prede preferite sono quelle tipiche degli uccelli predatori: arvicole, topo-
lini, piccoli rettili, lucertole, anfibi e piccoli uccelli che dopo la cattura ama
infilzare su spine e ramoscelli lasciandoli “appassire” per qualche giorno
prima di nutrirsene. Svariate sono le interpretazioni per questo curioso e strano comportamento: per taluni sarebbe un modo più comodo per poter dila-
niarne le carni, mentre la tradizione popolare ha sempre ritenuto che questo
fosse un modo per poter contare su delle scorte alle quali ricorrere nei
momenti di magra, dovuta magari a giornate piovose.
Che il motivo di questo comportamento sia appunto quello di avere delle
“dispense” di riserva, risulterebbe anche dal fatto che molte di queste prede
vengono sapientemente infilzate sulle spine all’altezza delle prime vertebre,
dietro l’articolazione del capo, così da rimanere paralizzate, ma ancora in vita
e durare quindi più a lungo evitando la decomposizione anticipata.
Anche nel caso si trattasse di insetti, l’Averla, prima di cibarsene, ha nei loro
confronti un trattamento particolare:
mantiene la preda ben stretta nel becco
strappando con i piccoli, ma forti artigli
le parti chitinose più ampie; se si tratta di
bruchi, a colpi di becco ne estrae addirittura l’intestino e quando cattura un imenottero lo priva del suo pungiglione sfregandolo ad arte contro un ramo.
AVERLA PICCOLA
E’ raro
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poter
ascoltare
il
canto
dell’Averla e comunque, sempre e solo, dopo il suo immediato ritorno dai luo-
ghi di svernamento. I fortunati fruitori del suo canto hanno così modo di
apprezzare le sue qualità canore e di vivere un’esperienza particolare.
Oltre al tipico verso della sua specie, questo uccello ha modo di farsi apprez-
zare per le varie imitazioni del canto di numerosi altri volatili, riunite in una
armoniosa ed eccellente composizione, che esegue per lungo tempo.
Ha un’apertura alare di circa 25 cm, una lunghezza di 16/17 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 23/28 gr ed un’aspettativa di vita di 2/4 anni. Depone da 4 a
6 uova, di colore variabile verdino giallino e rossiccio picchiettate di bruno,
che cova per 14/15 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante.
IL CROCIERE
La curiosità maggiore di questo uccello è quella di possedere un becco incro-
ciato, forse unico nel mondo degli uccelli, che dà appunto origine al suo
nome: Crociere. La sua dieta è composta quasi essenzialmente di semi di
conifere, che estrae dalle squame legnose delle pigne, grazie alla conforma-
zione incrociata delle punte di questo becco che funziona come un apriscato-
le. Un altro particolare significativo è dovuto all’abbondanza anche nei mesi
freddi del cibo di cui si nutre, quindi è in grado di nidificare molto precocemente; si possono trovare nidi di Crociere infatti fin da gennaio. Per questo
loro trafficare incessantemente con i frut-
ti di conifere, i Crocieri hanno spesso il
piumaggio ricoperto da un leggero strato
di resina il che talvolta impedisce ai
corpi dei volatili morti di decomporsi,
restando soggetti ad un processo di
mummificazione naturale. Questi uccelli
sono anche famosi per i grandi stormi
che formano durante le loro migrazioni
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CROCIERE
provocate da sovrappopolamento o a scarsità di cibo. Spesso, a causa della
loro entità numerica molto elevata, questi stormi destano un’attenzione note-
vole. Ricorda un cronista inglese che nel lontano 1251 un enorme stormo di
Crocieri aveva letteralmente “sommerso” il suo paese.
Ha un’apertura alare di circa 28 cm, una lunghezza di 15/16 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 36 gr ed un’aspettativa di vita di 2/4 anni. Depone da 3 a 4
uova, di color beige chiaro con rare macchie brunastre, che cova per 14 /16
giorni. Ha uno status esistenziale buono.
IL FROSONE
Questo uccello dalla struttura corporea corta e tozza, che lo rende un animale molto
vigoroso, presenta una particolare curiosità: un becco talmente forte da diventare
oggetto di studio e di approfondimento da parte di tanti studiosi e zoologi. Il Frosone
è un uccello granivoro e per arrivare al seme della ciliegia, dell’oliva o del susino
deve spolpare il frutto e arrivare al nocciolo che con estrema facilità riesce a rompere. Un noto studioso francese di Frosoni scrive in un suo testo: “Il loro cranio è
stato ammirato da ingegneri meccanici come un esempio perfetto di adattamento a
sollecitazioni particolarmente forti. In questo cranio ogni linea retta e curva è rinfor-
zata, puntellata e ingrossata, in modo da aumentarne la robustezza. La forza necessaria per rompere tali semi è stata misurata per mezzo di speciali apparecchi costruiti a imitazione del becco di questi uccelli. In
uno di questi congegni per rompere dei noccioli di ciliegia fu necessario esercitare una
forza da 27,5 a 43,2 kg; mentre per rompe-
re i noccioli di oliva decisamente più duri
furono necessari da 45,8 a 68,3 kg”. Lo studioso in questione evidenzia il fatto che que-
sti dati da capogiro devono essere confron-
FROSONE
tati con il peso corporeo dei Frosoni non
58
superiore ai 55 gr. Un’altra curiosità del Frosone è rappresentata dal fatto che, al
contrario di altri uccelli, esso si presenta in grande quantità tra resti fossili; in uno
di questi resti, scoperto in Polonia nel 1910 in un deposito dell’era glaciale, fu recu-
perato addirittura lo stomaco dell’uccello, all’interno del quale furono rinvenuti
semi di ciliegie selvatiche, piante tuttora presenti nella stessa regione ed ancora
predilette dai Frosoni presenti in quei luoghi. Ha un’apertura alare di circa 31
cm, una lunghezza di 16/18 cm, un peso corporeo di circa 55 gr ed un’aspettativa
di vita di circa 2/4 anni. Depone da 3 a 7 uova di color grigio azzurrastro con mac-
chie bruno-oliva, che incuba per 12/14 giorni. Ha uno status esistenziale buono.
IL RIGOGOLO
È conosciuto con diversi nomi dialettali:
“Compare Piero”, “Miglioro” e “Uccello
della Pentecoste”. (Poichè
ritorna nei
luoghi di nidificazione piuttosto tardi a
primavera inoltrata). Per costruire il suo
nido sceglie sempre un grande albero con
delle chiome molto frondose e nella parte
alta ed esterna, da quel gran “artigiano”
qual’è, intreccia in maniera perfetta e con
grande maestria lunghi fili d’erba nella
biforcazione orizzontale del ramo in
RIGOGOLO
modo che alla fine del suo lavoro il nido risulterà una specie di amaca sospe-
sa nel vuoto. Particolare curioso: per far si che i fili d’erba non si sfilaccino e
che il nido non cada, il Rigogolo, a opera conclusa, passa ogni stelo con la sua
saliva che è un ottimo collante così da rendere i fili d’erba, che sostengono il
nido, particolarmente resistenti. Nonostante i colori vistosi del maschio è difficile scorgerlo mimetizzato com’è nel folto del fogliame, la sua presenza si
avverte soltanto in seguito al suo canto che difficilmente sfugge all’ascolto. Il
59
dimorfismo (la differenza) sessuale tra il maschio e la femmina è notevole, e i
giovani Rigogoli fino a muta conclusa hanno lo stesso piumaggio della madre.
La femmina porta a termine una sola covata in quanto già ad agosto per que-
sta specie inizia la grande avventura della migrazione; questi uccelli attraversano tutta l’Africa e svernano nella parte meridionale del continente nero. Ecco
perché partono presto e arrivano tardi rispetto alle altre specie. Ha un’apertura
alare di circa 35 cm, una lunghezza di 23/25 cm, un peso corporeo di 52/55 gr
ed un’aspettativa di vita di 3/5 anni. Depone da 4 a 5 uova di colore bianca-
stro, tendente al rosa, picchiettate di bruno violaceo e le cova per 14/15 giorni. Ha uno status esistenziale discreto.
LA GAZZA
In dialetto “Gaia” o “Checa”. Un tempo veniva allevata e addomesticata dal-
l’uomo che la lasciava libera nel cortile della casa colonica unitamente agli
altri volatili, come galline, colombi, tacchini e altri. È ovvio che non era dete-
nuta per la sua carne (si dice non sia buona) bensì per compagnia.
Obbediente, intelligente, per molti appassionati è pure stata una spalla ideale
in spettacoli televisivi e teatrali. L’appellativo di “ladra” le è appropriato poi-
chè è attratta da tutto ciò che luccica e quindi anche dai gioielli. Un tempo si
cercavano i nidi di gazza proprio per ritrovare, la catenina o il braccialetto
d’oro,
improvvisamente
scomparsi,
molto spesso si aveva la bella sorpresa di
ritrovarli proprio all’interno del nido,
insieme a pezzettini di vetro, frammenti
di specchio e altro ancora, tutti oggetti
che la Gazza riteneva utili per adornare
la sua “casa”. Volatile ciarliero e chiasso-
so (alcuni linguisti fanno derivare da
Gazza il termine “gazzarra”), ha una
60
GAZZA LADRA
voce rauca e sgradevole che rivela chiaramente nelle varie intonazioni lo stato
d’animo dell’animale. Si nutre di qualsiasi alimento: insetti, molluschi, picco-
li invertebrati, granaglie, frutta e bacche, ma non disdegna nemmeno le caro-
gne di animali morti pur se il suo cibo preferito è costituito da uova e da pullus di uccelli, che, famelica, preda dai loro nidi.
Molti soggetti hanno l’abitudine di premunirsi contro periodi di carestia accu-
mulando scorte di cibo e nascondendole nelle cavità degli alberi o in altri
nascondigli. Gli antichi Romani usavano tenere presso la porta di casa una
gabbia con dentro una Gazza addestrata a rivolgere il saluto ai visitatori.
Ha un’apertura alare di circa 55 cm, una lunghezza di 43/45 cm, un peso cor-
poreo di 220/250 gr ed un’aspettativa di vita di 12/13 anni. Depone 6/8 uova
di colore grigio verde azzurrognolo con macchie olivastre, e le cova per 25/27
giorni. Ha uno staus esistenziale in esasperato aumento.
L’ UPUPA
Presente in molti esemplari nel nostro territorio fino ad una quarantina d’anni
fa, oggi sopravvive a stento in pochissimi esemplari a causa della scomparsa
del suo habitat preferito: la siepe con i salici selvatici che, invecchiando,
lasciavano degli anfratti sui quali, appunto, l’Upupa nidificava. Era molto
facile pertanto trovare il suo nido, bastava visitare questi siti, attirati anche da
un odore nauseabondo che si spargeva tutto intorno. Gli uccelli in genere,
mantengono puliti i loro nidi dalle deiezioni dei piccoli, per evitare che il cat-
tivo odore attiri i predatori; cosa questa che l’Upupa non fa lasciando tutte le
feci intorno al nido. A difendere la sua nidiata ha però provveduto madre natura; i “pullus” infatti sono dotati di sostanze puzzolenti che in caso di pericolo
vengono “spruzzate” dalla ghiandola uropigia contro il predatore che sarà
così costretto ad abbandonare le potenziali prede. Questi schizzi sono prece-
duti da un primo avvertimento: un forte sibilo emesso, sia in coro che singo-
larmente, con l’intento di allontanare i predatori. Spesso questo sibilo intimo61
riva anche l’uomo che, prima di introdur-
re la mano nell’anfratto, ci pensava due
volte temendo la presenza, di qualche
altro animale. A contribuire e ad aumentare il cattivo odore prodotto dalle deie-
zioni e dagli schizzi, è la stessa femmina
UPUPA
in cova nel nido; essa secerne una sostan-
za maleodorante che impregna il nido
stesso e ovviamente i piccoli, ma non
basta, perchè a completare il quadro anche i “pullus” producono la stessa
sostanza puzzolente e maleodorante. L’Upupa possiede un’altra curiosità
meritevole di essere segnalata: essa si nutre di vermi, grillotalpe, coleotteri e
bruchi di ogni genere, cercati nel terreno, fra i sassi e nello sterco del bestiame. Prima di inghiottire le prede più grosse, le libera delle parti chitinose sbat-
tendole più volte a terra fino a che le ali, la testa e le zampe non si staccano
dal corpo riducendone in questo modo le dimensioni, ma l’Upupa ha un becco
troppo sottile e la piccola lingua non riesce ancora a spingere all’interno del
gozzo il prelibato “boccone”. Allora ricorre ad uno stratagemma tutto suo.
Lancia in alto la preda e la afferra con il becco spalancato così da inghiottirla di colpo senza molta fatica. L’Upupa in volo sembra una grossa farfalla per
il suo battito d’ali molto lento e per la traiettoria piuttosto ondulata.
Ha un’apertura alare di circa 45 cm, una lunghezza di 25/27 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 65/70 gr ed un’aspettativa di vita di 8/9 anni. Depone da 6 a
8 uova color bianco grigioverde, e le cova per 17/19 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante.
62
“Con tutti gli esseri e tutte le cose noi saremo fratelli.”
Proverbio Pellerossa
LA GRACULA
La Gracula religiosa detta anche Maina o ancora Merlo indiano, è originaria
dell’India anche se ormai fa parte degli uccelli frequentemente allevati e dete-
nuti per affezione da parte di tanti appassionati.
Allo stato selvatico nei luoghi d’origine è molto apprezzata dagli indigeni
nonostante le dannose scorrerie nei campi coltivati. Sin dai tempi antichissi-
mi era uso in India tenere questi volatili in cattività e bisogna dire che le
Gracule per il bell’aspetto, la vivace intelligenza, la perfetta adattabilità alla
vita captiva, risultano piacevolissimi pennuti ornamentali. Ma il pregio mag-
giore di questo volatile risiede nelle notevoli capacità mimiche che lo rendo-
no capace non solo di riprodurre il canto di altri uccelli, il verso di altri ani-
mali e di apprendere a fischiettare sem-
plici “ariette”, ma soprattutto di ripetere
con estrema chiarezza alcune parole del
linguaggio umano. A questo riguardo le
Gracule superano di molto i Pappagalli,
non solo perché riescono a ripetere un
maggior numero di parole, ma per il tono
della voce che assomiglia in modo sor-
prendente a quello umano. All’uso della
“parola” anche le Gracule, come i
Pappagalli, vanno pazientemente adde-
GRACULA
strate. Un’altra particolarità curiosa è dovuta al fatto che questi uccelli, se par-
ticolarmente addestrati, sono capaci di seguire passo dopo passo il proprietario e di accorrere, con una prontezza incredibile, al suo richiamo.
Ha un’apertura alare di circa 42 cm, una lunghezza di 28/32 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 130/140 gr e una aspettativa di vita di 15/20 anni. Depone da
2 a 4 uova di colore biancastro e le cova per 27/29 giorni. Ha uno status esistenziale buono.
65
I PAPPAGALLI
Primo particolare curioso che riguarda questa specie è rappresentato dal fatto
che è presente in tutti i continenti fatta eccezione per l’Europa, tuttavia grazie
al ritrovamento di fossili di Pappagalli Cenerini africani, se n’é potuta dimo-
strare la presenza, risalente a circa 40-50 milioni di anni fa, anche nel nostro
continente. Il Pappagallo è molto apprezzato per i suoi variopinti colori e per
la sua particolare capacità di imitare le parole umane. Quasi tutti i Pappagalli
usano il becco come se fosse la loro terza zampa, principalmente quando si
arrampicano su di un albero. Già migliaia di anni fa l’uomo si interessò ai
Pappagalli: fu un timoniere di una nave di Carlo Magno a portare in Europa i
primi esemplari vivi. Nell’antica Roma già si allevavano Pappagalli, come
ricorda Plinio il Vecchio dissertando, a proposito di questi uccelli, che sem-
bravano capaci di parlare. Egli descrisse un singolare metodo per indurli a
farlo: “si prenda un bastone duro quanto il becco dell’animale e con esso lo si
picchi sul capo”. In una nota della Curia, che risale al quattordicesimo seco-
lo e conservata negli archivi Vaticani, si cita un “custode dei Pappagalli”.
Sempre in questo periodo l’imperatore tedesco Federico 2°, considerato il
fondatore dell’ornitologia scientifica, possedeva un Cacatua Alba, donatogli
dal sultano di Babilonia. Un’altra curiosità su questi volatili, vuole che abbiano contribuito alla scoperta dell’America. Uno stormo di questi uccelli,
secondo certi racconti, avrebbe indotto Colombo a un decisivo mutamento di
rotta per seguirlo; il celebre navigatore collegò la presenza dei Pappagalli alla
vicinanza della terra ferma, intuizione felice che poi si realizzò. I Pappagalli
sono molto longevi: gli Ondulati possono arrivare facilmente ai 13 anni, ma
aumentando le dimensioni si sono avuti casi di Cacatua, Amazzoni e Are che
hanno raggiunto gli 80 anni e talvolta superato anche il secolo di vita. Il più
ciarliero dei pappagalli è il Cenerino; certi esemplari di questa specie
Africana riescono a ripetere anche 90 parole. Un artista di un circo poneva al
suo “pupillo” ben 30 domande in quattro diverse lingue, l’uccello dava le
66
risposte imparate a memoria nella lingua
giusta. Il celebre Perzina, riconosciuto
come il padre dei Pappagalli, riusciva a
far rappresentare dai suoi Uccelli una
scena di addio alla stazione ferroviaria
con le diverse parti perfettamente distribuite: “salire sulla carrozza e chiudere la
porta”, “non sporgersi dai finestrini”;
continuava poi con il fischio, il rumore
PAPPAGALLO CENERINO
del convoglio che partiva e concludeva con “arrivederci mamma”. Questi
risultati si ottengono in quanto l’animale tende a creare un rapporto stretto
con il suo tutore, che viene ad assumere il ruolo di compagno mancante.
Tutti i Pappagalli hanno un comportamento sociale e farli vivere soli è per
essi una grande sofferenza. Ecco perché l’uomo deve trascorrere molte delle
sue ore creando questo rapporto sostitutivo. I grandi Pappagalli tenuti isolati
purtroppo molto spesso si strappano da soli le penne delle ali e della coda. La
causa di questo comportamento molto spiacevole va ricercata nella noia della
solitudine.
Sono molte le specie di Pappagalli ormai allevate dall’uomo e soprattutto
sono molte diverse le loro dimensioni, il loro peso corporeo, il numero delle
uova deposte e la loro longevità.
67
L’ AQUILA REALE
E’ indubbiamente uno degli uccelli più imponenti e maestosi. Per tale ragione sin
dai tempi dell’antichità è assurta a simbolo di nobiltà e di fierezza, e la sua immagine è stata riprodotta su innumerevoli stemmi gentilizi. Leggermente più picco-
la solo dell’Aquila di mare, è comunque la più forte, grazie soprattutto alla poten-
za dei suoi artigli. Per avere ragione anche delle prede più combattive, l’Aquila
reale gioca soprattutto sul fattore sorpresa: durante la caccia esamina infatti con
molta attenzione il territorio, abbassandosi a breve distanza dalla terra, una volta
individuata la preda anziché cacciarla con il rischio di vedersela sfuggire, preferisce “ allontanarsi” e risalire rapidamente a grandi altezze, per poi calare su di essa
con una picchiata fulminea e inaspettata, atterrendo in tal senso la preda con la sua
improvvisa apparizione, tanto che questa rimarrà immobile come pietrificata.
Riuscirà così a ucciderla facilmente. Una volta affondati gli artigli sulla preda, se
si tratta di un animale vigoroso, si lascerà trasportare anche per centinaia di metri
senza mollare la presa, finchè la vittima cadrà sfinita per le profonde ferite e le
abbondanti perdite di sangue. Le prede preferite vanno dai cuccioli di Camosci,
Caprioli e Cervi, a Marmotte, Volpi, Conigli selvatici e Lepri, che vengono por-
tati successivamente in un luogo aperto per venire dilaniati a colpi del suo pos-
sente becco adunco. Se si tratterà di uccelli, l’Aquila li ghermirà in volo e li ucciderà con un ben assestato colpo dell’unghia del dito posteriore prima di trasportarli nel suo nido. In certi paesi asiatici, è
ancora attuale il mercato delle Aquile che
vengono addestrate per la caccia in partico-
lare a Volpi, Caprioli, e Lupi. Il loro prezzo
è fissato in due o più Cavalli o in due o più
Cammelli, a seconda della bontà dell’adde-
stramento del rapace. L’ Aquila ha bisogno
di un habitat molto esteso (8.000/10.000
AQUILA
ha) sul quale costruisce alcuni nidi che
68
sono usati alternativamente nel corso degli anni. L’Aquila depone generalmente
due sole uova con un intervallo, tra il primo e il secondo, anche di quattro giorni;
in qualche rara occasione può deporne anche tre. I pullus lasciano il nido dopo 70
giorni circa e raggiungono la maturità sessuale solamente al quarto anno di età.
Come gli altri rapaci, una volta compiuta la digestione anche l’Aquila rigurgita le
cosiddette “borre piumate”, un ammasso di piume e ossa delle prede che non riesce a defecare. Ha un’apertura alare di circa 200 cm, una lunghezza di 78/83 cm,
un peso corporeo di 4/6 kg ed un’aspettativa di vita di circa 25 anni. Depone generalmente 2 uova di colore bianco con grandi chiazze color rosso-bruno e le cova
per circa 45 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante.
La fiaba
“L Aquila e la Volpe”
Un’Aquila e una Volpe divennero amiche e decisero di abitare una accanto all’al-
tra, convinte di rafforzare il loro sentimento. Così l’Aquila volò sopra ad una rupe
e vi costruì il suo nido dove nacquero i suoi piccoli, la Volpe scelse un cespuglio
sotto la stessa rupe dove scavò la sua tana e partorì i suoi cuccioli. Un giorno,
mentre mamma Volpe era a caccia di prede per nutrire i suoi cuccioli, l’Aquila
osservandoli mentre giocherellavano al di fuori della tana, piombò su di essi e se
li portò nel suo nido dove, insieme ai suoi piccoli, li divorò. Al ritorno dalla caccia,
mamma Volpe scoprendo il misfatto fu colta da un grande sconforto, sia per la
morte dei suoi cuccioli sia per il tradimento subito da parte dell’amica. Da allora,
pur se impotente perché mai avrebbe potuto arrivare fin sopra la rupe, pensò solo
alla vendetta. E non passò molto tempo. Un giorno l’Aquila osservò dall’alto della
sua dimora, che a valle si stava offrendo in sacrificio una capra agli dèi, essa piombò giù e ghermì uno dei visceri dell’animale sacrificato senza accorgersi che stava
prendendo fuoco; una volta tornata sul nido, lo depose fra la paglia e i rami sec-
chi, ma una folata di vento accese una vivida fiammata che investi i suoi piccoli
che in breve bruciarono e caddero al suolo. La Volpe allora accorse e se li divorò
sotto gli occhi atterriti della madre che osservava dall’alto della rupe. (Esopo)
69
FALCO PECCHIAIOLO
La buona riuscita della sua covata dipende dalla quantità di vespe, api e cala-
broni allo stato larvale che riesce a trovare. E’ meno interessato agli insetti
adulti dei quali tuttavia non teme le punture, protetto com’è, da un piumaggio
forte e ispido disposto regolarmente tra il becco e gli occhi con il compito di
proteggere la vista durante la cattura di
questi insetti. Nello stomaco e nel gozzo
di alcuni Pecchiaioli furono rinvenute
vespe e api prive di pungiglione, e questo
portò a ritenere che questo falconide
provvedesse ad eliminare il pericoloso
organo, prima di inghiottire gli insetti.
Un Pecchiaiolo, intento a raspare sul ter-
FALCO PECCHIAIOLO
reno alla ricerca dei nidi di vespe è tal-
mente preso da questo lavoro, che non si
accorgerebbe nemmeno dell’avvicinarsi
dell’uomo che lo potrebbe facilmente catturare con le mani, se esso non fosse
circondato da un nugolo di insetti ronzanti. Alcuni anziani raccontano di aver
osservato più volte che dei Pecchiaioli di fronte alla carcassa di animali morti
da giorni, non si nutrivano della loro carne, bensì delle larve di mosconi che
trovavano nelle carogne. Naturalmente questi rapaci si cibano anche di retti-
li, uccelli e piccoli mammiferi ma talvolta non disdegnano nemmeno frutta e
bacche. Il Pecchiaiolo non si costruisce il nido da sé, ma opportunamente
sfrutta un vecchio nido abbandonato di Astori o Poiane, restaurandolo.
Generalmente nascono due pullus, solo raramente tre, ma quasi sempre sarà
uno solo ad arrivare alla maturità. I piccoli depongono le loro deiezioni sul
fondo del nido e non oltre il bordo del medesimo, come fanno generalmente
gli uccelli; queste deiezioni, tra l’altro, molto dense e scure, imbrattano il nido
e di conseguenza i genitori devono portare in continuazione del fogliame fre70
sco per isolarle. Contrariamente alla maggior parte degli altri uccelli, i
Pecchiaioli non provvedono ad eliminare i resti del pasto dal nido dopo aver
nutrito i pullus, per cui con il trascorrere dei giorni i favi finiscono per accu-
mularsi gli uni sugli altri sino a impedirne i movimenti. Un’altra curiosità,
questa volta assurda, riguarda l’abbattimento sistematico di questo splendido
rapace quando questi rientra in Italia dopo lo svernamento. I Pecchiaioli vengono abbattuti a centinaia ogni anno intorno allo stretto di Messina dall’uo-
mo della strada, convinto che una volta abbattuto un Pecchiaiolo la propria
moglie non lo tradirà mai….
Ha un’apertura alare di circa 130 cm, una lunghezza di 50/55 cm, un peso cor-
poreo di 750/1150 gr ed un’aspettativa di vita di 23 anni. Depone 2/3 uova di
color biancastro picchiettate di porpora scuro e le cova per 33/35 giorni. Ha
uno status esistenziale discreto.
LA POIANA
E’ sicuramente il rapace più diffuso e popolare nella nostra zona. Essa nidifi-
ca nelle foreste, mentre caccia in prevalenza nelle zone agricole aperte, che
esplora dall’alto con volo planato, librandosi talvolta immobile nell’aria.
Alcuni studiosi hanno dimostrato che la preda preferita dalla Poiana è il topo
campagnolo; tale roditore costituisce circa il 40% delle sue prede; se si tiene
poi conto delle altre specie di topi cattu-
rate, si raggiunge una percentuale di oltre
il 50%. Questo rapace non disdegna
cibarsi anche di uccelli, locuste, serpenti,
coleotteri e lombrichi con i quali integra
la propria dieta.
