13 Di Rosa - Il Porto di Toledo

Transcript

13 Di Rosa - Il Porto di Toledo
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
Verifica di uno stile
Note su Fortini traduttore di Kafka
Valentina Di Rosa
Sei seriamente antikantiano:
agisci in modo che tutto sia,
e sempre, un mezzo o strumento di
produzione (da usare anche in vista
di quel che sta oltre il comunismo)
e non un fine (a cominciare da te stesso).
Questa è la radice di ogni posizione
“classica”. Soli Deo gloria.
Lettera a J. M. Straub – 2 dicembre 1976
Commentando nelle Istruzioni per il “Romanzo da tre soldi” (1958) la
ricerca drammaturgica di Brecht, Fortini istituiva una esplicita analogia
fra gli obiettivi del teatro dello straniamento e la propria idea di traduzione: «L’importante è che lo spettatore sia messo in condizione di farsi
traduttore; che dalla contemplazione di orbite apparenti e lontane egli
tragga le leggi del suo proprio moto, e le pronunci per mutarle»1 .
Reinterpretava così lo stesso compito del traduttore in un senso a lui più
congeniale, saltando a piè pari il falso dilemma fedeltà/infedeltà ed esaltando invece l’arte necessaria della distanza, per riaffermare l’esercizio
critico della poesia come esercizio critico della verità.
Scelte di stile ovvero scelte di campo: discendono da questa impegnativa equivalenza anche le riflessioni di Fortini sulle ragioni dello scrivere dal punto di vista del tradurre, cui è dedicato un capitolo non secondario della sua attività letteraria – prima di Kafka, già Flaubert,
Eluard, Kierkegaard, Gide, Brecht, Weil, Proust, Goethe, Queneau,
Enzensberger, Huchel, per citare solo alcuni nomi. Ladro di ciliege si intitola, a partire da un’omonima poesia dello stesso Brecht2 , l’antologia
Ringrazio Giovanni La Guardia, che per primo mi ha invitato a riflettere sul rapporto tra
Fortini e Kafka; Michele Ranchetti, Giuliano Mesa, Domenico Scarpa, con cui ho discusso
alcuni nodi di questo saggio.
1
F. Fortini, Brecht o il cavallo parlante (1958), in F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e
di istituzioni letterarie, Torino 1989, p. 275.
2
Cfr. F. Fortini, Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia, Torino 1982; una scelta di liriche
tratte da questo volume è inclusa anche (con l’aggiunta di O. Mandel’πtam, 1 gennaio 1924
149
Valentina Di Rosa
che raccoglie un’ampia scelta delle sue traduzioni in versi, ove l’immagine allusiva del furto sembrerebbe già programma, suggerendo fra le
righe un’idea del tradurre come atto di appropriazione non indebita,
bensì lecita di frutti altrui all’interno di un’economia poetica concepita
quale sistema vitale di scambi, prestiti, restituzioni.
Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che ero già tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta3 .
Brecht e il suo ladro s’intitola, parallelamente, l’introduzione all’intero
ciclo degli Svendborger Gedichte, in cui l’immagine centrale del testo – «la
situazione della finestra ossia dell’esclusione» – è riletta da Fortini in tutta
la sua carica di «ambiguità»4 come cifra allusiva della poesia contemporanea e della sua crisi, ove il tema dell’io-poeta, separato dalla vita, visitato dal fantasma della propria velleitaria esistenza, coinvolge, con un
lieve spostamento d’accento, anche il fenomeno della traduzione d’autore osservato nel contesto più ampio delle istituzioni letterarie.
Se infatti la condizione «post-romantica» della poesia coincide con il
riconoscimento di un’«assenza di legittimità e di mandato sociale», la
scelta del tradurre (la «traduzione letteraria di classici») si presta a essere interpretata – soprattutto alla luce dell’esperienza del Novecento –
come reazione a questo disagio, ossia come sforzo di recupero, oltre l’arbitrio dell’ispirazione soggettiva, di un’idea di servizio e del valore socialmente utile della trasmissione. «In questo senso la traduzione di poee Kao Che, L’albergo) in Id., Versi scelti 1939-1989, Torino 1990. Cfr. Bibliografia scelta degli
scritti e delle traduzioni di Franco Fortini, a cura di P. Jachia, in F. Fortini, P. Jachia, Fortini –
Leggere e scrivere, Firenze 1993, pp. 98-117.
3
Cfr. B. Brecht, Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, con una bibliografia musicale di G. Manzoni, Torino 1959, p. 345 e B. Brecht, Poesie di Svendborg seguite dalla Raccolta
Steffin. Introduzione e traduzione di F. Fortini, Torino 1976, p. 145. La seconda edizione
introduce varianti di lessico e di ritmo nella traduzione del testo su cui cfr. P. V. Mengaldo,
Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia, in Id., La tradizione del Novecento [1987], Torino 2003
pp. 341-357.
4
B. Brecht, Poesie di Svendborg, cit., p. VIII.
150
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
sia è, oggi, l’atto linguistico-letterario che meglio si presta a fingere di superare
e rimuovere la contraddizione»5 . Scrivere in vece di altri sembra infatti promettere al poeta l’emancipazione dal sospetto della propria «irrilevanza»
e «futilità», di cui si alimenta la «nevrosi della novità e dell’originalità»
(o «angoscia di fronte alla pagina bianca»), proponendosi come esercizio di una «libertà vigilata», gioco di equilibrio fra «innovazione» e «ripetizione», «memoria» e «presente», che – brechtianamente – chiede al
lettore «partecipazione» «responsabilità» «prosecuzione», chiamandolo a discernere l’intreccio di rapporti e prospettive, nonché a orientare la
propria posizione nei riguardi del futuro6 . E’ d’altronde a proposito di
una versione italiana di Proust (Albertine scomparsa, 1951) che si rivela al
traduttore la necessaria connessione o anzi «l’inseparabilità» fra «moto
verso la trasformazione dei rapporti fra gli uomini» e «moto dei poemi
verbali»7 .
Fortini/ Kafka: prima di affrontare il rapporto fra i due autori dal
punto di vista della traduzione, sarà opportuno ripercorrere, sia pure a
grandi linee, l’incontro di Fortini con la letteratura tedesca moderna e,
in particolare, con lo stesso autore praghese, che data sin dalla fine degli
anni ’30: «Con lo studio del tedesco, cominciai a tentare un continente
ignoto. Istigato dalle riviste letterarie dei miei coetanei, osai metter la
mano dell’ignoranza su Hölderlin, Heine, Rilke»8 . Alla scoperta di questi primi autori fanno seguito le «atterrite e sconvolte letture» dei testi di
Kafka, preferito sin dall’inizio (malgrado «qualcosa di troppo stridulo e
volontario») al «troppo signorile e finto-goethiano» Mann9 : dapprima
F. Fortini, Traduzione e rifacimento in Id., Saggi italiani, Milano 1987, p. 365-366.
Hanno importanza in tal senso anche le date cui risalgono le diverse traduzioni, le quali
«vorrebbero ricordare al lettore, se il testo non lo dicesse abbastanza chiaro, che quelle
parole sono state scritte nel tempo, ossia mentre accadeva “altro”, altro che le reggeva o le
oppugnava e continua a reggerle, a combatterle o ad abbandonarle», F. Fortini, Ladro di
ciliege e altre versioni di poesia, cit., p. VII.
7
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, Firenze 1993, p. 54.
8
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 34. «Anni di scoperte» così Fortini nel
commento al Rilke di Giaime Pintor. «Si traduceva per affinità, a conferma delle proprie poetiche». Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto
di R. Rossanda, Milano 2003, pp. 1318-1323. Sull’atmosfera culturale di quegli anni, segnata
dalla fortuna di autori e modelli tedeschi recepiti attraverso le traduzioni, cfr. V. Vivarelli,
Europeismo e terza generazione. La lirica tedesca fra retroterra orfico e tensione metafisica, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di A. Dolfi, Roma 2004, pp. 323-355.
9
Cfr. F. Fortini, Nota del traduttore, in F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, trad. di F.
Fortini, Torino 1986, pp. 275-285 e F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 47.
5
6
151
Valentina Di Rosa
La metamorfosi, Il processo, i Racconti, poi ancora, circa un decennio più
tardi, America e Il castello. Nella rievocazione di Fortini tali letture coincidono – siamo nel frattempo alla fine degli anni ’40 – con l’ingresso in
Italia del mito dell’età di Weimar e dei suoi autori in voga negli ambienti culturali milanesi dell’epoca, resi noti in gran parte grazie alle traduzioni di Lavinia Mazzucchetti10 e recepiti come «eco di un’Europa prodigiosamente contraddittoria e complessa»11 .
