Gli spari mandarono in frantumi il parabrezza della

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Gli spari mandarono in frantumi il parabrezza della
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Gli spari mandarono in frantumi il parabrezza della
ferma sul terreno abbandonato che serviva da parcheggio per il mercato di via al Kifah. Il conducente fu
ucciso sul colpo. Un proiettile trapassò il sedile posteriore, tra Felix Miller e il contabile iracheno. I due uomini si buttarono di lato e sgusciarono fuori dalla berlina.
Felix perse di vista il compagno, subito inghiottito dalla
strada. D’impulso controllò l’ora: erano le 7:06.
Il crepitio delle armi automatiche annegò i rumori
del mattino a Baghdad. La folla dei passanti si disperse,
cercando rifugio sotto i portici. Le donne cariche di buste della spesa si rannicchiarono davanti alle botteghe.
Intorno a loro, piccoli geyser di polvere schizzavano
dalle facciate in calcestruzzo e mattoni. Un gruppo di
bambini, nascosti dietro alle colonne, sfidava il fuoco
per tentare di capire chi stesse sparando. I commercianti gridavano abbassando in fretta e furia le saracinesche,
nella speranza di mettere al riparo i banchi di frutta
e verdura. Bisognava solo aspettare che la tempesta di
piombo cessasse. Era diventata una questione d’abitudine. Da quando i carri armati americani erano entrati
a Baghdad, nell’aprile del 2003, la città era sprofondata
nel caos.
Felix, un ex campione di atletica, si mise a correre a
lunghe falcate tra le buche e le pozze di fango. Il sudore
gli bagnava i capelli biondi e colava lungo il viso. Nel
calore già torrido del primo mattino, la camicia leggera
gli si appiccicava alla pelle.
Non c’era nulla di casuale in quell’attacco.
BMW
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La prima raffica, messa a segno con precisione, aveva
preso di mira la BMW. Poi era stata colpita la Chevrolet
bianca, che stava facendo manovra per parcheggiarle
di fianco, ma i vetri blindati avevano resistito. Che cosa era successo a Ned?, si chiese Felix, senza staccare
lo sguardo dal marciapiede sconnesso. Dietro di lui, il
fuoco era aumentato.
L’orologio di Felix segnava le 7:10. Scartò di lato per
evitare il velo nero di una donna accovacciata a terra,
che sembrava continuare a pregare nonostante quell’inferno. Con la coda dell’occhio individuò poco lontano
un Internet café con le serrande non ancora del tutto
alzate. Senza pensarci un attimo ci si infilò e si buttò
su una postazione già collegata. Non ho scelta, si disse.
Aprì la posta elettronica, scrisse quattro parole ed ebbe
appena il tempo di leggere l’avviso di messaggio inviato.
Alzò la testa.
Le raffiche laceravano l’aria, e al frastuono si mescolava il lugubre lamento delle ambulanze.
Uscito dal locale, Felix ebbe la sensazione di essere
seguito. Non si voltò, mentre schivava un uomo chino
su una bicicletta. Gli restava una cosa da fare. Premette
il tasto di ripetizione di chiamata del cellulare. Doveva
parlare con il contabile iracheno, rassicurarlo, dirgli che
era vivo e che dovevano rivedersi. Gli avrebbe mentito: Stai tranquillo, non era con noi che ce l’avevano. Se
avessero voluto ucciderci, lo avrebbero fatto. Come con
Frank. Diede un’occhiata al display del cellulare, nessun segnale. Tentò di nuovo.
Il primo colpo raggiunse Felix alla spalla sinistra nel
momento in cui rimetteva in tasca il telefono. Barcollò, sforzandosi di mantenere l’equilibrio. Impugnando
saldamente la Glock con la destra, ruotò su se stesso e
posò un ginocchio a terra. Fece fuoco due volte: l’uomo che si stava avvicinando rovinò al suolo. Centrato,
pensò alzandosi.
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Fu allora che un violentissimo urto allo stomaco lo
proiettò lungo disteso a terra. Il bruciore era così intenso che ebbe la sensazione di essere stato tagliato in
due. Si rese conto di non riuscire più a respirare. Sentì
il sapore del sangue riempirgli la bocca, e sbatté la testa
sull’asfalto.
Davanti agli occhi di Felix apparve il velo della donna in nero. L’orologio gli inviò per l’ultima volta il riflesso digitale di un tempo che stava per fermarsi. Erano le 7:16 a Baghdad, e la morte aveva cominciato bene
la giornata.
