ALLA CONQUISTA DEL FUTURO Postfazione Questo è un libro per
Transcript
ALLA CONQUISTA DEL FUTURO Postfazione Questo è un libro per
ALLA CONQUISTA DEL FUTURO Postfazione Questo è un libro per imprese che competono in un mercato globale; in altre parole, questo libro per quasi tutte le imprese, solo che la maggioranza delle imprese italiane ha ancora l’illusione che la competizione possa rimanere limitata al mercato domestico. Hamel e Prahalad sono i due professori americani che hanno maggiormente innovato nelle teorie del management: fondamentale è stato il loro articolo sulle “core competencies”, apparso sull’Harvard Business Review del maggio-giugno 1990, che ha effettivamente contribuito a riposizionare il modo di pensare del management americano. In questo libro l’obiettivo degli autori è di focalizzare l’attenzione del lettore e del management verso quelle attività che possono, nel tempo, portare una posizione vincente per l’impresa, invece di lasciarsi trascinare dai luoghi comuni o dalle attività di gestione day-by-day; è un libro molto importante e che comunque darà un altro contributo positivo alla competitività degli Stati Uniti. Da un punto di vista italiano è importante fare una serie di osservazioni complementari, per rendere il modello di comportamento sviluppato dagli autori per la realtà americana ancor più adatto alla nostra realtà. La prima e fondamentale osservazione è che attrezzarsi per competere nel futuro non significa solo dedicare tempo alle attività di pianificazione, ma significa soprattutto elaborare schemi mentali e valori di riferimento che siano funzionali a tale obiettivo: il manager o l’imprenditore che ritiene eterna l’esistenza del mercato domestico potrà dedicare tutto il tempo che vuole alla pianificazione del futuro, ma mancherà l’obiettivo se non adotterà uno schema mentale nel quale il mercato domestico non esiste più, e se non si svilupperà, per sé o per i suoi manager, un sistema di valori premiante per chi saprà competere in tale situazione. Gli imprenditori e i manager sono normalmente persone dotate di capacità logiche e raziocinanti; la differenza fra i vincenti e i perdenti è solo negli schemi di ragionamento adottati (in base ai quali sono sviluppati dei piani che rispondono comunque a requisiti di logica e razionalità). È quindi importante intervenire sugli schemi di ragionamento. Le riflessioni di Hamel e Prahalad sono molto permeate da una cultura americana, nella quale è possibile, attraverso l’impegno, trovare nuove soluzioni che possono essere comprese e trasmesse a tutta l’organizzazione. Se un’impresa opera su basi internazionali, la prima regola che deve adottare è quella di “sapere di non poter sapere”: non è possibile dominare la conoscenza di quello che accade o che si dovrebbe fare in cinquanta paesi diversi. È meglio quindi organizzare in modo che in prima linea ci siano persone adeguate e motivate a cogliere le singole opportunità: molte di queste persone non saranno dipendenti dell’impresa, in quanto ci vuole una costellazione di imprenditori, agenti, e professional, ciascuno radicato nella sua specifica realtà e potenzialmente vincente, con un mix di caratteristiche, obiettivi e vincoli difficilmente dominabile con la semplificazione tipica delle grandi corporations nelle quali ogni persona è importante ma non indispensabile. Per competere con successo in un mondo globalizzato, complicato, e con infinite opportunità è assolutamente necessario adottare dei modi di pensare adatti a tale contesto, e che non sono assolutamente quelli tipici delle grandi aziende italiane. Il modo in cui ancora oggi si organizzano le aziende, grandi o piccole, deriva da vecchi concetti e da un modo di pensare dei manager che riflette un’esperienza lavorativa in mercati protetti; poiché l’organizzazione delle aziende influenza enormemente il modo di pensare e la percezione dei rischi/opportunità competitivi, questo modo di organizzare le aziende basato su un modo che non c’è più costituisce un vero e proprio pericolo strategico. Per esempio, molti manager sono coscienti del fatto che la competizione si sta globalizzando anche nel loro settore, però non sono disposti a comportarsi di conseguenza, anche sul piano organizzativo; insistono quindi a distinguere il mercato nazionale da quello internazionale, a privilegiare le carriere di persone con la nazionalità di origine dell’azienda, ad adottare procedure diverse a seconda dei paesi ecc. Occorerebbe invece riflettere a fondo sulle tendenze di business e derivarne nuovi concetti organizzativi, basati anche sulle nuove opportunità che offrono l’infinita potenza dell’information technology e la maggiore istruzione e professionalità oggi presenti in azienda; da queste riflessioni emergerebbe un quadro concettuale nuovo e particolarmente adatto alle aziende che si troveranno a operare in mercati più grandi, più competitivi, e in più rapida evoluzione. Dato che per cambiare il comportamento di un’azienda ci vogliono anni, è necessario anticipare le evoluzioni del contesto competitivo per poter essere puntuali all’appuntamento, e creare al contempo la capacità dell’azienda di comprendere la reale portata del quadro competitivo stesso. L’evoluzione della competizione E’ evidente che ogni situazione di mercato è specifica: il cemento e le telecomunicazioni evolvono con tipi di competizione differente. Tuttavia, vi sono almeno cinque megatrend che hanno un impatto generalizzato, anche se con differente intensità a seconda delle situazioni: La globalizzazione della concorrenza. Nel mondo ci sono circa 800 milioni di persone che consumano pressoché nello stesso modo: sono gli abitanti della Triade (Europa – Giappone – Nord America) più i benestanti degli altri paesi. Dalle automobili agli hi-fi, ai personal computer, ai vestiti, i consumatori di questi paesi comprano praticamente le stesse cose, conoscono gli stessi marchi, vivono gli stessi eventi in TV o attraverso la stampa, e vogliono essere serviti con la stessa qualità e tempestività. Il trend sembra inarrestabile e si estende persino alle abitudini alimentari. Ogni azienda ha iniziato invece la propria esistenza servendo un mercato domestico, chi di 200 chi di 50 milioni di consumatori, e deve quindi fare un salto dimensionale di 4-15 volte per continuare a esistere. La globalizzazione della concorrenza è iniziata nelle attività che richiedevano altissime specializzazioni o capitali per R&S o per investimenti produttivi (aeronautica, petrolio, farmaceutica ecc.) e nei quali dei produttori finali globalizzati richiedevano fornitori o componentisti ugualmente globalizzati (il caso classico è l’automobile), ma oggi si estende anche ai settori dellle commodities (acciaio, cemento, per ora solo su basi continentali), ai settori in cui il know-how gestionale rappresenta un particolare vantaggio competitivo (per esempio la siderurgia bresciana, i mutui immobiliari, la grande distribuzione ecc.) e a quasi tutti i prodotti di marca. Le notevoli necessità di capitali per la R&S, l’opportunità di penetrare quei mercati in cui si può sperare in tassi di crescita superiori a quelli dei paesi sviluppati e le occasioni di acquisizione a seguito di privatizzazioni o ristrutturazioni sono altri elementi che spingono sulla strada della globalizzazione. In sintesi, si può dire che la globalizzazione della concorrenza è diventata la regola e che saranno veramente poche le aziende con una concorrenza locale; se mai, nei settori in cui i costi di trasporto sono elevati in relazione al valore aggiunto, la concorrenza verrà definita da “isobare” di costo di trasporto, e non più dai confini nazionali. Per esempio, nel cemento una parte del mercato è