ALLA CONQUISTA DEL FUTURO Postfazione Questo è un libro per

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ALLA CONQUISTA DEL FUTURO Postfazione Questo è un libro per
ALLA CONQUISTA DEL FUTURO
Postfazione
Questo è un libro per imprese che competono in un mercato globale; in altre parole, questo
libro per quasi tutte le imprese, solo che la maggioranza delle imprese italiane ha ancora
l’illusione che la competizione possa rimanere limitata al mercato domestico.
Hamel e Prahalad sono i due professori americani che hanno maggiormente innovato nelle
teorie del management: fondamentale è stato il loro articolo sulle “core competencies”,
apparso sull’Harvard Business Review del maggio-giugno 1990, che ha effettivamente
contribuito a riposizionare il modo di pensare del management americano.
In questo libro l’obiettivo degli autori è di focalizzare l’attenzione del lettore e del
management verso quelle attività che possono, nel tempo, portare una posizione vincente
per l’impresa, invece di lasciarsi trascinare dai luoghi comuni o dalle attività di gestione
day-by-day; è un libro molto importante e che comunque darà un altro contributo positivo
alla competitività degli Stati Uniti.
Da un punto di vista italiano è importante fare una serie di osservazioni complementari, per
rendere il modello di comportamento sviluppato dagli autori per la realtà americana ancor
più adatto alla nostra realtà.
La prima e fondamentale osservazione è che attrezzarsi per competere nel futuro non
significa solo dedicare tempo alle attività di pianificazione, ma significa soprattutto
elaborare schemi mentali e valori di riferimento che siano funzionali a tale obiettivo: il
manager o l’imprenditore che ritiene eterna l’esistenza del mercato domestico potrà
dedicare tutto il tempo che vuole alla pianificazione del futuro, ma mancherà l’obiettivo se
non adotterà uno schema mentale nel quale il mercato domestico non esiste più, e se non
si svilupperà, per sé o per i suoi manager, un sistema di valori premiante per chi saprà
competere in tale situazione.
Gli imprenditori e i manager sono normalmente persone dotate di capacità logiche e
raziocinanti; la differenza fra i vincenti e i perdenti è solo negli schemi di ragionamento
adottati (in base ai quali sono sviluppati dei piani che rispondono comunque a requisiti di
logica e razionalità). È quindi importante intervenire sugli schemi di ragionamento.
Le riflessioni di Hamel e Prahalad sono molto permeate da una cultura americana, nella
quale è possibile, attraverso l’impegno, trovare nuove soluzioni che possono essere
comprese e trasmesse a tutta l’organizzazione. Se un’impresa opera su basi internazionali,
la prima regola che deve adottare è quella di “sapere di non poter sapere”: non è possibile
dominare la conoscenza di quello che accade o che si dovrebbe fare in cinquanta paesi
diversi. È meglio quindi organizzare in modo che in prima linea ci siano persone adeguate
e motivate a cogliere le singole opportunità: molte di queste persone non saranno
dipendenti dell’impresa, in quanto ci vuole una costellazione di imprenditori, agenti, e
professional, ciascuno radicato nella sua specifica realtà e potenzialmente vincente, con un
mix di caratteristiche, obiettivi e vincoli difficilmente dominabile con la semplificazione tipica
delle grandi corporations nelle quali ogni persona è importante ma non indispensabile.
Per competere con successo in un mondo globalizzato, complicato, e con infinite
opportunità è assolutamente necessario adottare dei modi di pensare adatti a tale contesto,
e che non sono assolutamente quelli tipici delle grandi aziende italiane.
Il modo in cui ancora oggi si organizzano le aziende, grandi o piccole, deriva da vecchi
concetti e da un modo di pensare dei manager che riflette un’esperienza lavorativa in
mercati protetti; poiché l’organizzazione delle aziende influenza enormemente il modo di
pensare e la percezione dei rischi/opportunità competitivi, questo modo di organizzare le
aziende basato su un modo che non c’è più costituisce un vero e proprio pericolo
strategico.
Per esempio, molti manager sono coscienti del fatto che la competizione si sta
globalizzando anche nel loro settore, però non sono disposti a comportarsi di
conseguenza, anche sul piano organizzativo; insistono quindi a distinguere il mercato
nazionale da quello internazionale, a privilegiare le carriere di persone con la nazionalità di
origine dell’azienda, ad adottare procedure diverse a seconda dei paesi ecc.