Un tempo era considerato un grave peri-
colo per i pulcini di gallina o altri animali da cortile domestici. Il volteggiare in
71
POIANA
cielo della Poiana, metteva in allerta le donne delle campagne, che si passa-
vano parola del pericolo incombente e correvano nei cortili e nei campi cir-
costanti le abitazioni per portare al riparo nei recinti e nelle stalle i piccoli ani-
mali, preservandoli dall’attacco del predatore. Particolare curioso: chi percor-
re l’autostrada, che porta da Padova a Bologna (ma pure altrove), potrà osser-
vare diverse Poiane appollaiate sulla rete di recinzione che delimita l’arteria
stradale dall’aperta campagna. La scarsità di cibo e un habitat davvero stra-
volto, ha trasformato questi abili rapaci in veri e propri opportunisti; essi
infatti attendono che qualche uccello o qualche mammifero venga travolto dal
traffico per volare su di esso, ghermirlo dalla sede stradale e portarselo sul ter-
reno aperto per potersene cibare. Ha un’apertura alare di circa 115 cm, una
lunghezza di 52/55 cm, un peso corporeo di 700/1100 g ed un’aspettativa di
vita di circa 20 anni. Depone 2/3 uova di color biancastro con macchie brunoruggine e le cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale buono.
IL BARBAGIANNI
E’ uno dei rapaci notturni più diffusi, tipico abitatore di campanili, granai, soffitte e anfratti di vecchie case. Una sua stranezza deriva dal fatto che inizia a
covare dopo la deposizione del primo uovo; in questo modo i piccoli della sua
covata avranno svariate dimensioni, i piccoli potranno avere cinque o anche
sei giorni di differenza l’uno dall’altro.
Come tutti i rapaci notturni, possiede un piumaggio molto folto e ciò gli consente un volo molto silenzioso grazie anche ad una particolare struttura petti-
nata della parte più esterna dell’ala, che impedisce la vibrazione dell’aria spostata. Ciò dà al Barbagianni un grande vantaggio all’atto della cattura della
preda prescelta. Le zampe sono piuttosto lunghe e ricoperte di piume, gli arti-
gli hanno un rado rivestimento di peli, l’artiglio esterno è reversibile, può, cioè,
essere spostato sia lateralmente che all’indietro. Come altri predatori della
notte possiede un udito molto sviluppato che gli permette di localizzare la
72
preda anche nell’oscurità più profonda.
Il Barbagianni non si spinge sulle montagne nemmeno per cacciare, in quanto è
molto sensibile al freddo e non possiede
la proprietà di poter immagazzinare, in
autunno, grandi quantità di grasso. Negli
inverni più rigidi, quando la neve copre il
terreno, molti barbagianni non riescono a
sopravvivere e muoiono. Anche i piccoli
BARBAGIANNI
nel nido sono piuttosto freddolosi ed è sufficiente che la temperatura scenda
di qualche grado perché si addossino l’uno all’altro per riscaldarsi, così come
del resto fanno pure i mammiferi. Il Barbagianni è molto fedele al suo territorio, quindi nemmeno i giovani in età riproduttiva si allontanano di molto
dall’habitat in cui sono nati. Le sue prede preferite sono quelle tipiche degli
Stringiformi in genere: Topi, Topi campagnoli, Arvicole terrestri, Ratti, Talpe
e piccoli Uccelli. Ma la preda preferita dal Barbagianni è costituita dai
Pipistrelli che vengono catturati in volo quando escono dai loro antri emetten-
do i tipici squittii che richiamano l’attenzione del predatore. Per secoli è stato
considerato il “marito” della Civetta. Effettivamente i due uccelli notturni fre-
quentano spesso gli stessi ambienti, perciò vederli insieme nei casolari e nei
fienili contribuì ad accomunarli in un modo tanto improprio.
Ha un’apertura alare di circa 90 cm, una lunghezza di 33/37 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 350 gr e una aspettativa di vita di 7/9 anni.Depone da 4 a 7
uova di color biancastro e le cova per 32/34 giorni. Ha uno status esistenzia-
le molto precario.
73
LA CIVETTA
Tipica abitatrice delle vecchie case coloniche, trova tuttavia habitat ideale
anche in buchi di alberi, anfratti e altre cavità. E’ il rapace notturno più conosciuto e popolare. Diverse sono le curiosità che riguardano la Civetta. Il suo
canto, per chi avesse la sventura di sentirlo, sarebbe portatore di disgrazie, ma
ciò non è certamente veritiero; contrariamente agli altri rapaci notturni la
Civetta si può osservare, sia pure raramente, anche di giorno posata su pali,
tetti e altri posatoi; caratteristici sono i suoi rapidi movimenti da destra a sini-
stra, in alto e in basso del capo e del corpo, conosciuti come delle “riverenze”
che indicano la sua titubanza quando si sente scoperta; durante gli inverni più
rigidi molti esemplari di Civetta muoiono di inedia. Come del resto per altri
rapaci notturni, il numero di cellule visive nella retina è altissimo e abbonda-
no soprattutto quelle che consentono la visione in “bianco e nero” anche di
notte. La posizione frontale degli occhi non permette a questi rapaci una
buona visione laterale, ciò significa che la loro vista sarà naturalmente precisa, ma solo in una ristretta zona del campo visivo, appunto quella frontale, ciò
rende possibile una buona visione in profondità e quindi una sicura percezio-
ne delle distanze. Gli occhi della Civetta, come del resto quella di tutti i rapaci notturni, sono assai grandi e, come si è detto, immobili; di conseguenza gli
uccelli devono volgere il capo ogni qualvolta vogliono mutare la direzione
dello sguardo. Questo rapace come del
resto gli altri della sua famiglia, è allora
in grado di girare la testa fino a 270° (riesce in pratica a roteare il capo e a portare gli occhi dietro le spalle) e questa
incredibile opportunità è necessaria per
poter controllare tutto intorno alla ricerca
delle prede in maniera silenziosa, senza
CIVETTA
doversi spostare sul ramo. Un udito finis74
simo è infine il senso maggiormente sviluppato che aiuterà il rapace notturno
nelle sue cacce. Nell’antica Grecia la Civetta era sacra e il suo nome scientifico, Athene noctua, ci ricorda che era associata ad Atena, la dèa della sapien-
za. Per gli indiani d’America le Civette rappresentano, ancora oggi,
l’incarnazione del Grande Spirito che ammonisce gli uomini per la mancanza
di rispetto verso gli animali; gli aborigeni australiani infine credono che le
Civette racchiudano l’anima femminile. Una espressione assai comune e
attuale, definisce la donna truccata ed elegante: un po’ “civettuola”.
Ha un’apertura alare di circa 55 cm, una lunghezza di 20/22 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 180/190 gr ed una longevità di 6/10 anni. Depone da 4 a 8
uova di colore bianco e le cova per 25/27 giorni. Ha uno status esistenziale
molto precario.
IL GUFO COMUNE E REALE
E’ un rapace notturno, ma la sua prerogativa consiste nel cacciare già nel
pomeriggio per alimentare i suoi piccoli sempre piuttosto numerosi e quindi
sempre affamati. Abita boschi e boscaglie dove non costruisce il suo nido, ma
utilizza quelli di Gazze e Cornacchie abbandonati. I piccoli, quando nascono,
sono coperti da un piumino bianco rosato, mutato con il passare dei giorni con
il piumaggio da adulti. Molto simile all’Assiolo, si differenzia dallo stesso per
le dimensioni quasi doppie, per il colore del suo piumaggio di un caldo mar-
rone, per i suoi occhi gialli e per due ciuffetti di penne poste sulla punta delle
orecchie anch’essi molto più evidenti. La femmina generalmente è più gran-
de del maschio.
Accanto al Gufo comune si distingue il Gufo reale. Decisamente più grande
e più grosso si differenzia anche per la posizione dei ciuffetti di penne posti
sulle orecchie: anziché essere ben ritti verticalmente, sono spostati lateral-
mente. Il Gufo reale vive in particolari gole dalle pareti ripide che offrono la
protezione di nicchie e caverne. Compare però anche in selve, foreste acqui75
trinose e macchie di pini selvatici.
Nidifica prevalentemente nei nidi abbandonati di Corvidi, di Colombacci e di
Garzette; in alcuni casi sono state notate
deposizioni sul terreno, fra i cespugli.
Sono uccelli stanziali e rimangono fedeli
GUFO COMUNE
al loro territorio personale ricco di quelle
prede che maggiormente apprezzano
come Lepri, Conigli selvatici, Colombi,
Ricci, Scoiattoli, e di altre meno gradite ma comunque ricercate come Ratti,
Topi e Arvicole. Le “borre” vomitate dal Gufo reale sono estremamente lun-
ghe (circa 10 cm x 3), nonostante questi rapaci siano portati a scuoiare e a
spennare le prede più grosse, eliminando così quasi tutte le parti non comme-
stibili. Sovente sono stati trovati sotto i fili dell’alta tensione dei Gufi reali
morti perché fulminati dalla corrente elettrica; ciò è dovuto alla loro grande
apertura alare che può arrivare sino ai 170 cm. di larghezza. Queste dimensio-
ni impediscono al volatile di passare tra un cavo e l’altro della linea elettrica,
andando ad urtare i due poli dell’alta tensione provocando il contatto che li
uccide sul colpo. Le uova del Gufo reale hanno una insolita forma cilindrica
e vengono deposte a intervalli irregolari, da 1 a 4 giorni di distanza uno dal-
l’altro. La vita del Gufo reale è piuttosto lunga, dato che arrivano frequentemente ai 25 anni.
Il Gufo Comune, ha un’apertura alare di circa 90 cm, una lunghezza di 35/37
cm, un peso corporeo intorno ai 250/320 gr ed un’aspettativa di vita di 10/13
anni. Depone 2/3 uova di color bianco e le cova per 34/35 giorni. Ha uno status esistenziale discreto.
Il Gufo reale ha un’apertura alare di circa 160 cm, una lunghezza di 56/73
cm, un peso corporeo intorno ai 2.800 g ed un’aspettativa di vita di 15/25
anni. Depone da 2 a 5 uova di colore bianco grigio, covate per 33/35 giorni.
Ha uno status esistenziale molto a rischio.
76
IL PAVONE
Originario dell’India, dove pare sia apparso circa 4.000 anni orsono, il Pavone
è oggi diffuso in tutto il mondo come Uccello ornamentale, ma anche per le
sue carni pregiate. I maschi possiedono le penne copritrici della coda molto
allungate, dotate di una forte rachide e sfarzosamente colorate.
Esse si prolungano sopra la coda formata da 20 penne e costituiscono lo strascico provvisto di tanti cerchietti che sembrano occhi; durante la parata nuzia-
le questo strascico viene sollevato e allargato come una ruota, che viene soste-
nuta dalle timoniere che risultano molto più corte e quindi non si vedono. Fin
da piccoli i giovani Pavoni si esercitano nell’arte del sollevare la coda, anche
se questa non è ancora provvista delle penne per fare la ruota: infatti la loro
crescita è piuttosto lenta e lo strascico si completerà solamente al terzo anno
di vita anche se continuerà a crescere fino a raggiungere, in certi casi, la lun-
ghezza di 150/160 centimetri. Secondo alcuni etologi, la magnifica e multico-
lore ruota del maschio è un segnale visibile da lontano dalle femmine pronte
per l’accoppiamento; secondo altri inve-
ce la ruota serve per richiamare presso di
sé la femmina ed offrirle del cibo. Il
Pavone domestico curato dall’uomo e
lontano dai predatori, è molto longevo e
può arrivare con una certa facilità ai 30
anni di vita. Nei luoghi di origine il
Pavone è protetto dagli indù come sim-
bolo di una loro divinità, il dio Krishna,
in quanto svolge delle funzioni importan-
tissime per quelle popolazioni: gode la
fama di essere uno spietato sterminatore
di cobra e di segnalare all’uomo con le
PAVONE
sue forti grida la presenza di tigri nelle
77
vicinanze di villaggi. In realtà è il Pavone, più che l’uomo, ad essere predato
dal felino. Il grido del Pavone è tradotto dagli indù con un “manhao” (assomiglia al miagolio del gatto a 100 decibel) che significa “arriva la pioggia”;
effettivamente i Pavoni fanno sentire in continuazione questo grido prima del-
l’arrivo di forti temporali.
Ha un’apertura alare di circa 110 cm, una lunghezza coda compresa di
220/250 cm, un peso corporeo di circa 4/5 kg ed un’aspettativa di vita di 8/10
anni. Depone da 3 a 5 uova di color bianco macchiate di bruno e le cova per
27/28 giorni. Ha uno status esistenziale buono.
La Fiaba
“Il Pavone e la Gru”
Il Pavone rideva della Gru e criticava il colore del suo piumaggio dicendo:
”io sono vestito di porpora e di oro, mentre tu non hai nulla di bello ne sulle
tue piume, ne sulle tue penne”, “ma io” rispose l’altra, “canto vicino alle
stelle e volo nell’alto dei cieli, tu invece, giri per terra come un galletto in
mezzo alle galline”. (Esopo)
78
“Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio, che
non nella tua filosofia.”
William Shakespeare
I FAGIANI
Già Marco Polo, nel 13° secolo, ritornando dalla Cina (allora Catai) riferì
notizie di uno splendido e grosso uccello. Si trattava del Fagiano Venerato
dagli svariati colori e dalla lunga coda che può arrivare anche a 160 centime-
tri di lunghezza. Questa specie di Fagiano, per vivere bene, ha bisogno di
grandi spazi e ha la sua caratteristica principale nella litigiosità sia con i pro-
pri simili, sia con altri fasianidi. I suoi pullus, ancora in tenera età, si esibisco-
no in rabbiose lotte tra fratelli che talvolta si concludono con la morte dei più
deboli. Un Fagiano Venerato che fugge trascinando la lunghissima coda, offre
un meraviglioso spettacolo. La coda del resto non lo ostacola affatto, anzi, se
ne serve addirittura a guisa di timone o freno. Durante il corteggiamento
arruffa il piumaggio, tiene il corpo inclinato verso la femmina e compie
inspiegabilmente dei grandi salti verso di essa come se fosse un canguro,
prima di effettuare l’accoppiamento. Allo stato domestico, ospitato in parchi
o grandi voliere, se trattato bene il Venerato arriva all’età di 25 anni.
Ancora più antico e noto è il Fagiano Comune. Della sua esistenza ne parla-
no già gli antichi Greci e sembrerebbe che Giasone, di ritorno dopo una bat-
taglia vittoriosa in una terra che si estendeva vicino al Mar Nero, avesse por-
tato come bottino di guerra, appunto, dei Fagiani. Ciò è confermato anche da
Pericle, che parla già a quei tempi di allevamenti del gustoso pennuto. Ma il
vocabolo “Fagiano” si riconduce al lati-
no “phasianus” ed è allora ovvio pensare
che anche gli antichi Romani conosces-
sero questo Fagiano; del resto si fatica a
pensare ad un antico e sontuoso banchetto senza la presenza di questo prelibato
volatile. Dell’esistenza del Fagiano
comune fra gli antichi Romani ce ne dà
FAGIANO
infatti conferma la storia che racconta
81
come lo sfrenato imperatore Eliogabalo,
si divertisse a vedere sbranati questi
Fagiani dai leoni nel loro serraglio. In
Inghilterra attorno al 1050, un Abate
ottenne il permesso di dar la caccia a
questi Fagiani e fu da allora che questo
FAGIANO DORATO
fasianide viene considerato come selvag-
gina. Il Fagiano vive molto bene in
comunità con i suoi simili, tanto che in
un chilometro quadrato vi si possono contare oltre 20 coppie. Il Fagiano
Dorato è sicuramente il più ammirato per la bellezza dei suoi colori. Esso riu-
nisce in sé tutte le qualità per essere considerato un uccello ideale da ornamento. In Cina, suo paese d’origine, è ancora oggi preso a modello per esse-
re riprodotto in opere d’arte. Molto timoroso, è piuttosto raro poterlo osservare in un terreno aperto; allo stato selvatico, infatti, vive in un ambiente dalla
vegetazione intricata che lo protegge e lo nasconde; da questo fitto ricovero,
esce raramente per ritornarvi assai velocemente. Nel mese di maggio, quando
la sua livrea è al massimo del suo splendore, viene “bracconato” molto inten-
samente e offerto in vendita nei mercati di quei paesi. Per evitare che si rovi-
ni il piumaggio, ogni uccello di questa specie viene rinchiuso in una gabbia
oblunga costruita con sottili canne di bambù, simile al rivestimento di paglia
che fodera i nostri fiaschi, questo contenitore è così stretto, che il prigioniero
non può né rizzarsi sulle gambe né rigirarsi. Tuttavia i Fagiani Dorati resisto-
no anche per un mese in queste condizioni e quando vengono acquistati, e
rimessi in libertà, sono così anchilosati che per una settimana non riescono a
muoversi.
Il Fagiano Comune ha un’apertura alare di circa 85 cm, una lunghezza di
80/90 cm, un peso corporeo intorno ai 1150 gr ed un’aspettativa di vita di 6/7
anni. Depone da 8 a 15 uova di color marrone olivastro, covate per 23/25 gior-
ni. Ha uno status esistenziale ottimo, perché viene allevato.
82
LA QUAGLIA
La sua forma corta e tozza e le ali piuttosto piccole, non le consentono di esse-
re una buona volatrice, ma essa ha bisogno di svernare in territori molto caldi
e per questo si deve spingere fino al sud del Sahara. Nella grande trasvolata
del mar Mediterraneo, dalla punta della Sicilia alle coste dell’Africa e vice-
versa al suo ritorno, questa specie perde un buon 75% della propria popola-
zione. Quando le Quaglie, dopo lo strenuo sforzo della trasvolata raggiungono le coste si buttano sfinite sulla spiaggia, dove ad attenderle ci sono gli indi-
geni, che muniti di cesti e sacchi le raccolgono ormai incapaci di opporre la
benchè minima reazione.
Un tempo essa viveva nelle vaste steppe erbose coperte da vegetazione bassa
e varia, ma da qualche secolo si è avvicinata sempre di più all’ambiente agricolo creato dall’uomo, tanto da poterla incontrare sui campi di foraggio e den-
tro le piantagioni di cereali. Non disdegna nemmeno i terreni incolti e il limi-
tare degli stessi in prossimità delle siepi. Soprattutto nelle ore notturne, si ha
la possibilità di ascoltare il canto del maschio composto di poche note espres-
se in maniera forte e decisa. Con questo canto egli tende a far capire ad even-
tuali altri maschi che lui è presente su quel territorio con le sue femmine e non
tollera la presenza di intrusi. Il canto viene un po’ addolcito con una specie di
miagolio finale quando invece sta avvicinandosi una femmina. A questo punto
il maschio, dopo il “richiamo canoro”,
ricorre anche ad un altro stratagemma
nell’intento di conquistare una nuova
compagna; l’avvicina con il piumaggio
arruffato tenendo nel becco del cibo
quasi a farle notare quanta abbondanza ci
sia nel suo territorio, la femmina accetta
e
a
ciò
segue
subito
dopo
l’accoppiamento. I piccoli, dopo la
83
QUAGLIA
schiusa, sono già in grado di seguire la madre procurandosi il cibo da soli, e
all’età di 13/14 giorni riescono a compiere dei brevi voli; saranno sufficienti
altri 4/5 giorni, perché questi giovani siano in grado di volare perfettamente.
Dovranno tuttavia rimanere ancora con la madre per alcune settimane, dopo
di che saranno autosufficienti del tutto. Raggiungeranno la maturità sessuale
solamente a 10/11 mesi di vita. La Quaglia è diventata da qualche decennio
un animale domestico allevato in batteria, sia per la sua carne, sia per le uova.
Dopo un mese dalla nascita, la giovane Quaglia può essere già macellata e
venduta sui mercati, mentre le femmine destinate alla produzione di uova
dopo 40/45 giorni avranno raggiunto la maturità sessuale e deporranno il loro
primo uovo e continueranno così a intervalli di 18/24 ore l’uno dall’altro per
10/11 mesi. Recentemente le Quaglie hanno anche acquisito una certa importanza come animali da esperimento.
Ha un’apertura alare di circa 33 cm, una lunghezza di 15/17 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 100 gr ed un’aspettativa di vita di 6/7 anni. Depone da 8 a 12
uova di color oliva chiaro picchiettate di bruno, e le cova per 15/16 giorni. Ha
uno status esistenziale ottimo perché viene allevata.
IL COLOMBO
Si nutre generalmente di semi, sia coltivati che selvatici, per questo possiede
un ventriglio robusto e muscoloso che contiene ghiaietta e altri materiali duri
che servono per triturare appunto questi alimenti e un lungo intestino per
digerirli meglio; caratteristica tipica del resto di tutti gli Uccelli granivori.
Un’altra curiosità sta nel fatto che si nutre di piccole chiocciole e invertebra-
ti, ma anche di frutta della quale inghiotte pure il nocciolo. Questo una volta
evacuato, potrà cadere in un terreno adatto e dare vita ad una nuova pianta. I
genitori, per i primi otto dieci giorni, nutrono i propri pullus con una sostan-
za biancastra prodotta dalle ghiandole del gozzo, nota con il nome di “latte di
piccione”. Per nutrirsi di questa “pappa” i piccoli Colombi, introducono pro84
fondamente il loro becco nell’angolo di quello dei genitori per ricevere diret-
tamente questo prezioso alimento. Per non ostacolare questo tipo di alimenta-
zione, che dura circa 10 giorni, nei giovani Colombi le piume della fronte e
del collo spuntano per ultime. Dopo questo primo periodo, la produzione del
“latte” cessa e i piccoli riceveranno dai genitori semi e frutta in quantità sem-
pre maggiore.
Sono note le grandi attitudini al volo dei Colombi: opportunamente addestra-
ti, possono percorrere centinaia di chilometri a grande velocità ritrovando,
grazie ad un infallibile senso dell’orientamento, il luogo della loro residenza.
L’utilizzazione dei Colombi viaggiatori da parte dell’uomo, ha origini anti-
chissime e la storia ricorda esempi singo-
lari di importanti messaggi recapitati per
mezzo di questi volatili anche in tempi di
guerra. Certi esemplari riescono a per-
correre anche mille chilometri al giorno.
I Colombi venivano allevati con certezza
in Egitto già nel quarto secolo avanti
Cristo e in Asia centrale anche prima.
Presso certi popoli era d’uso sacrificare
agli dèi dei Colombi, infatti innumerevoli furono immolati per secoli nel tem-
PICCIONE SELVATICO
pio di Gerusalemme. Sul Monte degli Ulivi si tenevano a tale proposito delle
colombaie, nelle quali venivano allevati migliaia di Colombi in attesa dei
sacrifici. Attendibili testimonianze ricordano come presso i più antichi popoli dell’oriente i Colombi godessero di grande rispetto: potevano nidificare nei
templi e non era permesso né disturbarli, nè tanto meno ucciderli. Fatto del
tutto particolare e curioso: tutti i Columbiformi bevono immergendo il becco
nell’acqua aspirandola, un modo quindi veramente insolito fra gli uccelli che
raccolgono normalmente con il becco una sorsata d’acqua e sollevano la testa
per deglutirla.
85
L’accrescimento numerico dei Colombi cittadini è diventato un vero proble-
ma. Un tempo essi avevano numerosi nemici, per cui non si poteva certo par-
lare di una loro eccessiva moltiplicazione, rimanendo invariato l’equilibrio
biologico. I principali nemici erano il Falco pellegrino, l’Astore, lo Sparviero,
le Civette e tutti i Mustelidi, predatori questi che negli anni si sono sempre più
rarefatti. I Colombi, oggi, sono portatori di numerosi parassiti come Acari,
Cimici, Zecche e altri ancora che possono diffondersi nelle abitazioni dell’uomo. Una forte presenza di Colombi può portatore l’ornitosi, una malattia che
talvolta colpisce anche l’uomo e non va neppure sottovalutato che la maggior
parte dei Colombi di città è ammalato di salmonellosi, un germe patogeno che
può portare il tifo.
I Colombi provocano danni a monumenti e palazzi a causa dell’alto potere
corrosivo dei loro escrementi, medesimi danni provocano su grondaie e cornicioni. In tante città sono in atto mezzi meccanici, acustici, chimici ed elet-
trici nell’intento di limitare questi danni; in altre ci sono dei tentativi di rego-
lare la loro riproduzione ricorrendo all’uso di anticoncezionali.
Parente stretta del Colombo è la Tortora comune, indubbiamente un animale
molto grazioso sia per la forma che per i colori. E’ però un uccello timoroso
e timidissimo, (sono davvero pochi gli esemplari che si possono contare nel
nostro territorio) ragion per cui è stata scacciata dalla Tortora dal collare
orientale più forte ed aggressiva impadronitasi del suo habitat. Questa Tortora
è oggi presente in maniera abnorme e fa ormai parte della fauna cittadina nidi-
ficando un po’ ovunque.
E’ arrivata da noi durante il periodo della seconda guerra mondiale intorno al
1944, importata forse da qualche soldato alleato; in poco più di mezzo seco-
lo è riuscita a insediarsi in maniera incredibile. Va ricordata, infine, la
Colomba bianca che posandosi sull’arca di Noè con un ramoscello d’ulivo sul
becco comunicò al patriarca la fine del diluvio universale.
Il Colombo selvatico ha un’apertura alare di circa 70 cm, una lunghezza 30/34
cm, un peso corporeo intorno ai 280/300 gr ed un’aspettativa di vita di 6/8
86
anni. Depone 2 uova di color bianco grigio e le cova per 16/17 giorni. Ha uno
status esistenziale ottimo, perché esistono molte razze diverse allevate in cattività.
La fiaba
“ Il Gracchio e i Colombi”
Un Gracchio osservando che i Colombi in piccionaia mangiavano bene, si
dipinse il corpo di bianco e volò in mezzo ad essi per avere lo stesso tratta-
mento. I Colombi, credendolo uno di loro, lo accettarono e lo ammisero alla
loro mensa. Ma un bel giorno il Gracchio aperse la bocca e incominciò a
gracchiare, allora i Colombi riconoscendo l’intruso lo cacciarono via. Così
allontanato dalla piccionaia il povero Gracchio ritornò tra i suoi. Ma dato il
nuovo colore, questi non lo riconobbero e anch’ essi lo cacciarono dalla loro
pastura. E così avendo voluto mangiare da due parti non mangiò più né da
una né dall’altra. (Esopo)
LA GALLINA
Non si hanno dati precisi circa l’epoca in cui l’uomo incominciò ad allevare
allo stato domestico questi uccelli, ma sembra che questo abbia avuto inizio
oltre 5 mila anni fa presso alcuni popoli dell’India.
l’allevamento di questi galliformi si estese in tutto l’emisfero orientale, soprattut-
In pochi secoli
to nell’antica Persia e Mesopotamia (le
attuali Iran e Iraq), ma fu in Egitto, a par-
tire dalla quinta dinastia faraonica che,
secondo Aristotele, iniziò l’incubazione
artificiale e quindi i grandi allevamenti.