già definito dalle coste del Mediterraneo, e non più dai tradizionali due o trecento chilometri di raggio delle singole cementerie. In questo contesto, la parola “export” appare così antiquata da non essere più pronunciabile. Lo sviluppo della teleinformatica. L’unità di spazio, tempo e azione, di liceale memoria, sembra essere possibile oggi con lo sviluppo imponente delle telecomunicazioni e dell’informatica. In tempo reale e a migliaia di chilometri di distanza, è possibile progettare, effettuare transazioni complesse, dare gli ordini di rifornimento dei magazzini, effettuare attività di customer service (in inglese), tenere la contabilità ecc.; il tutto a bassi costi e con eccellente qualità. L’impresa può quindi essere riprogettata da zero decidendo dove fare certe attività (in Italia, in India ecc.), da chi farle fare (per esempio da un fornitore di servizi), e con quali mix di costi variabili/fissi (l’automazione completa non è più un miraggio). Nel momento in cui i dipendenti si abituano a dialogare con altri via computer, senza il bisogno di un contatto faccia-a-faccia, non c’è più bisogno che, dall’altra parte, ci sia davvero una persona fisica che parla la stessa lingua: basta un sistema efficiente che genera le appropriate decisioni e reazioni. Le linee aeree possono fare a meno delle aziende di viaggio dando ai clienti di business class delle speciali “credit cards” per l’accesso a bordo, ma anche le aziende possono fare a meno dei venditori sostituendoli con interfacce elettroniche con i clienti. La diminuzione dei tassi di crescita per quasi tutte le industrie nei paesi sviluppati. La parola “crescita” è mentalmente associata a qualcosa di positivo, mentre la non crescita (o stagnazione) è percepita come negativa; di conseguenza, le aspirazioni dei manager, degli azionisti, dei governanti sono orientate alle industrie o servizi in crescita. Invece, già da molti anni si constata che i ¾ dell’industria e dei servizi sono ormai strutturalmente stagnanti, se definiamo come stagnazione una crescita nel mercato di origine inferiore al tasso di aumento della produttività (che, comunque, ha tassi di miglioramento “strutturale” del 4-5% all’anno). Questa definizione presuppone di non contare come componenti della crescita le esportazioni verso quei mercati lontani (per esempio della Cina) che prima o poi si renderanno autonomi. La non-crescita è la norma, mentre la crescita è l’eccezione. D’altra parte ciò è logico: nei paesi sviluppati, nei quali la popolazione non cresce, non è possibile mangiare di più, prendere più medicine, comprare più automobili nuove ecc. Ci sono, naturalmente, alcune aree di crescita- particolari prodotti, aree geografiche sottosviluppate, servizi innovativi- ma la maggior parte dei business in cui operano le aziende è inevitabilmente stagnante, che solo gli occhi starati di alcuni manager possono interpretare come in sviluppo: il capo di una società europea di metalli non ferrosi argomentava appassionatamente che il suo settore era in crescita (2% all’anno, come media di lungo periodo!). La consapevolezza della non-crescita richiede un approccio totalmente nuovo da parte di manager, azionisti e dipendenti, invece dell’attuale approccio ingannatore di interpretare come crescita le acquisizioni o il recupero delle vendite dopo situazioni di crisi. La delocalizzazione produttiva. Le possibilità offerte dalla teleinformatica di governare in tempo reale situazioni distanti migliaia di chilometri, e il costante aumento della qualità dei prodotti fabbricati nei paesi che un tempo si distinguevano solo per il basso costo della manodopera, permettono oggi di decidere liberamente dove collocare ogni lavorazione o fase del processo produttivo. Il vecchio mito che non sia possibile fare produzioni di qualità all’estero si rivela come la scusa adottata da dipendenti e fornitori per evitare gli uni gli sgradevoli viaggi all’estero, e gli altri la cancellazione dall’albo dei fornitori. La deregolamentazione. Quando le tecnologie ridefiniscono i vecchi confini (come nel caso delle telecomunicazioni, nel quale è impossibile distinguere fra voce, dati e video in un mondo digitalizzato), le aziende diventano sempre più multinazionali, i consumatori diventano sempre più omogenei, ogni singolo stato non può più resistere alla pressione di uniformare la propria legislazione a quella degli altri e non può più negare a un settore la deregolamentazione che ha concesso a un altro. Deregolatori e antitrust, che oggi tutte le aziende considerano dei nemici, sono invece dei preziosi alleati che permettono di percepire in anticipo un trend generalizzato. Le implicazioni di questi cinque megatrend (che si amplificano a vicenda) sono estremamente importanti: le aziende devono organizzarsi per arrivare a una dimensione rilevante in un mercato di almeno 800 milioni di consumatori, devono acquisire una posizione di cost leadership (non perché serva per far sviluppare un mercato, come succedeva in passato, ma per continuare a competere in mercati singolarmente stagnanti) e possono collocare ove vogliono nel mondo non solo gli stabilimenti ma anche le singole funzioni o servizi aziendali; inoltre, un mercato mondiale globalizzato permette di applicare in tutte le aree geografiche quegli approcci che si sono dimostrati vincenti in altre aree anche in situazioni che rimarranno in un qualche modo regolamentate. In questo contesto bisogna che le aziende abbandonino il tradizionale sciovinismo. In passato lo sciovinismo ha funzionato, e ha sbagliato chi ha copiato pedestremente i modelli organizzativi americani in mercati comunque dominati da localismi, culture diverse, situazioni di protezione particolari ed esigenze di presenza locale; ma in un mondo globalizzato si parla necessariamente in inglese, si producono prodotti uniformi, e si funziona secondo modalità che sono mediamente adatte ai venti paesi importanti e agli 800 milioni di consumatori significativi. Anche in quei settori nei quali per ora la competizione avviene solo su basi continentali valgono gli stessi concetti: il mercato domestico è diventato un’eccezione che non merita più nemmeno una citazione nei libri di management. Concetti organizzativi tradizionali La cultura organizzativa della maggior parte dei manager (in particolare dei manager italiani senza esperienza diretta del funzionamento su basi multinazionali) si è sviluppata in decenni in cui esisteva ancora un mercato domestico, l’informatica serviva per fare paghe e stipendi, i dipendenti, i fornitori e gli agenti di vendita erano soggetti infidi e riottosi, il mercato dei capitali era inesistente e la protezione governativa poteva comunque essere assicurata sia per finanziare investimenti sia per evitare la concorrenza, almeno dall’estero. Permane quindi una visione tayloristica dell’organizzazione aziendale in cui il management fraziona i compiti per poter poi coordinare, non fidandosi di nessuno; tale visione viene persino rafforzata dalla minaccia del nuovo mondo competitivo. Prendiamo ad esempio una serie di “statements” normalmente condivisi su cosa sia necessario fare per avere un’organizzazione moderna ed efficace: L’azienda è unitaria e deve essere articolata in divisioni secondo le caratteristiche dei prodotti/ mercati/ competitors. Le funzioni aziendali sono centri di costo, eventualmente responsabilizzabili per obiettivi di costo o di servizio nei confronti delle divisioni produttive o di mercato. Il corporate è importante e serve per controllare, coordinare e fornire i servizi comuni alle divisioni; il compito principale del corporate è l’allocazione dei fondi fra le unità di business. I fornitori e i clienti sono “esterni” all’azienda