Rientra nello stesso contesto il saggio Gli uomini di Kafka e la critica
delle cose (1948), che, rifacendo il punto della situazione a proposito della fortuna europea di Kafka, mette lucidamente a fuoco gli orientamenti
di fondo, estetici e ideologici, dominanti nel paesaggio culturale del
dopoguerra. Da una parte «una corrente che si potrebbe dire all’ingrosso “marxista” (se non si rischiasse così di offendere il nome di Marx)»,
incline a leggere lo scrittore praghese come interprete della fine del
mondo borghese e della sua degenerazione nell’orrore, tutt’al più disposta a concedere a Kafka una «menzione onorevole per compiuta denuncia». Dall’altra gli esponenti a vario titolo di una cultura
esistenzialista, altrimenti noti come i decadenti ospiti del «Grand Hotel
Abisso» invisi a Lukács, inclini a leggere Kafka come interprete del disagio metafisico dell’essere scagliati nel mondo e nella vita. Fortini prende
le distanze da entrambi gli schieramenti nel tentativo di restituire Kafka
alla storia e alle contraddizioni del suo tempo, criticando i primi, i
marxisti, responsabili di avere reso Kafka inoffensivo, contrapponendo
al suo mondo una fin troppo astratta critica rivoluzionaria «dando per
già fatto il da farsi»; i secondi, responsabili in pari misura di averne
stemperato la forza critico-visionaria, interpretando «quelle cadute e
dejezioni» in senso solo astratto e simbolico, anziché crudamente («ovviamente») reale12 .
In gioco è l’ambizione – in primo piano sin da questi anni di attiva
collaborazione al «Politecnico» – di ripensare gli usi della letteratura a
partire dalla lezione dei classici e dalla loro capacità di suscitare un «atteggiamento di sempre nuova domanda». Conseguenza del «prendere
sul serio i poeti» è in questo caso il tentativo di «spingere a calci Kafka
10
Sull’impegno politico-culturale di Lavinia Mazzucchetti durante e dopo gli anni del
fascismo e sul suo tentativo di dare vita a un «altro asse» fra Italia e Germania cfr. in
particolare la raccolta di saggi e testimonianze L. Jollos-Mazzucchetti, Die andere Achse.
Italienische Resistenza und geistiges Deutschland, Hamburg 1964.
11
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 46.
12
Cfr. F. Fortini, Verifica dei poteri, cit., pp. 261-267.
152
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
nel gioco della dialettica e farlo collaborare al progresso umano», rifiutando «l’operazione di culto che lo mantiene in vita» e invocando viceversa la coscienza di «violenti lettori che quelle pagine invadano», pronti
a testimoniare di un’ignominia destinata, come «eredità storica», a «rimaner vera per lungo tempo»13 .
Oltre l’impegno critico del saggio, l’altro versante su cui Fortini incrocia Kafka passa per l’esistenzialismo protestante di Kierkegaard – la
sua traduzione di Timore e tremore è dello stesso 1948 – contribuendo a
orientare la direzione dei suoi primi cimenti letterari nel senso di una
«cultura dell’anima»14 . Sempre al 1948 risale la pubblicazione di Agonia
di Natale, un lungo racconto accolto da Vittorini nella collana dei “Coralli” einaudiani, che, distante dai canoni vigenti del neorealismo, rivela
piuttosto un’inclinazione verso la parabola dall’impronta riconoscibilmente esistenzialista15 . Il racconto ruota intorno alla figura di Giovanni
Penna, sconsolato personaggio, interprete di un solitario e mesto sentimento del mondo, il quale scopre di aver contratto una malattia mortale
che nessun medico sa diagnosticare e che lo conduce progressivamente a
una deriva dell’esistenza, ma che prima di tutto compromette il suo rapporto con la realtà e con la vita, e in particolare con la fidanzata Maria.
Se la malattia è esplicitamente metafora – insiste su questo punto anche il prologo, rivendicando a monte del rapporto salute/malattia chiare
13
Ivi. Cfr. inoltre Come leggere i classici? e Prendere sul serio i poeti? Risposte di Fortini a
Pampaloni, apparsi entrambi su «Il Politecnico» (rispettivamente n. 31-32, luglio-agosto
1946, pp. 54-58 e n. 38 nov. 1947, pp. 2-32). Per lo stesso «Politecnico» (n. 37, ott. 1947, pp.
8-19) Fortini firma inoltre i Capoversi su Kafka, inclusi in un’ampia sezione dedicata all’autore praghese accanto a contributi di Antonio Ghirelli e Carlo Bo. Vittorini, che a p. 9
presenta la silloge critica, confessa di ritenerne fallito lo scopo, che era quello di «definire
il significato» di Kafka «credendo in una trasformazione del mondo», nonché di «mettere
in guardia contro ogni possibilità di mistificazione della coscienza che Kafka contiene»; in
particolare, il saggio di Fortini, da lui stesso più volte sollecitato, gli apparirà tuttavia
«astruso e inutile». Cfr. E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, a cura di C.
Minoia, Torino 1977, pp. 122-123, e inoltre P. Sabbatino, Gli inverni di Fortini. Il rischio dell’errore nella cultura e nella poesia, Foggia 1982, p. 135 e sgg.
14
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 37.
15
Il risvolto di copertina dell’edizione Einaudi 1972, non firmato, ricorda la ricezione del
testo nei due fronti opposti: «mentre la destra parlava di “strano realismo”, la sinistra
ammoniva gravemente l’esordiente narratore di uscire dalle tenebre esistenziali verso i
“domani che cantano”», cfr. F. Fortini, Giovanni e le mani, Torino 1972, p. VII. Riguardo alle
ripetute accuse di «morbida decadenza» mosse al racconto, Fortini stesso rievoca la fatidica
congiuntura elettorale del 18 aprile 1948: «Poco prima di quella data, a una presentazione
pubblica del mio libro, il critico letterario Giansiro Ferrata, allora comunista e collaboratore di l’Unità, rivolto a me “Non vedi disse”, disse, per deplorare il pessimismo della mia
prosa, “quanta speranza c’è negli occhi della gente?”». (Cfr. Id., Un giorno o l’altro, a cura
di M. Marrucci e V. Tinacci, introd. di R. Luperini, Macerata 2006, p. 51).
153
Valentina Di Rosa
implicazioni di ordine storico-sociale16 – l’intreccio della vicenda suggerisce non di meno ponderate consonanze con alcuni luoghi noti della scrittura di Kafka. A cominciare proprio dalla spirale innescata dalla malattia,
(«una cosa grave, ma anche una cosa triste e misteriosa»), che pone fine al
già precario vivere «in accordo con le cose», contribuendo a scavare
un’incolmabile distanza fra Giovanni e l’altrui mondo dei sani. Al confine
con un sentimento doppio di colpa e di vergogna, (un «senso di peccato
originale ambiguamente lasciato a metà fra il metafisico e il sociale»17 ),
essa innesca la vana ricerca di un senso che resterà costantemente negato,
insidiando il malato, catturandolo in ripetuti tentativi di bilanci o esami
di coscienza, che tuttavia non conducono a catartiche rivelazioni, ma approdano piuttosto a lucide ammissioni di inerzia, scoramento, viltà18 . Al
centro del sofferto viluppo, fra «intermittenze nel tessuto della realtà» e
improvvise «lacune dell’Essere»19 , sta il rapporto di Giovanni con la fidanzata, o piuttosto il progressivo scioglimento del legame, motivato dal
desiderio crescente da parte del malato di sottrarsi a ogni vincolo e responsabilità sociale, dalla paura della sessualità e del matrimonio temuti
come fattori di rischio, dal sentimento di claustrofobia suscitato dalla fatale «occlusione di ogni avvenire»20 .
Non a caso, Emilio Cecchi, recensendo il volume, richiamava il destino delle tele esposte nelle antiche pinacoteche che, non consentendo
16
«Contro quello che probabilmente molti potrebbero, con diverso giudizio pensare, ci
importa moltissimo che la malattia di Giovanni abbia avuto, abbia o sia per avere uno o
più nomi e significati, storicamente individuabili. Ma più ancora ci importa la verità: che
in questo caso è nella presenza di un ammalato, nel suo scandalo, quand’anche fosse solo ed
ultimo in un mondo (di “qui” o di “là”) di piena salute. D’altronde, proprio e soprattutto
a chi, come noi, vuole nell’altrui la propria salute, il tempo di dimenticare – e quindi di far
dimenticare – non è ancora venuto». F. Fortini, Giovanni e le mani, cit., p. 3.
17
Cfr. F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 50.
18
Va notato, in margine, che la viltà di Giovanni è collegata, in sottofondo, all’esperienza
della guerra e al trauma della sua resa all’attacco di una banda di partigiani che affiora
ogni tanto nei ricordi come un’ombra nascosta e inconfessata («chiedevo pietà, singhiozzando, pietà»). Il rovesciamento del mito dell’eroismo partigiano sottende anche il più
noto racconto di Fortini Sere in Valdossola (1946/1965), ove pure, a fronte del dilemma
vissuto dall’io (abbracciare o meno la causa armata della Resistenza), risalta in primo
piano la dinamica tutta interiore dell’esame di coscienza, ovvero la consapevolezza di
una solitudine dell’anima, il vano desiderio di trovarsi «d’accordo con le cose», la percezione del divario fra pensiero e azione, il sospetto di una «fuga da responsabilità più
intime, più religiose». Cfr. la recente ristampa del testo nell’antologia Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Torino 2005, pp. 147-181.
19
Cfr. la voce “Kafka” in F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Milano 1968,
pp. 219-226.
20
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 36.