***
La sala operativa del Secret Service, al piano terra
della Casa Bianca, era immersa nell’alone rassicurante
degli schermi di controllo. Gli agenti, camicie bianche
e pantaloni neri d’ordinanza, si muovevano in silenzio. Seduto nel suo ufficio dalle pareti di vetro Martin
Swanson, il loro capo, era in attesa. Un orologio elettronico appeso al muro indicava che era da poco passata la mezzanotte. La data era cambiata con un lieve
schiocco, e le lettere e le cifre di un verde fluorescente
segnalavano che era giovedì 13 agosto. La tensione degli ultimi giorni – ormai sono quaranta, aveva calcolato
Martin – era impressa sul suo volto. La pelle nera virava
al grigio nelle borse sotto gli occhi, e le rughe, che da
sempre gli incidevano le guance, disegnavano ora due
solchi d’ombra intorno alla bocca.
Nel cono luminoso della lampada brillava la stella che
Martin portava da quando era entrato nel Secret Service,
venticinque anni prima. Le cinque punte del distintivo
indicavano i cinque princìpi che dovevano guidare la vita
degli agenti incaricati di proteggere l’uomo più minacciato del mondo: le prime quattro erano giustizia, dovere,
coraggio, onestà. Martin aveva riposto anche l’arma da
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fianco che portava a Washington, una compatta Boberg
XR9, facile da nascondere. Nessun oggetto personale ingombrava la scrivania, come a rimuovere le immagini del
passato.
Alle 0:12 sullo schermo di uno dei computer prese
a lampeggiare un segnale luminoso. Martin capì, senza
nemmeno bisogno di decifrare il messaggio in arrivo,
che anche il suo ultimo tentativo era fallito. A Baghdad
niente era andato come previsto. In una situazione normale, Felix non gli avrebbe mai mandato una mail non
criptata. Avrebbe sicuramente rispettato le rigide norme di sicurezza. Era già morto anche lui, come Frank?
Oppure era nascosto da qualche parte, nella città più
pericolosa del mondo? Aveva scoperto quello che era
andato a cercare?
Scrisse un memorandum a uso interno per avvertire
il suo vice, Tom McKerry, di prendere il comando del
Servizio per una settimana, e lasciargli le consegne. Infilò la Boberg nella fondina e afferrò il distintivo, la stella
la cui quinta punta gli intimava lealtà.
Si alzò, e fece scivolare un fascicolo con il timbro TOP
SECRET nella tasca interna della giacca grigia. Poi prese dallo scaffale un libro rilegato in pelle blu. «Anche
quando camminerò nella valle della morte, non temerò
alcun male, perché Tu sei con me» sussurrò, stringendo
la Bibbia nella mano robusta.
***
Charles spalancò gli occhi, chiedendosi quale dei
suoi incubi lo avesse strappato dal sonno. A volte, senza
preavviso, uscivano dal recinto della memoria. E venivano a galoppare sul suo petto lasciandolo smarrito e
senza fiato. La voce lacerante di Fairuz, che lo aveva
cullato fino all’alba, riempiva ancora la stanza protetta
dalle tende pesanti. Habaytak bisayf, habaytak be she18
ti, cantava la diva libanese. Ti ho amato in estate, ti ho
amato in inverno.
Si sedette alla scrivania, in quella stanza d’albergo in
cui aveva trovato rifugio da un anno, nel cuore di una
città naufragata. Si chinò sul portatile, in mezzo al disordine, tra libri letti a metà e pagine a malapena abbozzate. Cercò il sorriso luminoso di Marine, impresso nei
ricordi indelebili di un archivio digitale: l’unica donna a
cui avrebbe potuto dire «per sempre». Ma non ne aveva
avuto il tempo, lei se n’era andata prima.
Charles bevve un sorso di whisky, e si tuffò nel conforto della nostalgia. Voleva sentire una volta di più l’assenza di Marine. Fissò i suoi ridenti occhi neri in una
delle ultime foto che le aveva scattato a Parigi, quando
il freddo era ormai arrivato per restare. Nartartak bisayf,
nartartak be sheti. Ti ho aspettato in estate, ti ho aspettato
in inverno, cantava Fairuz.
Era troppo presto per bere, e Charles andò a vomitare, la testa nella tazza del water, con un crampo tremendo allo stomaco. Furono i passi precipitosi e i richiami
nei corridoi dell’hotel Manara a riscuoterlo. Fairuz continuava a cantare, We aoyonak bisayf, we aoyoni sheti.
I tuoi occhi sono l’estate, i miei occhi sono l’inverno. Ma
le voci, fuori, incitavano a sbrigarsi. Baghdad si era svegliata furiosa, e non era il caso di farla aspettare.