e bisogna quindi avere con loro dei rapporti di negoziazione e controllo. Le unità organizzative, all’interno di una singola divisione o servizio, devono essere coordinate o controllate da un capo con uno “span of control” non troppo ampio. I singoli paesi in cui si opera devono essere delle entità abbastanza autonome, stante le specificità legislative e culturali di ciascuno; il mercato nazionale ha comunque uno status speciale, sia in virtù della maggior quota di mercato che della maggiore vicinanza al corporate. I gruppi di progetto sono delle anomalie organizzative. Le joint venture devono essere maggioritarie. L’integrazione aziendale (fra le divisioni o fra le produzioni di uno stesso stabilimento) è fondamentale per l’efficienza, e deve essere assicurata attraverso il ruolo del vertice aziendale, per esempio con i prezzi di trasferimento. Il comportamento dell’azienda globale Prima di definire nuovi concetti organizzativi è bene osservare da vicino come le aziende globali di successo hanno reagito ai megatrend illustrati in precedenza e che sono attivi ormai da molti anni. L’azienda che si deve confrontare con un mercato di 800 milioni di consumatori potenziali non ha che una possibilità: focalizzarsi e fare al proprio interno solo l’essenziale. Non si tratta soltanto di concentrarsi sul “core business”, ma di scavare ulteriormente nel proprio modo di essere per concentrarsi sul “core del core”, e ricorrere a terzi, fornitori, partner e specialisti funzionali per acquisire tutto quanto non è indispensabile o possibile fare al proprio interno. Il processo mentale che bisogna utilizzare per passare da una situazione tipica del “mercato domestico” degli anni Sessanta a quella adatta per competere oggi (e ancor più in futuro) è molto interessante, e richiede una grande disponibilità a violare i vincoli e i modi di pensare tradizionali. Il primo passo è l’abolizione del concetto di “domestico”; un consumatore potenziale è tale sia che risieda in Giappone sia che viva negli Stati Uniti e quindi bisogna comprendere bene cosa tale consumatore medio si attende dal prodotto e dall’azienda che lo produce. Probabilmente è già in parte soddisfatto da un’offerta esistente e bisogna quindi che l’azienda sviluppi un atteggiamento da “nuovo entrante”, anche se a casa sua ha una posizione di mercato forte e consolidata; il vino o l’automobile italiana non significano niente di particolare per un consumatore californiano, che può scegliere prodotti locali o importati da tutto il mondo. In parallelo deve essere abolito il concetto di distanza, sia nello spazio che nel tempo; non si può più introdurre un nuovo prodotto prima vicino a casa e poi, via via, negli altri mercati, perché il consumatore pretende di essere servito istantaneamente ovunque con il nuovo prodotto che vede in TV o viaggiando e i concorrenti non aspettano altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi nel gioco competitivo. Tutto questo implica un salto di scala operativa di un ordine di grandezza, fino a quando non si sarà acquisita una quota di mercato significativa su scale mondiale, per di più distribuita omogeneamente; di conseguenza l’azienda deve vendere tutti i business nei quali non ha la speranza di sopravvivere a lungo termine e utilizzare le risorse finanziarie per acquisire gli operatori esteri omogenei con il proprio core business. Poiché però, anche concentrandosi, le risorse finanziarie possono non essere sufficienti, occorre: Fare ricorso al mercato dei capitali, anche a costo di perdere quel fatidico 51% di proprietà che assicura il controllo dell’azienda: se si ragiona come puri capitalisti è meglio avere una quota inferiore di un business vincente che essere "padroni" di un business a dimensione insufficiente, e quindi potenzialmente perdente. I capitali nuovi però fluiscono ad aziende ben gestite, con ottimi indici di performance, e con una chiara missione di tipo industriale; non si può quindi più contare su banche amiche, su ipotetiche sinergie di gruppo, su comportamenti finanziari e aziendali non improntati al mondo anglosassone. Accettare la logica delle joint venture 50/50; se un concorrente occupa già una posizione rilevante su un particolare mercato e non è disposto a farsi acquisire (così come l’azienda italiana non è disposta a vendersi), allora è giocoforza mettersi d’accordo per sviluppare insieme il business, facendo astrazione dalle nazionalità di origine. Bisogna quindi che i business collocati nelle joint venture diventino apolidi (cioè, non più chiaramente identificabili con il paese d’origine), che abbiano in se stessi tutte le risorse, e che non siano più costretti a dipendere da corporate nazionali. Il secondo passo è il ripensare base zero le relazioni con i fornitori e i clienti. Per competere su base internazionale il know-how presente in azienda non è spesso sufficiente e deve quindi essere integrato con know-how che altri hanno: know-how tecnologico, conoscenze di ciascun specifico mercato, accesso a risorse tecnologiche o finanziarie particolari ecc. Anche in questo caso bisogna sviluppare un atteggiamento positivo verso le partnership, accettando la parziale perdita di sovranità e di autonomia che esse comportano. Per esempio, la Bosch non si considera più come un fornitore delle case automobilistiche: si considera invece come un partner specialistico per componenti importanti del motore o del sistema di controllo e tende quindi a privilegiare quelle case automobilistiche che sono vincenti e che avranno, nei suoi confronti, un atteggiamento di partnership invece del classico rapporto cliente/fornitore. Il terzo passo è ripensare base zero anche la logica in base alla quale sono svolti, all’interno dell’azienda, i vari servizi: dalla contabilità alla logistica, dall’informatica all’assistenza tecnica. A differenza del passato, esistono oggi validi fornitori internazionali di servizi che danno all’imprenditore la possibilità di acquistare (sempre in ottica di partnership) quasi tutti i servizi complementari alla propria progettazione e distribuzione del prodotto. Al limite l’impresa può consistere solo del marchio, dell’ideazione del prodotto e della finanza, essendo oggi possibile far costruire, distribuire e assistere il prodotto da altri specialisti. Per esempio nei cavi in fibra ottica i veri protagonisti sono i produttori di fibra (Corning e Sumitomo) che lasciano ad altri (Alcatel, Pirelli ecc.) le fasi meno lucrose del business. I capitali e le risorse intellettuali dell’azienda possono così essere concentrati solo nelle aree in cui non c’è un’alternativa efficace e meno costosa all’esterno. L’outsourcing non è quindi soltanto un metodo per ridurre i costi: è anche una necessità strategica per l’azienda che si deve concentrare nel "core del core" per competere in un mercato globale. Il quarto passo è l’identificazione di un assetto competitivo vincente. Non basta infatti fare meglio che in passato, sopratutto in termini di costi: bisogna riprogettare interamente come si produce e si vende e come si continuerà a innovare. La potenza dell’informatica collegata alle telecomunicazioni consente di ridurre praticamente a zero il costo variabile di ogni transazione (dall’emissione di un programma di produzione alla preparazione di un ordine di spedizione). Inoltre l’attenta progettazione di tutta la catena logistica permette di ottenere dei livelli di performance mai realizzati in passato; per esempio la catena di distribuzione di The Limited (uno dei grandi distributori di abbigliamento americani) riesce a ottenere un ciclo ordine-consegna di 1.000 ore, da confrontare con le 8.000 ore (cioè un anno) necessarie per i tradizionali produttori di