154
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
l’attribuzione univoca ad un singolo autore, vengono genericamente
ascritte a maestri più celebri, asserendo, a proposito dello stile di Fortini,
«Scuola di Camus» o «Bottega di Kafka». Conviene con Cecchi, anni
dopo, anche Giovanni Raboni che, firmando la prefazione alla ristampa
del racconto (1972)21 , sottolinea il peso metaforico della malattia quale
«figura brutalmente univoca e minuziosa del lento, ambiguo dissolversi della borghesia», citando fra gli strumenti di «comprensione
simpatetica o analogica» intervenuti a orientare la sua prima lettura del
testo, i modelli di riferimento più influenti sulla coscienza dell’epoca:
«Mann, Kierkegaard, lo stesso Kafka».
Oltre le affinità elettive documentate sin da questi primi esordi, il
confronto diretto con la scrittura dell’autore «temibile» e «grandissimo»
arriverà tuttavia per Fortini solo «mezzo secolo più tardi» e coinciderà
questa volta con la scelta mirata di tradurne i soli racconti pubblicati in
vita, ovvero gli unici testi provvisti dall’autore dell’«ultima pomice»
prima di essere licenziati per la stampa, dotati per questo di una «materia sufficientemente liscia» sulla quale poter immaginare l’impronta dei
propri «movimenti personali»22 .
Prima di Kafka e dopo di Brecht, altra impegnativa esperienza di
traduzione dal tedesco era stata, com’è noto, l’impresa del Faust (1970),
risultato del lavoro quotidiano («un giorno dopo l’altro») di cinque lunghissimi anni di «combattimento», vissuti non di meno dal Fortini traduttore come lenimento del «dolore “storico”» del Fortini poeta, sempre teso «in battaglia con l’assoluto»23 .
Nella prefazione destinata al lettore italiano, Fortini illustra i criteri
adottati nella sua versione, riconducendo l’impostazione del proprio
metodo alle indicazioni offerte dallo stesso Goethe, con particolare riguardo all’appendice teorica del Divano occidentale-orientale (Note e saggi), in cui, partendo dal dialogo poetico con Hafez e dalla feconda assimilazione della tradizione orientale, Goethe si pronuncia contro lo stile
detto «parodistico», inteso come incongrua conversione dell’«ignoto»
21
F. Fortini, Giovanni e le mani, cit. L’edizione ripristina l’originario titolo «cubista» voluto
dall’autore. Il testo di Cecchi figura nel risvolto di copertina, la prefazione di Raboni alle
pp. VII-IX.
22
Cfr. F. Fortini, Venture e sventure di un traduttore, in «L’ospite ingrato. Annuario del Centro di studi Franco Fortini», IV-V, (2001-2002), pp. 295-308. La prima proposta avanzata da
Einaudi verteva invece sul Processo, la cui traduzione fu poi affidata a Primo Levi e pubblicata nel 1983 come primo volume della collana “Scrittori tradotti da scrittori”.
23
F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., p. 71.
155
Valentina Di Rosa
nel «noto» e dell’«estraneo» nel «consueto»24 . Dall’analisi all’interpretazione alla ri-scrittura, il taglio delle scelte di Fortini è motivato in relazione con la natura «incommensurabile» del testo di partenza e dunque
con la necessità di procedere nel segno di una «modestia»
programmatica; l’obiettivo da perseguire è quello di un testo che si proponga di esistere – anche graficamente – a fronte dell’originale tedesco,
funzionando in primo luogo come guida a un intendimento complessivo dell’opera goethiana: un’operazione dagli intenti dichiaratamente
didascalici, non preoccupata in tal senso di tradire il proprio «sapore di
traduzione», ma anzi volta a suscitare fra le righe, con rimando espresso
ora a Benjamin, ora a Croce, la cosiddetta «nostalgia dell’originale» attraverso il costante «rinvio a un testo anteriore».
Coerente con tale disegno è la ripetuta professione di umiltà che ricorre a connotare la prospettiva del traduttore diviso fra l’atteggiamento di «protervia» proprio della «conquista violenta», («specchio di Narciso, cote, sopraffazione, cilicio»), e una modalità di intervento più rispettosa e discreta, tesa invece a spendersi come «servizio, specchio
pubblico, moneta di scambio». E questo perché è il testo stesso, con la
sua «scrittura orchestrale» destinata alla dizione teatrale, a dettare le
proprie leggi, imponendo al traduttore di rivolgere massima attenzione
ai meccanismi di composizione e tessitura del sistema metrico, all’intima compenetrazione di ritmi e di concetti propria delle cadenze strofiche
dell’originale, studiando i dovuti accorgimenti per tentare di preservare fin dove possibile, i diversi gradi di significazione e allusività dei
molteplici registri impiegati da Goethe. Compito tutt’altro che facile, se
è vero che, nel passaggio dal tedesco all’italiano, si trattava di soddisfare attese ritmiche diseguali creando, o suggerendo, rapporti di equivalenza fra dispositivi metrici e tradizioni culturali distanti fra loro, da un
lato badando a schivare l’insidia del «buon gusto» e della «falsa
poeticità», dall’altro non rinunciando a professare fedeltà verso l’istituto normativo della metrica25 .
È lecito intuire dietro questa scelta di «responsabilità formale» il sintomo della più vasta e risentita diffidenza di Fortini nei confronti del
gioco eversivo dell’«avanguardia» e dei suoi «decreti leggi autocratici»
volti a un’emancipazione assoluta («fintamente de-storicizzata») della
24
Cfr. J. W. Goethe, Divan occidentale-orientale, a cura di G. Cusatelli, Torino 1990, pp. 364367. Fortini fa invece riferimento alla versione a cura di F. Borio, Torino 1959.
25
Cfr. J. W. Goethe, Faust, Introduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di F.
Fortini, Milano (1970) 1990, e in particolare la Prefazione per i criteri seguiti dal traduttore (I
vol., pp. LIX-LXXXI).
156
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
voce soggettiva, nel segno, ai suoi occhi discutibilissimo, del «sic volo
sic jubeo». Laddove invece per metrica si deve intendere per Fortini,
rigorosamente, «tutto un ordine di “comportamenti ritmici” i quali, in
misura più o meno cosciente, si pongono come adempimento, risposta,
testimonianza di fronte ad una norma, o consuetudine o imperativo, interiore o esteriore», ovvero in ultima analisi, un «indizio e strumento rivelatore
dei rapporti reali, obiettivi, fra gli uomini e fra questa realtà e il poeta». Perciò
la rinuncia al verso libero non è mera questione di gusto, bensì riflesso
di un’intera visione del mondo, entro la quale proprio la «regolarità del
“versus”, del ritorno» assume il valore di «estraniamento della mera
comunicazione gnomico-pratica» («Verfremdung»), che allude non già a
un’ «ipotetica mimesi dei “moti” dell’animo», ma piuttosto alla presenza di un contesto culturale e sociale, debitamente introducendo la risonanza della storia26 .
E se «talvolta è dato proprio alla metrica esprimere l’essenza ultima
di certi conflitti»27 , si muove in tal senso anche il lavoro del traduttore a
fronte dello «strabismo sublime» del Faust, la cui «polimetria stabilisce
[…] tutta una serie di tensioni, di intensità variabile, fra le articolazioni
e le intonazioni sintattiche e quelle suggerite dalla griglia metrica»28 .
26
Cfr. F. Fortini, Metrica e libertà, Verso libero e metrica nuova, Su alcuni paradossi della metrica
moderna in Id., Saggi italiani, Milano 1987, pp. 325-358. Sugli echi concreti della storia nel
lavoro di Fortini, cfr. L. Lenzini: «Mentre continua a insegnare e a tradurre il Faust, partecipa alle manifestazioni studentesche e operaie. E’ a Torino a Palazzo Campana al momento dell’occupazione, e spesso è presente nelle iniziative che si tengono all’Università
statale di Milano». (Cfr. F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. CXVI). «Lavorando – documenta lo stesso Fortini a proposito delle traduzioni da Brecht – non porgevo soltanto
l’orecchio, come Baudelaire dice di aver fatto nei pomeriggi del suo liceo, aux cris de l’émeute.
La incontravo ogni giorno l’émeute. Andando e tornando dalla scuola dove insegnavo. E
cercavo di comprenderla […]».. Id., Ladro di ciliege e altre versioni di poesia, cit., p. VIII.
27
«Fedra non cozza solo contro il destino ma dà del capo, armoniosamente, contro le
pareti dello stile tragico e le doppie colonne degli alessandrini; e non solo contro
l’inafferrabilità del proprio volto interiore ma contro le fughe prospettiche delle scene, dei
tempi, del verso bianco e fin contro gli scoscendimenti della giustapposizione degli stili
lotta l’eroe elisabettiano» (F. Fortini, Metrica e libertà, cit., p. 336).
28
F. Fortini, Prefazione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. LXVI. Metrica come veicolo
di estraniamento: torna anche qui, benché apparentemente rovesciata di segno, la lezione
di Brecht, il quale si era, dal canto suo, pronunciato invece a favore della «lirica non rimata
e con ritmi irregolari», volendo impedire nel lettore supina acquiescenza ai meccanismi
dell’empatia; mezzi diversi impiegati per uno stesso fine: per Brecht l’obiettivo polemico
è «il gusto allora dominante nella letteratura poetica sovietica», (il suo «intento “gestico”»
voleva essere «fuga dal sentimento lirico verso il movimento»); per Fortini si tratta di
lavorare, allo stesso scopo, sulla «“distanza”» ritrovando «una eteronomia, cioè una metrica». (F. Fortini, Su alcuni paradossi della metrica moderna, cit., p. 357 e Id., Introduzione a B.