Occorerebbe invece riflettere a fondo sulle tendenze di business e derivarne nuovi concetti
organizzativi, basati anche sulle nuove opportunità che offrono l’infinita potenza
dell’information technology e la maggiore istruzione e professionalità oggi presenti in
azienda; da queste riflessioni emergerebbe un quadro concettuale nuovo e particolarmente
adatto alle aziende che si troveranno a operare in mercati più grandi, più competitivi, e in
più rapida evoluzione. Dato che per cambiare il comportamento di un’azienda ci vogliono
anni, è necessario anticipare le evoluzioni del contesto competitivo per poter essere
puntuali all’appuntamento, e creare al contempo la capacità dell’azienda di comprendere la
reale portata del quadro competitivo stesso.
L’evoluzione della competizione
E’ evidente che ogni situazione di mercato è specifica: il cemento e le telecomunicazioni
evolvono con tipi di competizione differente. Tuttavia, vi sono almeno cinque megatrend
che hanno un impatto generalizzato, anche se con differente intensità a seconda delle
situazioni:
La globalizzazione della concorrenza.
Nel mondo ci sono circa 800 milioni di persone che consumano pressoché nello stesso
modo: sono gli abitanti della Triade (Europa – Giappone – Nord America) più i benestanti
degli altri paesi. Dalle automobili agli hi-fi, ai personal computer, ai vestiti, i consumatori di
questi paesi comprano praticamente le stesse cose, conoscono gli stessi marchi, vivono gli
stessi eventi in TV o attraverso la stampa, e vogliono essere serviti con la stessa qualità e
tempestività. Il trend sembra inarrestabile e si estende persino alle abitudini alimentari.
Ogni azienda ha iniziato invece la propria esistenza servendo un mercato domestico, chi di
200 chi di 50 milioni di consumatori, e deve quindi fare un salto dimensionale di 4-15 volte
per continuare a esistere. La globalizzazione della concorrenza è iniziata nelle attività che
richiedevano altissime specializzazioni o capitali per R&S o per investimenti produttivi
(aeronautica, petrolio, farmaceutica ecc.) e nei quali dei produttori finali globalizzati
richiedevano fornitori o componentisti ugualmente globalizzati (il caso classico è
l’automobile), ma oggi si estende anche ai settori dellle commodities (acciaio, cemento, per
ora solo su basi continentali), ai settori in cui il know-how gestionale rappresenta un
particolare vantaggio competitivo (per esempio la siderurgia bresciana, i mutui immobiliari,
la grande distribuzione ecc.) e a quasi tutti i prodotti di marca. Le notevoli necessità di
capitali per la R&S, l’opportunità di penetrare quei mercati in cui si può sperare in tassi di
crescita superiori a quelli dei paesi sviluppati e le occasioni di acquisizione a seguito di
privatizzazioni o ristrutturazioni sono altri elementi che spingono sulla strada della
globalizzazione. In sintesi, si può dire che la globalizzazione della concorrenza è diventata
la regola e che saranno veramente poche le aziende con una concorrenza locale; se mai,
nei settori in cui i costi di trasporto sono elevati in relazione al valore aggiunto, la
concorrenza verrà definita da “isobare” di costo di trasporto, e non più dai confini nazionali.
Per esempio, nel cemento una parte del mercato è già definito dalle coste del
Mediterraneo, e non più dai tradizionali due o trecento chilometri di raggio delle singole
cementerie. In questo contesto, la parola “export” appare così antiquata da non essere più
pronunciabile.
Lo sviluppo della teleinformatica.
L’unità di spazio, tempo e azione, di liceale memoria, sembra essere possibile oggi con lo
sviluppo imponente delle telecomunicazioni e dell’informatica. In tempo reale e a migliaia di
chilometri di distanza, è possibile progettare, effettuare transazioni complesse, dare gli
ordini di rifornimento dei magazzini, effettuare attività di customer service (in inglese),
tenere la contabilità ecc.; il tutto a bassi costi e con eccellente qualità. L’impresa può quindi
essere riprogettata da zero decidendo dove fare certe attività (in Italia, in India ecc.), da chi
farle fare (per esempio da un fornitore di servizi), e con quali mix di costi variabili/fissi
(l’automazione completa non è più un miraggio). Nel momento in cui i dipendenti si
abituano a dialogare con altri via computer, senza il bisogno di un contatto faccia-a-faccia,
non c’è più bisogno che, dall’altra parte, ci sia davvero una persona fisica che parla la
stessa lingua: basta un sistema efficiente che genera le appropriate decisioni e reazioni. Le
linee aeree possono fare a meno delle aziende di viaggio dando ai clienti di business class
delle speciali “credit cards” per l’accesso a bordo, ma anche le aziende possono fare a
meno dei venditori sostituendoli con interfacce elettroniche con i clienti.
La diminuzione dei tassi di crescita per quasi tutte le industrie nei paesi sviluppati.