Da antichi manoscritti, e soprattutto da
Catone nel suo poema “de re rustica”, ci
87
GALLO
viene tramandato che gli antichi Romani avessero già allora selezionato ben
6 razze diverse di questo pollame. Da sempre l’uomo si pone il dilemma: è
nato prima l’uovo, o prima la gallina? E questo è un bel dilemma al quale non
si sa ancora dare una spiegazione logica. La Gallina a causa del suo corpo
pesante e delle ossa con il midollo (e quindi non cave) è inetta al volo. E’
un’ottima chioccia che può covare senza scendere dal covo anche per due o
tre covate consecutive, lasciando i pulcini alle cure dell’allevatore. Un tempo,
quando si avevano uova fertili e ancora nessuna Gallina chiocciava, si provvedeva forzatamente. A tale scopo si faceva bere del vino all’animale; subito
dopo lo si introduceva in un sacco e lo si faceva roteare con una certa forza
in aria per qualche tempo. Quindi si estraeva la Gallina dal sacco per posarla
sul covo dove erano state poste precedentemente le uova. La povera bestia
stordita e “ubriaca” si accovacciava, abbassava la testa, chiudeva gli occhi e
si abbandonava ad un leggero sonno. Quando lo stordimento unito alla sbornia passava, essa si era “innamorata” del covo e lì vi rimaneva.
Terminate le covate, la chioccia non serviva più, ma se questa non intendeva
abbandonare il covo anche in questo caso si provvedeva di “brutto” a schiocciarla. Si riprendeva il famoso sacco, vi si introduceva la chioccia e la si
immergeva ripetutamente per alcuni istanti nell’acqua fredda. Aperto il sacco,
la povera Gallina, ancora un po’ frastornata, si guardava intorno, si scuoteva
(a se sveiava), e poi tranquillamente se ne tornava nel pollaio per riprendere
a deporre di lì a qualche giorno. In dialetto trevigiano la Chioccia in cova, viene
chiamata “Cioca”, come una persona
ubriaca. Considerata infine la scarsa
intelligenza di questo galliforme, va
ricordato un altro detto popolare: “te ha
na testa come na gaina”, (sei intelligente
come una Gallina). I Galli cantano in
GALLINA
maniera più spiccata al sorgere del sole e
88
questo per molti anni è stata la sveglia della gente che si avviava poi al lavo-
ro nei campi; un vecchio detto soleva dire: “andar in letto coe gaine e vegner
su col gaeo” (a letto molto presto e alzarsi altrettanto presto). Il canto e lo
schiamazzo delle ali che battono assieme sul dorso testimoniano la possente
attività del Gallo. Un altro vecchio detto recita così: “do gai in te un puner no
i va d’accordo” infatti sono frequenti le liti nello stesso pollaio fra maschi che
si combattono ferocemente. Da ciò la sadica e condannata selezione dei Galli
da combattimento iniziata molti secoli orsono e ancora praticata, specie in
Sud America e in Asia. Il curioso comportamento dei Polli è quello di fare
ogni giorno il loro bagno di terra, necessario per eliminare i parassiti e gli
acari che si annidano nel loro piumaggio; non amano invece l’acqua e quando piove cercano sempre riparo.
La fiaba
“La Donna e la gallina”
Una Donna vedova aveva una Gallina, che tutti i giorni deponeva un uovo.
Pensò che dandole forse del becchime in più la gallina ne avrebbe fatti due e
così raddoppiò la razione giornaliera. E la Gallina mangiò con tanta avidità
che ingrassò così tanto che non riuscì a deporne nemmeno più uno. (Esopo)
IL GABBIANO
E’ un uccello tipicamente marino, anche se da qualche tempo ama trascorre-
re dei periodi più o meno lunghi sia in campagna che in collina. Questo suo
“migrare giornaliero” è dovuto alla continua ricerca di cibo che trova abbon-
dante nelle discariche e nei campi arati. Tuttavia la sua vita si svolge maggior-
mente sulle coste, vicino al mare, è perciò facile scorgerlo all’interno dei porti
e nei pressi dei centri abitati costieri dato che in tali zone questi volatili repe-
riscono rifiuti con cui nutrirsi. Infatti, pur cibandosi di preferenza con animaletti acquatici e pesci, questi volatili appetiscono ogni genere di rifiuto orga89
nico, carogne comprese. Sono pertanto da considerarsi onnivori e svolgono
un’utile azione da spazzini ripulendo porti e spiagge. I Gabbiani hanno carni
non commestibili, né per l’uomo né per probabili predatori; tuttavia in molte
zone vengono cacciati per le loro piume e in altre è attiva la raccolta delle
uova utilizzate a scopo alimentare. Queste uova non sono appetibili se consu-
mate crude perché hanno un forte sapore di pesce, che scompare del tutto
dopo la cottura che le rende del tutto
simili a quelle della gallina. Ma il parti-
colare più curioso è rappresentato dal
fatto che l’albume delle uova di
Gabbiano rimane trasparente anche dopo
la cottura. In certe nazioni dell’Europa
settentrionale la raccolta e la vendita di
queste uova è organizzata su vasta scala.
GABBIANO
Il Gabbiano comune in abito nuziale, sia
maschio che femmina, presenta un cap-
puccio di un bel colore bruno scuro su di
un colore grigio perla. In periodo eclissale questo cappuccio sparisce lascian-
do al suo posto qualche leggera striatura bruna. A causa della loro leggerezza
corporea, pur nuotando agilmente, i Gabbiani non sono abili tuffatori e possono pertanto nutrirsi solamente di ciò che si mantiene a galla. Le dure con-
chiglie dei molluschi non costituiscono un ostacolo per questi uccelli, che
usano lasciarle cadere dall’alto, onde infrangerle sulle rocce, rendendo così
accessibile il ghiotto contenuto.
Ha un’apertura alare di circa 95 cm, una lunghezza di 33/36 cm, un peso cor-
poreo intorno ai 250/280 gr, un’aspettativa di vita di 8/14 anni. Depone da 3
a 5 uova color oliva-azzurognolo, e le cova per 23/25 giorni. Ha uno status
esistenziale ottimo.
90
“Sali sulla cima tra il cielo e la terra per raggiungere
la costante armonia con una natura infinita.”
Yi Un Sahg
MODI DI DIRE (ACCOSTAMENTO UOMO/ANIMALE).
Svelto- come un Gatto; va indietro- come un Gambero; cieco- come una
Talpa; fedele- come un Cane; veloce- come una Lepre; lento- come una
Lumaca; rude- come un Orso; vista- da Aquila; piomba- come un Falco;
occhio- da Lince; furbo- come una Volpe; sporco- come un Maiale; viscido-
come un Serpente; velenosa- come una Vipera; lavora- come un’Ape; previ-
dente- come una Formica; canta- come un Usignolo; dorme- come un Ghiro;
soffre- come un Cane; allegra- come una Cicala; mangia (poco)- come un
Cardellino; irsuto- come un Porcospino; fame- da Lupo; timido- come un
Coniglio; mangia (tanto)- come un Bue; esibizionista- come un Pavone; tubano- come Colombi; striscia- come un Verme; rinunciatario- come uno
Struzzo; muto- come un Pesce; frenetico- come una Donnola; spinoso- come
un Riccio; puzza- come una Capra; mansueto- come un Agnello; testardo-
come un Mulo; leggiadra- come una Farfalla; insistente- come un Tarlo; steso
al sole- come una Lucertola; parassita- come un Cuculo; forte- come un Toro;
ladro- come una Gazza; nero- come un Corvo; tenero- come un Pulcino; beffardo- come una Iena; fastidioso- come una Zanzara; lacrime- di Coccodrillo;
porta male- come un Gufo; paziente- come un Ciuco; silenziosa- come una
Mosca; stupida- come un’Oca; crudele- come una Tigre; resistente- come un
Cammello; timoroso- come una Pecora; superbo- come un Cervo; schifosocome un Rospo; ignorante- come un Asino; pio- come un Bove; bizzoso-
come un Cavallo; grossa- come una Balena; magro- come uno Stambecco;
agile- come una Gazzella; dopo tre giorni puzza- come il Pesce; sciocco-
come un Pollo; spietato- come un’Arpia; pesante- come un Elefante; piccolo-
come uno Scricciolo; cervello- da Gallina; regale- come un Leone; balzo- da
Pantera; incantato - come una Marmotta; sguscia – come un’ Anguilla; profuma- come una Puzzola; imbranato – come una Foca; iettatore – come un
Corvo; giocherellone – come un Delfino.
92
“O Dio perdonaci per gli animaletti che calpestiamo
lungo il nostro cammino.”
Massima Buddista
I MAMMIFERI
La classe dei mammiferi, comprende oltre 4.000 specie di animali riconosciu-
ti come i più evoluti del regno animale, presenti in tutti i tipi di habitat. Nel
mare ci sono le foche, le balene e i delfini, nei corsi dei fiumi le lontre e i
castori, sopra e sotto la terraferma, quando non addirittura sugli alberi, e infi-
ne i pipistrelli che con i loro patagi hanno conquistato l’aria. Sono animali
vertebrati, provvisti, cioè, di colonna vertebrale, a sangue caldo, con quattro
arti e con il corpo ricoperto di peli. Il feto si sviluppa nel corpo della madre
che, dopo un periodo più o meno lungo di gestazione, partorisce. In alcuni
casi, per esempio nei roditori e in alcuni carnivori, i cuccioli nascono ciechi e
nudi e hanno bisogno di un certo periodo di tempo e di cure da parte della
madre per poter completare la loro formazione. In altri casi, quando nascono
essi sono perfettamente formati e i loro organi interamente funzionanti.
L’alimentazione dei cuccioli avviene con l’allattamento. Oltre al loro compli-
cato tipo di riproduzione, i mammiferi si distinguono per diversi altri elemen-
ti. Sono dotati di un cervello molto ben sviluppato, e dispongono di numero-
si sistemi di comunicazione, che hanno permesso loro un’alta organizzazione
sociale, basti pensare a quelli olfattivi, visivi e soprattutto, a quelli vocali. I
peli, spesso molto fitti, ricoprono la pelle fungendo da strato isolante, contribuendo a mantenere il corpo a una temperatura costante, indipendentemente
dalle condizioni atmosferiche. Lo strato di grasso che si trova sotto la pelle ha
una doppia funzione: serve per proteggere dal freddo, ma funge anche da
riserva calorica nei periodi di scarsità di cibo. Questa riserva di grasso, alta-
mente ricca di calorie, viene distribuita a tutto l’organismo attraverso un siste-
ma circolatorio che fa capo al cuore e quando questa regolazione diventa
impossibile, per esempio nei mesi del grande freddo, certi mammiferi vanno
in letargo e altri in ibernazione. Avviene così che la temperatura del loro corpo
si abbassa notevolmente, il metabolismo riduce il suo ritmo al minimo così da
consumare una minor quantità di energia possibile. Il letargo e l’ibernazione
95
consentono a vari mammiferi di sopravvivere durante i mesi invernali, pro-
prio sfruttando le loro riserve di grasso precedentemente accumulate. E’ pressoché impossibile stabilire le cause che hanno portato i mammiferi a una così
grande evoluzione; si pensa che in parte ciò sia dovuto a un insieme di tanti
fattori biologici, ma sicuramente in buona parte anche al caso. La comparsa
poi dell’uomo sulla terra, soprattutto dell’uomo d’oggi, ha reso più rapida e
drammatica la scomparsa di vari gruppi di animali, mentre altri, vedi i rodito-
ri, stanno occupando nuove nicchie ecologiche create proprio dall’attività
umana. Oggi i mammiferi, grazie al loro rappresentante più evoluto che è
l’uomo, sono l’incontrastato e predominante gruppo che domina il mondo ed
è proprio nelle mani dell’uomo che sta il futuro del nostro pianeta.
96
PILLOLE DI SAPERE: I MAMMIFERI
Il Canguro rosso è il più grande dei marsupiali. Un maschio adulto arriva ad
essere lungo oltre i 260 cm, dei quali 120 appartengono alla sua possente
coda. La femmina è molto più piccola, talvolta anche la metà del maschio.
Si sposta poggiando sugli arti posteriori compiendo grandi balzi, che arrivano
anche a 10 metri, con i quali raggiunge una velocità di oltre 45 km orari, con
un consumo di energia pari alla metà di un qualsiasi altro quadrupede. Questo
grande risparmio di energia non è dovuto al caso, bensì al fatto che deve compiere grandi distanze e perciò questo risparmio diventa estremamente impor-
tante.
Se il periodo di siccità dovesse perdurare a lungo e mamma canguro dovesse
perdere il latte materno, il cucciolo verrà espulso dal marsupio e morirà. Con
il ritorno delle piogge e delle provviste
alimentari, un embrione di “riserva” il
cui sviluppo era rimasto sospeso, si
impianterà nuovamente nell’utero della
femmina, dove si svilupperà, senza che
ci sia stato bisognoso di un nuovo accop-
piamento.
CANGURO
Il cucciolo rimane per circa 250 giorni
all’interno del marsupio della madre.
Considerato un animale nocivo, esso
viene diffusamente ucciso sia per la
carne che per la pelle. Recentemente è stato censito un numero ragguardevo-
le di questi animali che si possono contare in oltre 12 milioni di esemplari.
Per segnalare un pericolo, picchia con le zampe e con la coda violentemente
il suolo, allertando in questo modo i compagni in pericolo.
I Toporagno sono animali molto attivi e hanno bisogno di alimentarsi in con-
tinuazione pari a quattro volte il loro peso ogni giorno. Si cibano di inverte97
brati, insetti, carogne e spesso anche delle loro stesse feci e di quelle di altri
animali. Le pulsazioni del cuore possono arrivare a oltre 1.200 battiti al minuto. Vengono predati da vari rapaci sia diurni che notturni, ma possedendo
delle ghiandole cutanee che emettono un odore repellente, una volta uccisi,
non vengono quasi mai divorati.
Il Gorilla non marca il proprio territorio con le urine o con le feci, ma lo deli-
mita “tambureggiando” il terreno a distanza e i vecchi maschi dominanti
minacciano i rivali, stando ritti sulle zampe posteriori, battendosi il petto e
gridando. I piccoli Gorilla stanno sempre aggrappati al pelo della madre e
solo a 3 mesi incominciano a sedersi, mentre a 5 riescono a camminare e ad
arrampicarsi. Vengono allattati per oltre un anno e mezzo e rimangono
comunque con la madre, fino a 3 anni, quando vengono bruscamente allonta-
nati.
La famiglia dei Canidi è molto numerosa e conta circa 35 specie presenti su
tutta la terra, essi sono assenti solamente in Nuova Zelanda, Nuova Guinea e
Madagascar, e in qualche altra isola minore. Fatta eccezione per la Volpe, che
caccia solitaria, tutti gli altri lo fanno in branco.
La Lontra marina si nutre di ricci di mare e altri molluschi, che raccoglie in
fondo al mare e mangia mentre è in acqua. Per rompere il guscio delle dure
conchiglie, essa ha scoperto come usare i sassi.
Quando infatti si tuffa, oltre alle prede, prende dal fondale un sasso, se lo
mette sul petto, e, galleggiando sul dorso, sbatte il mollusco contro di esso,
finchè ne rompe il guscio, dopodiché si ciba del gradito contenuto.
Possiede dei polmoni molto sviluppati, il doppio di quelli di qualsiasi altro
animale di taglia simile, che le consentono di immergersi fino a 30 metri. La
Iena possiede le più forti mascelle di un qualsiasi altro mammifero. Esse sono
in grado di frantumare le ossa più grosse della preda per estrarne il midollo.
Raramente questi animali cacciano, preferendo cibarsi di carogne uccise da
altri predatori.
Quando nascono, i cuccioli sono di colore nero e solamente dopo alcuni mesi
98
acquisiscono il colore marrone striato o macchiato degli adulti.
E’ la femmina ad essere più grande del maschio e a dominare il clan. Tutti
insieme, i componenti difendono il territorio che costituisce il loro habitat e
che può arrivare addirittura a 70/80 km quadrati, continuamente marchiati tra-
mite ripetuti richiami e sostanze organiche. Il Ghepardo è il più veloce anima-
le terrestre e può raggiungere e superare
con uno scatto di 10 secondi, una veloci-
tà di 110 km orari.
Velocità che può però mantenere sola-
mente per un tratto breve, dopodiché
dovrà abbandonare la preda qualora non
l’avesse catturata. La femmina può partorire anche 6/7 cuccioli, dopo circa 3
mesi di gestazione.
Le Foche sono dotate di sofisticati mec-
canismi che permettono loro di potersi
FOCA CUMUNE
cercare il cibo anche a una certa profondità rimanendo immerse per lungo
tempo e in questo caso, l’adattamento più importante riguarda la circolazione
del sangue. Durante l’immersione in profondità, il suo normale ritmo cardia-
co passa dagli abituali 120 a solo 4 battiti al minuto, senza avvertire una cor-
rispondente caduta di pressione.
La Foca ha il corpo coperto da una pelliccia che subisce una muta annuale. In
questo mammifero la riproduzione è accompagnata da un fenomeno partico-
lare: “l’annidamento differito” per cui, gli embrioni cominciano a svilupparsi
dopo un certo periodo dell’avvenuta fecondazione.
I piccoli sono in grado di strisciare e di nuotare dopo meno di un’ora dalla
nascita. Una specie, la Foca di Wenddell, compie le immersioni più lunghe e
più profonde, raggiungendo i 600 m dove può rimanere per oltre 70 minuti e
quando raggiunge queste profondità, il ritmo cardiaco si abbassa del 75%,
scende cioè a poco più di un battito al minuto.
99
La Balenottera azzurra, è il più grande mammifero esistente. E’ lunga oltre 30
metri e può pesare fino a 1.500 quintali. Malgrado questa mole impressionante, grazie al suo corpo affusolato, riesce a muoversi con molta agilità.
Soprattutto in estate, si nutre incessantemente e, pur essendo molto selettiva,
è capace di mangiare oltre 55 quintali di plancton (piccoli crostacei di crill)
ogni giorno.
La Balenottera azzurra possiede un altro primato, ha infatti la più lunga gesta-
zione di tutti i mammiferi marini: si prolunga per oltre 11 mesi. Grugnisce e
ronza emettendo lamenti a volte superiori a 180 decibel, che sono i suoni più
forti fra tutti i versi degli animali e che possono essere uditi da altre balene
consorelle a oltre 1.000 km di distanza.
L’Elefante è il più grande mammifero terrestre; alcuni esemplari sono alti 4
metri e raggiungono facilmente i 60 quintali di peso.
Possiede delle grandissime orecchie che hanno una funzione molto importante, sono infatti delle enormi ventole che il pachiderma muove continuamente
avanti e indietro per “farsi vento” e diminuire così, l’eccesso del calore cor-
poreo. Molto curiosa è anche la proboscide formata dalla fusione del naso e
del labbro superiore, essa è molto flessibile e termina con due appendici sen-
sibilissime, che servono per afferrare il cibo, bere, lottare, lavorare e fiutare.
Gli incisivi superiori crescono a dismisura fino a diventare delle grandi zanne
d’avorio, per questa particolarità è sempre stato molto abbattuto tanto da
diventare in diverse zone, assai raro.
Può mangiare per 20 ore e per più di 200 kg al giorno di sostanze vegetali
costituite da foglie, germogli, rametti e frutti di varie piante.
La femmina di Elefante detiene il primato per la gestazione più lunga nel
regno dei mammiferi: arriva a 22 mesi, ed il piccolo viene allattato per oltre
2 anni.
Negli Elefanti è sempre la femmina più anziana, (la matriarca) a capeggiare
il branco e a condurlo sovente alla ricerca dell’acqua che riesce a localizzare
sotto terra.
100
Il Cammello, unitamente al Dromedario, al Guanaco e al Vigogna rappresen-
tano la famiglia dei Camelidi, considerati i più primitivi fra i ruminanti.
Gli antichi Incas circa 6.000 anni fa, hanno selezionato dall’accoppiamento
del Guanaco con il Vigogna (entrambi, in grave crisi esistenziale), il Lama,
oggi da considerarsi un animale domestico, da soma, tipico della zona delle
Ande. Esso viene allevato sia per la sua carne, che per la sua lana anche al di
fuori dell’America del Sud.
Il Cammello è caratterizzato da due gobbe poste sopra il dorso, queste gibbo-
sità servono come riserve di grasso per i tempi in cui il cibo scarseggia.
Questo mammifero ha il corpo ricoperto di lunghi peli irsuti che lo proteggono dal freddo durante l’inverno, e cadono
d’estate lasciandolo quasi nudo.
Possiede degli arti ”altamente specializ-
zati”, con sole due dita per piede, munite
di unghia superiormente, le cui ossa si
sono allargate lateralmente per dare
impianto a due ampi cuscinetti callosi.
Questi cuscinetti elastici permettono
CAMMELLO
all’animale di spostarsi agevolmente
sulla sabbia mobile, dove degli zoccoli
rigidi affonderebbero. Il Dromedario a
differenza del Cammello, possiede una sola gobba e si dice sia stato addome-
sticato molto prima, attorno al 4.000 a.C. Un po’ più piccolo del Cammello
può immagazzinare nel suo stomaco delle grandi riserve d’acqua permetten-
dogli di rimanere per molto tempo senza bere.
La sua gobba (del resto come le due del Cammello), oltre ad accumulare il
grasso necessario per i periodi di carestia, serve anche come protezione con-
tro il sole in quanto ne assorbe il calore.
I reni possono concentrare l’urina per evitare al massimo le perdite d’acqua e,
in caso di bisogno, l’organismo può assorbire l’umidità contenuta nelle feci.
101
Infine la temperatura dell’animale scende abbondantemente nelle ore nottur-
ne per aumentare progressivamente durante il giorno, ciò per evitare all’animale di traspirare troppo per raffreddarsi.
Il Dromedario, come il Cammello, può perdere durante i periodi di siccità
fino al 30% del proprio peso, scendendo dai 600 ai 400 kg circa, senza risen-
tirne, sarà però sufficiente incontrare un’oasi e poter bere, che in dieci minuti riacquisterà tutto il peso perduto.
Dopo diversi controlli effettuati si può affermare che questi animali assetati
sono in grado di bere in pochi minuti oltre 110 litri di acqua.
La fiaba
“ Il Leone, la Volpe e il Cervo”
Un Leone che giaceva ammalato nella sua tana, disse alla Volpe che gli era
affezionata e spesso veniva a trovarlo: “Se tu vuoi che io guarisca e che continui a vivere e a regnare, devi con la tua furbizia convincere quel grande
Cervo che abita nel bosco a venirmi a trovare così da spingerlo fra le mie
zampe, ho una gran voglia delle sue viscere e ancora di più del suo cuore”.
La Volpe andò e trovò il Cervo che scorazzava nei boschi e tutta complimen-
tosa gli disse: “Sono venuta a portarti una bella notizia.
Il Leone nostro Re, che come sai è mio vicino di casa, è molto malato ed è sul
punto di morire. Egli ha pensato a quale delle bestie dovrà succedergli nel
regno.
Il Cinghiale, diceva, è uno stupido, l’ Orso è balordo, la Pantera è collerica,
la Tigre è superba, per me, il più adatto a fare il Re è il Cervo, che ha una
bella statura, vive molti anni e con le sue corna fa paura anche ai Serpenti.
In conclusione il Leone ti ha scelto come suo successore, diventerai Re.
Ti ho portato il suo messaggio e adesso ho fretta perché devo rientrare in casa
e recarmi dal Leone che già mi starà facendo cercare, in quanto lui non fa più
niente senza i miei consigli; piuttosto se anche tu ne vuoi uno, vieni con me a
fargli visita e a stargli vicino fino a che, non morirà”. Così disse la Volpe.
102
A queste lusinghe il Cervo si montò la testa, e, ignaro di quel che l’aspettava,
si avviò seguendo la Volpe verso la caverna del Leone.
Questi, vedendoselo davanti, gli balzò addosso, ma riuscì soltanto a lacerar-
gli le orecchie con gli artigli, perché il Cervo con un veloce scatto scappò
rientrando nel bosco. La Volpe si rammaricò molto per aver visto vanamente
sprecate le sue fatiche, e il Leone ruggiva a gran voce, vinto dalla fame e dal
dolore e scongiurò nuovamente la furba Volpe di fare un’altra prova, escogi-
tando un altro stratagemma per portargli nuovamente il Cervo.
La Volpe ripartì alla ricerca del Cervo e quando lo incontrò, questi stava
ancora leccandosi le ferite; vedendosela davanti pieno d’ira e con il pelo
arruffato gridò: “non mi ingannerai più brutta bestiaccia, se ti avvicinerai a
me ti infilzerò con le mie corna.
Va a “incantare” quelli che ancora non ti conoscono, vai a sceglier qualcun
altro al quale montargli la testa per farlo diventare Re”. E la Volpe rispose:
“Ma perché sei così vile e pauroso? Perché sospetti di noi, tuoi amici? Il
Leone ti aveva afferrato gli orecchi perchè voleva darti dei consigli e delle
istruzioni sulla tua importante funzione di Re prima di morire.
E tu non sei stato capace di sopportare il graffio di una zampa di un povero
ammalato. Ora egli è più adirato di te e vuole lasciare il regno al Lupo e allora quando questi regnerà te ne accorgerai.
Ma se tu vieni nuovamente a fargli visita senza paura e senza comportarti
come una Pecora ti assicuro che il Leone non ti farà niente di male e in quanto a me sarò sempre ai tuoi servizi. Ingannando nuovamente il disgraziato
Cervo, lo convinse nuovamente a seguirlo nella tana del Leone.
E questa volta il Re degli animali non se lo fece scappare ed ebbe il suo desiderato pranzo.
Ma mentre il Leone banchettava con le ossa e le viscere della sua preda, il
cuore del Cervo cadde a terra e la Volpe che stava osservando la scena
l’afferrò e se lo mangiò come compenso per le sue fatiche.
Il Leone intanto stava cercando fra i pezzi di carne del povero Cervo dilania103
ti dai suoi artigli proprio il cuore, motivo del suo principale desiderio. La
Volpe, fermatasi un po’ lontano osservandolo gli disse: ”Ma quello di cuore
non ne aveva, inutile cercarlo; che cuore vuoi che avesse uno che per due
volte è venuto nella tua tana, anzi proprio tra le tue zampe?”. (Esopo)
104
“Il futuro sarà una gara tra l’educazione e la catastrofe.”
Henrj George Welles
PILLOLE DI SAPERE: I MUSTELIDI
Fanno parte di questa famiglia oltre 65 specie di carnivori, ma in questo caso
ne esamineremo soltanto alcune. In genere i Mustelidi presentano tutti le
medesime caratteristiche: corpo lungo e sinuoso, arti corti, una dentatura svi-
luppata, occhi piuttosto piccoli e luccicanti, orecchie piccole, ma proporziona-
te. Hanno prevalentemente un comportamento solitario. Insolitamente, essen-
do dei carnivori al posto degli artigli posseggono 5 dita unghiate non retrattili.