abbigliamento italiani, incluso Benetton. Le possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più convenienti, mantenendo al contempo qualità e tempi di reazione adeguati, consente di disaccoppiare le singole fasi del processo produttivo, dall’ideazione del prodotto all’assistenza al cliente, costruendo un sistema competitivo vincente. Infine, il collegamento con centri di eccellenza diversi ed esterni all’azienda (ma strettamente collegati in termini di partnership), ovunque siano situati nel mondo, consente la tempestiva identificazione di nuove possibilità di produrre o servire clienti sempre più sofisticati ed esigenti. È proprio la sfida dell’innovazione continua che consente la sopravvivenza, anche di un’azienda che ha ridotto all’osso i suoi costi. La capacità di sviluppare nuovi prodotti/mercati è quella che Hamel e Prahalad definiscono “orientamento al numeratore”: nel Roi il numeratore è rappresentato dal fatturato (difficile da aumentare in mercati stagnanti) e il denominatore è rappresentato dagli asset, dal personale, dai costi in genere. Il management tradizionale è orientato alla relativamente più facile attività di ridurre il denominatore, ma tale strategia non è mai vincente nel lungo termine. A questo punto l’azienda è pronta ad affrontare il vero tema strategico: come acquisire e mantenere un vantaggio competitivo durevole anche in un mondo globalizzato. La riposta non può che essere nello sviluppo di competenze “proprietary” e cioè non copiabili. L’azienda, liberata dai problemi che possono essere delegati ad altri, può concentrarsi su quelle tecnologie essenziali che, combinate in modi innovativi, permettono stabilmente di far meglio dei concorrenti. Certamente anche il know-how commerciale può rappresentare un vantaggio competitivo, come Benetton ha dimostrato, ma è sopratutto il dominio delle tecnologie che assicura l’azienda contro gli assalti dei “competitors”; il polopropilene della Montedison, la progettazione dei campi di produzione petrolifera dell’Agip, la costruzione delle turbine del Nuovo Pignone sono tutti esempi di un dominio delle tecnologie di base che hanno permesso di costruire delle aziende vincenti. In molti settori industriali non è però sufficiente avere un sistema produttivo a bassi costi, particolarmente se il contesto competitivo porta a periodiche situazioni di sovracapacità produttivo (come nel caso dell’acciaio o delle commodities chimiche), o a comportamenti in tema di prezzi che, pur logici dal punto di vista della singola azienda, non permettono a tutta l’industria di remunerare adeguatamente i capitali impiegati; in tanti settori industriali (dal macchinario per l’energia agli aerei, dall’automobile ai cavi) c’è spesso un operatore valetudinario che prima di fallire, pratica politiche di prezzi dissennate, che condizionano la redditività di tutta l’industria. Tale operatore, una volta fallito, risorge dalle proprie ceneri attraverso l’annullamento dei debiti e continua a condizionare negativamente l’industria (le linee aree americane ne sono un classico esempio). Tutto ciò è particolarmente grave quando i consumi non si espandono a un tasso superiore a quello della produttività, come è nel 75% dei casi. Bisogna quindi che il top management riesca a concentrare la propria attenzione sulla ristrutturazione del mercato, in modo da ridurre il numero dei “competitors” a una mezza dozzina per ogni singolo settore (attraverso joint venture o fusioni transazionali); se tale obiettivo è raggiunto il mercato è più ordinato e l’arena competitivo si sposta sulle capacità innovative di ciascuno, invece che sulla disponibilità a investire in impianti anche in modo dissennato. In ultimo occorre citare la sempre maggiore attenzione che bisogna prestare al mercato dei capitali; quando tutti i “competitors” si sono concentrati sul core business, hanno terziarizzato e reingegnerizzato le proprie “operations”, hanno adottato tecniche di “quick response”, “total quality”, “employee empowerment” e “lean production”, la capacità di alcuni di acquisire capitali con l’attesa di un tasso di remunerazione diretta (dividendi) inferiore a quello degli altri concorrenti (in quanto compensato da un’attesa di un maggior capital gain) diventa l’elemento distintivo sul quale basare una strategia di sviluppo. Nuovi concetti organizzativi A questo punto è possibile comprendere come bisogna riprogettare l’azienda in modo da renderla adatta a competere in mercati che si vanno globalizzando; possiamo quindi riprendere i concetti organizzativi espressi in precedenza e dimostrare che, in genere, i concetti adatti a un futuro globalizzato sono proprio l’opposto di quelli considerati validi in passato e tuttora ritenuti tali (almeno nei pochi casi di mercati ancora protetti) dalla maggior parte dei manager italiani. Se l’azienda è totalmente focalizzata sul core business, non esistono più le divisioni, almeno non nel senso utilizzato nell’era dei conglomerati; un’azienda può avere tanti prodotti diversi, che derivano sia da tecnologie di base sinergiche (come nel caso della Canon citato da Hamel e Prahalad nel famoso articolo dell’Harvard Business Review) sia da un know-how gestionale unitario (come nel caso della 3M). L’azienda si organizza intorno a un "sistema portante" che è il vero centro di profitto e le eventuali divisioni sono dei centri ancillari di responsabilità, con limitata autonomia. Il “sistema portante” dipende sia dall’industria che dalla strategia aziendale: in un’azienda di servizi di telecomunicazioni è la rete, in una società automobilistica plurimarchio è la commercializzazione, in una società petrolifera può essere la raffinazione o la rete distributiva. La struttura organizzativa adatta a un’azienda che compete in un mondo globalizzato è essenzialmente un’organizzazione funzionale me con delle autonomie collocate laddove si vogliono forzare delle differenziazioni per cogliere delle opportunità. Le funzioni aziendali non sono dei centri di costo ma dei business da terziarizzare (con l’outsourcing) o, se si è particolarmente bravi, da sviluppare come business e, a termine, da scorporare e cedere; in alternativa sono delle attività da ridurre all’osso ed eventualmente al ruolo di consulente, in quanto la diminuzione della crescita e dei margini comporta il taglio degli overhead costs. Eds si è sviluppato in un business mondiale dalla “costola” dell’informatica della General Motors e potrà, a termine, essere completamente separata dalla casa madre originaria. Inoltre, la reingegnerizzazione dei processi porta all’interno dei processi stessi delle decisioni che in passato potevano essere classificate come di competenza di una funzione (finanza, personale ecc.); le funzioni aziendali che rimangono nella definizione di “core business” hanno quindi sempre più la connotazione di architetti specialisti di processi, invece che di detentori di poteri autonomi e comunque “pesano poco”. Il corporate non esiste più, in quanto si identifica con il business stesso; è ampiamente dimostrato che i gruppi multibusiness governanti da un corporate valgono di meno di quanto non vale la somma dei singoli business e quindi il corporate si giustifica solo per delle logiche di potere. L’esistenza di un corporate è spesso il principale ostacolo alla crescita in termini di globalità dei singolari business (ne discuteremo più avanti). Anche il ruolo di allocatore fondi fra i business è inutile, in quanto il mercato dei capitali saprebbe ugualmente bene allocare i fondi ai business. Rimane tuttavia un ruolo importante di relazione con il mercato dei capitali. I fornitori e i clienti fondamentali non sono “esterni” all’azienda nel senso tradizionale del