La parola “crescita” è mentalmente associata a qualcosa di positivo, mentre la non crescita
(o stagnazione) è percepita come negativa; di conseguenza, le aspirazioni dei manager,
degli azionisti, dei governanti sono orientate alle industrie o servizi in crescita. Invece, già
da molti anni si constata che i ¾ dell’industria e dei servizi sono ormai strutturalmente
stagnanti, se definiamo come stagnazione una crescita nel mercato di origine inferiore al
tasso di aumento della produttività (che, comunque, ha tassi di miglioramento “strutturale”
del 4-5% all’anno). Questa definizione presuppone di non contare come componenti della
crescita le esportazioni verso quei mercati lontani (per esempio della Cina) che prima o poi
si renderanno autonomi. La non-crescita è la norma, mentre la crescita è l’eccezione.
D’altra parte ciò è logico: nei paesi sviluppati, nei quali la popolazione non cresce, non è
possibile mangiare di più, prendere più medicine, comprare più automobili nuove ecc. Ci
sono, naturalmente, alcune aree di crescita- particolari prodotti, aree geografiche
sottosviluppate, servizi innovativi- ma la maggior parte dei business in cui operano le
aziende è inevitabilmente stagnante, che solo gli occhi starati di alcuni manager possono
interpretare come in sviluppo: il capo di una società europea di metalli non ferrosi
argomentava appassionatamente che il suo settore era in crescita (2% all’anno, come
media di lungo periodo!). La consapevolezza della non-crescita richiede un approccio
totalmente nuovo da parte di manager, azionisti e dipendenti, invece dell’attuale approccio
ingannatore di interpretare come crescita le acquisizioni o il recupero delle vendite dopo
situazioni di crisi.
La delocalizzazione produttiva.
Le possibilità offerte dalla teleinformatica di governare in tempo reale situazioni distanti
migliaia di chilometri, e il costante aumento della qualità dei prodotti fabbricati nei paesi che
un tempo si distinguevano solo per il basso costo della manodopera, permettono oggi di
decidere liberamente dove collocare ogni lavorazione o fase del processo produttivo. Il
vecchio mito che non sia possibile fare produzioni di qualità all’estero si rivela come la
scusa adottata da dipendenti e fornitori per evitare gli uni gli sgradevoli viaggi all’estero, e
gli altri la cancellazione dall’albo dei fornitori.
La deregolamentazione.
Quando le tecnologie ridefiniscono i vecchi confini (come nel caso delle telecomunicazioni,
nel quale è impossibile distinguere fra voce, dati e video in un mondo digitalizzato), le
aziende diventano sempre più multinazionali, i consumatori diventano sempre più
omogenei, ogni singolo stato non può più resistere alla pressione di uniformare la propria
legislazione a quella degli altri e non può più negare a un settore la deregolamentazione
che ha concesso a un altro. Deregolatori e antitrust, che oggi tutte le aziende considerano
dei nemici, sono invece dei preziosi alleati che permettono di percepire in anticipo un trend
generalizzato.
Le implicazioni di questi cinque megatrend (che si amplificano a vicenda) sono
estremamente importanti: le aziende devono organizzarsi per arrivare a una dimensione
rilevante in un mercato di almeno 800 milioni di consumatori, devono acquisire una
posizione di cost leadership (non perché serva per far sviluppare un mercato, come
succedeva in passato, ma per continuare a competere in mercati singolarmente stagnanti)
e possono collocare ove vogliono nel mondo non solo gli stabilimenti ma anche le singole
funzioni o servizi aziendali; inoltre, un mercato mondiale globalizzato permette di applicare
in tutte le aree geografiche quegli approcci che si sono dimostrati vincenti in altre aree
anche in situazioni che rimarranno in un qualche modo regolamentate. In questo contesto
bisogna che le aziende abbandonino il tradizionale sciovinismo. In passato lo sciovinismo
ha funzionato, e ha sbagliato chi ha copiato pedestremente i modelli organizzativi
americani in mercati comunque dominati da localismi, culture diverse, situazioni di
protezione particolari ed esigenze di presenza locale; ma in un mondo globalizzato si parla
necessariamente in inglese, si producono prodotti uniformi, e si funziona secondo modalità
che sono mediamente adatte ai venti paesi importanti e agli 800 milioni di consumatori
significativi. Anche in quei settori nei quali per ora la competizione avviene solo su basi
continentali valgono gli stessi concetti: il mercato domestico è diventato un’eccezione che
non merita più nemmeno una citazione nei libri di management.
Concetti organizzativi tradizionali
La cultura organizzativa della maggior parte dei manager (in particolare dei manager
italiani senza esperienza diretta del funzionamento su basi multinazionali) si è sviluppata in
decenni in cui esisteva ancora un mercato domestico, l’informatica serviva per fare paghe e
stipendi, i dipendenti, i fornitori e gli agenti di vendita erano soggetti infidi e riottosi, il
mercato dei capitali era inesistente e la protezione governativa poteva comunque essere
assicurata sia per finanziare investimenti sia per evitare la concorrenza, almeno dall’estero.