Brecht, Poesie e canzoni, cit., pp. VII-XXI).
157
Valentina Di Rosa
Sottolineare il rapporto di «vicinanza-distanza» da Goethe29 , significa inoltre per il traduttore «non aver potuto o voluto rompere, tante
volte quante il gusto dei moderni avrebbe preteso, certi gruppi melodici; […] non aver tolto il collo a molti endecasillabi, evidenti o segreti che
gli si ponevano sulla pagina». Una scelta, questa, che va di pari passo
con il tentativo di preservare fedelmente le corrispondenze fra versi tedeschi e versi italiani per facilitare il riscontro del lettore, al punto che è
ragione di vanto che il numero di «pseudo-versi esorbitanti» sia inferiore al «due per cento dei 12111 versi dell’originale» con il risultato di una
forte tensione fra intenti «didascalici» e «stilistici» e di un testo fondato
sulla competenza bifronte del critico e del poeta «fino al limite della
dissociazione»30 .
Ancora nel segno di Brecht: se la «modestia» e l’«umiltà interpretativa»
ricorrono ripetutamente come linee-guida a proposito del Faust, solo apparentemente inverso è l’atteggiamento adottato nei confronti di Kafka.
Questa volta, tuttavia, l’obiettivo è ben più ambizioso. Fortini gioca
scopertamente al rialzo: cede – e lo dichiara subito, a scanso di equivoci –
alla tentazione del rifacimento, sposando senza remore la prospettiva frontale e «orgogliosa» di chi si vuol «portare per così dire alla testa del proprio autore»31 . La scommessa è la ri-scrittura di una prosa parallela e autonoma, affrancata dall’originale, che rinuncia perciò, in pieno accordo
con il disegno della collana einaudiana di destinazione (Scrittori tradotti
da scrittori), all’idea del testo a fronte. Anche il rischio della «sopraffazione» è corso, coerentemente, «ad occhi aperti»32 : l’autorità del classico esige una verifica programmatica dello «specchio di Narciso» sul terreno
concreto della scrittura letteraria, chiamando direttamente in causa categorie critiche quali canone, stile, eredità, tradizione.
F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., 425.
F. Fortini, Prefazione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. LXVI e sgg. Meriterebbe un
discorso a parte la collaborazione «decisiva» di Cesare Cases, ricordata in questa sede
dallo stesso Fortini. Un primo prezioso contributo a riguardo è offerto da R. Venuti,
“Magister suavissime” – “Poeta clarissime”. Fortini, Cases e la traduzione del Faust, in «L’ospite
ingrato. Annuario del Centro Studi Franco Fortini» IV-V (2001-2002), pp. 289-292, pubblicato in appendice a una scelta di lettere dall’epistolario Fortini-Cases: un assaggio delle
«squisite disqusizioni» che animano l’intero carteggio, che ci si augura di vedere presto
raccolto in volume. (Cfr. Cesare Cases - Franco Fortini. Lettere scelte 1966-1978, a cura di R.
Venuti e E. Nencini, ivi, pp. 268-287).
31
F. Fortini, Prefazione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. LXVIII.
32
Cfr. F. Fortini, Nota del traduttore, cit., pp. 275-280.
29
30
158
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
È difficile, lo so, accettare che tradizione non sia ripetizione o celebrazione del passato. Tradizione (non senza implicita possibilità di
tradimento e trasgressione) è trasmissione e traduzione. […] Tradizione è coscienza del passaggio dal passato al futuro, atto di quel
transito, fondazione del futuro attraverso una selezione dell’eredità.
Tradizione è la passione nella quale ogni generazione comprende
interamente l’altra e comprende se stessa [Kierkegaard]. In ogni epoca
bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in
procinto di sopraffarla. [Benjamin]. Tradizione è il contrario dell’atteggiamento socialriformista che conserva tutto, affidandolo agli
specialisti; e che in realtà distrugge tutto. Novismo e giovanilismo
sono l’altra faccia della incapacità di scegliere.
Se valore e tradizione sono nozioni contigue, criterio di valore è criterio di scelta. E si sceglie dal passato per il futuro. […]
Tradizione culturale è uno specifico senso dei passaggi: da ieri (o secoli or sono) a domani (o secoli avvenire), da vita a morte, da malattia
a salute, da padri a figli come da figli a padri, da amori a odi e viceversa; senso che tutti possono avere e che a tutti può esser tolto,
senso di che quel che è conscio e di quel che non lo è, di storia e nonstoria. È senso della necessità di preparare agli altri, a tutti gli altri, le
condizioni – perché chiamarle “materiali”? Ogni condizione lo è […].
(ottobre 1978) 33
Se già a proposito del Faust Fortini si chiedeva di conseguenza se «le
categorie di “vecchio” e “superato”» potessero essere «davvero impiegate come categorie critiche» e non piuttosto «come occasione di
estraniamento, ossia possibilità di recupero, giudizio più vero dopo pregiudizio»34 , al più tardi il confronto con i testi di Kafka mostra di scaturire dal vivo della militanza ideologica del Fortini teorico, investendo
tout court la dialettica dei rapporti fra passato e presente, antico e moderno, “classico” e ”avanguardia” e svelando un’intima connessione con
l’intransigenza di un discorso critico portato avanti, senza esclusione di
colpi, come serrato meccanismo di pro e di contro35 .
Nell’area del contro rientrano gli atteggiamenti di stile propri delle
avanguardie, ma ne fa parte anche l’«onnipervasiva barbarie» delle convenzioni e delle mode, la falsa pretesa culturale di «partire da zero»
F. Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, Roma 1991, pp. 279-280.
F. Fortini, Prefazione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. LXVII.
35
Sulla dialettica come stile di pensiero e di scrittura in Fortini, (cui fa capo, fra l’altro,
l’impiego «a massa» del corsivo proprio delle sue «argomentazioni tradotte in asserzioni»),
cfr. in particolare P. V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Torino 1998, pp. 59-64.
33
34
159
Valentina Di Rosa
ignorando la profondità di campo della storia, sostituendo la «coscienza diacronica» con una più consona «bidimensionalità indolore», in cui
tutto risulta «compresente e inautentico», privato del «senso del “donde”
e del “dove”». La polemica coinvolge direttamente la «riduzione degli
antagonismi» inaugurata dal gusto moderno (e post-moderno), non lontana dall’atteggiamento che detta il supino ossequio dei classici, incoraggiando forme di «irrigidimento ripetitivo», con un effetto non innocente di «attenuazione dei rapporti originari fra il testo e il contesto della cultura e della società»36 .
Nell’area del pro, la difesa del linguaggio colto e letterario è solo l’altra faccia della denuncia della progressiva estinzione dell’italiano inteso come «forma linguistica di una cultura», come «organica connessione di valori e di ethos», come «stile intellettuale e morale»; laddove proprio la decadenza di questo prestigio, minacciato dall’«esistenza di una
cultura-linguaggio egemone», («una specie di super-lingua che toglie
senso e rilievo alle lingue d’uso e alle traduzioni dell’una nell’altra»)
sostiene l’impegno del traduttore a lavorare contro corrente, «contro il
tempo uniforme e convulso della passività» dettato da un’editoria «che
traduce il nuovo, ritraduce il vecchio (e invecchia artificialmente il nuovo per tornare a tradurlo)», non meno che dalla «rotazione accademica
che degnifica ogni scaffale della biblioteca illimitata». Ne deriva che
anche la traduzione-rifacimento «ha senso solo se inserita in una politica del linguaggio, in una politica della cultura, insomma in una politica» e che la strategia può, a sua volta, funzionare solo se «i modelli di
una letteratura e di una lingua» si rivelano «capaci di sopportare un uso
prolungato, la ripetizione, la variazione a partire da regole strette, la
memorizzazione, la trasmissione; di fondarsi su (e di fondare) tempi intollerabili a quelli che il capitale ha stabiliti necessari alla propria riproduzione»37 .
La scelta di non «assoggettare lo stile alla lingua», ma piuttosto «la
lingua allo stile»38 , risponde così per Fortini all’esigenza di conciliare
36
Cfr. F. Fortini, “Classico”, Un rifacimento dell’Ecclesiaste, Da una versione di Góngora, in
Id., Nuovi saggi italiani, Milano 1987, pp. 257-273 e 345-364; e Fortini. Lo scrittore parla del
tradurre come straniamento, a cura di V. Abati e A. Cioni, in «il manifesto», 10/11 agosto
1986, p. 11.
37
F. Fortini, Traduzione e rifacimento, cit., pp. 373-378. Sulla traduzione come «metafora centrale
per definire certe attitudini capitali di Fortini nel modo di predisporre i rapporti fra poesia e
lettore» cfr. in particolare A. Manfredi, Fortini traduttore di Eluard, Lucca 1992, p. 5 sgg.