termine: sono dei partner e quindi ne fanno parte, con uno status che varia seconda dei casi. Non è quindi vero che l’azienda finisce dove finisce l’organigramma; l’informatica, il personale, la finanza devono aver riguardo a fornitori e clienti con modalità ovviamente differenti dalle unità aziendali, ma con altrettanto interesse e atteggiamento di servizio. In particolare, nel riprogettare i processi aziendali, l’azienda moderna ignora gli steccati tradizionali e fa fare da ciascun partner tutto quello che lui può fare meglio. L’azienda vincente ha missioni precise ma confini elastici. Le unità organizzative all’interno di una singola divisione o servizio non hanno bisogno di essere strettamente governate e coordinate, sia perché la progettazione dei processi trasversali determina già i componenti delle unità organizzative, sia perché le unità organizzative elementari incorporano ruoli di funzioni diverse. Mentre in passato il direttore di stabilimento aveva sotto di sé un direttore del personale, un direttore amministrativo, un direttore degli impianti ecc., ognuno dei quali rispondeva funzionalmente a un capo centrale, oggi si progettano unità organizzative più piccole, più compatte, con ruoli multipli per la stessa persona, né si possono avere dei “multiple reportings”, pena la confusione organizzativa. Inoltre, se il coordinamento e il controllo sono implicitamente effettuati dai processi, se le persone funzionano in team e se la competenza delle persone è molto più elevata che in passato, cade il concetto di limite allo “span of control”; un direttore vendite può coordinare decine di unità organizzative autonome, evitando così di rappresentare un overhead inutile e costoso.1 Attualmente la maggior parte delle aziende europee articola le responsabilità di mercato per paese: i condizionamenti geografici sono duri a morire (d’altra parte anche in Italia qualcuno pensa che le Regioni definite cent’anni fa abbiano ancora un significato!). Di conseguenza, in ogni paese è stata creata una filiale con tanto di capo, di ufficio personale, di contabilità, di finanza ecc. Appena c’è un’affiliata con un suo responsabile incomincia un costosissimo gioco di rapporti antagonistici con la sede centrale: il marketing di affiliata pretende variazioni di prodotto, il controller centrale vuole avere un rapporto diretto con il controller di affiliata e la stessa cosa accade per l’amministrazione, la finanza, il personale ecc. La logistica pretende dei magazzini locali per assicurare un adeguato livello di servizio, con l’accordo della gestione prodotto centrale che così può responsabilizzare qualcun altro per il controllo delle scorte. Tutta questa bardatura finisce per creare dei costi extra e per far dedicare la maggior parte del tempo di tutta l’organizzazione e discussioni interne, invece che a vendere o ad altre attività utili. Sono molto più saggi alcuni operatori extraeuropei, americani o giapponesi, che hanno preteso di considerare l’Europa come un unico mercato articolato in regioni, così come un’azienda italiana ha un’organizzazione di marketing unitaria e un’organizzazione di vendita articolata in base alle aree Nielsen; queste organizzazioni su base sovranazionale spendono molto meno in termini di costi generali di struttura e pretendono dal proprio marketing centrale la capacità di saper distinguere gli approcci necessari per le varie aree geografiche. Già vent’anni fa la Ferrero si era organizzata in questo modo; quando nel 1975 mi capitò di complimentare Michele Ferrero per la notevole percentuale di export realizzata dalla sua azienda mi sentii rispondere: «Il complimento non è appropriato, dato che in realtà noi della Ferrero vendiamo il 90% dei nostri prodotti nel nostro mercato domestico, che è l’Europa». Le aziende sono ossessionate dall’organigramma; ognuno deve avere una sua posizione, deve avere un capo, deve sapere che cosa deve fare, deve coordinarsi con alrti. I gruppi di progetto, che pure nella letteratura manageriale sono individuati come i motori dell’innovazione e del problem solving, sono mal tollerati, perché sfuggono alle precise gerarchie aziendali create apposta per dominare un sistema competitivo stabile e noto. L’azienda che compete in un contesto globalizzato, invece, deve saper affrontare le mille sfaccettature, minacce e opportunità competitive che derivano da molteplici incroci fra prodotti, mercati, tecnologie, gruppi di clienti e reazioni competitive; tale azienda non ha altra possibilità di essere sempre vitale che rimescolare di continuo la propria organizzazione, appunto con i gruppi di progetto. Questi gruppi si creano e si dissolvano in funzione di problemi e opportunità; per esempio, possono mettere a punto l’impostazione di una partnership, una volta realizzata la quale la gestione corrente deve prendere il sopravvento, in modo automatico. Le joint venture che sopravvivono sono quelle 50/50, non quelle in cui uno dei soci ha la maggioranza. Una condizione ugualitaria fra i partner è essenziale per accordarsi sempre sull’unica cosa che conta veramente e cioè l’aumento di valore, che è conseguente all’aumento della capacità competitiva della joint venture, ottenuto all’interno della stessa. Bisogna quindi che le aziende imparino ad accettare le joint venture 50/50 e a considerarle come il modo normale di operare quando si vuole raggiungere una posizione di preminenza su base mondiale. Se, per contro, la joint venture 50/50 è vissuta dai partner come una condizione precaria, il fallimento è certo. Normalmente le aziende tendono a sopravvalutare l’importanza dell’integrazione aziendale, per esempio a livello di uno stabilimento che produce più prodotti; in questo modo si sottovaluta l’importanza di collocare ciascun pezzo di uno stabilimento multiprodotto in joint venture differenti, che hanno maggiori possibilità di acquisire una quota significativa del proprio mercato continentale o mondiale, con tutti i vantaggi che ne derivano (in particolare in termini di presso). Spesso i vantaggi in termini di dominio del mercato sono superiori alle perdute sinergie produttive; in realtà, la sopravvalutazione del valore dell’integrazione è spesso dovuto al fatto che solo in tale modo si mantiene il potere centrale di coordinare e decidere. Tutti questi concetti, che sono diametralmente opposti a quelli ritenuti validi da molti manager italiani, sono invece funzionali a creare, per ciascun business, una forte focalizzazione sul consumatore e quella coerenza di comportamenti che è essenziale per il successo dell’impresa. Un’ultima considerazione: l’evoluzione nel tempo delle esigenze di coordinamento strategico globale e delle necessità di adattamento locale variano per fatti sia oggettivi sia soggettivi (un management convinto della propria missione globale tenderà a enfatizzare il primo aspetto, mentre un management con esperienza molto caratterizzata in termini nazionali enfatizzerà il secondo). Un modo di pensare adatto alla globalità Le strategie e le organizzazioni impostate dalle aziende sono normalmente logiche, nel senso che hanno sempre una coerenza interna; possono però essere sbagliate se ci si misura con l’obiettivo di aumentare il valore per gli azionisti, invece che con l’obiettivo di mantenere l’attuale assetto proprietario o di potere. Assumiamo che azionisti e management siano davvero interessati soltanto a far acquisire al business una dimensione globale, aumentandone così il valore; in tal caso bisogna che il management sia prima di tutto in grado di pensare con i paradigmi e i valori adatti a vincere in mercati globalizzati. Sono gli schemi mentali del management che determinano le strategie, non queste che evolvono