Le ghiandole anali producono cattivi odori e spesso diventano un’arma di difesa. Tutti i mustelidi uccidono le loro prede, non tanto per cibarsene, quanto
perché il movimento delle stesse scatena in questi animali l’atto predatorio
vero e proprio e fintanto che il movimento permane, il mustelide è stimolato
ad uccidere. Tale particolare comportamento può essere facilmente notato
quando questi predatori entrano in un pollaio dove le galline volano impaurite
qua e là rafforzando in tal modo l’istinto del predatore, che finirà per ucciderle tutte.
L’Ermellino è diffuso anche sulle nostre Alpi sia pure a notevole altezza. Dalla
notte dei tempi questo Mustelide è stato il simbolo della regalità e della sovra-
nità intellettuale, in quanto la sua pelliccia ha ornato i mantelli di principi e
sovrani, ma pure toghe e cappe di magistrati e uomini di scienza. E’ da consi-
derarsi una piccola vera belva dall’indicibile voracità in grado di attaccare
prede anche molto più grosse di lui, dalle
quali ama suggere il sangue. Particolare e
stupefacente è l’eclisse che subisce il suo
mantello, che passa dal color rosso giallastro dell’estate, al bianco immacolato del-
l’inverno, periodo che lo rende tanto prezioso e ricercato per la sua pelliccia.
L’Ermellino è un predatore che caccia
prevalentemente
Conigli
selvatici,
107
ERMELLINO
Starne, Pernici, Fagiani e altri animali, oggetto di caccia anche da parte del-
l’uomo. E’ stato importato massicciamente in Nuova Zelanda per riequilibrare
la presenza in quel territorio del Coniglio selvatico presente in maniera abnor-
me. Una curiosità vuole che il celebre quadro di Leonardo da Vinci arrivato
sino ai giorni nostri con la denominazione di ”La dama dell’Ermellino” in realtà non rappresenti un Ermellino, bensì un Furetto albino; animale abbastanza
simile, tuttavia diverso.
La Donnola, il più piccolo dei Mustelidi, è tra l’altro l’unico della famiglia a
cacciare il Toporagno evitato da tutti gli altri suoi ”parenti” a causa dell’insi-
pienza delle sue carni e del cattivo odore che emana.
Lo Zibellino è onnivoro in quanto, oltre che di carne, si nutre anche di bacche.
Questo animaletto è stato cacciato con trappole e trabocchetti per secoli a
causa della sua pelliccia particolarmente pregiata, ma l’astuzia dello Zibellino
è tale che molto spesso riesce ad impadronirsi delle esche senza far scattare le
trappole. Un tempo era presente un po’ ovunque, compreso nelle nostre mon-
tagne, ma a causa di una caccia spietata per la sua pelliccia, oggi la continuità
della sua specie è messa fortemente in pericolo. Lo si può trovare con una certa
frequenza solamente nella parte alta della Siberia, mentre nel resto dell’Europa
manca da circa 80 anni. Anche la Faina e la Martora, oltre che di prede abituali, si nutrono, specie nel periodo autunnale, di frutta e bacche.
Le Martore, a dispetto degli Zibellini, sono abbastanza rappresentate in tutto il
mondo. Sono animali molto crudeli, uccidono per diletto, e senza nessuna
ragione le vittime che poi abbandonano sul posto senza più toccarle. Spesso si
riuniscono in vere e proprie “bande” e invadono nuove zone della foresta compiendo inspiegabili migrazioni che lasciano tracce sanguinose.
Le Lontre si cibano prevalentemente di prede anfibie che individuano sott’acqua con l’aiuto delle loro vibrisse rigide e sensibili adatte a captare le correnti
provocate dai movimenti delle prede. La Lontra comunica con i suoi simili
mediante numerosi suoni e odori emessi dalle ghiandole che hanno un particolare significato di status. Nei paesi asiatici le Lontre particolarmente addestra108
te, vengono impegnate dai pescatori per
dirigere il pesce verso le reti, infatti allo
stato libero le Lontre hanno la tendenza a
convogliare il pesce verso un’insenatura
dove diventa più facile catturarlo. Le
Lontre cacciano generalmente di notte,
preferendo quelle rischiarate dalla luna
piena. Questa specie possiede un gran
numero di tane, ripari e rifugi temporanei
LONTRA
che costantemente ispeziona e mantiene idonei ed efficienti.
Anche il Tasso è un Mustelide anche se non possiede le stesse caratteristiche
dei suoi parenti stretti. Il suo corpo è piuttosto tozzo, vive in piccoli branchi ed
ha quindi un comportamento sociale. E’ onnivoro, ma si nutre prevalentemen-
te di lombrichi che “aspira” nella notte umida dal terreno con il suo naso. La
vista è piuttosto scarsa per cui, per cacciare le sue prede, ricorre all’olfatto e
all’udito che invece sono molto sviluppati. Ha bisogno di un ampio territorio
che può arrivare anche a un centinaio di ettari di terreno.
La Puzzola possiede delle dita lunghe e forti adatte a scavare le tane in cui
l’animale trascorre gran parte della sua vita sotterranea. Anch’ essa è una gran-
de predatrice di roditori e piccoli mammiferi, ma non disdegna rettili e Vipere
delle quali non teme affatto il veleno. Deve il suo nome al fortissimo e repulsivo odore che impregna di continuo il corpo e quindi il suo pelo. Per questo
la sua pelliccia non è assolutamente apprezzata anche perché dopo innumere-
voli e particolari trattamenti ancora nessun pellicciaio è riuscito a renderla ino-
dore. Questa sgradevole peculiarità è dovuta ad alcune ghiandole secernenti
una sostanza nauseabonda, che ha un doppio scopo: quello di far volgere in
precipitosa fuga gli avversari e di richiamare gli individui della stessa specie.
109
LA DONNOLA
E’ un attivissimo predatore che caccia sia di giorno che di notte preferendo
Topi e Arvicole, ma non disdegnando uova e piccoli uccelli.
Molte sono le credenze popolari su questo mustelide, un tempo grande frequentatore delle case coloniche dove spesso entrava in conflitto con l’uomo.
Come quasi tutti i mustelidi essa possiede, tra le altre, la proprietà di allungare a dismisura il suo corpo. Ricordano i più vecchi come la Donnola, fosse in
grado di entrare in un piccolo pertugio allungandosi di quasi la metà della lun-
ghezza del suo corpo. Una volta entrata nel pollaio la Donnola, che è un animaletto lungo poco più di 22-23 cm e del peso di 2-300 gr, durante la notte riu-
sciva a sgozzare tutti gli animali che vi erano rinchiusi: triste era il mattino
quando solitamente la nonna che si alzava per prima, si accorgeva della strage
fatta. Nei tempi più lontani si pensava che a compiere il misfatto fossero i vam-
piri, considerati i due classici forellini lasciati nel collo delle vittime.
Successivamente si scoprì invece che l’autore era la Donnola, qualche altra
volta (ma più raramente) potevano essere anche le sue “compagne e vicine di
tana” vale a dire la Faina, la Martora e la Puzzola.
Le case coloniche erano un ricettacolo molto gradito da questo mustelide: i
pagliai, i fienili e soprattutto le cataste di fasci di legna erano i suoi habitat pre-
feriti e quando accadeva che un pollaio venisse distrutto, arrecando un grave
danno alla già povera famiglia, allora
scattava la rabbia e si procedeva con spietatezza alla caccia. L’uomo sapeva dove
le Donnole avevano le loro tane e allora
disfaceva la catasta di fasci di legna,
poneva gli stessi sulla terra uno sopra
l’altro in maniera da ottenere una piccola
arena e quando tutti i fasci erano rimossi,
110
DONNOLA
sul terreno sottostante apparivano decine di buchi, una vera e propria gruvie-
ra: erano le tane delle Donnole, o in qualche caso anche di altri Mustelidi. A
questo punto entravano in scena dei Cani (molto abili e particolarmente adde-
strati nel cacciare i Ratti), che azzannavano le “povere bestie” appena queste
sporgevano con il loro musetto dalla tana tentando la fuga. Se qualcuna sfug-
giva alle fauci dei Cani, andava a sbattere contro i fasci di legna e in questo
caso erano gli uomini dentro il recinto, a finirle con dei bastoni o delle forche.
La voce della distruzione del pollaio da parte della Donnola e della sua caccia
si spargeva per il paese e tutti correvano ad assistere al triste, ma “necessario
spettacolo”. Poi una volta conclusa l’opera di “bonifica”, si potevano osservare sul selciato davanti la casa colonica le Donnole uccise e fra di esse, quasi
sempre c’erano anche le sue “compagne e vicine di tana” Martore, Faine e
Puzzole. Si procedeva dunque a scuoiare gli animali e ad inchiodare ben tese
le loro pelli su delle tavole che venivano poi esposte al sole affinché si potessero asciugare. Successivamente venivano vendute allo straccivendolo (strassariol) che settimanalmente passava per le case a raccogliere le “robe vece”, le
ossa, il ferro vecchio e, appunto, le pelli degli animali. Si poteva raccogliere
così un po’ di denaro che in qualche modo ripagava la sfortunata famiglia per
il danno del pollaio distrutto. Le pelli venivano successivamente portate in
conceria e finivano per abbellire polsini e colletti dei cappotti delle signore.
Va pure ricordato come qualche famiglia, nell’intento di prevenire la strage nel
pollaio, saltuariamente usasse raccogliere del cuoio proveniente dalle tomaie
degli zoccoli e delle scarpe vecchie e lo bruciasse in prossimità delle tane con
la speranza che l’odore, davvero cattivo, emanato dal cuoio bruciato, scaccias-
se i terribili mustelidi. Ma era una prevenzione che non portava a nessun risul-
tato, e la Donnola se ne stava tranquilla nella sua tana; da qui il vecchio detto:
“Non a va via gnanca se te brusa curame”.
Nei tempi andati, la Donnola era conosciuta come un animaletto molto dispet-
toso, e si diceva che si divertisse proprio a procurare guai all’uomo e che poi
per sfuggire alla sua ira, usasse arrampicarsi velocemente sull’albero più alto
111
anche per evitare la cattura da parte dei cani. Nella bassa Trevigiana, essa veniva anche individuata con i nomi dialettali di: “puissat”, e “bea donoea”. E tanti
sono gli aneddoti raccontati. Frequentemente infastidiva le vacche durante la
mungitura tanto che queste, con uno scarto improvviso rovesciavano il secchio
del latte e il mungitore stesso. Molto spesso tormentava con la sua presenza le
chiocce che covavano, e le molestava al tal punto che queste lasciavano il covo
e allora predava uova e pulcini. Ancora più spesso entrava nelle case e con la
frenesia che la contraddistingueva metteva tutto sottosopra e talvolta rubava
quel poco che c’era da mangiare. La Donnola ha dunque una vita molto frenetica, in continuo movimento, dorme pochissimo, la sua alimentazione giornaliera deve essere pari ad un terzo del suo peso, ha una vita brevissima che può
durare non più di 12/15 mesi. Ha un comportamento solitario, una gestazione
di 35/37 giorni e può partorire fino a 9 cuccioli.
La fiaba
“La Donnola e il Gallo”
Una Donnola aveva catturato un Gallo e avrebbe voluto un pretesto plausibi-
le per poterlo uccidere. Iniziò ad accusarlo perché cantando di notte non per-
metteva all’uomo di riposare. Il Gallo però si difese sostenendo che il suo
canto consentiva all’uomo di svegliarsi presto e di poter lavorare. Allora la
Donnola accusò il Gallo di violare le leggi della natura accoppiandosi nel pol-
laio con la madre e con le sorelle. E poiché il gallo anche in questo asserì che
tutto ciò era nell’interesse dell’uomo, poiché le galline facevano molte uova,
la Donnola esclamò: “ va bene vedo che non ti mancano delle buone giustifi-
cazioni; ma io per questo non voglio rinunciare al mio buon pasto” e se lo
divorò. (Esopo)
112
IL TASSO
E’ un animale che ha sempre dovuto fare “i conti” con l’uomo. Sebbene la sua
pelliccia non abbia il valore di quelle della Lontra, dell’Ermellino o dello
Zibellino, è tuttavia molto ricercata perché se una volta serviva a foderare bauli e
valigie, il suo pelo ancora oggi viene usato per fabbricare i migliori pennelli da
barba, quelli per il trucco e ancora, spazzolini da denti per gengive delicate; la
pelle invece è adoperata dai sellai per ricoprire le più eleganti e preziose selle da
equitazione. Anche la sua carne è considerata molto pregiata. Il Tasso ha abitudini notturne e teme pertanto la luce del giorno, durante il quale se ne sta rintanato
nelle sue inaccessibili tane dalle quali esce solo all’imbrunire per cercarsi il cibo.
Questo mustelide è, per sua natura, scontroso, diffidente, poco socievole ed
aggressivo. Durante la stagione fredda cade in letargo, ma, a differenza di molti
suoi congeneri, si sveglia ripetutamente e per sgranchirsi compie pur brevi movimenti, talvolta arrischiandosi ad uscire anche fuori della tana. E’ piuttosto lento e
impacciato nei movimenti, tuttavia sa arrampicarsi sugli alberi con una certa faci-
lità ed è pure un abile saltatore. Di regola è carnivoro, si nutre infatti di Insetti,
Larve sotterranee, Lombrichi, Topi, Molluschi che costituiscono con piccoli
Conigli e leprotti il suo cibo più gradito; ma all’occorrenza si nutre anche di frutta, tuberi e radici, non disdegnando neppure le carogne di altri animali. Per que-
sto si può affermare che il Tasso è in definitiva un animale onnivoro. Questo
Mustelide ha bisogno di alimentarsi in continuazione, ma nonostante sia veramente
insaziabile, può sopportare lunghi periodi
di digiuno senza soffrirne eccessivamente;
questa scoperta, è dovuta ad alcuni naturalisti che hanno tenuto dei Tassi a digiuno
per oltre quaranta giorni senza che gli ani-
mali ne risentissero minimamente. Il Tasso
è ritenuto un animale che in fatto di astuzia
113
TASSO
supera anche la Volpe e grazie a questa sua particolarità, raramente cade nelle
trappole tese dall’uomo; è quindi un animale difficilissimo da cacciare. Solo dei
cani bene addestrati riescono a stanarlo dalla sua tana, ma prima di farsi sopraffa-
re, ingaggia con questi una lotta furibonda: si sdraia sul dorso e lotta ferocemente, tanto che prima di soccombere riesce a metterne fuori combattimento almeno
tre o quattro. Come si è detto, il Tasso è aggressivo, ma anche coraggioso. Si racconta che molti anni fa, una femmina, alla quale era stata affumicata la tana per
catturare i suoi cuccioli, si avventò contro una contadina e continuò a morderla
finchè la donna fu soccorsa e l’animale fu ucciso. Ma anche la povera donna morì
di lì a pochi giorni per idrofobia. Degna della massima attenzione per le sue curio-
sità è la tana del Tasso. Esso sceglie sempre dei siti esposti a mezzogiorno preoc-
cupandosi che ci sia sempre un grande masso ben ancorato al suolo o un grosso
tronco d’albero nelle vicinanze. Allora scaverà un lungo corridoio in fondo al
quale costruirà una grande camera che tappezzerà di erba, muschio e foglie secche; sarà il soggiorno della famiglia in cui regnerà un’estrema pulizia. Dalla
camera dipartiranno diversi corridoi che funzioneranno sia da vie d’uscita che da
bocche d’aria. Nella camera del Tasso, come detto, regna dunque una grande pulizia, questo animale è veramente un igienista, infatti, nelle immediate vicinanze,
ma talvolta sul finire del corridoio d’uscita, si costruisce delle lettiere che mantie-
ne pulite portando periodicamente i “rifiuti”, molto lontano. Non è raro che altri
animali quali Lepri, Conigli o Topi, utilizzino soprattutto i corridoi d’uscita dalla
tana dove spesso vi costruiscono la loro “cuccia”. Ebbene, pur essendo questi dei
bocconi prelibati, pare che il Tasso abbia un grande rispetto per i suoi ospiti. Infatti
questi roditori che coabitano nelle sue tane, si sentono tranquilli e protetti poichè
non si sa per quale stranezza, il padrone di casa li accoglie senza far loro del male.
Un tempo era d’uso catturare dei Tassi molto giovani per poterli addomesticare,
ed era frequente osservare questi animali vivere nelle case dell’uomo come se fos-
sero dei gatti o dei cani. Sempre nei tempi andati, il grasso del Tasso veniva usato
per curare artrosi e reumatismi. Ha un comportamento sociale, una gestazione di
40/42 giorni e può partorire da 4 a 5 cuccioli.
114
LA MARMOTTA
È tutta avvolta da una calda e folta pelliccia bruna, leggermente rossiccia sul
ventre e terminante con un bel ciuffo nero sulla coda. La testa è piuttosto massiccia coronata da orecchie piuttosto piccole. Ma la cosa che maggiormente
spicca in questo animale sono gli occhi neri e rotondi, vivaci e brillanti che
sembrano animati da una luce maliziosa. Fu a lungo allevata dalle popolazio-
ni alpine per avere a buon mercato delle pellicce, ma anche perché da alcuni
organi e dal suo grasso, si sono ricavati per secoli farmaci e unguenti “miraco-
losi” per curare diversi malanni. La Marmotta è pure stata considerata un ani-
male da compagnia che spesso sostituiva il Cane, perché di carattere giocherellone e domestico. È ritenuto, a dovere, l’animale selvatico più pulito. Non
c’è un centimetro quadrato del suo corpo che non lavi e pulisca con meticolosa attenzione. La Marmotta ha un comportamento assai sociale vivendo in
gruppi numerosi che trascorrono la giornata giocando a rincorrersi e nutrendosi di erbe aromatiche. Vive in prevalenza anche oltre i 3000 metri di altezza,
ma non appena le prime brume avvolgono la montagna, ridiscende verso i luo-
ghi più caldi. Possiede due tane: una estiva con una camera non molto profon-
da di media ampiezza in nuda terra e con una via d’uscita per la fuga. Quella
invernale sarà invece più profonda anche 4-5 metri con una grande camera
centrale che riempie di erba, foglie e felci e che diventerà il luogo dove trascor-
rerà l’inverno in uno stato di ibernazione,
ma la cosa strana è che la Marmotta si
risveglia ogni 20-25 giorni per andare a
deporre i propri escrementi all’estremità
del corridoio d’accesso, mantenendo in
questo modo la camera sempre pulita e
inodore. Un altro particolare curioso va
individuato nel fatto che in questa grande
camera trascorreranno l’inverno molti
115
MARMOTTA
individui appoggiati gli uni agli altri e tutti legati da stretti vincoli di parente-
la. Il periodo che la Marmotta passa in questo stato di ibernazione particolare,
dura sei lunghi mesi ed è più lungo di qualsiasi altro animale. Nel corso di que-
sto periodo perde circa il 60% del suo peso corporeo. Per segnalare pericoli
incombenti le marmotte di sentinella emettono un caratteristico segnale, il
famoso “fischio delle Marmotte”. Questo fischio opportunamente modulato e
protratto, va diversamente inteso come una conversazione oppure come
l’espressione di uno stato d’animo particolare.
Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e può partorire da 4 a 8 piccoli.
116
“Non siamo i padroni della natura, ma i suoi custodi.”
Henrj David Thoreau
LA TALPA
Vive sottoterra, è cieca, è priva d’olfatto, non ha un udito particolarmente svi-
luppato, ha invece nel tatto, il senso nel quale può maggiormente contare. Ed
è infatti con il tatto che riesce ad individuare le sue prede che incontra scavan-
do nel terreno. La Talpa deve alimentarsi ogni giorno per circa la metà del suo
peso corporeo, pertanto è innato in questo animale l’istinto della continua ricer-
ca; ecco perché scava senza interruzioni. Anche sazia, incontrando nuovi
Lombrichi e nuovi Vermi essa li morderà; nella sua saliva sono presenti delle
sostanze paralizzanti che agiranno sulla preda immobilizzandola per alcune ore;
la Talpa, appena il cibo scarseggerà, ritornerà sui suoi passi e si ciberà di queste
riserve. Contrariamente ad altri mammiferi, il pelo della Talpa alla carezza non
si rovescia ma rimane dritto e morbido. La Talpa viene cacciata in diversi modi
(molti di essi inefficaci) ma il più praticato e sicuro rimane sempre quello di
attendere con pazienza la ripresa del suo lavoro, laddove è affiorata in superficie
la sua piccola ultima duna. Sarà sempre al mattino presto, o alla sera al crepu-
scolo, che essa si rifarà viva e incomincerà a portare in superficie con i forti arti
posteriori, la terra che scaverà con quelli anteriori, a questo punto basterà calco-
lare il ritmo con il quale il piccolo cumulo salirà, e con un colpo netto del badile, sollevare da sotto il cumulo intero, all’interno del quale quasi sempre ci sarà
la Talpa. Un tempo la pelliccia di questo animale era molto preziosa e valeva
veramente la pena cacciarla, infatti al pas-
saggio dello straccivendolo che raccoglieva
tutto, la pelle della Talpa, pur essendo pic-
cola (un rettangolino di circa 12cm per 10),
veniva pagata almeno 20 volte quella di un
Coniglio che era molto, ma molto più gran-
de. Ha un comportamento solitario, una
gestazione di circa 28 giorni e partorisce
TALPA EUROPEA
da 3 a 5 cuccioli.
119
La fiaba
“ La Talpa e sua Madre”
Una Talpa, animale cieco per natura, un bel giorno comunicò a sua madre
che ci vedeva. La madre per verificare se fosse vero le diede un granello di
incenso chiedendole cosa fosse. Essa allora dichiarò che era un sassolino.
“Figlia mia” esclamò allora la madre, “tu non solo sei cieca, ma hai pure
perduto il senso dell’olfatto”. (Esopo)
IL CRICETO
Le curiosità del Criceto incominciano da come costruisce la sua tana, sempre e
comunque dotata di un’entrata e di un’uscita. Nel profondo della medesima si
costruisce più camere.
La prima, quella principale, solitamente la più grande, diventa il luogo di soggiorno. Sarà “arredata” con tenere foglie e sottili fili d’erba che diventeranno un
morbido giaciglio anche per i piccoli che
nasceranno. Seguiranno dei magazzini nei
quali saranno accumulate, durante la sta-
gione propizia, molte riserve di cibo per
l’inverno; si calcola che ogni Criceto
possa approvvigionarsi dai 13 ai 16 kg di
vegetali tra i quali tarassaco, piantaggine,
CRICETO
piccoli frutti, tuberi, radici e altro ancora.
Ma il Criceto dopo il soggiorno e i magazzini scaverà altri recessi, le così dette latri-
ne, dove tutta la famigliola andrà a defe-
care lasciando pulito tutto il resto della tana. Un ultimo particolare curioso deri-
va dal fatto che il Criceto alle prime avvisaglie dell’inverno, chiude gli sbocchi
esterni delle sue gallerie proteggendosi così dal freddo e dai predatori.
Il suo letargo sarà piuttosto vigile perché fino all’arrivo della primavera alterne120
rà stati di breve letargia ad altrettanti brevi risvegli durante i quali consumerà
piccole parti delle sue abbondanti scorte di cibo.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 20 giorni e partorisce
da 4 a 14 cuccioli.
IL GHIRO
Se non fosse per la sua lunga coda pelosa potrebbe essere scambiato per un
Ratto considerate anche le pressoché identiche dimensioni. E’ un animale pre-
valentemente arboricolo, che occupa con successo una nicchia rimasta libera
fra quella degli Scoiattoli e quella dei Ratti e dei Topi. Ha un mantello folto e
lanuginoso e una coda interamente rivestita di pelo piuttosto lungo.
Caratteristici sono i suoi grandi occhi sporgenti e la rotondità dei padiglioni
auricolari, mentre i suoi sensi maggiormente sviluppati sono l’olfatto e
l’udito. Vive costantemente fra i rami degli alberi, ma anche tra i cespugli
scendendo sul terreno solo raramente. E’ maggiormente attivo nelle ore notturne durante le quali cerca frutta, semi e tenere cortecce, ma non disdegna di
predare insetti, uova e piccoli nidiacei di uccelli. All’inizio dell’autunno, il
Ghiro si alimenta con una maggiore voracità tanto da ingrassare in maniera
notevole in vista del periodo freddo e del lungo sonno invernale. Anche il
Ghiro, come gli Scoiattoli, ama costruire il suo nido nelle cavità degli alberi.
Infatti, il suo habitat si identifica con
boschi di querce e frassini misti a pini,
dove, ad un’abbondante fruttificazione di
queste piante si accompagna un’ampia
disponibilità di cavità naturali; a tale pro-
posito si è notato che, in questo partico-
lare habitat, viene riscontrata una mag-
giore densità di Ghiri. Tuttavia questo
animale non disdegna soluzioni alternati121
GHIRO
ve e sa costruirsi, fra i rami di cespugli e arbusti molto fitti, un nido globoso
fatto di fronde e di stecchi simile a quello degli uccelli, pur se vistosamente
più grande rispetto alla sua mole. In questi suoi nidi, siano essi nelle cavità o
nei cespugli, il Ghiro introduce delle riserve di cibo che consumerà subito
dopo il suo risveglio dal lungo e ininterrotto letargo. Si è notata una partico-
larità molto curiosa: il Ghiro rifiuta le cavità degli alberi che non abbiano il
foro di ingresso rivolto a sud o che comunque non sia ben protetto dagli agen-
ti atmosferici. La prima scelta resta tuttavia un rifugio ipogeo (sottoterra) rica-
vato fra il groviglio di radici di un albero; si tratta sempre di una tana piutto-
sto grande dove più individui possono raccogliersi insieme. In questi rifugi,
in caso di forti densità di popolazione, più femmine condividono la tana per
partorire ed allevare insieme i loro figli. Fra gli antichi Romani era d’uso alle-
vare questi animali, che venivano ingrassati al punto giusto per passare poi
allo spiedo e finire con l’allietare i loro banchetti. Questa usanza è venuta
meno con la fine dell’Impero Romano.
Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e partorisce
da 4 a 10 piccoli.