38
È la scelta salutata, ad esempio, nella versione italiana del Sentimental Journey di Sterne
curata da Foscolo, il quale rinuncia opportunamente a «tradurre grammaticando,
160
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
simultaneamente più obiettivi: rimettere in gioco la «vena antica» del
registro letterario classico, significa contestare in primo luogo gli abusi
del gergo quotidiano, facendo leva sull’eredità del passato e sull’effetto
retroattivo proprio delle ricordanze, scongiurando così l’evenienza funebre di vivere «fra i monumenti della propria letteratura nazionale (o
delle altrui) come tra vaghi miti di una religione defunta […] invece di
render parlanti alcuni di quei monumenti ed abitabili alcune di quelle
necropoli o chiese o città; e abbattere il resto»39 ; significa inoltre evitare
gli effetti collaterali tipici del «traduzionese», (portato, ai suoi occhi, di
un non raro malcostume accademico) esposto al rischio di invecchiare
presto, ovvero di degenerare in un falso «stile d’epoca»; ripudiare infine
i tentativi di imitazione che, simulando autenticità, propongono invece
modalità di restauro e conservazione vicine alle implicazioni reazionarie del kitsch40 . «Portato massimo» di una vera traduzione è invece il
«colore della distanza» che scaturisce come crisi salutare dall’incontro
fra mondi dissimili, e che va preservato senza «nessuna cordialità», non
già proponendosi la restituzione fotografica del testo originale, ma mirando piuttosto alla verifica in controluce delle sue dinamiche interne,
secondo gli scopi più consoni di un’indagine radiografica41 . Era già stata l’intuizione di Benjamin, più volte citato in soccorso: «Spazi continui
di trasformazione, non astratte regioni di uguaglianza e di somiglianza
misura la traduzione»42 .
Lungo il filo di queste riflessioni, alla ricerca di un rapporto letterario con la lingua di Kafka, e soprattutto con la misura impervia della
sua «ascetica povertà», Fortini identifica il proprio referente stilistico
nella prosa delle Operette morali. Istituisce così, arditamente, un legame
trasversale fra due stili e due autori apparentemente distanti fra loro –
sillogizzando, citando con una serie di perpetui commenti,» (il corsivo è di Fortini), evitando
così il rischio di una «traduzione pianissima, eruditissima e grave». F. Fortini, Traduzione e
rifacimento, cit., p. 362.
39
F. Fortini, Come leggere i classici?, cit., p.54.
40
È questo anche il fondamento della critica alle traduzioni dall’Antico Testamento di
Ceronetti: «Sono dei rifacimenti; ma dei falsi rifacimenti. […] Non siamo lontani dalle
messe in scena di falsi drammi sacri in chiostri gotici autentici, sotto il patrocinio di qualche ente turistico provinciale. Lo spirito reazionario si manifesta sempre nello stesso modo:
come il tentativo di costituire l’autenticità in seno all’autentico; per separazione e non per
tensione». F. Fortini, Traduzione e rifacimento, cit., p. 365.
41
F. Fortini, Su alcune versioni di Il re di Tule, in Id., Nuovi saggi italiani, Milano 1987, p. 374.
42
W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco, a
cura di G. Agamben, Torino 1982.
161
Valentina Di Rosa
il «freddo tedesco» di Kafka da un lato e la «lingua glaciale e alta» di
Leopardi dall’altro –, accostando le due poetiche nel segno di una parentela ispirata non tanto da una consonanza di toni, ma da un criterio
di commensurabilità dettato, ai suoi occhi, dalla nozione stessa di “classico”43 .
Già Calvino aveva ricucito relazioni insospettate fra Kafka e Leopardi, individuando nei due autori una comune declinazione del genere
fantastico – inteso, quest’ultimo, nell’uso novecentesco e «non più emozionale» del termine, come «meditazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo»44 . A proposito di Leopardi, Fortini sottolinea invece la «perfetta coincidenza di solitudine e di forma, di suicidio
e di gioia»: nella sua rinuncia a «universalizzare il proprio esempio e
quindi a esigere un adempimento storico della propria profezia», Leopardi si conferma (implicitamente come Kafka) nel ruolo di ospite ingrato del proprio tempo, condannato all’incomprensione non solo dei
contemporanei, ma anche dei posteri «proprio con la sua esistenza giustificando almeno in parte le interpretazioni critiche di cui avremmo
voluto esserci sbarazzati per sempre»45 . In linea con un approccio rigorosamente «non simpatetico»46 , il denominatore comune individuato fra
i due modelli risiede così piuttosto nel carisma dell’«inattualità», riconoscibile nel corso del tempo come «potente additivo di significazione»:
«Non è una qualsiasi diversità di linguaggio o di visione del mondo; è
una diversità nel massimo della somiglianza. I classici di una lingua o
letteratura o civiltà hanno con il nostro presente un rapporto perturbante, di familiarità e di estraneità: sunt aliquid Manes»47 .
43
«La poesia classica è poesia della rivoluzione (O. Mandel’πtam 1922)» si legge sotto il
titolo Poesia e antagonismo in un contesto di riflessioni che, a proposito del valore alto della
letteratura (nuovamente associato al felice connubio fra «ripetizione e innovazione»), congiunge nella stessa triade «Leopardi, Proust, Kafka». F. Fortini, Non solo oggi, cit., pp. 206207.
44
Cfr. I. Calvino, Definizioni di territori: il fantastico (1970), in Id., Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, Torino 1980, p. 216.
45
F. Fortini, Il passaggio della gioia, in Id., Verifica dei poteri, cit., p. 219. Sulle Operette morali
quale canone di riferimento per gli autori del XX secolo che «hanno scritto per esprimere
la loro condizione esistenziale di stranieri, se non di ospiti indesiderati» cfr. in particolare
N. Bellucci, Le “Operette morali”: un libro per il ventesimo secolo, in «Un libro senza uguali». Le
“Operette morali” e il Novecento italiano, a cura di N. Bellucci e A. Cortellessa, Roma 2000,
pp. 13-25.
46
P. V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, cit. p. 70.
47
F. Fortini, “Classico”, cit., p. 269.
162
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
Procedimenti di estraneazione applicati al linguaggio: al Fortini che
si dice «parco conoscitore della infinita letteratura kafkologica» interessa di Kafka soprattutto il doppio fondo della scrittura, fatta di «tensione
e conflitto», di uno «strato gelato che protegge e garantisce un’altra dizione, fluente al di sotto»: un meccanismo di «slittamento» (o
«camuffamento») del senso, che lavora su due piani, («il dritto e il verso
della scrittura medesima»), conferendo all’intera opera una «natura
entomologica, da insetto»; essa appare «coperta all’esterno da corazze
chitinose, da articolazioni rigide e ungulate, mentre all’interno è palpitazione senza scheletro» e sembra perciò rimandare, quanto ai suoi «rapporti extraletterari», alla «relazione che le classi dominanti […] hanno
intrattenuto con il corpo e in genere con la realtà corporea degli esseri
viventi», mostrando di appartenere «ad un altro secolo; o a tutte le età»48 .
Da Kafka a Leopardi e ritorno, passando per la lezione di Brecht: alla
ricerca di una propria «ipotesi timbrica» reperibile solo in virtù di un
percorso diagonale, Fortini non tralascia lo scrupolo di un ulteriore passaggio, che consiste nel confronto con le traduzioni italiane stratificatesi
alle sue spalle49 , «perché nella versione del classico non consuona solo
”un’altra voce” (B. Croce) ma anche quelle dei predecessori: ogni scalata su Orazio ritrova i “ferri” degli scalatori precedenti»50 . Il risultato
finale tradisce tuttavia la ricerca di un rapporto di equidistanza dalle
diverse «esecuzioni», anche laddove Fortini sembra in parte confermarne le scelte.
La lettura di alcuni passi tratti da due racconti, diversi fra loro per
datazione, intreccio e svolgimento narrativo, può servire a esemplificare le strategie di stile adottate da Fortini. Il primo, Die Verwandlung, [La
metamorfosi, 1912], assurto a cifra dell’immaginario kafkiano, è la storia triste e nota dello scarafaggio Gregor Samsa; il secondo, Ein
Brudermord, [Un fratricidio, 1917], una prosa breve e molto più in ombra
nel contesto della produzione letteraria kafkiana, consiste nell’enigmatica sequenza di un omicidio, o anzi in una concisa drammatizzazione
dell’«estasi del delitto». La traccia della lettura a fronte appare suggerita anche in questo caso dallo stesso Fortini: «Uno potrebbe sperare di
giustificare le proprie scelte di traduttore di questi racconti, anche solo
F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 411.
In ordine cronologico: Rodolfo Paoli (1934); Anita Rho (1945); Giorgio Zampa (1957);
Emilio Castellani (1966); cfr. F. Fortini, Nota del traduttore, cit., pp. 278.
50
Fortini. Lo scrittore parla del tradurre come straniamento, cit.
48
49
163
Valentina Di Rosa
con le prime e ultime righe o parole. Il moto della sintassi e della intonazione vi diventa decisivo»51 . Esemplare al riguardo la versione dell’incipit
della Metamorfosi:
Kafka:
Als Gregor Samsa eines Morgens aus unruhigen Träumen erwachte,
fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheuren Ungeziefer
verwandelt. Er lag auf seinem panzerartig harten Rücken und sah,
wenn er den Kopf ein wenig hob, seinen gewölbten, braunen,
bogenförmigen Versteifungen geteilten Bauch, auf dessen Höhe sich
die Bettdecke, zum gänzlichen Niedergleiten bereit, kaum noch
erhalten konnte. Seine vielen, im Vergleich zu seinem sonstigen
Umfang kläglich dünnen Beine flimmerten ihm hilflos vor den
Augen52 .