naturalmente dall’analisi dei fatti; se il management non è sintonizzato sulla lunghezza d’onda della competizione internazionale non riuscirà a cogliere, nei comportamenti dei concorrenti o dei consumatori esteri, quei segnali che servono per costruire una strategia vincente. In particolare, se il sistema di valori del management è di evitare, per quanto possibile, la scomodità che deriva dall’accettare la sfida della globalizzazione, si troveranno tutte le scuse per rifiutare persino l’idea che il settore possa evolvere la globalizzazione. Se vogliamo veramente competere in un settore industriale che si va globalizzando è essenziale conoscere quali schemi mentali sono utilizzati dai manager che operano da tempo in mercati già globalizzati; molti di questi schemi sono effettivamente utili, ma sarà compito del management scegliere quelli più adatti al caso specifico (stando però attenti a non scegliere in funzione del minor cambiamento richiesto al management stesso). Partnership. Solo le aziende che hanno incominciato a operare come multinazionali almeno trenta anni fa hanno l’opzione di procedere da sole; tutte le altre devono accettare di operare, in molti dei cinquanta mercati importanti (o che saranno tali nel prossimo decennio) con delle joint venture con qualcun altro cha ha già una posizione di vantaggio locale, o che comunque è complementare. Bisogna quindi considerare le partnership come fatti positivi, permanenti e non come una spiacevole necessità, da sostituire appena possibile con il dominio diretto (perdendo quindi il vantaggio dell’imprenditorialità del partner). La Corning è un ottimo esempio; metà dei suoi profitti derivano da joint venture internazionali; la Snia Fibre ha collocato tutti i suoi business in joint venture 50/50. Primato degli apolidi. Operare come azienda globale è terribilmente scomodo, dal punto di vista della vita privata dei manager; bisogna viaggiare sempre, essere disposto a spostare la famiglia da un paese all’altro, non avere preferenze nazionali per la localizzazione del quartier generale ecc. Ci vuole quindi un sistema di selezione del management che privilegi proprio quelli che sono capaci di accettare un tale tipo di vita, su basi permanenti e di non discriminazione verso quelli di cittadinanza diversa da quella degli azionisti principali (altrimenti prima o poi gli “stranieri” in gamba lasceranno l’azienda). Importanza reale delle persone. Operare contemporaneamente in Cina e in Canada, sviluppare tecnologie in centri di eccellenza localizzati in paesi diversi, rischiare per cogliere delle opportunità di business richiede persone affiatate, omologate per le loro singole capacità, desiderose di continuare a stare nella stessa azienda, pur disperse in quattro continenti. Tutte le aziende dicono che le persone sono “il maggior asset”, ma poche si comportano di conseguenza; gli asset umani davvero importanti vogliono autonomia, hanno dosi insospettate di imprenditorialità, devono essere “coccolate”, non hanno bisogno di grandi coordinamenti e controlli. Se tali persone ne hanno la possibilità, sapranno cogliere le opportunità di differenziazione locale, permettendo al contempo all’azienda di mantenersi fortemente unitaria e focalizzata. Uniformità dei clienti. Le aziende globali sanno benissimo che gli 800 milioni di consumatori finali o le migliaia di aziende industriali (per chi vende semiprodotti o componenti) sono tutti diversi; ma tale diversità non è concettualmente dissimile da quella che comunque esiste nei 50 milioni di consumatori o nelle centinaia di clienti industriali del vecchio mercato domestico. Il maggior numero di consumatori potenziali mondiali consente inoltre di progettare prodotti mirati a sottosegmenti che, su base nazionale, sarebbero insufficienti a rendere economico lo sviluppo di prodotti specifici; nell’automobile, per esempio, si è passati da riconoscere quattro segmenti base ad almeno una decina. Il prodotto o servizio che si offre su base mondiale deve quindi essere sufficientemente uniforme per poter essere gestito, ma al proprio interno deve comprendere la possibilità di differenziarsi per ogni paese. Il consumatore è al contempo uniforme e con mille sfaccettature diverse; non si può quindi né fare tanti prodotti diversi quanti sono i paesi, né ignorare dei mercati perché richiedono sostanzialmente dei prodotti diversi. Centrare bene l’offerta è essenziale per avere la massa critica necessaria; quello che si perde in differenziazione si guadagna in termini di economie di scala. Irrilevanza della geografia politica. I manager delle aziende globali hanno una fede incrollabile nel fatto che, prima o poi, ciò che ha funzionato in un paese funzionerà anche in un altro. E’ interessante sentir parlare i manager di aziende globali come CocaCola o Exxon; citano incessantemente esempi tratti dai quattro angoli del mondo per dimostrarne l’applicabilità anche in Italia (la reazione istintiva di un manager italiano è che noi siamo diversi!). Anche nei settori molto regolamentati (banca, energia elettrica, grande distribuzione) l’azienda che si comporta da azienda globale considera come anomali i vincoli posti da ogni particolare mercato e prende posizioni oggi contando che domani anche quelle anomalie verranno rimosse per adeguarsi agli standard dei mercati più sviluppati. Questo modo di pensare non è mai disponibile in chi opera in un solo mercato. Valore della quota di mercato omogenea. Il management di un’azienda globale prende come riferimento la quota di mercato che l’azienda ha nei mercati non protetti e non si illude che la propria forza competitiva derivi da una media di questo mercato con quella di evidente maggior forza nel mercato di origine. Importanza dei processi trasversali. Il management di un’azienda che opera in un solo mercato e in una sola lingua può avere l’illusione di capire tutto e di poter supplire con l’intelligenza e il decisionismo verticistico alle carenze dei processi gestionali; chi opera invece in tanti paesi diversi e in tante lingue è certo di non riuscire mai a capire tutto e ha solo l’alternativa di progettare dei processi trasversali (sviluppo prodotti, investimenti, logistica ecc.) che mediamente garantiscano di cogliere correttamente le opportunità. Naturalmente, ciò implica anche un forte grado di delega e di automatismo, in quanto un vertice che non può capire i singoli casi non può nemmeno far finta di decidere. Disaccoppiamento di responsabilità strategiche e operative. E’ fuori discussione che il capo azienda ha sempre una responsabilità unitaria, ma in un sistema globale estremamente complesso chi fa i piani spesso non è la stessa persona che li esegue; il responsabile di un mercato, di uno stabilimento o di una linea di prodotti non ha la prospettiva sufficiente per sviluppare autonomamente dei piani di business e ci vuole quindi un forte staff centrale, o ancor meglio dei gruppi di progetto costituiti in modo eterogeneo, per poter fissare le linee strategiche corrette. Il capo azienda può solo creare delle condizioni organizzative aperte e di facile interscambio di opinioni per far emergere le strategie vincenti. Hamel e Prahalad identificano, inoltre, fra i criteri di un’azienda vincente su basi multinazionali, il fatto che il top management pensi a se stesso come l’architetto dello sviluppo piuttosto che come decisore dei problemi attuali, e che dedichi molto tempo a far emergere dall’interno una visione condivisa della strategia. Relazione strategia/mercato dei capitali. Le aziende controllate da un corporate sono particolarmente attente a contenere gli investimenti all’interno del proprio flusso di cassa, dato che aumenti di capitale metterebbero a