IL MOSCARDINO
Questo animale è un piccolo Ghiro ed è poco più grande di un topolino dome-
stico dal quale si distingue per il colore bruno-arancio del suo mantello e per la
coda rivestita di un pelo corto ma folto. Ha abitudini alimentari abbastanza
simili al Ghiro pur avendo una particolare predilezione per le nocciole, di cui,
con grande abilità, riesce a forare il guscio e ad estrarre il seme. Preferisce vive-
re e cacciare sulle sommità dei cespugli e costruisce il nido di soggiorno con
erbe, foglie e lembi sottili di corteccia intrecciati fra di loro sempre in forma
globosa, con foro di accesso laterale capace di contenere un solo individuo e ad
una certa altezza dal suolo. Il nido, dove le femmine vanno a partorire, è più
grande, più robusto e più vicino al suolo. Il ritrovamento di più nidi uno accan122
to all’altro, sta ad indicare che il
Moscardino ha un comportamento socia-
le. Il nido, dove trascorrerà l’inverno, sarà
invece costruito con dei materiali più
compatti, appoggiato al suolo e coperto da
foglie e detriti del sottobosco. In questo
rifugio, con l’approssimarsi della cattiva
stagione e senza aver effettuato alcuna
provvista per l’inverno, si rinchiuderà rag-
MOSCARDINO
gomitolandosi a palla con la coda che gli coprirà la testa e le spalle come una
sciarpa. Cadrà quindi in un profondo letargo che durerà fino a primavera inol-
trata, senza mai svegliarsi. In caso di pericolo il Moscardino ha affinato un
modo straordinario per mimetizzarsi, riesce ad appiattirsi contro i tronchi degli
alberi al punto da passare inosservato e da sembrare una piccola protuberanza
della corteccia alla quale nessun predatore darà mai alcuna importanza.
Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 23 giorni e partorisce da
4 a 8 piccoli.
LO SCOIATTOLO ROSSO EUROPEO
La curiosità che contraddistingue questo animale è che ciascun sesso mantie-
ne separatamente il proprio territorio per gran parte dell’anno. Solo nel periodo degli amori il maschio entra nel territorio della femmina e la segue con
insistenza fino al momento dell’accoppiamento. Ma per entrare in contatto
con la femmina il maschio emette dei richiami molto simili a quelli emessi dai
giovani traendo così in inganno la stessa che finisce in ogni modo con
l’accettarlo. La grande coda degli scoiattoli, oltre ad essere un ovvio abbellimento dell’animale, ha altre varie funzioni: regola l’equilibrio e funge da
“timone” quanto compie dei salti acrobatici lanciandosi da un ramo all’altro,
quando non addirittura da un albero all’altro e la utilizza anche come paraca123
dute frenante qualora decidesse di lan-
ciarsi nel vuoto per raggiungere il terreno sottostante. Ma sembra avere pure un
altro ruolo importante, quello di comunicazione nei rapporti interindividuali, fatti
di spostamenti, di sbandieramenti e
SCOIATTOLO COMUNE
mosse insolite e cerimoniose. Lo
Scoiattolo trova il suo habitat nei buchi e
negli anfratti degli alberi, ma se questi
venissero a mancare esso si costruirà, nella parte alta di un grande albero, un
nido del tutto simile a quello degli uccelli, ma decisamente più grande e sproporzionato rispetto alla sua mole: ciò perché dovrà contenere tutte le provvi-
ste per il freddo e lungo inverno, quando riduce la propria attività per entrare
in un vigile letargo, fatto di continui risvegli, durante i quali si alimenterà e
scenderà addirittura al suolo, sia pur per brevissimi periodi.
Il simpatico roditore, possiede nei denti incisivi un elemento che caratterizza
quest’ordine di mammiferi presentando aspetti particolari e unici. Questi
denti sono privi della radice, e sono ridotti ad un solo paio in entrambe le
mascelle, dove appaiono relativamente sviluppati e notevolmente ricurvi. La
loro estremità basale è aperta e ripiena di una polpa vascolarizzata, che assicura il loro accrescimento continuo, compensando, in tal modo, l’estremità
dei medesimi, che viene consumata nell’erosione continua provocata dall’in-
cessante rodere dell’animale. Altro aspetto curioso dello Scoiattolo, è rappre-
sentato dalle tipiche impronte lasciate sulla neve e sul terreno, infatti si può
notare che le zampe anteriori sono provviste di quattro dita e che le loro
impronte sono sempre precedute da quelle posteriori, maggiormente sviluppate e comprensive di cinque dita. E va ricordato pure un ultimo aspetto
curioso dello Scoiattolo: in tempi lontani (ma in certi paesi dell’Asia ancora
oggi), riconoscendo a questo animale delle straordinarie capacità funamboli-
che, si riteneva che cibarsi del suo cervello, una volta disseccato e polveriz124
zato, preservasse saltimbanchi ed equilibristi da cadute ed infortuni.
Merita una nota aggiuntiva la vicenda dello scoiattolo grigio, che intorno agli
anni 50 è stato introdotto, provenendo dal Nord America, all’inizio in Gran
Bretagna e successivamente nel resto del continente Europeo. Oggi, questo
Scoiattolo, essendo decisamente più grande e più forte dello Scoiattolo rosso
europeo (comune), si è rivelato perturbatore degli equilibri esistenti, entrando
in competizione con il medesimo e scacciandolo dal suo habitat originale. In
alcune regioni Italiane come la Liguria e il Piemonte, si può ormai “denuncia-
re” la scomparsa dello Scoiattolo autoctono e l’insediamento al suo posto
dello Scoiattolo grigio.
Ha un comportamento variabile, una gestazione di circa 45 giorni e partorisce
da 2 a 6 piccoli.
.
IL TOPORAGNO
Numerose caratteristiche di questi animali sono legate alle loro piccole dimen-
sioni; ciò vale soprattutto per il metabolismo, estremamente elevato in relazio-
ne alla legge secondo la quale diminuendo le dimensioni del corpo il metabo-
lismo, o meglio il costo metabolico, aumenta progressivamente; ciò lo rende
estremamente vorace per la continua necessità di ingerire fonti alimentari ener-
getiche. Per vivere, il Toporagno deve continuamente nutrirsi, tanto da abbisognare di una quantità di cibo giornaliera
davvero notevole pari a dieci volte il suo
peso corporeo. Le necessità energetiche
durante la gestazione aumentano mag-
giormente e la ricerca di cibo richiede uno
sforzo notevole; perciò può succedere che
in determinati periodi le femmine gravide
non trovino nutrimento sufficiente e quindi siano costrette a interrompere la gesta125
TOPORAGNO
zione. In questi casi non si assiste ad un aborto come sarebbe naturale per gli
altri mammiferi, bensì ad un riassorbimento degli embrioni. In parole povere
succede che la madre, non riuscendo a trovare nutrimento per se stessa e con-
seguentemente per gli embrioni e trovandosi nella necessità di sopravvivere,
si… “rimangia il tutto”.
Le femmine di Toporagno riescono a partorire anche cinque volte l’anno.
Considerando che la pressione predatoria limita la vita di questo animaletto a
quindici-diciotto mesi, si capisce come l’alto tasso riproduttivo sia necessario
per assicurare la conservazione della specie. Un altro comportamento degno di
interesse è rappresentato da brevi momenti di pausa e sonno a causa della continua agitazione in cui versa il Toporagno; durante lo stesso periodo invernale,
il Toporagno pur rimanendo a lungo nella tana non entra in letargo essendo di
natura sempre agitato e incapace di prendere sonno. Viene predato assiduamen-
te da Gatti, Volpi, Rapaci diurni e notturni, da Vipere, Gazze e altri ancora, ma
a causa del suo sapore sgradevole e di una accertata tossicità della sua carne,
dopo la predazione il suo corpo viene abbandonato senza essere divorato.
Davvero curioso, infine, è il modo con il quale una famigliola di Toporagno si
sposta da una zona all’altra: i cuccioli, tutti in fila indiana tenendo tra i denti uno
la coda dell’altro, si lasceranno guidare dalla madre.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 20 giorni e partorisce
da 5 a 7 piccoli.
126
IL RICCIO
Il comportamento del Riccio presenta diversi particolari curiosi. Ad esempio
quando caccia, soprattutto nelle ore notturne, i piccoli seguono la madre a
poca distanza tutti in fila indiana e si avvicinano ad essa solamente quando
questa ha catturato qualche preda e con i tipici richiami, che somigliano a dei
timidi grugniti, li chiama presso di sé.
Quando viene attaccato, il Riccio ritira sul ventre le zampe e gli arti e si appal-
lottola su se stesso diventando inespugnabile. Questo metodo di difesa è pos-
sibile in quanto il Riccio possiede una muscolatura particolarmente robusta
posta sotto gli aculei. È appunto la contrazione di questa “guaina” che lo fa
appallottolare. Quando i cuccioli nascono, per circa due giorni sono vulnera-
bili in quanto il loro corpo è coperto solo
da una leggera peluria, ma basteranno
ancora poche ore perché questi peli si
modifichino in aculei tanto resistenti
quanto quelli degli adulti.
La credenza popolare ritiene che il
Riccio sia immune al veleno della
Vipera. In realtà egli teme molto il morso
del rettile il quale però non riesce a superare con i suoi denti veleniferi lo strato di
aculei e finisce, dopo una lunga lotta, per
RICCIO EUROPEO
soccombere ai suoi continui morsi, con i quali riuscirà a spezzare la colonna
vertebrale del rettile. Ci sono stati diversi esperimenti in laboratorio e da que-
sti si è dedotto che, a parità di peso, il Riccio è in grado di sopportare, senza
gravi danni, una quantità di veleno di Vipera quasi dieci volte superiore quella che potrebbero sopportare altri mammiferi e tra di essi anche l’uomo. Il
Riccio riesce a nuotare e a cacciare Rane, piccoli Anfibi e invertebrati; ad
arrampicarsi sugli alberi dove preda uova e piccoli Uccelli ed a camminare
127
molto velocemente sul terreno dove si nutre particolarmente di insetti e
Lucertole. Si nutre molto voracemente pure di Vespe, Api e Coleotteri, anche
dei più tossici, come Meloe e Litta, che contengono una buona dose di canta-
ridina, non subendo danno alcuno. È un animale che possiede una grande
energia che spesso rasenta la frenesia. Non solo nel periodo degli amori, ma
anche in altre stagioni, egli ama correre freneticamente in cerchio apparente-
mente per divertimento, ma quasi sempre per scaricare l’eccesso di energie.
Un ultimo fatto, considerato per anni credenza popolare, si è dimostrato, in
realtà, assai veritiero. Il Riccio ha l’abitudine di cospargersi, con incredibili
contorsioni, gli aculei con sostanze che emanano un forte e sgradevole odore.
Poiché questo comportamento provoca un aumento della salivazione è stato
anche definito “autosputo”.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 35 giorni e partorisce
da 3 a 7 piccoli.
128
“Che Allah sia lodato per la varietà della sua creazione.”
Proverbio Arabo
IL CERVO
Il Cervo europeo è caratterizzato da: un accentuato sviluppo della parte anteriore del corpo; altezza (dalla spalla) che può arrivare a 2 m, zampe proporzional-
mente alte, robuste ed agilissime e una dentatura completa (34 denti compresi i
canini che mancano in altre specie).
Osservato in libertà, il Cervo non sembra essere quello scellerato e balordo ani-
male che i più ci descrivono. Questo ungulato sa opporre tattica a tattica e sa
mettere a buon profitto tutti i suoi acutissimi sensi, che gli permettono di senti-
re la presenza dell’uomo fino a 600 m di distanza. La celerità dei suoi garretti
d’acciaio, la resistenza al nuoto, la capacità di sopportare la fame e la sete rima-
nendo, per ore e ore, affondato fino alla testa nelle paludi e nei pantani, il saper
trarre vantaggio dagli ostacoli naturali per ritardare l’inseguimento e far perde-
re le tracce ai suoi predatori, denotano, oltre che prestanza fisica, anche pruden-
za e intelligenza. Naturalmente come per ogni animale della foresta, la legge del
più forte vale anche per il Cervo. L’egoismo si identifica con l’istinto di conser-
vazione. Ciò è tanto più evidente nella femmina. Per natura la Cerva è dolce e
timida ed è una madre affettuosa, ma quando i suoi cuccioli sono minacciati può
diventare feroce. Per ogni figliata nasce un solo cucciolo, raramente due.
Quindi questo “figlio unico” è coccolato e viziato dalla madre fino alla nascita
del nuovo rampollo; allora il figlio ormai grande viene energicamente cacciato
di casa e lasciato al suo destino. Solo all’inizio del sesto mese la distinzione fra
i due sessi si rivela chiaramente. Non soltanto si diversificano nel mantello
invernale, ma nel maschio comincia a formarsi, sia da un lato che dall’altro
sulla parte anteriore della fronte, una prominenza arcuata: la rosa. Appena
l’osso della rosa avrà raggiunto la debita altezza, nascerà su di esso una fitta
peluria (il velluto). Sbucherà quindi un germoglio corneo che andrà via via svi-
luppandosi in un fuso robusto (asta). A questa fase del suo sviluppo il cerbiatto
prende il nome di “fusone”. Quanto più il cerbiatto è robusto tanto più l’asta
cornea è forte e massiccia. All’inizio essa è sempre ricoperta da una guaina vel131
lutata la quale, a crescita ultimata, si lacererà e cadrà lasciandola nuda. All’inizio
del secondo anno di vita, cioè la primavera successiva, quelle prime aste (palco)
cadranno per rinascere più tardi, accresciute da un nuovo germoglio. Questa
prima diramazione (occhiale) promuove il giovane “fusone “ al grado di “for-
cuto”. Nell’ anno successivo (il terzo), il palco accresciuto di un secondo ger-
moglio, gli conferirà il titolo di “treppunte”. Il Cervo possiede dunque un palco
massiccio e caduco. Accade infatti ogni anno, a fine marzo-aprile, che il palco
si decalcifichi e cada. La cicatrice, dopo qualche giorno, verrà ricoperta dal
“velluto” e il palco tornerà a riformarsi rapidamente per opera delle cellule
costruttrici delle ossa e sarà, ogni volta, più saldo, più robusto e con un germo-
glio in più. Sempre per un periodo transitorio, la guaina vellutata ricopre ester-
namente le aste mentre all’interno una rete sempre più fitta di arterie sanguigne
alimenta queste escrescenze che costituiscono, per il cervo, l’arma poderosa, il
suo ornamento e il suo attributo di campione. Normalmente, se non avrà infor-
tuni o malattie gravi, un Cervo adulto avrà fra i sette e i dieci anni, palchi (ripiani) costituiti da 12 e più punte i quali formano alla sommità una specie di “coro-
na” che, per la forma, si diversifica da specie a specie ed anche talvolta da indi-
viduo a individuo. Scompariranno invece le punte infantili che costituivano il
palco giovanile. In vecchiaia, e cioè dopo i 13/14 anni, la crescita delle punte si
arresterà. La perdita del palco non produce sofferenza all’animale, ma sicura-
mente un po’ di fastidio, mentre un certo malessere lo produce la caduta del vel-
luto che si distacca a brandelli e di cui il Cervo si libera strofinandosi selvaggiamente contro i tronchi degli alberi. Inoltre, poiché è difficile che i 2 fusti
cadano nello stesso momento, quando il primo è caduto la sproporzione di peso
costringe l’animale ad inclinare la testa da un lato e allora la scuote sovente
come se volesse liberarsi al più presto anche dell’altro fusto. Per rinnovare il
palco l’animale impiega da 3 a 4 mesi, e si arriva così a fine estate, epoca in cui
i palchi saranno necessari al Cervo innamorato per affrontare i rivali. Se si con-
sidera che nel Cervo adulto la lunghezza media dei fusti che formano il palco è
di circa 100 cm, che l’apertura tra le due estremità può arrivare ai 130 e che il
132
numero dei pugnali va da 12 ad oltre 20,
non è difficile pensare quanto siano pode-
rose le armi di cui dispone. Un’altra caratteristica del Cervo è quella della “muta”.
La lunghezza, la densità e il colore del
pellame sono molto differenti nella stagione fredda e nella stagione calda. La muta,
che inizia in primavera e termina in estate, conferisce al Cervo un abito estivo in
CERVO
cui prevalgono i colori ruggine rossastro, mentre in quello invernale domina
una tinta grigio bruna. Le orme del Cervo si riconoscono facilmente; infatti il
suo zoccolo è tipico: formato da 2 unghioni allungati neri e cornei riuniti fino a
metà da un forte legamento formando nell’insieme una palma tenera a forma di
cuore. Il Cervo che vive libero nel bosco si nutre di teneri rami, germogli,
foglie, scorze d’albero, funghi e bacche. Ama anche scavare nel terreno con il
suo muso appuntito alla ricerca di patate e altri tuberi, ma pure di radici man-
gerecce. Il Cervo è sempre stato cacciato sin dai tempi più lontani; tutte le epo-
pee ne parlano ed è presente nelle tradizioni di tutti i popoli e di tutti i paesi. Nei
miti delle divinità pagane la Cerva era sacra alla dèa Giunone, moglie del re
dell’Olimpo Giove-Zeus, che con la sua arma terribile, la folgore, dominava
uomini e dèi, e alla dèa della caccia Diana, che di giorno penetrava nelle selve
e di notte saliva sul carro argenteo della luna. Nella cristianità il Cervo assume
invece un significato metaforico nuovo, raffigurando il Cristo e successiva-
mente gli Apostoli. Di conseguenza tutto il Medioevo è pieno di leggende che
narrano di conversioni dovute ad apparizioni di Cervi bianchi, di Cervi fiam-
meggianti, di Cervi recanti fra le corna del palco croci abbaglianti, di Cervi
alati. Il Bramito del Cervo viene emesso dal maschio nel periodo che precede
l’amore quando tende a difendere il suo territorio e ad arricchire il suo harem
di nuove femmine. Strenue e prolungate sono le lotte fra maschi per ottenere
il predominio sul territorio, lotte che sempre finiscono con la prevalenza del
133
maschio più forte che diventa così dominante. In questo periodo il Cervo,
impegnato com’è a bramire, ad accoppiarsi, a lottare per la dominanza, a controllare territorio e femmine, non ha nemmeno il tempo per alimentarsi, tanto
che in 25-30 giorni, tanto lungo è il periodo dell’estro, arriva a perdere anche
55-60 kg del suo peso. Alla fine dell’inverno lungo le strade del loro habitat,
ormai libere dalla neve, di sera e fino all’alba, è molto facile poter osservare le
strade invase dai Cervi intenti a leccare l’asfalto reso salato dalla cosparsa da
parte dell’uomo di sale per sciogliere la neve. E’ altrettanto interessante sape-
re come in certe località si possano osservare alcune rocce contenenti eviden-
ti residui di sale rese perfettamente lisce, in quanto leccate per millenni dai
Cervi. Un antico aforisma “maschilista” racconta, che quando due novelli
sposi entravano nella loro casa, l’uomo rivolgendosi alla moglie dicesse: “o
servi come una serva, o fuggi come una Cerva”. Ha un comportamento socia-
le, una gestazione di circa 250 giorni e partorisce un solo piccolo.
La fiaba
“Il Cervo alla fonte del Leone”
Un Cervo assetato si recò presso la fonte: bevve e poi rimase a contemplare la
sua immagine riflessa nell’acqua. Si sentì orgoglioso del suo bel palco e
ammirò la sua grandezza e il suo disegno. Ma delle sue gambe non si sentì
soddisfatto perché gli sembravano troppo fragili. Mentre stava ancora riflettendo su ciò, un Leone arrivò alla fonte e scorgendo il Cervo incominciò a
inseguirlo, ma il Cervo con le sue gambe agili si diede alla fuga, attraversò
tutta la pianura ed entrò nel bosco con un buon vantaggio sul felino che però
continuò ad inseguirlo. Arrivato però nel bosco accadde che il suo maestoso
e bellissimo palco si impigliò su degli arbusti, così che il Cervo non potè più
correre e fu catturato dal Leone affamato. Allora mentre stava per morire
esclamò: “ Me disgraziato quelle gambe in cui non avevo fiducia mi offrivano
la salvezza e mi tocca morire proprio per colpa di quello in cui riponevo tutta
la mia fiducia”. (Esopo)
134
LA VOLPE
E’ un animale che nasce carnivoro, ma che oggi deve essere considerato onni-
voro. Tipico abitatore delle colline e delle montagne, dove con grande furbizia
e poco dispendio di energie sa cacciare le sue prede, essendo molto intelligente e quindi opportunista, è ultimamente sceso a valle ed è arrivato sino al mare,
incontrando sulla sua strada discariche e cassonetti delle immondizie dove si
nutre dei rifiuti dell’uomo faticando anco-
ra meno. E’ un animale dall’incedere
molto elegante tanto che si ritiene che le
indossatrici in passerella imitino il suo
camminare, ponendo una gamba davanti
l’altra e ancheggiando, proprio come fa la
Volpe.
Il suo territorio, fortemente “marcato” da
urine e feci, varia dai 7 ai 10 kilometri
quadrati, all’interno dei quali soprattutto il
maschio caccia in solitudine, preferibil-
VOLPE
mente di notte. Nelle tane della Volpe sono stati sovente trovati i resti delle
prede più svariate, va riconosciuto pure che, all’occorrenza, si introduce in qual-
che pollaio dove comunque non fa razzie, ma si limita a predare un solo anima-
le. E purtroppo entra ancora in conflitto con l’uomo anche quando preda con
facilità la selvaggina che nidifica a terra. Tuttavia a conti fatti si è comunque
potuto accertare che la Volpe preda prevalentemente vari piccoli roditori e non
è quindi così dannosa all’uomo come si è portati a credere. Raramente il
maschio divora le sue prede sul posto in quanto ama portare il bottino nella sua
tana e consumarlo con la femmina e i cuccioli che lo attendono. I cuccioli non
sono accuditi solo dalla madre naturale, ma molto frequentemente anche da
altre femmine “aiutanti” che rimangono nella tana o nelle immediate vicinanze
sino ad oltre tre mesi. Se le prede sono di grossa taglia o numerose, la Volpe
135
scava un buco nel terreno e le seppellisce memorizzando il luogo e ritornando-
vi su di esso nei momenti di carestia. La Volpe è sempre stata vittima della cac-
cia da parte dell’uomo, sia per la sua preziosa pelliccia, sia perché la sua esi-
stenza ha colorito molte favole del passato e certamente ha dato così un tocco
di mistero a tante tradizioni popolari. In questi ultimi anni la lotta contro questo
astuto animale che, grazie proprio alla sua furbizia, riesce comunque a soprav-
vivere in gran numero, si è intensificata perché l’animale quando scende a valle
e arriva sino al mare, essendo portatore e diffusore della “rabbia silvestre”, una
forma di idrofobia che fa strage tra le popolazioni selvatiche di animali, potrebbe, mordendolo, trasmetterla anche all’uomo.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 50 giorni e può partori-
re da 4 a 10 piccoli.
La fiaba
“La Volpe e l’uva”
Una Volpe affamata notò dei bellissimi grappoli d’uva pendere da una pergola
e tentò di mangiarli. I grappoli erano troppo in alto e nonostante vari tentativi
non riuscì nel suo intento. Disse allora tra sé e sé “sono troppo acerbi non mi
sarebbero piaciuti” e si allontanò (Esopo).
LA LINCE
E’ un superpredatore per eccellenza; possiede una vista acutissima e un udito
altrettanto sviluppato. E’ dotata di artigli retrattili che usa per artigliare le
prede o per salire sugli alberi e che ritira quando si sposta sul terreno. Questo
felino è di maestosa bellezza, si muove con una rapidità assai maggiore dei
suoi parenti dell’Asia e dell’Africa. Come del resto tutti i felini, la sua lingua
presenta papille cornificate rivolte all’indietro, usate per raschiare la carne
dalle ossa. Per la Lince, la digeribilità è facile e non implica particolari spe-
cializzazioni dell’apparato digerente. In genere la secrezione salivare è scar136
sa e la struttura dello stomaco molto
semplice. Il suo intestino breve non
supera la lunghezza di 4 volte la dimen-
sione del suo corpo. E’ curioso sapere a
questo punto che quello di una Foca è di
20 volte superiore, mentre quello del
Leone marino arriva a 80 volte. La Lince
come i suoi simili (predatori carnivori),
presenta sul corpo ghiandole di diverso
LINCE
tipo. Alcune sono in funzione della termoregolazione, servono, cioè, a man-
tenere il pelo in buone condizioni e a renderlo isolante: è il caso delle ghian-
dole sebacee che (come negli uccelli) producono una secrezione che serve a
lubrificare la pelliccia. Anche le ghiandole anali sono particolarmente svilup-
pate e producono una sostanza davvero nauseante.
La Lince riesce a scorgere un piccolo Topo nascosto fra la vegetazione a 50
metri di distanza; a 100 metri individua una Lepre e a 300 metri un piccolo di
Capriolo nascosto in un prato. Si distingue dagli altri felini (a parte il
“Caracal” che possiede anch’esso questa caratteristica pur se in proporzioni
più ridotte), per i ciuffetti piuttosto lunghi posti sulla sommità delle orecchie
appuntite che hanno una funzione auricolare aggiunta. Si evidenziano pure i
suoi sviluppati e rigidi “baffi” bianchi o grigi che si allineano sul labbro supe-
riore, conferendo al muso un aspetto fiero e particolare, ravvivato da un paio
d’occhi dal freddo sguardo metallico. E’ un animale molto forte che riesce ad
abbattere persino dei Caprioli e dei giovani Cervi, saltando sul dorso delle vit-
time e dilaniandole a colpi di artigli e di denti. E’ stato osservato che i giova-
ni maschi hanno un alto tasso di mortalità, probabilmente per ragioni geneti-
che.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 65 giorni e può par-
torire da 2 a 4 piccoli.
137
L’ORSO BRUNO
È tornato ad abitare (anche se solo di passaggio) la foresta del Cansiglio pro-
venendo da est dopo alcuni decenni di totale assenza. È parente stretto del
Grizzly, del Kodiac e di altri Orsi orientali. Contrariamente a quanto la gente
è portata a credere, l’Orso bruno è un animale prevalentemente erbivoro. La
sua alimentazione di base è infatti costituita da erba, radici, tuberi, funghi e
frutta e solo saltuariamente si nutre di qualche carogna. Integra questa dieta
con miele che ruba alle Api selvatiche, non disdegnando nemmeno gli stessi
insetti. Nelle sue abitudini, niente giustifica l’aureola di terrore da cui è cir-
condato; tanto più che, ignorando sovranamente l’uomo, si lascia avvicinare
dallo stesso senza reagire, limitandosi a emettere dei sonori grugniti quando
ritiene che si stia per sorpassare i limiti di una rispettosa familiarità. Soltanto
il suo aspetto può spiegare la sua cattiva reputazione: infatti è grande e massiccio e tutto di lui è imponente soprattutto con l’avvicinarsi dell’inverno,
quando il suo corpo si copre di grasso per proteggersi dal freddo. L’Orso
bruno allora raddoppia il suo peso e diventa un mostro grottesco con la sua
andatura pesante e faticosa. In realtà, il terribile protagonista di tante leggen-
de ha solo la forza di raggiungere traballando la propria tana, dove rimarrà in
letargo nei mesi invernali. Peso e dimensioni variano in base all’habitat e
quindi al tipo di alimentazione; certi maschi adulti arrivano a pesare 5/7 quintali e, ritti sulle zampe, possono raggiun-
gere e superare i 2 metri e mezzo di altezza. In oriente l’Orso Tibetano, che ha le
medesime
caratteristiche
dell’Orso
bruno, viene accusato dalle popolazioni
locali di introdursi nottetempo nei villag-
gi e compiere razzie di animali domesti-
ci, tanto che molte leggende lo citano
ORSO BRUNO
come responsabile di mille misfatti e per
138
questo è fatto oggetto di una caccia spietata. In realtà viene ucciso in quanto
si crede che alcune parti del suo corpo, specialmente la cistifellea, servano a
produrre farmaci che si rivelerebbero essere la panacea per guarire tutti i mali
e queste medicine, soprattutto unguenti, vengono venduti sui mercati a prez-
zi davvero ragguardevoli.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 65 giorni e può par-
torire da 1 a 3 piccoli.
