arteatro_giovani Macchina Modulare Simulacri alla Tarantino

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arteatro_giovani
Macchina Modulare
Simulacri alla Tarantino. Fugaci apparizioni escono dal video e si incarnano in anomale figure. Grosse cuffie martellano l’ambiente
riservato allo spettatore. Guy Debord in didascalia chiarisce: è lo Spettacolo, bellezza...
pubblicato mercoledì 27 settembre 2006
Guy Debord parlava di Società dello Spettacolo, come è noto, già nel 1967. Il gruppo perugino Macchina Modulare,
con La Società dello Spettacolo, fin dal titolo dichiara il proprio tributo alla celeberrima opera, seguita due decenni dopo
dai non meno puntuali Commentarii. Non dunque di prestiti, influenze o derivazioni occorre parlare, ma della fedele
trasposizione performativa di un testo filosofico.
A piccoli gruppi, veniamo condotti in una stanza costruita con tramezzi di tendaggi neri. Ad accoglierci, una decina di
sedie dotate di cuffie e uno schermo piatto applicato su una parete: Macchina Modulare ci dispone passivi a contemplare
immagini su schermo, in letterale consonanza con gli strumenti dello spettacolare integrato descritto da Debord.
Immaginiamo che anche gli altri spettatori si sistemino in spazi analoghi. Un uomo in canottiera grasso e sudato annota
un indirizzo su un foglietto, e lo confronta con una fotografia di una ragazza bionda, che ritrove remo all’interno della
nostra stanza contornata da altri loschi figuri: una telecamera a mano ne segue le azioni rimandandole sugli schermi, in modo che tutti
gli spettatori possano seguire. Probabilmente una ragazza è finita nel mirino di un qualche magnaccia. Probabilmente altri protettori si
oppongono.
Il video, intercalato da azioni live che invadono i luoghi del pubblico, ci descrive una vicenda pulp dai contorni volutamente indefiniti.
Probabilmente tutti finiscono morti ammazzati, stando su una dell e situazioni in cui tutti si puntano ripetutamente la pistola alle tempie.
A fungere da controcanto al flusso visivo si ascolta in cuffia un tracciato audio bifronte: le parole di Debord, pronunciate con accento
francese e traslate in video tramite frasi bianche su sfondo nero, e una miriade di stimoli dal sapore Blobbiano nei quali finisce dentro di
tutto, dalla parlata di Marcello Mastroianni ai pacchi di Pupo, da Lou Reed a Giuliano Ferrara che difende Berlusconi. Ma non solo.
Elaborando il Debord che invoca oscurità
–vuoto di immagine per creare immaginazione– Macchina Modulare insinua nella trama sonora alcune ripetute interferenze che
mirano forse a scuoterci, noi spettatori sotto morfina, da tempo assuefatti ai bombardamenti mediali: i melliflui vocalizzi di Bjork, poco
prima di salire al patibolo in Dancer in the dark; la resa dei conti tra i due antagonisti di Kill Bill, una delle rare epopee dei nostri giorni;
infine, voc e contro per eccellenza, il cantore del tedio domenicale nella nostra Emilia paranoica, il Giovanni Lindo Ferretti del quale
invidiamo la fedeltà a una linea creata con anni di silenzio mediatico, in perfetto parallelo con l’asciuttezza produttiva del filosofo. Già
l’incipit in cuffia apparteneva all’ex CCCP e CSI: “Questa è una preghiera. Le parole qui sono usate per massacrarvi”. Se Debord è stato
definito il Marx del consumismo, Ferretti può a buon titolo divenire il Debord della nebbia - di- provincia italiana di fine secolo.
Una preghiera, dunque. Non già una critica, difficile oggi ancor più che in passato data l’inappellabile estinzione di interlocutori disposti
a raccoglierla. Una definitiva vittoria dello spettacolo era stata segnalata da Debord fin dal primo libro: chi si oppone deve scendere sul
suo stesso piano, adottarne la sintassi, rifare il suo linguaggio. Macchina Modulare lo sa, e immerge i suoi spettatori dentro tale
ricreazione. Ma tenta anche, in modo non troppo sotterraneo, di produrre piccole deviazioni, inciampi nel flusso, scarti sul pensiero
unico. Qui il punto debole, per chi scrive. Come detto, il video viene prodotto in diretta, smascherandone la finzione ma non l’illusione,
dal momento che l’immagine continua a esercitare la propria attrazione. Il rischio che il lavoro non riesce a evitare del tutto è un certo
compiacimento, una sorta di sottomissione al lucido magnetismo delle icone dei nostri tempi, che tende a far perdere di vista il disegno
di fondo. Un esempio di quanto stiamo sostenendo lo troviamo nel finale, ammiccante senza mezzi termini: la fisarmonica di Ferretti
accompagna il sollevamento delle pareti- tendaggi, coup de théâtre piuttosto prevedibile che decostruisce le cinque “cellette” nelle quale
eravamo rinchiusi, ora non più attori e spettatori ma mero raggruppamento di uomini e donne nello stesso capannone industriale.
Si impongono, a questo punto, una serie di interrogativi. Basta tale svelamento a perché chi assiste possa prendere coscienza di
qualcosa? Se l’opera si dirige a una massa di spettatori anestetizzati, come siamo tutti seguendo Debord, non ci staremo
reciprocamente rassicurando, elevandoci a microbica elite pseudo -illuminata, mentre il mondo fuori continua indifferente? In che
posizione dobbiamo situare questa Società dello Spettacolo rispetto alla deriva ormai post-spettacolare e ultra-comunicazionale? Si
tratta di critica, di fotografia di paesaggio o piuttosto di oleografia rassicurante?
Nell’impossibilità per chi scrive di desumere direttamente dall’opera una presa di posizione chiara, origine dei dubbi qui sollevati,
giriamo direttamente tali questioni a C. L. Grugher, regista-creatore del lavoro. Perplessità e domande da prendere primariamente
come richieste di chiarificazione. Probabilmente eterne dispute che contornano tutta l’arte di contenuto politico, difficilmente risolvibili in
maniera definitiva. E che (forse), esulano dall’analisi di un lavoro tecnicamente impeccabile, acuto e rigoroso. In ogni caso figlio - dalle
molte potenzialità- del disorientamento dei nostri tempi.
lorenzo donati
spettacolo visto il 10 giugno 2006
Teatro del Lemming FESTIVAL OPERA PRIMA
Il TEATRO dello SPETTATORE
www.teatrodellemming.com
Rovigo, giugno 2006
Torre Pighin – via Pighin 22
45100 Rovigo
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