rischio il controllo e il rapporto debt/equity non può essere troppo spinto. Al contrario, le aziende globali sostanzialmente monobusiness non hanno la preoccupazione di dover aumentare la propria base di equity (per esempio per una grande acquisizione o per una fusione), sempreché l’idea di business sia buona e riconosciuta come tale dal mercato dei capitali: tali aziende hanno quindi una certa preferenza per l’equity piuttosto che per il debito. In un’impresa globalizzata i capitali non sono mai un limite per delle buone idee. Questi modi di pensare, tipici del management di un’azienda che opera in un mercato globale, sono complementari a quelli comunque validi e utilizzati universalmente: certamente i concorrenti devono essere conosciuti intimamente, la struttura organizzativa deve al contempo stimolare e rassicurare le persone e così via. Il problema del ruolo corporate Il corporate nazionale è l’ostacolo principale allo sviluppo, in termini di globalità, dei singoli business, perché con tale evoluzione perde il potere accumulato negli anni e normalmente non sa ritrovare un ruolo come snodo finanziario. Tutta la cultura del corporate, con l’eccezione della Finanza, è orientata all’interno, a comandare, coordinare, controllare, imporre servizi e in ciò il corporate si adegua alla ‘legge’, identificate da Lawrence e Lorsch già nel 1967, di un’inevitabile maggior incidenza degli “overhead costs” rispetto ai costi diretti, man mano che l’azienda invecchia o diventa più grande. Se ogni business evolve verso una dimensione da impresa globale e diventa più autonomo, il corporate cosa fa? Deve recuperare uno spazio sul fronte della finanza e delle relazioni con gli investitori, ma in tal caso bastano poche persone, con caratteristiche molto particolari; si comprendono quindi le resistenze a tutte quelle iniziative che diminuiscono il potere del corporate, dagli aumenti di capitale nei singoli business alle joint venture paritetiche. Esiste invece un ruolo nuovo che può essere giocato da un corporate intelligente e che richiede professionalità difficilmente classificabili con gli schemi del passato. Gli elementi componenti di tale ruolo sono i seguenti: Creare, sia nel business che presso gli azionisti, le condizioni culturali e oggettive necessarie per accettare lo sviluppo in termini di azienda globale. Ciò vuol dire essenzialmente dare più importanza al rafforzamento competitivo del business che al controllo dello stesso. Negoziare direttamente con i partner internazionali le necessarie joint venture; il management dedicato al business può infatti essere riluttante ad accettare joint venture nelle quali finirà, prima o poi, in una posizione di sudditanza. Naturalmente, non basta aver negoziato “una tantum” una joint venture; occorre mantenere e rivivificare il rapporto con il partner (o la sua società madre) in modo che diventi un modo stabile di esistere; questo compito può evidentemente essere condiviso con il management del business. Studiare il business, pur consegnato in gestione al management specifico, in modo da saper dialogare con tale management per quanto riguarda le scelte fondamentali: la politica di investimenti e di indebitamento, la politica delle licenze, le scelte tecnologiche o commerciali di base ecc. Il management del business ne saprà sempre di più del corporate e nel tempo sarà più difficilmente influenzabile. L’attività del corporate non sarà quindi quella attuale (che può essere quasi definita come "dare fastidio al business per vedere cosa succede", come dimostrano le inutili sessioni di discussione dei piani o dei budget) e che può essere fatta da schiere di personaggi di secondo ordine; il corporate dovrà rassegnarsi a fare solo scelte fondamentali quali la sostituzione del management, la vendita del business, la forzatura di una joint venture minoritaria ecc. E’ evidente che scelte di tale importanza non vengono affidate a persone di staff, ma devono essere maturate e realizzate personalmente dalle quattro-cinque persone di maggior peso nel corporate stesso. Assistere il management del business, in termini di reale valore aggiunto; la prova del valore aggiunto si ha soltanto se il management, liberamente, richiede i consigli, senza l’arrière pensée della captatio benevolentiae. Occorre quindi che le singole persone del corporate siano effettivamente di altissima professionalità ed esperienza e abbiano un atteggiamento da consulenti, scevro da preoccupazioni per la propria sorte se per caso non vengono mai utilizzati. L’unica prova vera che dimostri che si è raggiunta tale situazione è se i consigli vengono effettivamente richiesti. Gestire direttamente particolari progetti (entrata in un mercato, sviluppo di una tecnologia, quotazione di una consociata ecc.) che avrebbero potuto distrarre il management del business, ma comunque con un atteggiamento non revanchista e con un approccio sostanzialmente condiviso. La gestione di successo di progetti serve anche al corporate per dimostrare, in modo positivo, che esso esiste e che, magari, è anche capace di fare bene. Gestire direttamente il rapporto con la comunità finanziaria e in particolare con gli investitori di lungo periodo; non si tratta di fare delle “social relations” ma di comprendere bene come essi ragionano in modo da trasferire tali ragionamenti nelle strategie di business e di presentare in modo adeguato, corretto e coerente nel tempo quello che il business sta cercando di fare in termini di accresciuta competitività e valore. Bisogna invece stare attenti alla gestione delle “relazioni esterne” perché talvolta non ha un’utilità pratica e serve soltanto per gratificare o aumentare l’immagine dei principali attori del corporate. Queste attività non richiedono grandi masse di persone (una decina e sufficiente) ma richiedono una grande e riconosciuta qualificazione delle singole persone; comunque, nel tempo le persone di corporate tendono a collocarsi nel business stesso. Se non si persegue la strada dell’effettivo valore aggiunto e della professionalità indiscussa i corporate si illudono di contare veramente, perché nel tempo la forza dei singoli business forti e grandi travalica quella dei corporate. Diventare un operatore importante in un mercato globale richiede prima di tutto la capacità di pensare nel modo adatto a percepire i problemi e le opportunità; ciò comporta la capacità di disaccoppiare i problemi personali da quelli del business e di influenzare gli altri stakeholders a fare la stessa cosa. Non è un progetto di breve termine: dieci anni sono il minimo per un’azienda che parta da una base essenzialmente nazionale, perché il mondo è grande e le risorse umane necessarie si formano soltanto in molti anni. Comunque, una volta iniziata questa strada, tutto diventa più semplice, perché un’azienda che inizia a essere apolide in un mondo di competizione giobalizzata ha molte occasioni di sfruttare le debolezze dei concorrenti che mantengono una forte caratterizzazione nazionale (e che quindi si precludono la possibilità di fare delle vere joint venture paritetiche, di rappresentare una definitiva scelta di lavoro per i manager adatti per tale missione ecc.). Una volta che missione globale e modo di pensare siano allineati, la progettazione di una struttura organizzativa diventa l’elemento chiave per “costringere” l’azienda a diventare veramente un operatore globale; una struttura efficace sarà costruita solo con schemi che sono all’opposto di quelli attualmente utilizzati da società operanti nell’illusione che esista ancora un mercato domestico. GIANFILIPPO CUNEO Bain, Cuneo e Associati Nota1: Per il concetto di organizzazione a "cluster" si veda il libro di D. Quinn Mills, La