La fiaba
“I viandanti e l’ Orso”
Due amici viaggiavano insieme, quando si videro sbarrare la strada da un
grande Orso. Uno dei due, più svelto, si arrampicò su un albero e vi restò
nascosto, mentre l’altro, si gettò al suolo fingendosi morto. L’Orso si avvicinò e lo annusò e il povero uomo trattenne persino il respiro, perché a quel che
si diceva l’Orso non avrebbe mai toccato un cadavere. E l’Orso dopo averlo
nuovamente annusato si allontanò.
Solo allora, quello che era sull’albero, ridiscese e chiese all’altro che cosa
gli avesse detto nell’orecchio l’Orso: E quello gli rispose:” di non viaggiare
più con dei compagni che nel pericolo non restano al tuo fianco”. (Esopo)
IL LUPO
Le disgrazie del Lupo non sono tutte imputabili a Cappuccetto rosso, alle favo-
le di La Fontaine, a quelle di Esopo o ai racconti di Daudet, e nemmeno all’im-
maginario collettivo Cristiano, che durante il Medioevo vedeva nel Lupo
l’incarnazione del demonio, delle forze oscure del male e del peccato. Della sua
cattiva fama sono responsabili anche i contributi di importanti zoologi e di nar-
ratori. Nell’ottocento si leggono dei trattati che definiscono il Lupo: “il più cat-
tivo degli animali feroci” e in altre occasioni lo si fa conoscere all’uomo attraverso comunicati e manifesti che insegnano : “i feroci costumi del Lupo, noci139
vo da vivo e inutile da morto”. Per ribaltare le opinioni in favore del Lupo, biso-
gna attendere le esperienze dei ricercatori
cresciuti alla scuola di K. Lorenz che lo
hanno studiato a fondo. Oggi, alla luce
delle ultime (tardive) esperienze, se potes-
se parlare, solo la Pecora potrebbe dire:
“crepi il Lupo”. Il destino dell’Uomo e del
Lupo si intrecciano sin dai tempi della
LUPO
preistoria. Essi hanno infatti gli stessi gusti e mirano entrambi alla stessa selvaggina. Ma è quando l’Uomo si dedica all’allevamento che la lotta si fa più
spietata. La Pecora è una preda facile e abbondante, e il Lupo diventa un nemico pericoloso e organizzato. Più di tutti, i pastori ne conoscono la strategia, e le
varie tattiche, soprattutto se il terreno è innevato, ma nonostante ciò, e pur con
l’aiuto di Cani custodi, non riescono quasi mai a evitare che il Lupo faccia delle
vittime. E l’Uomo capisce che non può sottrarsi alla forza e all’astuzia del Lupo
e, se vuole salvare le sue greggi, deve attaccarlo e ucciderlo. Così, sempre nel-
l’ottocento, viene decretata la fine di questo animale feroce. Si organizzano tre
volte all’anno, delle battute di caccia, mentre trabocchetti, trappole e bocconi
avvelenati vengono disseminati in continuazione sul terreno durante tutto
l’anno. Lo combattono pastori, cacciatori, ma, per solidarietà, anche uomini del
paese che compiono altri lavori, e i nobili. In Francia, per esempio, al tempo del
suo regno, anche Luigi XV mandò a caccia del lupo i suoi luogotenenti e le sue
particolarmente addestrate mute di cani. Oggi il Lupo è un animale che vive in
piccoli branchi nei boschi più inaccessibili, e in tutto il mondo occidentale, la
sua riabilitazione è in atto grazie anche ad un graduale mutamento di mentali-
tà. Il Lupo rimane comunque un magnifico predatore da controllare, ma che di
certo non è gratuitamente cattivo. Una delle tante caratteristiche tipiche del
Lupo, come del resto di altri Canidi, è quella di possedere un muso appuntito,
grandi orecchie erette, arti lunghi, muscolatura del corpo molto sviluppata, coda
140
lunga e folta. Possiede cinque dita nelle zampe anteriori e quattro in quelle
posteriori. Il Lupo non è particolarmente veloce, ma piuttosto resistente; può
correre anche per trenta kilometri prima di arrendersi e letteralmente cadere a
terra perché sfinito; nessuna preda è in grado di riuscire a reggere questo con-
fronto. I Lupi, nella bella stagione, vivono isolati, nutrendosi di piccole prede
come roditori e uccelli; d’inverno invece si riuniscono in branchi per cacciare
animali molto più grandi come Cervi e Caprioli. I piccoli di Lupo nascono
generalmente alla fine dell’inverno in una tana appositamente costruita dalla
madre, ed è la stessa madre a liberarli dalla placenta, recidendo il cordone
ombelicale con gli incisivi. I cuccioli hanno una crescita molto rapida e ben pre-
sto imparano a nutrirsi di carne rigurgitata dai genitori. All’età di 7/8 mesi, i gio-
vani Lupi sono già in grado di accompagnare gli adulti nelle varie scorribande,
pur limitandosi ad apprendere le tecniche di caccia usate, partecipano agli inseguimenti, si cimentano negli attimi finali della cattura, fino ad imparare, dopo
un certo periodo di “apprendistato”, non solo i vari sistemi di caccia, ma ancora di più le abitudini delle prede. Queste “lezioni” talvolta li costringono a per-
correre decine di chilometri; d’inverno, quando con le zampe affondano nella
neve, per risparmiare preziose energie avanzano in fila indiana ricalcando esat-
tamente le orme del primo e alternandosi poi alla guida. Un comportamento
sociale va individuato nell’ululato con cui i Lupi si richiamano, mantenendosi
in contatto anche se molto lontani. L’olfatto è probabilmente l’elemento fonda-
mentale per il riconoscimento individuale e la coesione del branco. I Lupi oltre
ai segnali odorosi emessi con l’urina e le feci, possiedono sopra la coda delle
ghiandole rese visibili dalla presenza di peli più scuri, il cui secreto svolge una
parte importante nel riconoscere i vari individui. I Lupi si riuniscono in branchi
che possono arrivare anche a trenta unità. Le dimensioni di un branco sembra-
no condizionate almeno da due fattori: il numero minimo di componenti in
grado di stanare e uccidere una preda, e il numero massimo per potersi nutrire
sufficientemente della medesima. Per quanto riguarda l’aggressività del Lupo,
per troppo tempo si è favoleggiato intorno ad una ferocia che nella realtà non è
141
mai esistita. Molto raramente, e solo se riuniti in branco e spinti dalla fame, i
Lupi attaccano l’Uomo, prima comunque, aggrediscono altri animali eliminan-
do le bestie malate e vecchie, per questa selezione i Lupi possono essere consi-
derati preziosi per l’Uomo stesso. Il Lupo è considerato l’antenato del Cane
domestico che l’Uomo avrebbe selezionato partendo da una sottospecie: il Lupo
asiatico. Incapace di “lappare” come i Cani, i Lupi aspirano l’acqua da bere pro-
ducendo un sibilo molto caratteristico. Ha un comportamento sociale, una
gestazione di circa 60 giorni e può partorire da 2 a 10 piccoli.
La fiaba
“Il Lupo e l’Airone”
Anche sul Lupo esistono tantissime fiabe, segno evidente di quanto la storia di questo canide sia stata continuamente vicina all’uomo e agli altri animali. Si narra
che un Lupo, dopo aver ingoiato un grande osso, se ne andasse dolorante in giro
cercando qualcuno che lo liberasse. Incontrato un Airone, lo pregò di estrargli
quell’osso che tanto dolore gli procurava, affermando che alla fine lo avrebbe
ricompensato. L’Airone accettò e conficcata la sua testa munita di un lunghissimo
becco nella gola del Lupo, estrasse l’osso e quindi reclamò il suo compenso. Ma
il Lupo gli rispose: “caro mio, non sei contento di aver tirato fuori la tua testa
dalla bocca di un Lupo? perché allora osi chiedere un compenso”. (Esopo)
LA LEPRE
Non sembrerebbero esserci grandi differenze fra la Lepre e il Coniglio selva-
tico, se non per le orecchie più grandi e per gli arti maggiormente sviluppati
della prima. In realtà le diversità sono molte. La Lepre ha come suo habitat un
avvallamento del terreno un po’ riparato (la sua cuccia) dove partorisce i suoi
leprotti. Il Coniglio si scava invece una tana con più uscite, nella quale si
costruisce un nido molto soffice costituito di fili d’erba, foglie e, soprattutto,
molto pelo che la femmina si strappa dal corpo e sopra il quale partorirà i suoi
142
piccoli. I cuccioli di Lepre vengono partoriti senza che la madre appronti per loro
nemmeno un semplice giaciglio e nasco-
no con gli occhi già aperti e con il corpo
coperto di pelo. Saranno subito lasciati
soli dalla madre che starà con essi sola-
mente durante le ore notturne e per lo
stretto tempo necessario ad allattarli.
Diversamente, i cuccioli di Coniglio
LEPRE
nascono “nudi”, con gli occhi chiusi e avranno bisogno di molto tempo, prima
di poter abbandonare la tana e seguire la madre. Alle prime ombre della sera,
osservando con attenzione un campo di erba medica, terreno prediletto per
“pascolare”, si possono osservare le Lepri, che, rizzate sugli arti posteriori,
sembrano fare a pugni come se fossero dei veri pugili. Potrebbero essere due
maschi che si affrontano per la difesa del territorio, ma molto più spesso si trat-
ta di una femmina che intende tenere alla larga il maschio perché non ancora
pronta per l’accoppiamento. La Lepre tende ad alzarsi in continuazione sulle
zampe posteriori e da questa posizione, muovendo alternativamente in avanti
e indietro le sue lunghe orecchie (l’udito, considerati i grandi padiglioni auricolari, è sicuramente il suo senso maggiormente sviluppato), controlla che
nelle vicinanze del suo pascolo non ci siano predatori in agguato. Questo com-
portamento lo ripete ogni qualvolta percepisce un sia pur piccolo rumore. Un
altro particolare curioso che riguarda la Lepre è la tattica che addotta per far
perdere le proprie tracce ad eventuali predatori. Non è mai una corsa cieca
bensì un capolavoro di astuzia, teso appunto a confondere il suo inseguitore.
Non segue mai uno spostamento retto, ma compie delle traiettorie che la vedo-
no spostarsi a destra e a sinistra, tornare sui propri passi e compiere dei gran-
di balzi; tutto questo confonde il predatore, se a questo uniamo la sua maggiore caratteristica, la velocità, la cattura della Lepre diventa difficoltosa per qual-
siasi predatore.
143
Fino a una quarantina d’anni fa, la consegna di un piccolo leprotto ai guardia-
caccia, veniva compensata con una lauta “mancia”. Era pertanto naturale poter
vedere per la campagna e nella golena del Piave gruppi di ragazzi a “caccia”
di cuccioli. Particolare curioso, ma d’uso, era quello che al piccolo leprotto
veniva tagliato un pezzetto di orecchio prima di rimetterlo in libertà; era questa sicuramente una forma piuttosto cruenta per “marchiarlo”.
Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 40 giorni e può partorire da 4 a 10 piccoli.
La fiaba
“ Le Lepri e le Ranocchie”
Un giorno le Lepri, riunite tutte insieme, stavano lamentandosi della loro vita,
sempre di corsa, piena di insidie e di paure, essendo prede ambite da tanti predatori. Meglio dunque farla finita una volta per tutte, che vivere male tutta la
vita. Presa questa decisione si lanciarono tutte verso lo stagno per buttarsi dentro e affogare. Le Ranocchie che sostavano tutto intorno all’acqua dello stagno,
appena si accorsero del loro avvicinarsi si buttarono immediatamente in acqua.
E allora una delle Lepri che sembrava capeggiare le altre disse: “fermiamoci
amiche è meglio risparmiarci questo orribile passo, perché avete visto anche
voi, che, in fatto di paura e di insidie c’è chi sta peggio di noi”. (Esopo)
IL CONIGLIO
Sin dai tempi più remoti, i Conigli godettero, presso gli uomini di molto inte-
resse, e non solo per la bontà delle carni e l’utilità della loro pelliccia, ma
anche per il grazioso aspetto e per l’indole dolce e sottomessa.
Un’usanza gentile ad esempio, ancora in vigore nei paesi anglosassoni, ma
che già era viva nell’antica Grecia, ha fatto di loro il simbolo dell’abbondanza, della fortuna, della felicità familiare e della figliolanza numerosa.
La figura del coniglietto appare spesso nei biglietti di auguri che vengono
144
scambiati specialmente durante le feste Pasquali fra amici e parenti.
Famose sono ancora le “Conigliette” (in realtà delle bellissime ragazze) che
appaiono in una nota rivista, e molto apprezzate sono le altrettanto bellissime
cameriere di tanti ristoranti “in”, “vestite” appunto da conigliette.
Altre prove dell’interesse che l’uomo ha sempre avuto nei confronti di questi
animali possiamo trovarle nella letteratura popolare di ogni paese in quanto
molto spesso essi sono stati scelti come protagonisti di fiabe e racconti,
soprattutto quando si voleva indicare la timidezza, la mitezza e anche la
paura.
Il Coniglio, nella storia, ha rivestito un ruolo molto importante tanto da scomodare Plinio il Vecchio che nel primo secolo dopo Cristo, dà notizia dei
mezzi escogitati per liberarsi dai Conigli
che arrecavano danni ingenti alle coltiva-
zioni, lodando le imprese dei Furetti che
li spingevano fuori dalle tane per essere
catturati.
Plinio scrive ancora come i Romani si
cibassero di “laurices”, una pietanza
conosciuta dagli Spagnoli a base di neonati di Coniglio. Sull’abbondanza di questo roditore, e sull’importanza che ha
sempre avuto nella vita dell’uomo, si
CONIGLIO
legge in un vecchio trattato che nel 1.337 in Sicilia un mercante richiese a dei
cacciatori la fornitura di 10.000 pellicce di Coniglio e che costoro gliene con-
segnarono 850 in poche settimane. I suoi resti fossili più antichi, comunque,
sono stati trovati in Spagna e datano che la sua presenza risale a oltre 500.000
anni or sono, mentre si ha notizia certa che nel 1.555 il Coniglio non era anco-
ra addomesticato nè tanto meno selezionato.
Lo si apprende in un trattato dell’epoca in cui lo zoologo in questione, scrive
di conoscere solamente dei Conigli selvatici. E bisogna arrivare nella secon145
da metà dell’Ottocento per avere notizie certe del suo allevamento, anche se
molto recentemente, e solo intorno al 1950, si inizia ad allevarlo seguendo
moderne tecnologie in maniera intensiva.
Come del resto tutti i roditori, il Coniglio è molto prolifico: si pensi che una
femmina è in grado di partorire anche 7/8 cucciolate di 5/10 piccoli l’una per
ogni anno; a questo proposito va ricordato come nel 1859 gli Inglesi pensaro-
no di introdurre 12 coppie di Coniglio in Australia.
Ebbene in pochi anni divennero centinaia di milioni arrivando a distruggere
fino alle radici alberi e coltivazioni, tanto che, per riportare un certo equili-
brio, il governo di quel paese dovette promuovere una campagna di abbatti-
mento di proporzioni gigantesche.
Gli antichi Romani poi, avevano l’abitudine di introdurre una coppia di
Conigli nelle varie isolette sparse nel loro impero. In tempi brevi, questi animali diventavano tanto numerosi da costituire una insostituibile fonte di cibo
per eventuali approdi fortuiti in quelle terre diversamente inospitali.
Quella di introdurre un animale nuovo in un territorio non suo, non è comunque una buona cosa, perché fa sì che egli, essendo sconosciuto e non facendo
parte della catena alimentare dei predatori presenti, non venga da essi ricono-
sciuto e quindi predato e possa così riprodursi in maniera abnorme causando
alla fine dei guai e degli squilibri notevoli.
Una espressione che si usava un tempo, parlando di una donna che aveva
avuto molti figli (talvolta 15/20) era questa: “a Maria la e come na cunicia”
(La Maria è prolifica come una coniglia che appunto alleva molti figli).
Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e può parto-
rire da 5 a 10 piccoli.
146
“Per poter salvare la fauna selvatica bisogna
riuscire a trovare il giusto compromesso tra il massacro brutale
e insensato e lo sciocco sentimentalismo. Entrambi
condurrebbero infatti alla perdita e all’estinzione totale
degli animali.”
Theodore Roosvelt
IL RATTO GRIGIO
Ha raggiunto l’Europa sicuramente molto tempo dopo il Ratto nero, prove-
nendo dalle regioni della Cina e della Mongolia. Egli sa adattarsi meglio di
un qualsiasi altro animale negli ambienti che frequenta. In pratica si può tro-
varlo ovunque pur se predilige le zone umide. Rimane in ogni modo un tipi-
co “commensale” dell’uomo del quale, oltre agli edifici destinati alle più varie
attività, può, invadere anche le sue abitazioni. Vive soprattutto nelle fogne,
nelle cantine e nei cortili, come nei villaggi e nelle aree rurali, ma anche nel
cuore delle grandi metropoli. Il Ratto scava delle gallerie che hanno più di un
ingresso e sono molto ramificate con camere adibite a soggiorno ed altre a
ripostiglio, dove accumula grandi quantità di alimenti. Talvolta ama spinger-
si anche molto lontano alla ricerca di fonti di cibo particolarmente gradite: per
esempio in particolari periodi dell’anno
in cui sui campi avviene la maturazione
del frumento e del mais, il Ratto è attratto irresistibilmente dall’improvvisa e
abbondante disponibilità di questi ali-
menti molto appetitosi e, pur di raggiun-
gerli, non esita a percorrere ogni notte
diversi chilometri. Durante questi sposta-
menti, egli segue sempre lo stesso percorso lasciando dietro di sè delle tracce
che non tardano ad essere scoperte dai
RATTO
predatori che spesso si appostano nelle vicinanze di questi “camminamenti” e
lo catturano. I Ratti vivono in gruppi abbastanza numerosi i cui componenti
discendono probabilmente da una sola femmina. Si tratta di gruppi familiari
all’interno dei quali si stabilisce una certa gerarchia con uno o più maschi
dominanti e altri subordinati. Secondo alcuni studiosi, la dominanza sembra
essere in rapporto, non tanto all’età, quanto al peso corporeo dei maschi. Le
149
stesse femmine non accetterebbero mai di essere coperte da maschi più leg-
geri di loro. I Ratti grigi sono animali notturni; tuttavia, in presenza di forti
densità di popolazione, è possibile vedere qualche individuo anche durante il
giorno: si tratta senza ombra di dubbio di esemplari di rango inferiore ai quali,
durante le ore di attività notturna, gli individui dominanti precludono le vie
d’accesso alle fonti di cibo. Diversamente dal Ratto nero, quello grigio tende
ad essere anche carnivoro e spesso si ciba di insetti, crostacei, e piccoli di
uccello nonché delle loro uova. Non disdegna neppure le carogne di altri ani-
mali e sostanze organiche in decomposizione frequentando discariche, fogne
e mattatoi. Come altri roditori è un animale previdente che accumula riserve
alimentari nel profondo delle sue tane. Quando nuota mantiene la coda, che è
lunga quanto il suo corpo, fuori dall’acqua per bilanciarsi. L’uomo può
ammalarsi di leptospirosi, una malattia letale, che potrebbe contrarre entran-
do in contatto con dell’acqua, di un fossato o di un canale, intrisa dall’urina
di questi animali. E’ un abile nuotatore anche in apnea, ed è un altrettanto
agile arrampicatore. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 23
giorni e può partorire da 5 a 10 piccoli.
IL TOPOLINO
Il Topolino, come il Ratto grigio, è anch’ esso specie molto vicina all’uomo e
cosmopolita. Molto diffuso e abitatore delle nostre case, anche in apparta-
menti situati a diversi piani di altezza; può però anche vivere allo stato semi-
selvatico preferendo terreni lavorati, dove si scava delle tane in cui ricava una
grande camera per abitazione e altre piccole celle dove poter immagazzinare
delle provviste per i periodi di carestia. Si è accertato negli ultimi anni un evi-
dente aumento della sua popolazione e ciò sembra sia da attribuire ad un note-
vole incremento di alcune colture cerealicole tipo mais, frumento e girasole e
al contemporaneo impiego di mezzi meccanici per la loro raccolta. L’uso di
questi mezzi comporta una maggiore “perdita” sul terreno del prodotto matu150
ro coperto, a trebbiatura avvenuta, da un alto strato di paglia. Pertanto, in que-
sto ambiente ideale, egli può rimanere per qualche mese trovando cibo, un
ottimo rifugio e motivazioni valide a stimolare gli accoppiamenti dando ori-
gine in tal modo a rapidi incrementi della popolazione. Anche il Topolino
domestico vive in gruppi familiari, all’interno dei quali viene stabilita una
certa gerarchia fra i maschi; questa dominanza serve soprattutto nel mantenere i
territori acquisiti. Anche in questo caso
gli individui subordinati tendono ad ali-
mentarsi nei momenti in cui sono inattivi
i maschi dominanti. L’urina di questi animali abbondantemente sparsa all’interno
del territorio frequentato, dagli stessi
produce il tipico “odore di topo” che
immancabilmente determina la loro pre-
senza in quell’ambiente e ciò sembra
TOPOLINO
giocare un ruolo determinante nella vita sociale del gruppo. Un’altra curiosi-
tà di questo animale è rappresentata dal fatto che ogni notte è solito percorre-
re il suo territorio, esaminando con cura ogni eventuale cambiamento o ogni
nuovo oggetto che possa esservi stato introdotto di recente. La femmina è più
grande e robusta del maschio. Come il Ratto, viene allevato come cavia per
la ricerca scientifica; la sua coda ha la medesima lunghezza del suo corpo,
costruisce il suo nido molto simile a quello degli uccelli, usando sovente
anche gli stessi materiali. Ha un comportamento sociale e una gestazione di
circa 21 giorni e può partorire da 4 a 9 piccoli.
La fiaba
“ I Topi e le Donnole”
Topi e Donnole erano in guerra fra loro, e i Topi non facevano che perdere.
Allora i Topi decisero di riunirsi in assemblea e discussero sul fatto che forse
151
queste sconfitte avvenivano perché non avevano dei capi. Scelsero allora
alcuni di loro e li nominarono capitani.
Questi, una volta accettato l’incarico, volendo distinguersi dagli altri, si fece-
ro costruire delle corna e se le fissarono sulla testa. Iniziò una nuova batta-
glia e l’esercito dei Topi, nonostante che a comandarli ci fossero questi
comandanti, ebbe ancora una volta la peggio.
Ma mentre i topi semplici soldati in fuga, si poterono infilare nelle loro tane
e riuscirono a salvarsi, i capitani, non vi poterono entrare perché impediti
dalle loro grandi corna, che portavano sulla testa e vennero così presi e divo-
rati dalle Donnole. (Esopo)
IL PIPISTRELLO O NOTTOLA
La sua caratteristica principale è quella che, pur essendo un mammifero, rie-
sce a volare. Non è dotato di ali vere e proprie bensì di “patagi”, ovvero di
sottilissime membrane tese tra gli arti inferiori e anteriori che hanno comun-
que, per il Pipistrello (Nottol), la medesima funzione di un’ala per un uccello.
A differenza di quest’ultima che riesce a
portare molto in alto un uccello, il patagio del Pipistrello gli consente un volo a
bassa quota, o comunque non più alto di
una ventina di metri dal suolo. Gli arti
PIPISTRELLO
posteriori, sono molto più sviluppati
rispetto a quelli anteriori e le dita sono
munite di forti unghioni, che permettono
ai Pipistrelli di appendersi ai rami degli
alberi, a delle fenditure o a pareti di roccia con la testa all’ingiù durante il
riposo. Il Pipistrello in riposo avvolge il patagio attorno al corpo, come se
fosse un mantello. Conduce una intensa vita notturna alla continua ricerca di
152
cibo che trova intorno ai lampioni, che con la loro luce attirano nugoli di
Pappataci e Ditteri. Quello che colpisce maggiormente è il suo volo fatto di
guizzi improvvisi, brevi picchiate, continue e rapidissime deviazioni. La spiegazione di tutto ciò sta nelle orecchie dotate di ampi padiglioni auricolari che
funzionano come un diapason.
Il Pipistrello emette dei suoni che colpiscono degli oggetti e da questi vengo-
no riflessi in forma di eco e captati dalle sue strutture auricolari. Il tempo di
ritorno dell’eco determina la distanza dell’oggetto colpito. Si consideri che il
Pipistrello emette un numero ragguardevole di impulsi, anche 14/15 al secon-
do, ognuno dei quali della durata di 5 millesecondi.
Emettendo questi ultrasuoni, i Pipistrelli contraggono un particolare muscolo
che impedisce loro di percepire suoni a bassa e media frequenza, facilitando
pertanto la percezione dell’eco proveniente dagli oggetti o dagli insetti volan-
ti. Questi impulsi consistono in onde ad altissima frequenza non udibili da
parte dell’orecchio umano e possono essere emessi sia dalla bocca che dalle
narici.
La frequenza del suo battito cardiaco raggiunge in momenti di grande stress,
1200 pulsazioni al minuto.
Può succedere che un grande spavento, come quello procurato da un forte
tuono, ne provochi la morte.
Raramente può fare la sua comparsa anche di giorno volando a bassa quota
alla ricerca di insetti che sono il suo alimento base. Difficilmente esce dal suo
rifugio quando piove.
Una credenza popolare ancora molto attuale, vuole che il Pipistrello possa
annidarsi fra i capelli delle donne, soprattutto se questi sono lunghi e ricci, e
non se ne voglia più andare, tanto che la malcapitata oltre alla grande paura
dovrà ricorrere alle forbici e perdere così la sua fluente chioma. Non si è mai
assistito ad un fatto del genere, tuttavia la credenza è ben lungi dal venire
meno. In realtà, la donna o l’uomo rappresentano per lui un ostacolo che gra-
zie alla sua ecolocazione (il diapason) evita con certezza assoluta.