Permane quindi una visione tayloristica dell’organizzazione aziendale in cui il management
fraziona i compiti per poter poi coordinare, non fidandosi di nessuno; tale visione viene
persino rafforzata dalla minaccia del nuovo mondo competitivo. Prendiamo ad esempio una
serie di “statements” normalmente condivisi su cosa sia necessario fare per avere
un’organizzazione moderna ed efficace:
L’azienda è unitaria e deve essere articolata in divisioni secondo le caratteristiche dei
prodotti/ mercati/ competitors.
Le funzioni aziendali sono centri di costo, eventualmente responsabilizzabili per
obiettivi di costo o di servizio nei confronti delle divisioni produttive o di mercato.
Il corporate è importante e serve per controllare, coordinare e fornire i servizi comuni
alle divisioni; il compito principale del corporate è l’allocazione dei fondi fra le unità di
business.
I fornitori e i clienti sono “esterni” all’azienda e bisogna quindi avere con loro dei
rapporti di negoziazione e controllo.
Le unità organizzative, all’interno di una singola divisione o servizio, devono essere
coordinate o controllate da un capo con uno “span of control” non troppo ampio.
I singoli paesi in cui si opera devono essere delle entità abbastanza autonome, stante
le specificità legislative e culturali di ciascuno; il mercato nazionale ha comunque uno
status speciale, sia in virtù della maggior quota di mercato che della maggiore vicinanza al
corporate.
I gruppi di progetto sono delle anomalie organizzative.
Le joint venture devono essere maggioritarie.
L’integrazione aziendale (fra le divisioni o fra le produzioni di uno stesso stabilimento)
è fondamentale per l’efficienza, e deve essere assicurata attraverso il ruolo del vertice
aziendale, per esempio con i prezzi di trasferimento.
Il comportamento dell’azienda globale
Prima di definire nuovi concetti organizzativi è bene osservare da vicino come le aziende
globali di successo hanno reagito ai megatrend illustrati in precedenza e che sono attivi
ormai da molti anni.
L’azienda che si deve confrontare con un mercato di 800 milioni di consumatori potenziali
non ha che una possibilità: focalizzarsi e fare al proprio interno solo l’essenziale. Non si
tratta soltanto di concentrarsi sul “core business”, ma di scavare ulteriormente nel proprio
modo di essere per concentrarsi sul “core del core”, e ricorrere a terzi, fornitori, partner e
specialisti funzionali per acquisire tutto quanto non è indispensabile o possibile fare al
proprio interno.
Il processo mentale che bisogna utilizzare per passare da una situazione tipica del
“mercato domestico” degli anni Sessanta a quella adatta per competere oggi (e ancor più in
futuro) è molto interessante, e richiede una grande disponibilità a violare i vincoli e i modi di
pensare tradizionali.
Il primo passo è l’abolizione del concetto di “domestico”; un consumatore potenziale è tale
sia che risieda in Giappone sia che viva negli Stati Uniti e quindi bisogna comprendere
bene cosa tale consumatore medio si attende dal prodotto e dall’azienda che lo produce.
Probabilmente è già in parte soddisfatto da un’offerta esistente e bisogna quindi che
l’azienda sviluppi un atteggiamento da “nuovo entrante”, anche se a casa sua ha una
posizione di mercato forte e consolidata; il vino o l’automobile italiana non significano
niente di particolare per un consumatore californiano, che può scegliere prodotti locali o
importati da tutto il mondo. In parallelo deve essere abolito il concetto di distanza, sia nello
spazio che nel tempo; non si può più introdurre un nuovo prodotto prima vicino a casa e
poi, via via, negli altri mercati, perché il consumatore pretende di essere servito
istantaneamente ovunque con il nuovo prodotto che vede in TV o viaggiando e i
concorrenti non aspettano altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi nel gioco
competitivo. Tutto questo implica un salto di scala operativa di un ordine di grandezza, fino
a quando non si sarà acquisita una quota di mercato significativa su scale mondiale, per di
più distribuita omogeneamente; di conseguenza l’azienda deve vendere tutti i business nei
quali non ha la speranza di sopravvivere a lungo termine e utilizzare le risorse finanziarie
per acquisire gli operatori esteri omogenei con il proprio core business. Poiché però, anche
concentrandosi, le risorse finanziarie possono non essere sufficienti, occorre:
Fare ricorso al mercato dei capitali, anche a costo di perdere quel fatidico 51% di
proprietà che assicura il controllo dell’azienda: se si ragiona come puri capitalisti è meglio
avere una quota inferiore di un business vincente che essere "padroni" di un business a
dimensione insufficiente, e quindi potenzialmente perdente. I capitali nuovi però fluiscono
ad aziende ben gestite, con ottimi indici di performance, e con una chiara missione di tipo
industriale; non si può quindi più contare su banche amiche, su ipotetiche sinergie di
gruppo, su comportamenti finanziari e aziendali non improntati al mondo anglosassone.