L’azione comincia con un incubo che irrompe bruscamente nella realtà, proiettando il lettore, senza mediazioni di sorta, nella dimensione
inquietante dell’assurdo. Kafka lavora, sin dalla scansione del primo
periodo, con evidente consapevolezza compositiva: dal gioco studiato
delle assonanze e delle allitterazioni alla misura delle quantità sillabiche
(pressoché ugualmente ripartite fra le due metà del periodo) alla ricorrenza insistita del prefisso della negazione un– (unruhigen, ungeheuren,
Ungeziefer). Una simile concisione espressiva sembrerebbe predisporre
un tracciato di scelte semiobbligate, lasciando pochi margini alle oscillazioni di ritmo e di senso. E invece la differenza del testo di Fortini
rispetto alla versione cronologicamente più vicina (Castellani) risulta
da subito marcata.
Castellani:
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò
trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena
dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima
al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a
malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più
numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante53 .
F. Fortini, Nota del traduttore, cit., p. 279.
F. Kafka, Die Erzählungen und andere ausgewählte Prosa, a cura di R. Hermes, Frankfurt/
Main 1996, p. 96.
53
F. Kafka, La metamorfosi e altri racconti, trad. it. di E. Castellani, Milano 1966, p. 21.
51
52
164
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
Fortini:
Mentre un mattino Gregor Samsa si veniva svegliando da sogni
agitati, nel proprio letto egli si trovò mutato in un insetto mostruoso. Poggiava supino su di una schiena dura come una corazza e se
levava un poco il capo, vedeva convesso, bruno, diviso in nervature arcuate il suo addome, sulla cui eminenza la coperta, in punto di
scivolar giù tutta quanta, riusciva a malapena a mantenersi. Le numerose gambe, pietosamente esili in confronto alla sua
complessione, gli si agitavano dinanzi agli occhi in un insensato
tremolio54 .
«Due giorni di patimento»: la traduzione delle poche righe di esordio costa a Fortini numerosi rimaneggiamenti e andirivieni di parole,
(documentati in parte da lui stesso nella Nota), animati dallo scopo di
traslare l’equilibrio classico delle cadenze dell’originale, investendo il
ritmo, come già nel caso del Faust, di tutto il suo valore di «significante
supplementare»55 . Lo choc del risveglio risulta sottilmente attenuato
dalla nuova distribuzione degli accenti. In luogo del passato semplice
(«erwachte»), ricorre l’imperfetto che accentua l’aspetto della durata,
(la variante è persino ricercata: «Mentre […] si veniva svegliando»),
distante in tal senso dal testo di Kafka che propone invece un allinearsi,
in rapida successione, di momenti colti idealmente a distanza zero: per
Gregor Samsa svegliarsi è tutt’uno con il ritrovarsi catapultato in un
altro stato. L’effetto di questa tragica assurdità, priva di qualsiasi
sottolineatura di pathos, è accentuato in Kafka dall’impiego del registro impersonale, proprio di un resoconto informativo relativo a una
situazione di apparente normalità. Samsa è un commesso viaggiatore
e, come si evince poco più oltre dalla descrizione della sua stanza (dal
campionario di tessuti al periodico illustrato), anche il contesto in cui
vive è quello di una riconoscibile attualità. Fortini sceglie invece un
registro epico che proietta l’evento in un tempo vagamente irrelato: dopo
una ricercata anticipazione del complemento di luogo, ripete il soggetto che, ai fini della logica sintattica dell’italiano, appare superfluo («nel
proprio letto egli si trovò mutato»), ma serve invece a creare un’accorta
partizione delle quantità sillabiche del periodo: una «sorta di equilibrio di due membri, il primo in salita e il secondo in discesa secondo le
54
55
F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, cit., p. 59.
Cfr. F. Fortini, Venture e sventure di un traduttore, cit.
165
Valentina Di Rosa
esigenze della retorica classica», che indugia sui singoli intervalli di
tempo, suggerendo il compiersi di un’«azione protratta»56 .
Stessa funzione di frenare «il polso della pagina» ha la scelta dell’aggettivo «mostruoso» («ungeheuren»), che suggella la fine del periodo
con la sua «eco arcaica che è di apparizione […] e nello stesso tempo di
incredibilità»57 . Quanto all’inquietante e in parte misterioso animale58 ,
Fortini sceglie di tradurre «Ungeziefer» (la terza delle 3 negazioni che si
susseguono) con «insetto», (d’accordo in questo con tutti i traduttori
che l’hanno preceduto), non senza tuttavia approfondire le numerose
accezioni che il termine possiede nell’originale tedesco (e quindi nella
coscienza di Kafka). Il confronto con un classico impone infatti, ai suoi
occhi, l’esigenza di una radiografia del testo che renda conto dell’intreccio sottinteso di figure che rimandano da un luogo all’altro della lingua
e dei suoi usi invalsi nel tempo. Come racconta più tardi nella Nota del
traduttore, Fortini si interroga innanzitutto sul perché Kafka non sia ricorso qui al più corrente e neutro termine «Käfer»; ritrova così una probabile lontana origine di «Ungeziefer» nell’Antico Testamento, ovvero
nell’equivalente ebraico «Aròb» (nelle versioni italiane di volta in volta
«mosche velenose» «scarabei o tafani o mosconi o pidocchi»), a sua volta probabile etimologia di termini indicanti «mescolanza», nel senso
negativo della promiscuità, della proliferazione impura. Nel tedesco degli
anni ’10 e delle recrudescenze antisemite «Ungeziefer» è ormai passato
a designare, senza troppi mezzi termini, esseri di razza inferiore, per
poi diventare, di lì a poco, d’uso corrente nel gergo nazista come sinonimo di «ebrei, zingari, slavi, sottouomini». Il cerchio della parola si chiude così, non prima tuttavia che il traduttore ne abbia indagato il doppio
fondo, ridisegnando un complesso scenario di echi, rimandi, concor-
56
F. Fortini, Nota del traduttore, cit., p. 282. La versione di Castellani, fedele alla concisione
del tedesco, lavora, viceversa, sulla sottrazione, come conferma fra l’altro l’omissione di
«im Bett»/«nel letto», che ricompare spostato nel periodo successivo – una soluzione verosimilmente dettata non solo da un criterio di brevità, ma anche dalla necessità di evitare
una troppo ‘facile’ rima fra «letto» e «insetto».
57
F. Fortini, Venture e sventure di un traduttore, cit., p. 305. Il saggio, trascrizione del testo di
una conferenza tenuta a La Spezia il 1° dic. 1984, è riaccolto solo in parte nella Nota del
traduttore. La riproduzione del manoscritto (datato luglio 1982) è a p. 302.
58
È noto che Kafka si oppose fermamente all’ipotesi di vedere stampata sul frontespizio
della prima edizione della Verwandlung un’immagine realistica dello «Ungeziefer»: «Questo no, per favore, questo no! […] L’insetto non può essere disegnato. Ma non può neppure essere mostrato da lontano» (cfr. F. Kafka, Briefe 1902-1924, a cura di M. Brod, Frankfurt/
Main 1975).
166
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
danze, dentro cui è contenuto l’arco di un’intera vicenda storico-culturale59 .
Al confine fra la condizione umana e quella animale, anche il verbo
«verwandeln» reclama la sua parte: sul versante dell’italiano, Fortini
sente la parentela di questo processo di «retrocessione» «castrazione»
«impotenza» con il campo semantico del «mutare», (o «cangiare»), che
riprende dal testo di Anita Rho (1945) verosimilmente per il suo carattere desueto e «raro» che meglio si presta a suggerire, nella distanza dall’uso corrente, il valore perturbante di un’esperienza aliena. Ne derivano, come rivela il manoscritto, considerazioni indirette anche sul titolo,
per il quale Fortini pensa dapprima a un’ipotesi consimile («La mutazione»), per poi adeguarsi infine alle scelte degli altri traduttori e
riproporre l’immagine della «metamorfosi» (invalsa nella coscienza del
lettore italiano dalla prima versione di Rodolfo Paoli in poi), probabilmente per non compromettere il gioco di conferme e iterazioni, che lavora a favore della riconoscibilità di un classico anche secondo il principio dell’antonomasia60 .
Se «insetto» (sostantivo «freddo, meccanico, netto, kantiano») non si
impone come termine particolarmente ricercato61 , diverso è invece il
caso delle altre scelte lessicali che intervengono a tradurre l’esperienza
del nuovo corpo da parte di Gregor Samsa («levava», «capo», «eminenza», «complessione»), dietro cui è riconoscibile la propensione verso
l’«ornamento delle parole dotte» che già Vittorini rilevava, non senza
59
F. Fortini, Nota del traduttore, cit., pp. 283-284. L’altro cerchio che si chiude fra le righe è
quello che, a partire dalla stessa parola Ungeziefer, conduce ai campi di concentramento
attraverso l’accenno al destino delle «sorelle di Franz». Se Auschwitz è il punto terminale
del ragionamento, il riferimento alla Judenfrage chiama in causa fra le righe l’identità ebraica
dello stesso Fortini, affrontata più esplicitamente nell’ «apparente autobiografia» contenuta ne I cani del Sinai. Qui la dura contestazione della politica di Israele fa riaffiorare il
tema dell’ebraismo vissuto al tempo delle persecuzioni fasciste, e con esso la memoria del
padre, il suo modo di chiamare lui figlio per nome: «mi pare intendere che in quell’invocare un nome per spavento, per aiuto e quasi per demenza si legasse in lui e in me qualcosa a lunghi fili secolari di cellule nervose consunte per generazioni di umiliazioni e paura
e quello è ancora in me, grido di ferito». (F. Fortini, I cani del Sinai [1967], a cura del Centro
Studi Franco Fortini, Macerata 2002, p. 66).