153
Ha un comportamento sociale e una gestazione di circa 70 giorni e può par-
torire da 1 a 3 piccoli.
La fiaba
“Il Pipistrello, il rovo e il Gabbiano”
Un Pipistrello, un rovo e un Gabbiano fecero società e decisero di darsi al
commercio. Il Pipistrello si fece prestare del denaro e lo mise in comune; il
rovo prese con sé delle stoffe; il Gabbiano, ci mise del rame, e tutti e tre si
imbarcarono sulla nave per iniziare la loro attività commerciale. Durante la
navigazione si scatenò una violenta tempesta, e la nave colò a picco. I tre riu-
scirono a mettersi in salvo ma perdettero tutto il loro carico. Da allora il
Gabbiano è sempre in agguato sugli scogli, per vedere se il mare da una parte
o dall’altra gli restituisce il suo rame; il Pipistrello, per paura dei suoi cre-
ditori di giorno non si fa vedere ed esce solo di notte per cercarsi da mangia-
re; il rovo, poi, si aggrappa ai vestiti dei passanti, per vedere se riconosce le
sue stoffe. (Esopo)
IL MAIALE
E’, tra gli animali domestici, uno dei più preziosi. Per secoli ha rappresenta-
to la ricchezza di milioni di famiglie; del Maiale si dice infatti che “non si
butta via niente”. L’addomesticamento del Maiale, che discende sicuramente
dal Cinghiale, risale a circa 6.000 anni fa e furono ancora una volta i Cinesi
che compresero per primi l’importanza alimentare di questo animale. Dalla
Cina si sarebbe poi diffuso verso i paesi occidentali. Greci, Romani ed
Egiziani lo hanno raffigurato in opere e riproduzioni artistiche apprezzando-
lo per le sue carni molto tenere e saporite. Solo gli Ebrei e i Mussulmani, per
loro motivi religiosi, ripudiano il Maiale ritenendolo un animale immondo. La
pelle molto spessa e robusta viene chiamata “cotenna” ed è nella maggior
parte delle razze ricoperta da setole più o meno dure. Sotto la cotenna, si trova
154
uno strato di grasso che può arrivare anche a 8 cm chiamato “lardo”, molto
apprezzato e considerato il “prosciutto bianco”. Curioso è il muso denomina-
to “grugno” molto mobile e ricco di muscoli, con il quale i Maiali “grufola-
no” nel terreno alla ricerca continua di cibo, dissotterrando radici, tuberi, ma
raccogliendo anche ghiande, castagne e frutta varia. Il Maiale non disdegna di
nutrirsi neppure di qualche piccolo animale come Topi, Vermi e Chiocciole.
Mangia infatti di tutto grazie anche alla sua particolare e robusta dentatura
formata da 44 denti. I piccoli quando nascono (anche 12-13 per volta) pesa-
no circa 1 kg, ma in 18 mesi arrivano facilmente a pesare più di 2 quintali. La
sua carne si può mangiare sia fresca che conservata. In questo caso sono
molto apprezzati i prosciutti, le mortadelle, le salsicce, gli zamponi e i salumi
in genere. Anche il grasso viene utilizzato; per liquefarlo, viene fatto bollire a
lungo, ottenendo in tal modo lo “strutto”
che viene poi usato per friggere diverse
pietanze e in particolar modo il pesce. Un
tempo, per conservare a lungo lo strutto
senza che potesse irrancidire (quando
non c’erano i frigoriferi), dopo la bollitu-
ra e prima che si raffreddasse, e quindi
che si rapprendesse, veniva introdotto
nella vescica dello stesso animale ucciso,
che veniva preventivamente allargata a
dismisura soffiandoci dentro e fatta
MAIALE
essiccare. Dalla “sugna”, che è il grasso del ventre, si ottiene una sostanza
grassa, bianca e inodore che è impiegata per la preparazione di creme e poma-
te. Neppure il sangue andava disperso; la morte del Maiale era piuttosto
cruenta e per sgozzarlo veniva messo con il collo ad un livello più basso del
resto del corpo, in modo che il sangue fuoriuscisse il più velocemente possi-
bile così da lasciare le carni bianche; il sangue quindi veniva raccolto in una
pentola. Una parte veniva lasciata raffreddare e conservata per mangiarla uni155
tamente al fegato stufandola con pomodoro burro e cipolla, era questo un tipi-
co e appetitoso piatto da consumarsi la sera stessa della macellazione con la
polenta. L’altra metà del sangue invece, mentre ancora usciva dalla ferita
della povera bestia, veniva mescolata in continuazione con un apposito
mestolo di canna di bambù fatto a “croce”, perché non si rapprendesse e anco-
ra calda veniva unita a zucchero, uvetta passa, pinoli, noci, fichi secchi, a
seconda, delle abitudini della famiglia e successivamente prima che si raffred-
dasse del tutto, insaccata come se fosse un salame.
Conservato in un luogo fresco, diventava un dolce prelibato (nel trevigiano è
riconosciuto con il nome di “baldon”), che la famiglia si divedeva a piccole
fette tutte uguali (a ogni un a so parte), che toccavano ad ogni membro della
famiglia. Del Maiale tutto veniva utilizzato: con le setole si fabbricavano (e
si fabbricano ancora oggi) spazzole e pennelli, mentre le unghie servivano per
ottenere dei fertilizzanti.
Non si buttava via nemmeno la mandibola inferiore; essa veniva raschiata a
dovere e posta sul fondo del mastello in prossimità del foro di uscita della
“lisciva”. La mandibola grazie alla sua particolare conformazione teneva sol-
levati i panni messi a lavare consentendo al tempo stesso la fuoriuscita del
“detersivo”.
Ha una gestazione di circa 125 giorni e può partorire da 6 a 12 piccoli.
IL CAVALLO
Anche oggi che il motore occupa una parte dominante nella vita dell’uomo, il
Cavallo, intelligente generoso e nobile animale, continua ad essere un com-
pagno di vita per l’Uomo nel suo lungo cammino in questa vita terrena. In
Asia e successivamente in Europa, esso compare fin dalla più remota preisto-
ria; in una grotta della Dordogna, in un dipinto che risale a 50.000 anni fa,
appare un Cavallo al galoppo. Ma la storia “moderna” del Cavallo inizia con
le civiltà degli Arii in India, per proseguire in Cina e in Giappone; mentre in
156
Europa bisogna attendere quelle degli
Ittiti e degli Assiri per vederlo protagonista in ogni fatto storico accanto
all’Uomo.
Greci e Romani lo adoperavano per le
loro guerre, per i lavori dei campi, per i
trasporti, nonchè per le loro corse dei
cocchi e per l’equitazione. Avevano per
questo animale una passione tale che
CAVALLO
rasentava il fanatismo. Caligola, l’imperatore pazzo, arrivò a nominare il suo
Cavallo “Incitatus” Senatore, e a fargli costruire una scuderia in marmo pre-
giato con ricche rifiniture e accessori in argento. Dalle tribune del Colosseo,
capace di oltre duecentomila spettatori, si udivano a distanze chilometriche le
grida dei sostenitori che incitavano i Cavalli nelle corse delle quadriglie.
Con la fine dell’impero Romano una delle cose che sopravvisse a tanto sface-
lo, fu proprio l’arte equestre che si venne sempre più affermando come privilegio della nobiltà. Quando nel 1519 il piccolo drappello di soldati spagnoli
capitanato da Cortez si inoltrò fra le gole e i deserti del Messico, suscitò stra-
ordinarie manifestazioni di rispetto e deferenza fra i sudditi di Montezuma.
Gli Aztechi non avevano mai visto un Cavallo e credevano che gli uomini fossero, tutt’uno con l’animale come dei giganteschi centauri, tanto da venerarli
ritenendoli i compagni del loro Dio, Signore del tuono e della folgore, dal
torso d’Uomo e dal corpo belluino.
Oggi con il Cavallo non si va più alla conquista di nuove terre, come non
viene più adoperato nell’aratura della terra o nel traino di pesanti carri carichi
di merci; oggi viene per lo più impegnato nelle corse ippiche, in battute di
caccia, nei circhi, nel gioco del polo, ma ancora di più è diventato un anima-
le di affezione con il quale compiere lunghe passeggiate in luoghi dove diffi-
cilmente l’uomo potrebbe arrivare da solo.
Frutto del lavoro di selezione dell’uomo, esistono decine di razze equine spes157
so assai diverse fra di loro e adatte ai più svariati compiti; ne vanno ricordate
due su tutte, lo Schire, un mastodontico Cavallo da tiro dalle zampe larghe e
pelose e pesante fino a dieci quintali e il Purosangue, frutto di incroci fra
Cavalli arabi ed inglesi, un magnifico campione di velocità e resistenza diven-
tato il dominatore degli ippodromi.
L’Uomo, nei secoli, ha pure scoperto la interfecondità fra il Cavallo e l’Asino
ottenendo dal maschio Cavallo e dalla femmina Asina il Bardotto, scarsamen-
te impegnato perché non presenta evidenti vantaggi; mentre dall’accoppia-
mento inverso si è ottenuto il Mulo, che riunisce in sé le migliori caratteristiche dei parentali: dell’Asino, anche se più alto e pesante, conserva le doti di
pazienza e di resistenza; della Cavalla la celerità e una indocilità proverbiale
che lo ha reso famoso. Entrambi questi ibridi sono negati alla riproduzione e
il Mulo nella maggior parte dei casi, è muto.
Ha una gestazione di circa 360 giorni e partorisce di norma 1 piccolo.
IL CANE
Tante sono le storie vissute dal cane che raccontano la sua grande dedizione
nei confronti non solo dell’Uomo, ma molto spesso anche delle sue cose.
Omero racconta in uno dei più toccanti episodi dell’Odissea, la consacrazio-
ne della fedeltà canina, di quell’amicizia che non conosce oblio o tradimento.
Il vecchio Argo se ne stava sdraiato al sole sopra un mucchio di rifiuti con gli
occhi semichiusi.
Nella sua casa, che era stata di Ulisse, nessuno da tempo si curava più di lui,
e nessuno sperava più di vedere ritornare l’eroe della guerra di Troia. Il pove-
ro Cane, stanco, vecchio e malandato si era disteso come al solito nel suo
angolo, forse “sognando” l’amato padrone.
Ma ecco che una voce riconosciuta lo scuote dal suo torpore, un uomo curvo
su se stesso, lacero e sporco appare sotto il porticato e lo chiama per nome.
Argo non ha dubbi: l’odore, i gesti, ma soprattutto la voce dello straccione,
158
fanno alzare sia pure a fatica il vecchio Cane che si trascina fino ai piedi del
nuovo venuto fissandolo con tutto l’amore di cui è capace, dimenando debol-
mente la coda.
È proprio lui. È Ulisse che ritorna dopo vent’anni di lontananza, irriconosci-
bile per tutti, anche per sua moglie e per suo figlio, ma non per il suo Cane.
E mentre Ulisse commosso si china per accarezzarlo, il vecchio Argo, muore
pago di gioia per aver rivisto il suo padrone per un’ultima volta e di saperlo
ancora a casa. Tremila anni fa come oggi, l’uomo ha sempre trovato nel Cane
un amico fedele, disposto a servirlo in ogni momento e spesso anche al costo
del sacrificio della propria vita. Ma quando ha avuto inizio questa straordinaria amicizia tra l’Uomo e il Cane?
Nessuno lo può dire con certezza, ma
sicuramente in epoca lontana, e si ritiene
che sia stato proprio il Cane circa 12.000
anni or sono, ad iniziare con l’Uomo quel
processo di addomesticazione che è poi
continuato con tanti altri animali. Reperti
fossili indicano con certezza che, già
9.000 anni or sono, l’Uomo iniziò a ope-
rare le prime selezioni, anche se furono i
Romani ad accentuare l’impegno tanto
CANE
da definire forme e taglie presenti ancora oggi nelle razze moderne.
E sempre i Romani iniziarono ad impiegare i Cani sia per la caccia, sia per la
guardia di altri animali che per la compagnia. Oggi si ha ragione di ritenere
che tutte le razze di Cane, indipendentemente dalla diversa forma e taglia,
discendano dal Lupo grigio. Un processo di selezione sviluppatosi in oltre
4.400 generazioni, per passare dal progenitore citato, per esempio, al piccolo
Cane da “grembo” il Chiuauha. Questo lungo lavoro ha portato alla creazio-
ne di animali assai diversi fra di loro sia per la diversa struttura fisica, sia per
attitudini, ma tutti dotati di quelle particolari doti di fedeltà, di prontezza, e
159
spesso di sacrificio, che hanno fatto preferire il Cane sopra ad ogni altro ani-
male. Si ha ragione di ritenere che il primo impegno selettivo, da parte
dell’Uomo, sia stato effettuato per ottenere dei buoni Cani da pastore ai quali
affidare i greggi. Tipici, in questo caso sono il Pastore Maremmano e quello
Bergamasco; soggetti molto forti e aggressivi, atti a rincorrere le pecore
sbrancate e a dividere nel gregge i maschi che litigano, anche se il più noto è
il Cane da pastore Tedesco apprezzato per la sua straordinaria intelligenza,
per la sua forza e per la sua agilità.
Questa razza è oggi particolarmente apprezzata come Cane poliziotto, come
guida per i ciechi e come Cane da guerra. Molti lo chiamano “Cane Lupo”
considerata la rassomiglianza con il suo feroce antenato. Ma le razze canine
sono numerosissime, più di quanto ne possiamo elencare, come numerosi
sono i compiti per cui sono state selezionate. Dopo i Cani da pastore, possia-
mo citare i Cani particolarmente selezionati per la guardia, e, fra di essi, il
Molosso, il gigantesco Alano, il Boxer, il Mastino. Tutti dotati di una musco-
latura straordinaria e di mascelle robustissime in grado di incutere timore a
qualsiasi male intenzionato.
Vanno ricordati poi i Cani da utilità: a tutti sono note le imprese di tanti sal-
vataggi compiuti in montagna dal Gran San Bernardo, che viene considerato
il gigante del mondo canino. Così come va ricordata l’abilità del nuoto dei
grossi Terranova, anch’essi spesso impiegati nei salvataggi in acqua. Nel
“profondo nord” sono stati selezionati per il traino delle slitte dei Cani che riescono a percorrere decine di chilometri ad una temperatura di 40° sotto zero
come i Samoiedo, l’Alaskan Malamute, il Groelandese, il Siberian Huski.
Questi animali, sono stati, prima dell’avvento della meccanizzazione, vera-
mente insostituibili sia per il trasporto delle merci che dell’Uomo stesso, in
ambienti e in condizioni metereologiche particolarmente difficili. Tantissime
sono poi le razze dei Cani da caccia selezionate ognuna per un tipo di questa
attività, e in questo caso, non va dimenticato come la caccia per secoli sia
stata essenziale per la sopravvivenza dell’Uomo e allora vanno ricordati: i
160
Setter, il Labrador, il Pointer, il Bracco, lo Spinone, il Bassotto, i Levrieri, i
Segugi. Infine vanno ricordati i Cani da compagnia (pur se tutte le razze, a
prescindere dalle loro particolari mansioni per le quali sono stati selezionati,
sono comunque ottimi compagni del proprio padrone nella vita di tutti i gior-
ni), il Chiuauha, gli Spitz, i Barboni, il Pechinese, il Maltese, tanto per citar-
ne alcuni, che svolgono un ruolo importante nella vita di persone sole, anzia-
ni e handicappati. Oggi come gli Uccelli e i Gatti, anche i Cani, soprattutto
quelli da compagnia, sono considerati molto utili nella pet terapy. Ha una
gestazione di circa 62 giorni e può partorire da 4 a 10 piccoli.
La fiaba
“Il Cane, il Gallo e la Volpe”
Un Cane e un Gallo erano diventati amici e decisero di fare un viaggio insie-
me. Giunta sera si fermarono per dormire. Il gallo salì sopra un albero e il
cane si accomodò sotto il medesimo dove c’era una piccola buca. All’alba il
Gallo, secondo le sue abitudini, incominciò a cantare. Da lontano, una Volpe
lo udì; si avvicinò all’albero sopra il quale stava il Gallo e lo pregò di scen-
dere in quanto voleva abbracciare un animale dotato di una voce così bella.
Il Gallo rispose di svegliare il suo portinaio che stava dormendo ai piedi dell’albero, affinchè gli aprisse l’uscio, dopo di chè sarebbe sceso. Ma mentre la
povera Volpe stava per rivolgersi al portinaio, questi le balzò addosso e la
sbranò. (Esopo)
IL GATTO
“Nella giungla il viandante teme la Tigre, la Tigre teme l’Elefante del rajah;
ma il Gatto selvatico appollaiato su un albero guarda passare il viandante, la
Tigre e l’Elefante del rajah.” Così racconta un vecchio detto indiano. Ma il
Gatto, anche quando scende dall’albero, è sempre il medesimo osservatore,
attento e indifferente di quanto succede intorno a lui.
161
Il Gatto è considerato il principe della casa, così vicino, e così distante, così
familiare, e così misterioso, egli ha da sempre affascinato l’Uomo per questo
suo comportamento, per questa sua imprevedibilità, che lo rendono al tempo
stesso “coccolone” e sfuggente, “ruffiano” e ladro, tanto da rappresentare per
l’Uomo uno degli animali dai quali è maggiormente conquistato. Del resto dal
Gatto è stato impressionato, e lo ricorda con la sua celeberrima frase, lo stes-
so Leonardo da Vinci “il più piccolo dei piccoli felini è già lui stesso un vero
capolavoro”. Anche pur essendo rimasti a lungo distanti, la coabitazione
dell’Uomo con il Gatto, risale alla notte dei tempi. La qualità di cacciatore di
questo piccolo felino, anche se addomesticato, ne ha fatto nei secoli un pro-
tettore naturale di granai e di cucine, tanto è risaputa la sua attitudine alla cac-
cia di roditori nocivi come Topi e Ratti. Tuttavia la sua indipendenza, a volte
vicina all’irriverenza, e le pratiche alle quali fu associato nel Medioevo, offuscarono a lungo la sua immagine. E’ solo più tardi, nel 1800, che il Gatto ritor-
nerà di moda, comparendo soprattutto nei cosiddetti saloni letterari, sul grembo delle dame o accucciato accanto ai piedi dei signori di allora. Diversi arti-
sti, in quel periodo, lo ritraggono nei loro dipinti quale simbolo ormai della
sua addomesticazione acquisita. Ma proprio la sua addomesticazione, rimane
molto misteriosa e non è ancora stata stabilita con certezza la data in cui è iniziata. In Egitto compaiono comunque le prime tracce risalenti al 4.000 a.C.,
quando sembra che questa civiltà lo avesse già addomesticato trasformando-
lo da abile cacciatore a importante predatore di Ratti e Topi, veri flagelli dei
raccolti. La civiltà egizia del resto gli riconobbe un posto fra gli dèi e si assi-
stette così, sotto la XXII dinastia alla comparsa di Bastet, la dèa raffigurata
con la testa di Gatta, simbolo della femminilità, della sensualità, della musi-
ca, della danza e della maternità. Molto più tardi, nel XIX secolo, furono rinvenute numerose mummie conservate perfettamente in sarcofaghi di legno
intagliati con la figura del piccolo felino. Fra gli egizi la sacralità del Gatto
era così forte che un re persiano vinse addirittura una guerra con uno stratagemma: fece legare sugli scudi dei suoi soldati dei Gatti, convinto a ragione,
162
che gli Egizi non avrebbero mai contrattaccato per timore di colpire gli ani-
mali. Alcuni Gatti, gelosamente allevati dagli Egizi, furono rubati dai Greci
in occasione di scambi culturali e commerciali, e in seguito introdotti in
Europa e conseguentemente a Roma. I Romani, secondo quanto afferma
Plinio il Vecchio, hanno imparato successivamente ad apprezzare il Gatto non
solo per le sue qualità di cacciatore, ma
anche per la sua bellezza e per il suo spirito indipendente tanto da essere conside-
rato il simbolo della libertà. Anche gli
Arabi, consideravano il Gatto come
un’anima pura, contrariamente all’imma-
gine che avevano del Cane. Essi, già
prima dell’avvento dell’Islam, adorava-
no il Gatto d’oro, e persino Maometto
dimostrò di avere rispetto e riguardo per
questo animale. Una leggenda narra
GATTO
come il profeta per non svegliare la sua Gatta preferita che stava dormendo-
gli tra le braccia, fece tagliare le maniche del vestito che indossava, e, succes-
sivamente, di averle concesso, il privilegio di cadere da qualsiasi altezza,
sempre sulle zampe senza procurarsi danni e di avere sette vite. In Europa,
con l’avvento del Cristianesimo, il mito del Gatto iniziò a declinare ad ecce-
zione dell’epoca delle crociate, durante le quali si ebbe una temibile diffusione di Ratti, per cui si dovette nuovamente ed interessantemente ricorrere al suo
ausilio. La Chiesa per sradicare il mito del Gatto e i culti pagani ad esso legati, gli attribuì strani poteri malefici, e a centinaia di migliaia questi animali
furono uccisi, crocifissi, e buttati nel fuoco purificatore perché considerati
complici delle streghe e quindi portatori di malefici. L’inquisizione permise
violenze incredibili nei confronti di questi animali tanto da rasentare la loro
estinzione, così il Gatto divenne il simbolo del male e una emanazione di
Satana. Ma nel 1799 fu ancora una volta un’invasione di Ratti che lo riportò
163
in auge e da allora, con l’avvento dell’Illuminismo, vennero meno le super-
stizioni e le crudeltà. Si deve infine a Pasteur, nel 1885, la riabilitazione tota-
le del Gatto; lo scienziato osservò che mentre tutti gli animali possono essere
portatori di malattie attraverso i microbi, viene fatta eccezione per il Gatto,
essendo questi amante della pulizia e dell’igiene. Da allora è storia contem-
poranea fatta di dipinti, racconti e favole su quello che va considerato uno dei
più cari e preziosi amici dell’Uomo. Una delle credenze popolari assai diffuse fino a qualche anno fa (ma che vive in certe zone ancora oggi), voleva che
chi si vedesse attraversare la strada da un Gatto nero, dovesse deviare su altre
vie, perché, continuando a percorrere quella, avrebbe sicuramente incontrato
pericoli e molto spesso la morte. Troppi Gatti neri (visti dall’immaginazione
popolare come gli abiti delle streghe) hanno fatto così una brutta fine, vittime
dell’ignoranza umana e di una sorte che li ha fatti nascere scuri come la notte,
e come il buio dell’umana superstizione. Il 17 febbraio di ogni anno si cele-
bra la giornata mondiale del Gatto. Ha una gestazione di circa 60 giorni e può
partorire da 3 a 6 piccoli.
La fiaba
“La Gatta e Afrodite”
Una Gatta che si era innamorata di un bel giovane, pregò Afrodite di trasfor-
marla in Donna. La dèa, mossa da compassione per questo amore, la trasfor-
mò in una bella ragazza. Così, incontrandola, il giovane se ne innamorò e se
la portò a casa. Un giorno, mentre i due innamorati se ne stavano sdraiati nel
letto nuziale, ad Afrodite venne in mente di controllare se la ragazza pur cambiando corpo, non avesse ancora dentro di sè le attitudini della Gatta. Fece
così cadere nel bel mezzo del letto un bel Topo che la ragazza inseguì e divo-
rò. Allora la dèa indignata per questo comportamento, la ritrasformò in
Gatta. (Esopo)
164
IL BACO DA SETA
Confucio narra in un suo libro che un’imperatrice cinese fu divinizzata e ado-
rata come “dèa della seta” dal suo popolo riconoscente, perché insegnò loro
ad allevare il Baco da seta e a tesserne la sua bava. Ciò avvenne ben 2.600
anni prima di Cristo. La leggenda narra che questa imperatrice, passeggiando
per i suoi giardini, notò strani minuscoli animali. Li osservò per diversi gior-
ni e si accorse che uno di questi bruchi, si avvolgeva su se stesso, formando
un bozzolo, con un filo lucente; aveva scoperto il Baco da seta. Il silenzio
avvolse per molti secoli la scoperta gelosamente custodita dalla corte impe-
riale e solo nel IV secolo d.C., da principio l’India e poi il Giappone, ne ven-
nero a conoscenza grazie ad un curioso stratagemma messo a punto da una
principessa cinese andata sposa al re del Turkestan. Non volendo rinunciare
ai suoi vestiti di seta, nascose fra i fluenti capelli alcune uova del prezioso
bruco, e da allora il Baco da seta sia pur molto lentamente si diffuse in tutto
l’oriente e molto più tardi nel resto del mondo. Sotto l’imperatore Augusto nel
I secolo d.C., Roma iniziò i propri rapporti con il fastoso Oriente così che profumi, oro, e gioielli entrarono nelle abitazioni dei patrizi e la seta divenne il
tessuto preferito dalle nobildonne Romane. I Romani appresero che la seta
proveniva dalla Cina, ma non capirono da quali sostanze essa potesse derivare. Pensarono che si trattasse di un prodotto vegetale proveniente da piante
non presenti in Europa. Passarono ancora molti secoli e furono due monaci,
inviati dell’imperatore Giustiniano, a
portare a Bisanzio, nascosti nelle cavità
dei loro bastoni di viandanti alcuni boz-
zoli del Baco da seta. Fu così che nel giro
di qualche decennio anche in Italia si dif-
fuse l’allevamento del prezioso bruco.
La Cina rimase tuttavia la maggiore pro165
BACO
duttrice tanto che l’itinerario percorso dai mercanti fu chiamato per lungo
tempo “la via della seta”. La sericoltura si diffuse in tutta Europa grazie agli
Italiani e in special modo per merito dei Genovesi che per primi trasferirono
il
commercio
ad
Avignone.
A Firenze, a tutelare il diritto dei setaioli, esisteva la “corporazione della seta”
e furono sempre gli Italiani ad allevare per primi il prezioso bruco sia in
Svizzera che in Inghilterra. Il ciclo riproduttivo del Baco da seta inizia quando l’insetto perfetto esce dal bozzolo e depone le uova dette anche “seme da
Bachi”. Queste uova un tempo si compravano a once e si ponevano sopra a
dei fogli di carta fittamente bucherellati. Qui avveniva la nascita dei piccoli
bruchi che incominciavano subito a nutrirsi di foglie di gelso finemente triturate. I Bachi crescevano e questo periodo era denominato “dormita”. Le dor-
mite erano quattro. Più i bruchi crescevano e più le foglie venivano triturate
grossolanamente,
fino
a
venire
“servite”
intere.