Accettare la logica delle joint venture 50/50; se un concorrente occupa già una
posizione rilevante su un particolare mercato e non è disposto a farsi acquisire (così come
l’azienda italiana non è disposta a vendersi), allora è giocoforza mettersi d’accordo per
sviluppare insieme il business, facendo astrazione dalle nazionalità di origine. Bisogna
quindi che i business collocati nelle joint venture diventino apolidi (cioè, non più
chiaramente identificabili con il paese d’origine), che abbiano in se stessi tutte le risorse, e
che non siano più costretti a dipendere da corporate nazionali.
Il secondo passo è il ripensare base zero le relazioni con i fornitori e i clienti. Per
competere su base internazionale il know-how presente in azienda non è spesso
sufficiente e deve quindi essere integrato con know-how che altri hanno: know-how
tecnologico, conoscenze di ciascun specifico mercato, accesso a risorse tecnologiche o
finanziarie particolari ecc.
Anche in questo caso bisogna sviluppare un atteggiamento positivo verso le partnership,
accettando la parziale perdita di sovranità e di autonomia che esse comportano. Per
esempio, la Bosch non si considera più come un fornitore delle case automobilistiche: si
considera invece come un partner specialistico per componenti importanti del motore o del
sistema di controllo e tende quindi a privilegiare quelle case automobilistiche che sono
vincenti e che avranno, nei suoi confronti, un atteggiamento di partnership invece del
classico rapporto cliente/fornitore.
Il terzo passo è ripensare base zero anche la logica in base alla quale sono svolti,
all’interno dell’azienda, i vari servizi: dalla contabilità alla logistica, dall’informatica
all’assistenza tecnica. A differenza del passato, esistono oggi validi fornitori internazionali
di servizi che danno all’imprenditore la possibilità di acquistare (sempre in ottica di
partnership) quasi tutti i servizi complementari alla propria progettazione e distribuzione del
prodotto.
Al limite l’impresa può consistere solo del marchio, dell’ideazione del prodotto e della
finanza, essendo oggi possibile far costruire, distribuire e assistere il prodotto da altri
specialisti. Per esempio nei cavi in fibra ottica i veri protagonisti sono i produttori di fibra
(Corning e Sumitomo) che lasciano ad altri (Alcatel, Pirelli ecc.) le fasi meno lucrose del
business. I capitali e le risorse intellettuali dell’azienda possono così essere concentrati
solo nelle aree in cui non c’è un’alternativa efficace e meno costosa all’esterno.
L’outsourcing non è quindi soltanto un metodo per ridurre i costi: è anche una necessità
strategica per l’azienda che si deve concentrare nel "core del core" per competere in un
mercato globale.
Il quarto passo è l’identificazione di un assetto competitivo vincente. Non basta infatti fare
meglio che in passato, sopratutto in termini di costi: bisogna riprogettare interamente come
si produce e si vende e come si continuerà a innovare.
La potenza dell’informatica collegata alle telecomunicazioni consente di ridurre
praticamente a zero il costo variabile di ogni transazione (dall’emissione di un programma
di produzione alla preparazione di un ordine di spedizione). Inoltre l’attenta progettazione di
tutta la catena logistica permette di ottenere dei livelli di performance mai realizzati in
passato; per esempio la catena di distribuzione di The Limited (uno dei grandi distributori di
abbigliamento americani) riesce a ottenere un ciclo ordine-consegna di 1.000 ore, da
confrontare con le 8.000 ore (cioè un anno) necessarie per i tradizionali produttori di
abbigliamento italiani, incluso Benetton.
Le possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più convenienti, mantenendo al
contempo qualità e tempi di reazione adeguati, consente di disaccoppiare le singole fasi
del processo produttivo, dall’ideazione del prodotto all’assistenza al cliente, costruendo un
sistema competitivo vincente.
Infine, il collegamento con centri di eccellenza diversi ed esterni all’azienda (ma
strettamente collegati in termini di partnership), ovunque siano situati nel mondo, consente
la tempestiva identificazione di nuove possibilità di produrre o servire clienti sempre più
sofisticati ed esigenti. È proprio la sfida dell’innovazione continua che consente la
sopravvivenza, anche di un’azienda che ha ridotto all’osso i suoi costi. La capacità di
sviluppare nuovi prodotti/mercati è quella che Hamel e Prahalad definiscono “orientamento
al numeratore”: nel Roi il numeratore è rappresentato dal fatturato (difficile da aumentare in
mercati stagnanti) e il denominatore è rappresentato dagli asset, dal personale, dai costi in
genere. Il management tradizionale è orientato alla relativamente più facile attività di ridurre
il denominatore, ma tale strategia non è mai vincente nel lungo termine.