60
F. Fortini, Venture e sventure di un traduttore, cit., pp. 303-304 .
61
«Quando Ladislao Mittner parla di “scarafaggio gigantesco” coglie senza dubbio la
sostanza assai meglio di quanto non facciano i traduttori. Ma le sue parole sono quelle di
un critico; giuste dunque solo come commento e nella necessaria ridondanza discorsiva.
Infatti la parola “scarafaggio” è calda, fugge via nello schifo; Insetto no, è freddo,
classificatorio». (F. Fortini, Nota del traduttore, cit., p. 282).
167
Valentina Di Rosa
accenti critici, nel Fortini della prima ora62 . Ma Fortini pare consapevole
dei propri eccessi di «dissimulazione classica» e non fa marcia indietro,
se non di pochi centimetri, teso com’è a legittimare anche le forzature in
nome dell’obiettivo di fondo: «Qui mi rendo conto di avere strafatto, il
“a paro della sua complessione” vuol essere un segnale, una lampadina
rossa, che avvisi il lettore, appunto: “qui pseudo-Leopardi”»63 .
Quanto a Ein Brudermord, il lettore viene introdotto anche in questo
caso, secondo il gusto narrativo amato da Kafka in Kleist, in medias res.
Tre, anzi quattro, le figure coinvolte nell’evento misterioso del delitto:
Schmar, l’assassino nervoso, Wese, la vittima ignara, Pallas, lo spettatore involontario dell’omicidio, infine la moglie di Wese che attenderà invano il ritorno del marito. Il testo allinea sequenze rapidissime, momenti
di enigmatica gestualità che avvicinano l’azione al codice figurato della
pantomima. Dopo il breve preludio dell’appostamento, in cui la vittima
si trova all’incrocio fra due strade, che sono anche il bivio del suo destino, si giunge alla scena culminante del delitto, costruita su un ritmo
sincopato, impresso alla sequenza laconica dei singoli gesti.
Kafka:
“Wese”! schreit Schmar, auf den Fußspitzen stehend, den Arm
aufgereckt, das Messer scharf gesenkt, „Wese! Vergebens wartet
Julia!“. Und rechts in den Hals und links in den Hals und drittens
tief in den Bauch sticht Schmar. Wasserratten, aufgeschlitzt, geben
einen ähnlichen Laut von sich wie Wese.[…]
Pallas, alles Gift durcheinander würgend in seinem Leib, steht in
seiner zweiflügelig aufspringenden Haustür. „Schmar! Schmar! Alles
bemerkt, nichts übersehen“. Pallas und Schmar prüfen einander.
Pallas befriedigt’s, Schmar kommt zu keinem Ende64 .
Castellani:
Wese! Grida Schmar, alzandosi in punta di piedi, il braccio teso, il
coltello sprofondato a trafiggere. “Wese! Julia ti aspetta invano!” E
giù un colpo a destra del collo, e un altro a sinistra, e finalmente un
gran colpo nel ventre. Il suono che esce da Wese è simile a quello dei
topacci sventrati. […] Pallas, ingozzato il corpo di veleno, sta sulla
soglia della porta, i cui battenti si spalancano. “Schmar! Schmar! Non
E. Vittorini, Gli anni del Politecnico, cit., p. 139.
La versione definitiva rivela, in questo caso, un lieve ritocco in senso meno sofisticato: in luogo
di «a paro» si legge «in confronto» (F. Fortini, Venture e sventure di un traduttore, cit., p. 304).
64
F. Kafka, Die Erzählungen und andere ausgewählte Prosa, cit., pp. 262-263.
62
63
168
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
m’è sfuggito nulla”. Pallas e Schmar si scrutano, Pallas è soddisfatto, Pallas non trova via d’uscita.65
Fortini:
Wese! –. Urla Schmar, dritto sulla punta dei piedi, levato il braccio,
affondando la lama del coltello. – Wese! Julia ti aspetta invano! E
Schmar colpisce, a destra in gola, a sinistra in gola e una terza volta,
a fondo, nel ventre. Simile a quello di Wese emettono un suono i
sorci di fogna sventrati. […] Velenosi travasi di bile lo strozzano,
Pallas. Sta sulla porta, spalancati i battenti: – Schmar! Schmar! Ho
visto tutto, nulla mi è sfuggito –. Pallas e Schmar si misurano con lo
sguardo. Pallas è compiaciuto, irresoluto è Schmar66 .
Di nuovo, il confronto con le scelte di Castellani consente di percepire
meglio la «vibrazione della diseguaglianza»67 introdotta da Fortini, mostrando come la sua strategia sia volta, in primo luogo, al disegno di una
partitura metrica compiuta: se l’originale propone una rottura delle cadenze proprie del narrato, Fortini ne riprende e amplifica gli effetti, architettando un sistema di accordi e rispondenze che piega la sintassi alla
logica quantitativa del verso. L’incidenza delle pause risulta modificata a
vantaggio di una più nitida scansione delle singole battute, «tanto più
intense quanto di più stretta escursione»: le cesure lavorano a produrre
un equilibrio statico delle immagini («sta sulla porta,/ spalancati i battenti»), dentro cui meglio risaltano i giochi di anticipazione e sottolineatura
ritmica («Simile a quello di Wese/ emettono un suono /i sorci di fogna
sventrati»; «Velenosi travasi di bile/ lo strozzano,/ Pallas»), i rimandi simmetrici, («colpisce, a destra in gola, a sinistra in gola e una terza volta, a
fondo, nel ventre»), gli effetti pronunciati di chiasmo («Ho visto tutto,
nulla mi è sfuggito»; «Pallas è compiaciuto, irresoluto è Schmar»).
La concitazione espressionista della prosa di Kafka sembra così convertita alla dizione poetica dello stesso Fortini, ovvero alla tonalità del
«declamato astratto» propria della sua ricerca lirica, nella quale «ogni
pericolo di enfasi è come frantumato dalla violenza percussiva della
sillabazione» e si avverte, riconoscibile, l’influenza di un «registro vocale brechtiano»68 .
F. Kafka, La metamorfosi e altri racconti, cit., pp. 141-142.
F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, cit., pp. 205-206.
67
F. Fortini, Un rifacimento dell’Ecclesiaste, cit., p. 348.
68
Cfr. G. Raboni, Temi resistenziali e “stile da traduzione” in Foglio di via, in Per Franco Fortini.
Contributi e testimonianze sulla sua poesia, a cura di C. Fini, Padova 1980, pp. 155-161.
65
66
169
Valentina Di Rosa
Questioni di piglio e di accento69 : gioverebbe senza dubbio alla regia
«anti-mimetica» di questo complesso dettato l’integrazione di una lettura ad alta voce, che più efficacemente riuscirebbe a svelare il legame
sottinteso fra «scritto» e «parlato»70 . Torna anzi in mente l’immagine
dello stesso Fortini ritratto da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet71
mentre, con voce impassibile e priva di inflessioni di pathos, recita le
prose dei Cani del Sinai, rivisitando il passato e il presente della «interminabile Judenfrage», senza mai disgiungere – anzi interrogando insieme – la propria vicenda di ebreo e il proprio isolato dissenso nei confronti della politica militare di Israele.
Le riflessioni di Fortini sulla trasposizione filmica del testo ad opera
dei due registi aggiungono elementi di comprensione alla sua idea di
rifacimento, qui celebrato nel suo valore di «distruzione-rinascita». Nel
farsi ripetizione di un «teatro di giovinezza», («i nomi della mia adolescenza, le parole di mio padre, l’orrore e la vergogna da cui tutti noi
eravamo emersi»), la recitazione davanti alla macchina da presa ha il
merito di stemperare la rabbia di parole scritte «a muscoli tesi», convertendo la «rinuncia» in «promessa» e il senso di un’«esistenza sconfitta»
nella ritrovata fiducia in un «passato che potrà essere anche futuro se
qualcuno saprà volerlo»: «”Non qui ma altrove” è il pensiero dominante
del film. In verità ciò significa “Non oggi ma ieri e domani”».
Nelle istruzioni che Danièle e Jean-Marie mi proponevano, il testo
mi si estraniava sotto gli occhi; la mia difesa era debolissima, lasciavo che liaisons inattese alterassero la punteggiatura e la sintassi. Capivo che l’operazione filmica, proprio modificando quanto recava la
mia firma, proprio disfacendo il tessuto dei miei pensieri, li sormontava, li conservava72 .