Alla fine della quarta “dormita”, il Baco si svegliava, cominciava a secerne-
re un filamento che a contatto con l’aria si induriva rapidamente; a questo
punto veniva aiutato a salire sul “bosco” che altro non era se non un intreccio
di ramoscelli e sterpaglia messi appositamente dall’uomo. Qui, il Baco inco-
minciava ad avvolgere intorno a sé, intrecciandolo a forma di arachide, il fila-
mento serico per formare il bozzolo. I bozzoli venivano successivamente
inviati alle filande dove delle donne molto esperte li sottoponevano a ebollizione e con le mani nude cercavano nell’acqua bollente i filamenti per poi
avviarli a delle bobine rotanti che li riunivano in un unico filo. Alla fine della
stagione di lavoro alla filanda, queste povere donne avevano le dita talmente
rovinate (ridotte “in carne viva”) che abbisognavano di un anno intero prima
di ricostruire la pelle, ma non facevano nemmeno in tempo a guarire che già
incominciava la nuova stagione e con essa la nuova “tortura”. Per molti
decenni, l’allevamento del Baco da seta ha fatto parte integrante di tanti magri
bilanci familiari aiutando i poveri contadini a vivere un po’ meno faticosa-
mente. Questa attività comportava però un notevole impegno sia in fatto di
166
lavoro (bisognava alzarsi nel cuore della notte per alimentare i bruchi) che
economico, in quanto gli ambienti dove venivano allevati i Bachi dovevano
essere riscaldati; così, negli anni l’interesse è sempre venuto meno fino a
scomparire del tutto. Cosa che invece continua a essere importante nei luoghi
d’origine e nei paesi dell’Europa dell’est.
LE FARFALLE
Alle Farfalle la natura ha fornito il massimo della prodigalità in fatto di bel-
lezza ed armonia di colori. La diversità e varietà delle tinte, le iridescenze, i
riflessi metallici, la leggiadria del volo, fanno si che questi insetti sembrino
creati per rappresentare la bellezza del
regno animale. Nell’osservare la loro esistenza si rimane stupiti da tanta armonia.
Le femmine muoiono subito dopo aver
deposto le loro uova, la vita delle Farfalle
è quindi relativamente breve e va da
qualche giorno a due mesi. Dall’uovo
deposto all’insetto perfetto passa circa un
anno e precisamente da una primavera
all’altra. Il periodo larvale, a seconda
della specie, ha una durata varia, da
FARFALLE
poche settimane a parecchi mesi. In alcune specie la farfalla si “schiude” in
meno di un mese, in altre lo stadio ninfale si prolunga per tutto l’inverno. Le
Farfalle depongono uova piccolissime dalle quali nasce un bruco che cresce
rapidamente, mutando quattro o cinque volte la propria pelle prima di diven-
tare adulto. Nel frattempo si sarà nutrito di fiori, frutta e foglie, ma al raggiun-
gimento del suo completo sviluppo non si nutrirà più e andrà a cercarsi un
luogo adatto dove poter trasformarsi in ninfa. Per fare questo la larva si avvolge in un involucro tessuto con i fili che emette dalla bocca e si rinchiude nella
167
sua crisalide.
Mentre la ninfa sta rinchiusa nella sua crisalide avviene l’ultima trasformazio-
ne e dopo un tempo, più o meno lungo, uscirà da questo involucro la Farfalla
vera propria, ovverosia l’”insetto perfetto”. La parte più interessante di questi insetti sono le ali, ricoperte su entrambe le facce da minuscole squame
variamente colorate e facilmente distaccabili: sarà sufficiente prenderle in
mano e ci accorgeremo che un pulviscolo variopinto rimarrà attaccato alle
nostre dita. La Farfalla più grande è la varietà Pavonia, la sua apertura alare
raggiunge i 15 cm e vive sugli alberi da frutta. La Testa di Morto è così chia-
mata per il disegno che ha sul torace assomigliante ad un teschio. Se viene
molestata, emette un suono stridulo dovuto allo sfregamento del suo organo
succhiatore. La Vanessa Pavone ha delle ali magnifiche che ricordano lo
splendore delle penne del pavone ed è fra le più comuni. La Cavolaia è indub-
biamente la più conosciuta e vive negli orti e nei giardini. Ha le ali di colore
bianco o giallo con delle macchiette nere.
IL MAGGIOLINO
Alla fine di aprile e per tutto maggio, ma anche oltre, andando per la campa-
gna si possono osservare dei grossi insetti dal volo pesante e rumoroso, vola-
re bassi tra le erbe e posarsi sulle fronde degli alberi, sono i Maggiolini. Si
possono prendere in mano senza paura e senza ribrezzo perché sono innocui
e dall’aspetto gradevole. Questi coleotteri assai diffusi si possono trovare a
nugoli tra il fogliame delle più comuni piante da frutto, intenti a divorare il
tessuto delle loro foglie.
I danni provocati dal Maggiolino adulto sono incalcolabili, ma ancora mag-
giori sono quelli provocati dalla sua larva. In maggio la femmina, prima di
concludere la sua breve vita, scava una corta galleria nel terreno tenero e lavo-
rato e in fondo ad essa depone diversi mucchietti di uova. Dopo
un’incubazione di una quindicina di giorni nascono le piccole larve che già
168
incominciano a divorare bulbi, radici, tuberi che trovano intorno alla galleria.
All’inizio della cattiva stagione queste larve sprofondano nel terreno e rimangono a riposo fino all’inizio della primavera quando rincominciano nella loro
opera distruttrice che continua per tutta l’estate e l’autunno fino a quando arriva il momento di nascondersi nuovamente in profondità in attesa ancora una
volta della buona stagione.
Durante la stagione successiva, la larva raggiunge il massimo delle sue
dimensioni: si tratta di un bruco piuttosto tozzo lungo fino a 5 cm. In questa
terza estate della sua vita la larva produce, viste le dimensioni raggiunte e la
conseguente voracità, i maggiori danni alle coltivazioni. Raggiunto l’autunno,
la larva si scaverà una galleria profonda anche 60-70 cm al termine della
quale formerà una celletta tondeggiante,
che sarà tappezzata con una sostanza
cementante. In questa celletta si trasformerà in ninfa. Durante la stagione inver-
nale nuova metamorfosi: da ninfa, si trasformerà in insetto perfetto che però
rimarrà nel suo sito in attesa della prima-
vera. Il ciclo evolutivo è durato 3 anni,
ma nei paesi più freddi può arrivare
anche a 5. L’insetto perfetto per contro
vivrà invece solamente un mese, nel
MAGGIOLINO
corso del quale però arrecherà notevoli danni. Fino a una quarantina di anni
fa, il Maggiolino era oggetto di un gioco “stupido” da parte dei ragazzi che lo
catturavano facilmente. Si legava un sottile filo di cotone ad una zampetta e
poi lo si faceva roteare per tutta la lunghezza del filo medesimo. Iniziava così
una gara fra ragazzi per contendersi le figurine degli animali o dei calciatori,
vinceva il proprietario del Maggiolino che volava più a lungo. Ma i ragazzi
avevano anche un altro compito, comandato in questo caso dagli adulti: ogni
giorno sul calar della sera, muniti di lunghe pertiche, percuotevano le fronde
169
degli alberi dalle quali cadevano a terra grandi quantità di Maggiolini; questi,
venivano messi dentro a dei sacchi e successivamente immersi nell’acqua di
un canale per farli morire annegati.
Successivamente venivano disposti sul selciato davanti a casa dove si facevano essiccare al sole per poi frantumarli calpestandoli con i piedi. Questo “sfa-
rinato” era successivamente impiegato come concime per gli orti, ma molto
più spesso ed in maggiore quantità, costituiva un ottimo mangime (forse il
primo), che veniva dato in pasto ai maiali mescolato al siero del latte. Durante
l’aratura in profondità della terra vengono riportate in superficie grandi quan-
tità di larve di Maggiolino; un tempo i contadini prima di iniziare il lavoro
liberavano nei campi i Polli che, molto ghiotti di queste larve, le divoravano
tutte. Oggi a sostituire i Polli ci sono i Gabbiani che da grandi opportunisti,
hanno scoperto il prelibato e gratuito banchetto e ne approfittano con grande
sollievo da parte dell’Uomo.
170
“La sopravvivenza della fauna selvatica è un problema
di vitale importanza per tutti noi in Africa.”
Julius Njerere
LE API
Lotte spietate e imprese eroiche, in cui si alternano avventure drammatiche e
misteriose, rappresentano la complessa vita e la storia delle Api.
Immaginiamo la cavità di un grosso albero, nella quale uno sciame d’Api abbia
fissato la propria dimora, cerchiamo allora di immaginare questa cavità come
una città popolata da cinquantamila abitanti, dove la vita deve scorrere organiz-
zata, disciplinata da regole e leggi e dove ogni cittadino ha un compito ben pre-
ciso. E allora cerchiamo di darci un’idea dell’architettura di questa città e di quel-
lo che potremmo definire la sua viabilità e le funzioni dei suoi abitanti. Le stret-
tissime “stradine” ampie 3 millimetri sono fiancheggiate da tantissime casette (le
cellette) a forma esagonale perfettamente equidistanti una dall’altra. Non tutte
queste casette però sono uguali: il popolo infatti, abita in quelle più piccole, i
fuchi (i cavalieri) abitano quelle di media grandezza, mentre in quelle più gran-
di vivono le principesse, una delle quali diventerà l’Ape regina. In questo gran-
de agglomerato “urbano” vi sono pure dei grandi depositi. All’interno della città
(alveare), l’aria che si respira è “condizionata” per ottenere ciò, appostate all’ingresso una dopo l’altra ci sono delle Api operaie addette alla ventilazione: esse
fanno vibrare le loro ali così rapidamente che le stesse diventano invisibili.
Molto accurato è il servizio di nettezza urbana e in questo caso le Api addette
sono migliaia perché tutto deve essere spazzolato in continuazione con le loro
zampette pelose affinché mai nessun rifiuto rimanga disperso. Le Api primeggia-
no in fatto di organizzazione anche nei trasporti: le scorte di propoli, di miele e
di resina, sono assicurate alla comunità, non solo per i bisogni di ogni giorno, ma
ancora di più per le riserve che vengono con grande previdenza immagazzinate.
Dunque si capisce come in questa società basata sul lavoro la rappresentanza più
numerosa sia quella del popolo cioè dalle Api operaie. In questo mondo tutte le
femmine sono destinate a rimanere nubili e quindi a lavorare per tutta la loro vita.
In un alveare come quello descritto comprensivo di 50 mila Api, circa 45 mila
saranno operaie, i fuchi, che condurranno una vita agiata e oziosa, saranno qual173
che centinaio, le rimanenti saranno le prin-
cipesse, una sola delle quali sarà eletta
Regina. Le operaie, quando nascono, sono
provviste dei loro attrezzi da lavoro. Le
mandibole e la lingua hanno le funzioni di
sega, di uncino, di spatola, di tenaglia e di
API
succhiello; hanno tre paia di zampe prov-
viste di arpioni per rimanere appese, di
spazzola e di ceste che servono per il tra-
sporto delle provviste. Nella parte posteriore del corpo le Api posseggono i pun-
giglioni. Tutto il lavoro delle Api operaie è rivolto alla regina che dopo le
“nozze” deporrà un numero incredibile di uova (anche 2.500 al giorno) fecondate dal fuco prescelto e dalle quali nasceranno nuove operaie, nuovi fuchi e nuove
principesse. La regina deporrà un uovo in ogni celletta e subito, le operaie lo
copriranno di polline e miele in modo che quando la larva nascerà troverà subi-
to di che alimentarsi. Dopo soli 3 giorni nasceranno le larve che a 6 saranno talmente sviluppate da occupare tutta la celletta. Allora smetteranno di alimentarsi
e inizieranno a filare un piccolo bozzolo. Questo lavoro durerà alcuni giorni e
quindi la metamorfosi si compirà; dal bozzolo uscirà una larva di Ape operaia
che in una ventina di giorni diventerà insetto perfetto, ben 26 giorni impiegheranno invece i fuchi, mentre le principesse ne impiegheranno solamente 12. Ma
queste non potranno uscire subito dalla celletta, saranno infatti trattenute prigioniere dalle nutrici ancora per 7 giorni. Operaie e fuchi, nasceranno senza fare
nessun rumore, diversamente le principesse emetteranno un caratteristico rumo-
re riassunto in un “cuac-cuac” che purtroppo per loro sarà letale e al quale la regi-
na risponderà con un sibilo inquietante. Questo “dialogo fra le principesse e la
regina, secondo, gli esperti esprime sospetto e timore ed è noto come “il canto
delle regine”. Infatti in questo mondo così organizzato e operoso avvengono
delle vere e proprie tragedie, una di queste è rappresentata appunto dal massacro
delle principesse. La prima che uscirà dalla sua celletta sarà la nuova Ape regi174
na, allora la vecchia madre abbandonerà, seguita da una parte numerosa della
popolazione tra cui molte Api edili, la sua città per costruirsene una nuova. La
nuova Ape regina dopo l’insediamento, si nutrirà notevolmente di miele e quindi inizierà a percorrere le strade che dividono le cellette soffermandosi allorché
udirà il “cuac-cuac “ di una principessa che si appresta ad uscire. La primogeni-
ta già Regina, si avvicinerà aprirà i sigilli della celletta e strapperà la testa della
sorella ancora viva e ripeterà il fratricidio ad ogni cripta regale, fino a che avrà
sterminato tutte le principesse e rimarrà da sola. Quando arriverà il giorno delle
nozze accadrà ancora qualche cosa di sorprendente e di tragico. L’Ape regina ini-
zierà la sua danza nuziale lanciandosi verso l’alto e sarà imitata da tutti i fuchi
che la seguiranno in cielo, molti periranno, uno solo sarà il prescelto, e quei
pochi che ritorneranno, ritenuti ormai solo un peso per la comunità che non vorrà
più mantenerli, verranno uccisi dalle Api operaie. All’inizio della primavera
un’Ape prescelta dopo il riposo invernale uscirà dall’alveare per prima, ed ispe-
zionerà con un lungo volo il terreno circostante finche non troverà il primo pol-
line dei fiori, loro essenza naturale. Dopo aver riempito le cestelle delle zampet-
te posteriori l’Ape, mandata in avanscoperta, ritornerà alla sua arnia, dove scaricherà il polline raccolto nel magazzino e subito, inebriata di felicità, inizierà una
danza indiavolata, che verrà interpretata dalle altre Api come l’annuncio della
primavera arrivata. Terminato questo rituale le compagne partiranno in sciame
verso la campagna ormai coperta di fiori iniziando così una nuova stagione di
lavoro, cerimoniali, sacrificio e morte.
La fiaba
“Le Api e Zeus”
Le Api gelose perché gli uomini si servivano del loro miele, andarono da Zeus
e lo pregarono di dar loro il potere di uccidere a colpi di pungiglione chiun-
que si avvicinasse ai loro alveari. Zeus sdegnato per tanta cattiveria fece sì
che esse, non appena colpiscono qualcuno, perdano il pungiglione e, dopo di
questo, anche la vita. (Esopo)
175
LE VIPERE
“…E io porrò inimicizia fra te e la donna e fra la tua progenie e la progenie
di lei: essa ti calpesterà il capo e tu le ferirai il calcagno”.
Le parole del Signore risuonano negli scarni versetti della Bibbia come una
solenne maledizione per il serpente, che da allora diventa il simbolo del male.
L’ira celeste è così forte che ci si può immaginare il rettile demoniaco torcer-
si sotto la voce tonante del Signore. Da allora esiste una grande ostilità da
parte dell’uomo nei confronti di tutti i serpenti anche se molti di essi risulta-
no essere innocui. Essi, sia per la tradizione cristiana che per quella ebraica
rappresentano l’emblema dell’astuzia e dell’insidia rivolta al peccato.
I serpenti come del resto tutti i rettili sono animali “eterotermi”, in grado cioè,
di regolare la loro temperatura corporea su quella dell’ambiente in cui vivo-
no; da ciò la loro abitudine di crogiolarsi al sole nelle belle giornate e di rintanarsi in anfratti o tane sotto terra nei mesi più freddi dove cadono in letar-
go. Scoperto il loro nascondiglio invernale, si potranno contare un ragguarde-
vole numero di Vipere attorcigliate strettamente le une sulle altre con lo scopo
di procurarsi quella minima quantità di calore che a loro necessita per conti-
nuare a vivere. Il veleno che con il loro morso inoculano ad altri animali, tra
i quali l’Uomo, è uno dei motivi (in questo caso a ragione) che ha creato ai
serpenti motivo di cattiva fama. Gli unici serpenti velenosi presenti nel territorio Veneto e quindi Trevigiano, sono le
Vipere. Esse hanno una lunghezza di
circa 55-60 cm, e la testa, dalla caratteristica forma triangolare, decorata da un
disegno scuro a forma di V rovesciato. Si
può incontrare la vipera un po’ ovunque,
anche se predilige i luoghi aridi della
montagna, dove è facile trovarla rimuovendo mucchi di vecchie ramaglie, o
176
VIPERA
sotto a delle pietraie. Molto simili alla Vipera e abitanti nello stesso territorio
sono: la Vipera dal Corno, chiamata così per via di una piccola protuberanza
che possiede all’altezza del naso, e il Marasso simile alla Vipera, ma più gros-
so e più lungo.
Questi serpenti cacciano generalmente nelle ore notturne e prediligono topi,
piccoli anfibi e altri animali. Come un qualsiasi altro serpente, le Vipere e il
Marasso possiedono una lingua bifida e le mascelle disarticolate fra di loro in
modo che possono aprirsi in maniera smisurata per inghiottire prede molto
più grosse della loro apertura boccale. I due temuti denti veleniferi sono ricur-
vi e infissi verso l’interno del palato; sono percorsi da una scanalatura che
comunica con una vescichetta (la ghiandola velenifera), dalla quale, dopo il
morso, esce, attraverso proprio queste scanalature, come se si trattasse di una
vera e propria iniezione ipodermica, il veleno. Veleno, che in poche ore diventa letale sia per l’Uomo, che per tutti gli animali a sangue caldo.
La persona morsa da una Vipera, o da un Marasso, va soccorsa immediatamente: con l’aiuto di un legaccio va stretto energicamente l’arto sopra la parte
morsicata, quindi bisogna procedere ad incidere con un coltellino la ferita in
modo da far uscire il sangue, nel frattempo è soprattutto necessario trasporta-
re la “vittima” al più vicino ospedale. Molto importante è anche il siero anti
Vipera, ma anche in questo caso bisogna correre al più presto in un luogo di
pronto soccorso.
Fino alla fine degli anni 70, in occasione della Fiera agostana degli uccelli di
Sacile, scendeva dal Cansiglio un ometto chiamato “Vipera”. Egli aveva ere-
ditato da generazioni l’arte della cattura delle Vipere e, come il nonno e il
padre, approfittava della grande sagra ornitologica per esibirsi con questo ret-
tile. Sulla sua bici portava, una davanti e l’altra dietro, due cassette da frutta
“foderate” di rete metallica, all’interno delle quali si trovavano diversi di que-
sti rettili sia adulti che piccoli. Quando davanti al lui si formava un gruppetto di persone, arrotolava una striscia di tessuto fino ad ottenere un cilindretto
del diametro di circa un cm e lo faceva mordere da una vipera, così facendo
177
la privava momentaneamente del veleno e successivamente “giocava” con
essa suscitando incredulità e attenzione da parte dei presenti che alla fine
lasciavano cadere sul piattino alcune monetine. “Vipera” aveva la pelle del
corpo molto spessa e dura, di colore scuro, che sembrava essere cuoio. Soleva
ripetere di essere stato morso decine e decine di volte soprattutto alle mani,
ma di essersi sempre salvato effettuando una veloce incisione con una lametta da barba sopra i due forellini e provvedendo subito dopo ad aspirare ener-
gicamente con la bocca il veleno, per poi sputarlo lontano.
Effettivamente le sue dita e i suoi polsi erano pieni di piccole ferite. E
“Vipera” ripeteva ancora: “se io dovessi mordere qualcuno è come se questi
venisse morso da una Vipera vera”.
La fiaba
“La Vipera e la Biscia d’ acqua”
Una Vipera andava tutti i giorni ad abbeverarsi ad una sorgente; e una Biscia
che vi abitava voleva impedirglielo. Non bastava infatti alla Vipera avere un
pascolo tutto per sè che veniva a invadere anche la sua casa. La contesa
divenne sempre più aspra finchè non decisero di sfidarsi a duello. Le
Ranocchie che abitavano vicino alla sorgente e che odiavano la Biscia andarono a trovare la Vipera promettendole che anch’esse avrebbero combattuto
al suo fianco. Iniziò il duello e mentre le due contendenti stavano combatten-
do le Rane incominciarono a cantare con tutte le loro forze. Alla fine con
molta fatica la Vipera vinse la battaglia e rivolgendosi alle Rane le accusò di
non averla aiutata e di non essere state di parola, ma quelle risposero: devi
sapere, cara mia che noi intendevamo aiutarti con una prestazione non di
braccia, ma di voce. E la Vipera capì…… (Esopo)
178
“Rammento la corsa della lepre che gli antichi chiamavano figlia della luna
e ricordo, il canto dell’allodola in cui pagani e seguaci di Cristo vollero
vedere la preghiera che sale in alto, e persino l’elevazione dell’ uomo”.
Graziano Fabris
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Robert Frèdèrik GLI ANIMALI Fratelli Fabbri Editori Milano 1966
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Zanetti M. IL FOSSO, IL SALICE, LA SIEPE Edizioni Nuova Dimensione P
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Autori Vari LE RIVE Edizioni Multigraf Spinea /Venezia 1989.
181
INDICE
La colorazione degli uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 14
I chiodi di mio nonno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19
Pillole di sapere: gli Uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23
Il Cigno Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 29
L’Oca Selvatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31
L’Airone Cenerino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 33
Il Germano Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 34
Il Cormorano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35
Il Tuffetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 36
Lo Svasso Maggiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 37
La Gallinella d’acqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 39
La Marzaiola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 40
La Volpoca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 41
L’Anatra Mandarina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 42
Il Martin Pescatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 43
La Rondine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 47
Il Rondone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 48
Il Cuculo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 50
Il Picchio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 52
L’Usignolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 53
La Cinciallegra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 54
L’Averla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 56
Il Crociere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 57
Il Frosone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 58
Il Rigogolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 59
La Gazza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 60
L’Upupa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 61
La Gracula . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 65
183
I Pappagalli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 66
L’Aquila Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 68
Il Falco Pecchiaiolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 70
La Poiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 71
Il Barbagianni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 72
La Civetta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 74
Il Gufo Comune e Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 75
Il Pavone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 77
I Fagiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 81
La Quaglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 83
Il Colombo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 84
La Gallina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 87
Il Gabbiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 89
Modi di Dire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 92
I Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 95
Pillole di sapere: i Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 97
Pillole di sapere: i Mustelidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 107
La Donnola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 110
Il Tasso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 113
La Marmotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 115
La Talpa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 119
Il Criceto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 120
Il Ghiro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 121
Il Moscardino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 122
La Scoiattolo rosso europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 123
Il Toporagno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 125
Il Riccio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 127
Il Cervo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 131
184
La Volpe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 135
La Lince . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 136
L’Orso Bruno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 138
Il Lupo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 139
La Lepre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 142
Il Coniglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 144
Il Ratto Grigio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 149
Il Topolino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 150
Il Pipistrello o Nottola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 152
Il Maiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 154
Il Cavallo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 156
Il Cane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 158
Il Gatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 161
Il Baco da seta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 165
Le Farfalle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 167
Il Maggiolino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 168
Le Api . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 173
Le Vipere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 176
185
RINGRAZIAMENTI
Sarebbero troppe le persone che dovrei ringraziare per avermi dato modo di
poter scrivere questo libro, ma esse non ci sono più. Erano già vecchi quan-
do mi trasmettevano la passione per gli animali: vecchi contadini, vecchi cac-
ciatori, persone vicine al mondo animale e che dell’animale sapevano tutto,
persone dalle quali ho imparato tante cose, cose, che proprio attraverso que-
sto libro saranno tramandate ai più giovani con il sorriso e la benedizione di
questi vecchi: Nonno Elia, Erico, Arcangelo, Italo, Zio Beppin, Vittorio,
Ernesto, Virginio, Gildo, Massimo, Francesco... Grazie.
Un ringraziamento particolare lo rivolgo alla cara Amica Alessandra Gamba
insegnante presso le scuole elementari di Olmi di San Biagio che ha corretto
le bozze di questo libro.
E non posso dimenticare di rivolgere un grazie di cuore al Presidente della
Provincia di Treviso Luca Zaia e all’Assessore Stefano Busolin che hanno il
grande merito di aver ideato e voluto il progetto di educazione ambientale
nelle scuole della Provincia, motivo questo, che mi ha dato lo spunto per scri-
vere: “A Scuola di Fauna”. Ed infine un pensiero grato desidero rivolgerlo
anche al dr. Mario Feltrin, un grande Amico sul quale durante questi tre anni
ho sempre potuto contare.
L’autore rivolge un pensiero grato anche alle insegnanti Maria Grazia
Carrelli e Martinella Biscaro per aver seguito i disegni di Tiziana Forese, e
Franca Borsoi per aver seguito quelli di Marialuisa e Luca Dal Poz.
187
Gli autori dei disegni
ai quali rivolgo un grazie grosso così…
Luca Dal Poz
Frequenta la terza elementare presso
la Scuola di Mignagola di Carbonera,
è nato il 12-5-1996.
Marialuisa Dal Poz
Frequenta la quinta elementare presso
la Scuola di Mignagola di Carbonera,
è nata il 18-9-1994.
Tiziana Forese
Frequenta la seconda media presso
la Scuola “Arturo Martini” di San Biagio
di Callalta, è nata il 22-5-1992.
189
Finito di stampare
nel mese di agosto 2005
presso
Arti Grafiche Conegliano SpA
Susegana/Tv
A SCUOLA DI FAUNA
Curiosità, modi di dire, proverbi, aneddoti, miti e leggende sugli animali
Graziano Fabris
A SCUOLA DI FAUNA
Graziano Fabris
Graziano Fabris
Fin da bambino ha sempre nutrito
un grande interesse per gli animali
in genere e per gli uccelli in particolare. Appassionato ornitofilo,
alleva fin dalla più giovane età
uccelli esotici, indigeni, canarini e
loro ibridi.
Dal 1994 è Presidente della
FIMOV e Direttore della rivista
OASI aci. Da 3 anni si occupa del
Progetto di Educazione Ambientale
della Provincia di Treviso. Ricopre
inoltre la carica di
Presidente
dell’Ente Feste Varaghesi che dal
1973 organizza tra l’altro, dei pre-
stigiosi appuntamenti per l’uomo
Sul retro
“Sagra dei Osei di Sacile”, agosto 1953
Foto Archivio Pro Sacile
con la flora e con la fauna.
Settore Gestione della Fauna
Via Cesare Battisti, 30 - 31100 Treviso
Tel. 0422.656.341 - Fax 0422 656.032
Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz
In copertina disegno di
Marialuisa Dal Poz