A questo punto l’azienda è pronta ad affrontare il vero tema strategico: come acquisire e
mantenere un vantaggio competitivo durevole anche in un mondo globalizzato. La riposta
non può che essere nello sviluppo di competenze “proprietary” e cioè non copiabili.
L’azienda, liberata dai problemi che possono essere delegati ad altri, può concentrarsi su
quelle tecnologie essenziali che, combinate in modi innovativi, permettono stabilmente di
far meglio dei concorrenti. Certamente anche il know-how commerciale può rappresentare
un vantaggio competitivo, come Benetton ha dimostrato, ma è sopratutto il dominio delle
tecnologie che assicura l’azienda contro gli assalti dei “competitors”; il polopropilene della
Montedison, la progettazione dei campi di produzione petrolifera dell’Agip, la costruzione
delle turbine del Nuovo Pignone sono tutti esempi di un dominio delle tecnologie di base
che hanno permesso di costruire delle aziende vincenti.
In molti settori industriali non è però sufficiente avere un sistema produttivo a bassi costi,
particolarmente se il contesto competitivo porta a periodiche situazioni di sovracapacità
produttivo (come nel caso dell’acciaio o delle commodities chimiche), o a comportamenti in
tema di prezzi che, pur logici dal punto di vista della singola azienda, non permettono a
tutta l’industria di remunerare adeguatamente i capitali impiegati; in tanti settori industriali
(dal macchinario per l’energia agli aerei, dall’automobile ai cavi) c’è spesso un operatore
valetudinario che prima di fallire, pratica politiche di prezzi dissennate, che condizionano la
redditività di tutta l’industria.
Tale operatore, una volta fallito, risorge dalle proprie ceneri attraverso l’annullamento dei
debiti e continua a condizionare negativamente l’industria (le linee aree americane ne sono
un classico esempio).
Tutto ciò è particolarmente grave quando i consumi non si espandono a un tasso superiore
a quello della produttività, come è nel 75% dei casi. Bisogna quindi che il top management
riesca a concentrare la propria attenzione sulla ristrutturazione del mercato, in modo da
ridurre il numero dei “competitors” a una mezza dozzina per ogni singolo settore (attraverso
joint venture o fusioni transazionali); se tale obiettivo è raggiunto il mercato è più ordinato e
l’arena competitivo si sposta sulle capacità innovative di ciascuno, invece che sulla
disponibilità a investire in impianti anche in modo dissennato.
In ultimo occorre citare la sempre maggiore attenzione che bisogna prestare al mercato dei
capitali; quando tutti i “competitors” si sono concentrati sul core business, hanno
terziarizzato e reingegnerizzato le proprie “operations”, hanno adottato tecniche di “quick
response”, “total quality”, “employee empowerment” e “lean production”, la capacità di
alcuni di acquisire capitali con l’attesa di un tasso di remunerazione diretta (dividendi)
inferiore a quello degli altri concorrenti (in quanto compensato da un’attesa di un maggior
capital gain) diventa l’elemento distintivo sul quale basare una strategia di sviluppo.
Nuovi concetti organizzativi
A questo punto è possibile comprendere come bisogna riprogettare l’azienda in modo da
renderla adatta a competere in mercati che si vanno globalizzando; possiamo quindi
riprendere i concetti organizzativi espressi in precedenza e dimostrare che, in genere, i
concetti adatti a un futuro globalizzato sono proprio l’opposto di quelli considerati validi in
passato e tuttora ritenuti tali (almeno nei pochi casi di mercati ancora protetti) dalla maggior
parte dei manager italiani.
Se l’azienda è totalmente focalizzata sul core business, non esistono più le divisioni,
almeno non nel senso utilizzato nell’era dei conglomerati; un’azienda può avere tanti
prodotti diversi, che derivano sia da tecnologie di base sinergiche (come nel caso della
Canon citato da Hamel e Prahalad nel famoso articolo dell’Harvard Business Review) sia
da un know-how gestionale unitario (come nel caso della 3M). L’azienda si organizza
intorno a un "sistema portante" che è il vero centro di profitto e le eventuali divisioni sono
dei centri ancillari di responsabilità, con limitata autonomia. Il “sistema portante” dipende
sia dall’industria che dalla strategia aziendale: in un’azienda di servizi di telecomunicazioni
è la rete, in una società automobilistica plurimarchio è la commercializzazione, in una
società petrolifera può essere la raffinazione o la rete distributiva. La struttura organizzativa
adatta a un’azienda che compete in un mondo globalizzato è essenzialmente
un’organizzazione funzionale me con delle autonomie collocate laddove si vogliono forzare
delle differenziazioni per cogliere delle opportunità.