69
Sono le stesse qualità ammirate nella lezione di Sebastiano Timpanaro, (riferimento di
primo piano non solo nel contesto degli studi leopardiani), risultato di una capacità di
imporsi non tanto in virtù delle «opinioni», quanto in forza di una incombente «autorità».
(F. Fortini, P. Jachia, Fortini – Leggere e scrivere, cit., pp. 90-91).
70
«Pagine che […] coprono l’espressione sotto apparenze comunicative tendono a ridurre
al minimo le tracce dell’intonazione: per questo chi le legge ad alta voce conferirà solo un
minimo di espressione e parlerà “come un libro stampato”. È il caso delle prose di Leopardi» (F. Fortini, Scritto e parlato, in Id., Verifica dei poteri, cit., p. 84).
71
Fortini/cani: il film, realizzato nel 1976, è l’ultima parte di una «trilogia della questione
ebraica», che comprende inoltre Introduzione alla “Musica di accompagnamento per una scena
di un film” di Arnold Schönberg (1972) e Mosè e Aronne (1974). (Cfr. F. Fortini, Disobbedienze I.
Gli anni dei movimenti – Scritti sul manifesto 1972-1985, Roma 1997, pp. 129-130).
72
F. Fortini, I cani del Sinai, cit., pp. 77-79.
170
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
Il pregio del lavoro condotto dai due registi («“morti-viventi”»)73 ,
apprezzato non a caso come «straordinaria lezione di metrica», sta nella costruzione di un meccanismo di attrito che reinventa daccapo il ruolo
di «quel signore che legge, quasi incredulo, quel che un altro se stesso
ha scritto, con un’enfasi riverberata dai silenzi e dai fragori del presente circostante». Il contrasto tra la sagoma parlante di Fortini e la «luce
stupefatta» delle Alpi Apuane, teatro di «stragi antiche e moderne»,
funziona come aperta denuncia rivolta dal passato verso il presente:
lavorando sul tono «stridulo» della voce che parla «soverchiata dall’assenza», il film documenta «senza lirismo e senza autobiografia» le «lacune del reale», («le fosse di quel che non c’è»), insistendo così sulla
stessa cogente verità pronunciata sull’orlo della morte da uno dei ribelli del crematorio di Auschwitz, che suggella le prose dei Cani del Sinai:
«Se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a
te»74 .
Qui come altrove, Fortini sa di muoversi nella «zona contestata» della frontiera, ove «la modesta metafora allude ad aree infradisciplinari, a
punti di contatto o di frizione fra conoscenze, intenzioni, finalità diverse», là dove si fa arduo distinguere «fra giudizi letterari, considerazioni
di costume, critica della cultura, valutazioni politiche»75 . La difesa della
posizione militante del «contrabbandiere» risulta in questo quadro direttamente proporzionale all’investimento sul ruolo dei destinatari, tingendosi dell’ansia del «venire al dunque» già amata da Brecht in Lenin,
e vissuta come «impazienza per uno scontro fra il presente e un futuro
evocato solo a forza di volontà»76 :
La speranza e la sfida è, tutt’al più, che chi legge senta che oltre le
parole c’è qualcosa, sgradevole come un grano di sabbia sotto i denti, come la vergogna o l’invidia che si prova ritrovando una foto del
passato che ci abbia ritratti in un momento di abbandono. Una resistenza e una estraneità interrogative […]. Se la pagina è scrittura, o
almeno ambisce ad esserlo, convoglia fino a noi alcunché da maestri
73
Cfr. la definizione fortiniana di “classico” nell’omonimo saggio; nella lettera scritta a
Straub il 2 dic. 1976 a proposito del film, Fortini include anche se stesso nel significato di
tale nozione, definendosi «poco dell’oggi, seppure con qualche speranza di essere, postumo, di domani». (Cfr. Id., Disobbedienze, cit.).
74
F. Fortini, I cani del Sinai, cit.
75
F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1609 e sgg.
76
B. Brecht, Poesie e canzoni, cit., p. VIII.
171
Valentina Di Rosa
e modelli anche remoti, anche sconosciuti, che nulla chiedono per il
recapito ossia tutto: noi stessi77 .
Coerentemente, dal lettore dei racconti tradotti del «grande poeta di
Praga», Fortini si aspetta che raccolga la provocazione implicita
nell’«effetto sghembo» dei testi e ne tragga il beneficio della
disobbedienza, da un lato rifiutando il facile consenso tributato a Kafka
e ai kafkismi proliferati nel tempo a dismisura («il consumo che ne è
stato fatto, eccelso e volgare come di certi cibi consacrati che si vendono
sulle soglie dei santuari, fra il mercato e l’oracolo»), dall’altro mettendo
a frutto la lezione di metodo suggerita, come principio avversativo, dal
modello ideale di un italiano «esanime, dissanguato, bisognerebbe dire
kashèr»78 .
Va pur detto, tuttavia, che indulgendo al gioco reiterato dell’interferenza, la versione di Fortini finisce con l’imporsi a scapito della voce
dell’autore di cui, a furia di riempimenti e traslazioni, scalfisce e compromette il tono, tradendo, insieme alla scabra misura della prosa tedesca, il senso stesso di una poetica: la sua lingua ricercata, erudita, altisonante, batte proprio là dove lo stile di Kafka duole, ovvero significa in
virtù del non-detto, di un arcano e inimitabile «non-stile» (H. Arendt).
Ed è qui che forse si rivela il segno di una distanza più profonda che
separa autore e traduttore, che non è di stile ma di poetica: Kafka «non
docet» (G. Mesa) e invece Fortini raramente dismette la vocazione e
l’habitus di questo compito ingrato, mai dimentico delle implicazioni
etiche ed estetiche della propria e altrui letteratura, sì che il suo lavoro
in questo caso appare meno motivato dall’obiettivo di comprendere Kafka,
che non dall’ambizione di ri-comprenderlo entro l’orbita complessa dei
propri intendimenti ideologici.
L’impresa di questa nuova «esecuzione» ritrova così la sua più autentica legittimazione non tanto nel confronto con l’«intraducibile
purismo» (K. Wagenbach) dell’originale tedesco, quanto piuttosto nella
fedeltà a una poetica della ripetizione e della memoria, in cui la professione pubblica di un «engagement ossessivo senza partito» si intreccia
con una più intima religio dei classici, proponendosi come testimonianza di un più lungo corso lungo l’asse che congiunge, e vincola, lo ieri al
domani: un richiamo al «dovere-valore» della durata («una volta per
sempre») contro l’urgenza e la dissipazione del tempo imposte dai ritmi
77
78
F. Fortini, Destinatari, in Id., Non solo oggi, p. 48.
F. Fortini, Nota del traduttore, cit., pp. 279 e 285.
172
Verifica di uno stile. Note su Fortini traduttore di Kafka
del capitale – un gesto di salvaguardia e insieme di resistenza all’oblio,
o anche solo un «atto di pietà personale come di chi raggiunge a piedi
un santuario per sciogliere un voto»79 .
La controfigura di Enea, riconoscibile fra le ultime righe del saggio
Traduzione e rifacimento, condensa in tal senso il nucleo utopico dell’eredità di Fortini: nell’epoca della fugacità mediatica delle guerre, appiattite sulla «bidimensionalità indolore» dello schermo televisivo, l’immagine del traduttore-superstite dice la militanza di chi serba tenace – a vantaggio dei posteri – una coscienza vigile e critica dell’antico80 . Simile
all’«Angelus Novus» dipinto da Klee e riletto da Benjamin, egli vorrebbe, incalzato dalla «bufera» dell’immemore «progresso» che soffia dal
paradiso, «ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi»81 ;
come lui, impossibilitato a sostare, mosso da un medesimo senso di
apocalissi e catastrofe, appare perciò intento a difendere il miraggio di
una lingua salvata di cui nutre, ostinato, la «nostalgia di futuro» foriera
del mito:
L’esigenza profonda di quello che ho chiamato il «rifacimento» è
[…] che la variazione a partire dai modelli garantisca anche la trasmissione della esperienza per entro i ceti e le classi votate oggi alla
radicale distruzione di ogni propria memoria, anche di quella del
loro prossimo passato. In altri tempi il simbolo della scelta, di cui la
traduzione e il rifacimento sono altrettanti momenti e specie, ci era
potuto apparire come la figura del superstite, che lascia la città in
fiamme col padre in spalla, i penati in braccio e il figlio a fianco. Ma
oggi sembra meglio appropriata la figura – a noi familiare dai video
quotidiani – di chi fra le rovine di quella che fu la sua città o la sua
casa, senza fuggire altrove, va cercando alcunché di scampato al
passaggio dei distruttori per impiegarlo, quando che sia, come materiale nella ricostruzione, e fin d’ora godere di quelle che nel contesto tutto mutato saranno divenute la sua bellezza e la sua utilità82 .
F. Fortini, Traduzione e rifacimento, cit., p. 377.
Per un bilancio postumo del pensiero di Fortini misurato sulla «realtà della contraddizione» riesplosa nell’ultimo decennio successivo alla sua morte, a dispetto della celebrazione post-moderna del «virtuale», cfr. in particolare l’introduzione di R. Luperini a F.
Fortini, Un giorno o l’altro, cit., pp. XVI-XVIII.
81
Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino 1997, p.
37.
82
F. Fortini, Saggi italiani, cit., p. 379.
79
80
173