rinascita dell’impresa ***** Nota terminologica È spesso difficile – a volte impossibile – tradurre termini che corrispondono a concetti o esperienze recenti americane che non hanno equivalenti in Italia; il linguaggio degli autori è inoltre influenzato da riferimenti alla cultura dell’elettronica californiana, ai film di fantascienza, ai colloquialismi frequentemente utilizzati nella letteratura manageriale (ad esempio in Tom Peters). Quelli che seguono sono i termini e le espressioni più tipiche e originali del linguaggio di Hamel e Prahalad che, comunque, ha nel contesto d’uso una sua comprensibilità ed efficacia immediata. Benchmarking, best practice: confronto con altre aziende relativo al costo, ricavo, investimento ecc. sostenuto per una specifica operazione, funzione o attività. Il benchmarking è utilizzato soprattutto dalle aziende follower, inseguitrici, per misurarsi con i migliori. Brand Equity: capitalizzazione del valore del marchio: anche se un marchio non ha un valore registrabile nell’attivo patrimoniale, costituisce un patrimonio virtuale che può aumentare o diminuire a seconda delle politiche di marketing. Core Business: core è la parte centrale, sovente nascosta, lo strato interno di qualcosa (es. un bastone con l’anima di piombo). Core business è quindi l’area di attività più peculiare e caratteristica di un’azienda. Core competencies: competenze distintive, fondamentali. Il pensare all’azienda come un portafoglio di core competencies, invece che ad un portafoglio di business, è stato un contributo importante degli autori, descritto per la prima volta nell’articolo sulla Harvard Business Review “The Core Competencies of the Corporation” del maggio-giugno 1990, pp. 79-91, tradotto in italiano con il titolo ”Le competenze distintive dell’azienda”, in Michael E. Porter e Cynthia Montgomery (a cura di), Strategia, il Sole 24 Ore Libri, Milano 1993, pp.305-328. Coreplatforms: piattaforme di base, architetture di sistemi attraverso le quali si possono dare servizi diversi. Corporate: il vertice dell’azienda multibusiness o le staff centrali di una holding. Il corporate incorpora anche tutta una serie di funzioni di finanza e di relazioni con gli azionisti che nelle aziende italiane, controllate da un azionista, sono spesso altrove. Empowerment: delega di autorità e di decisioni ai livelli più bassi dell’organizzazione; responsabilizzazione e autonomia per ottenere risultati. Fit: equilibrio, corrispondenza di una sagoma all’incastro. Una strategia aziendale può essere fit (adatta, corrispondente) alle caratteristiche dell’azienda; spesso fit è usato in contrasto con stretch. Foresight: capacità di previsione di tipo intuitivo, qui tradotto percezione del futuro. Mentre una previsione è un fatto puntuale e matematico (per es. previsioni del tempo, degli andamenti dei mercati finanziari), il foresight incorpora degli elementi di irrazionalità, dei presentimenti; è un aggregato di osservazioni puntuali e previsioni con un qualcosa in più che deriva da esperienza e capacità innate di anticipare gli eventi. Gateways to the future: una crasi di gate (porta) e ways (strada). Nel linguaggio di Hamel e Prahalad è il punto obbligato di passaggio per il futuro: i “gate” sono anche le porte che permettono il passaggio o meno della corrente nei semiconduttori. Insight: conoscenza puntuale di una realtà, ottenuta attraverso l’analisi degli elementi importanti; per es. insight del funzionamento di una fabbrica ottenuta conoscendo tecnologie, andamenti produttivi, atteggiamenti del personale ecc. Un aggregato di insight più ragionamenti analogici più esperienza possono condurre a un buon foresight. Intercept: dal gioco del football americano; l’intercept è, appunto, intercettare la palla dell’avversario e ne consegue normalmente che la squadra in difesa passa improvvisamete all’attacco, per merito suo o per un errore dell’avversario. Leverage: effetto leva, amplificazione, ottenere di più con meno. Si usa normalmente in campo finanziario (leverage buyout) per descrivere un’operazione fatta con poco capitale proprio e molto debito. È collegato al conecetto di stretch, in quanto il leverage serve per amplificare l’effetto di un’azione condizionata da risorse scarse (finanza, persone, tempo ecc.). Migration paths: percorsi di migrazione; si riferisce normalmente alle tecnologie o ai concetti di prodotto quando si spostano da un prodotto o da un’industria a un’altra. Outsourcing/Cosourcing: esternalizzazione di attività verso un fornitore specializzato e con maggiori economie di scala; implica una sostanziale partnership fra cliente e fornitore. Premption: azione anticipatrice di occupazione di un mercato atto a scoraggiare i concorrenti, ed acquisire così un vantaggio competitivo anche correndo qualche rischio in più; anche nelle acquisizioni si possono fare preemptive offers (offerte di acquisto prima di una trattativa ufficiale). Nel linguaggio della pubblicità la preemption è un’occupazione preventiva degli spazi. Regenerating strategies: strategie che si rigenerano, quasi come il droide di terminator che pur massacrato si rigenera per raggiungere l’obiettivo. Scoreboard: tabellone segnapunti. Nella cultura americana c’è necessità di un sistema segnapunti per ogni attività (dai compiti in classe al business). Share of mind: quota di mercato potenziale nella “testa” dei consumatori; è il complesso delle esperienze che i consumatori hanno avuto con la marca, l’immagine che essa ha (awareness, recognition, ecc.); è in sostanza una quota di mercato potenziale dei marchi noti a livello mondiale che può essere applicata ai nuovi prodotti. Skills: abilità, individuali o collettive, si riferisce normalmente agli artigiani (skilled craftsman); implica studio ma anche molta pratica e qualche dote naturale. Skunk work: laboratori sottoscala (letteralmente “tane di puzzole”). Il mito (e qualche volta la realtà) degli inventori californiani nel campo dell’elettronica: giovani brillanti che si sono costruiti un piccolo laboratorio in garage e hanno avuto successo. Skunk workers sono lavoratori un po’ anarchici e pochissimo strutturati con i quali anche le grandi aziende hanno cercato di replicare l’ambiente creativo dei laboratori nel garage di casa. Strategic intent: intendimento strategico, precisa volontà di raggiungere un certo obiettivo competitivo o di presenza sul mercato. La strategia come intento competitivo è stata discussa nell’articolo degli autori “Strategic Intent”, in Harward Business Review, 67, n°.3, 1989, pp. 63-76. Streetch: tensione, cercare di raggiungere qualcosa che sta più in là (es. un bambino che cerca di prendere la marmellata su uno scaffale che è appena più alto dell’estensione del suo braccio). Il concetto di streetch come motore del successo aziendale è stato trattato dagli autori nell’articolo “Strategy As Stretch and Leverage”, in Harward Business Review, 71, n°.2, 1993, pp. 75-84. Time to market: tempo di sviluppo e di collocamento sul mercato dei prodotti. La teoria corrispondente è stata ampiamente sviluppata da Stalk Gorge Jr. e Thomas M. Hout in Competing Against Time: How Time-Based competition is reshaping Global Markets, The Free Press, New York 1990 (tr. It. Competere contro il tempo, Sperling & Kupfer, Milano 1991). Value to the customer: valore per il cliente, di prodotti o servizi che vengono offerti. Il valore è definito in termini relativi ad altri prodotti o servizi, ed è misurato in funzione dei minori costi o maggiori ricavi che consente al cliente. Virtual interation: integrazione e interdipendenza fra imprese, che sono in rapporti di fornitore/cliente di prodotti, tecnologie ecc. Sistema di aziende-rete. GIANFILIPPO CUNEO