Le funzioni aziendali non sono dei centri di costo ma dei business da terziarizzare
(con l’outsourcing) o, se si è particolarmente bravi, da sviluppare come business e, a
termine, da scorporare e cedere; in alternativa sono delle attività da ridurre all’osso ed
eventualmente al ruolo di consulente, in quanto la diminuzione della crescita e dei margini
comporta il taglio degli overhead costs. Eds si è sviluppato in un business mondiale dalla
“costola” dell’informatica della General Motors e potrà, a termine, essere completamente
separata dalla casa madre originaria. Inoltre, la reingegnerizzazione dei processi porta
all’interno dei processi stessi delle decisioni che in passato potevano essere classificate
come di competenza di una funzione (finanza, personale ecc.); le funzioni aziendali che
rimangono nella definizione di “core business” hanno quindi sempre più la connotazione di
architetti specialisti di processi, invece che di detentori di poteri autonomi e comunque
“pesano poco”.
Il corporate non esiste più, in quanto si identifica con il business stesso; è ampiamente
dimostrato che i gruppi multibusiness governanti da un corporate valgono di meno di
quanto non vale la somma dei singoli business e quindi il corporate si giustifica solo per
delle logiche di potere. L’esistenza di un corporate è spesso il principale ostacolo alla
crescita in termini di globalità dei singolari business (ne discuteremo più avanti). Anche il
ruolo di allocatore fondi fra i business è inutile, in quanto il mercato dei capitali saprebbe
ugualmente bene allocare i fondi ai business. Rimane tuttavia un ruolo importante di
relazione con il mercato dei capitali.
I fornitori e i clienti fondamentali non sono “esterni” all’azienda nel senso tradizionale
del termine: sono dei partner e quindi ne fanno parte, con uno status che varia seconda dei
casi. Non è quindi vero che l’azienda finisce dove finisce l’organigramma; l’informatica, il
personale, la finanza devono aver riguardo a fornitori e clienti con modalità ovviamente
differenti dalle unità aziendali, ma con altrettanto interesse e atteggiamento di servizio. In
particolare, nel riprogettare i processi aziendali, l’azienda moderna ignora gli steccati
tradizionali e fa fare da ciascun partner tutto quello che lui può fare meglio. L’azienda
vincente ha missioni precise ma confini elastici.
Le unità organizzative all’interno di una singola divisione o servizio non hanno bisogno
di essere strettamente governate e coordinate, sia perché la progettazione dei processi
trasversali determina già i componenti delle unità organizzative, sia perché le unità
organizzative elementari incorporano ruoli di funzioni diverse. Mentre in passato il direttore
di stabilimento aveva sotto di sé un direttore del personale, un direttore amministrativo, un
direttore degli impianti ecc., ognuno dei quali rispondeva funzionalmente a un capo
centrale, oggi si progettano unità organizzative più piccole, più compatte, con ruoli multipli
per la stessa persona, né si possono avere dei “multiple reportings”, pena la confusione
organizzativa. Inoltre, se il coordinamento e il controllo sono implicitamente effettuati dai
processi, se le persone funzionano in team e se la competenza delle persone è molto più
elevata che in passato, cade il concetto di limite allo “span of control”; un direttore vendite
può coordinare decine di unità organizzative autonome, evitando così di rappresentare un
overhead inutile e costoso.1
Attualmente la maggior parte delle aziende europee articola le responsabilità di
mercato per paese: i condizionamenti geografici sono duri a morire (d’altra parte anche in
Italia qualcuno pensa che le Regioni definite cent’anni fa abbiano ancora un significato!). Di
conseguenza, in ogni paese è stata creata una filiale con tanto di capo, di ufficio personale,
di contabilità, di finanza ecc. Appena c’è un’affiliata con un suo responsabile incomincia un
costosissimo gioco di rapporti antagonistici con la sede centrale: il marketing di affiliata
pretende variazioni di prodotto, il controller centrale vuole avere un rapporto diretto con il
controller di affiliata e la stessa cosa accade per l’amministrazione, la finanza, il personale
ecc. La logistica pretende dei magazzini locali per assicurare un adeguato livello di
servizio, con l’accordo della gestione prodotto centrale che così può responsabilizzare
qualcun altro per il controllo delle scorte. Tutta questa bardatura finisce per creare dei costi
extra e per far dedicare la maggior parte del tempo di tutta l’organizzazione e discussioni
interne, invece che a vendere o ad altre attività utili. Sono molto più saggi alcuni operatori
extraeuropei, americani o giapponesi, che hanno preteso di considerare l’Europa come un
unico mercato articolato in regioni, così come un’azienda italiana ha un’organizzazione di
marketing unitaria e un’organizzazione di vendita articolata in base alle aree Nielsen;
queste organizzazioni su base sovranazionale spendono molto meno in termini di costi
generali di struttura e pretendono dal proprio marketing centrale la capacità di saper
distinguere gli approcci necessari per le varie aree geografiche. Già vent’anni fa la Ferrero
si era organizzata in questo modo; quando nel 1975 mi capitò di complimentare Michele
Ferrero per la notevole percentuale di export realizzata dalla sua azienda mi sentii
rispondere: «Il complimento non è appropriato, dato che in realtà noi della Ferrero
vendiamo il 90% dei nostri prodotti nel nostro mercato domestico, che è l’Europa».
Le aziende sono ossessionate dall’organigramma; ognuno deve avere una sua
posizione, deve avere un capo, deve sapere che cosa deve fare, deve coordinarsi con alrti.
I gruppi di progetto, che pure nella letteratura manageriale sono individuati come i motori
dell’innovazione e del problem solving, sono mal tollerati, perché sfuggono alle precise
gerarchie aziendali create apposta per dominare un sistema competitivo stabile e noto.
L’azienda che compete in un contesto globalizzato, invece, deve saper affrontare le mille
sfaccettature, minacce e opportunità competitive che derivano da molteplici incroci fra
prodotti, mercati, tecnologie, gruppi di clienti e reazioni competitive; tale azienda non ha
altra possibilità di essere sempre vitale che rimescolare di continuo la propria
organizzazione, appunto con i gruppi di progetto. Questi gruppi si creano e si dissolvano in
funzione di problemi e opportunità; per esempio, possono mettere a punto l’impostazione di
una partnership, una volta realizzata la quale la gestione corrente deve prendere il
sopravvento, in modo automatico.
Le joint venture che sopravvivono sono quelle 50/50, non quelle in cui uno dei soci ha
la maggioranza. Una condizione ugualitaria fra i partner è essenziale per accordarsi
sempre sull’unica cosa che conta veramente e cioè l’aumento di valore, che è conseguente
all’aumento della capacità competitiva della joint venture, ottenuto all’interno della stessa.
Bisogna quindi che le aziende imparino ad accettare le joint venture 50/50 e a considerarle
come il modo normale di operare quando si vuole raggiungere una posizione di
preminenza su base mondiale. Se, per contro, la joint venture 50/50 è vissuta dai partner
come una condizione precaria, il fallimento è certo.
Normalmente le aziende tendono a sopravvalutare l’importanza dell’integrazione
aziendale, per esempio a livello di uno stabilimento che produce più prodotti; in questo
modo si sottovaluta l’importanza di collocare ciascun pezzo di uno stabilimento
multiprodotto in joint venture differenti, che hanno maggiori possibilità di acquisire una
quota significativa del proprio mercato continentale o mondiale, con tutti i vantaggi che ne
derivano (in particolare in termini di presso). Spesso i vantaggi in termini di dominio del
mercato sono superiori alle perdute sinergie produttive; in realtà, la sopravvalutazione del
valore dell’integrazione è spesso dovuto al fatto che solo in tale modo si mantiene il potere
centrale di coordinare e decidere.
Tutti questi concetti, che sono diametralmente opposti a quelli ritenuti validi da molti
manager italiani, sono invece funzionali a creare, per ciascun business, una forte
focalizzazione sul consumatore e quella coerenza di comportamenti che è essenziale per il
successo dell’impresa.
Un’ultima considerazione: l’evoluzione nel tempo delle esigenze di coordinamento
strategico globale e delle necessità di adattamento locale variano per fatti sia oggettivi sia
soggettivi (un management convinto della propria missione globale tenderà a enfatizzare il
primo aspetto, mentre un management con esperienza molto caratterizzata in termini
nazionali enfatizzerà il secondo).
Un modo di pensare adatto alla globalità
Le strategie e le organizzazioni impostate dalle aziende sono normalmente logiche, nel
senso che hanno sempre una coerenza interna; possono però essere sbagliate se ci si
misura con l’obiettivo di aumentare il valore per gli azionisti, invece che con l’obiettivo di
mantenere l’attuale assetto proprietario o di potere.
Assumiamo che azionisti e management siano davvero interessati soltanto a far acquisire
al business una dimensione globale, aumentandone così il valore; in tal caso bisogna che il
management sia prima di tutto in grado di pensare con i paradigmi e i valori adatti a vincere
in mercati globalizzati. Sono gli schemi mentali del management che determinano le
strategie, non queste che evolvono naturalmente dall’analisi dei fatti; se il management non
è sintonizzato sulla lunghezza d’onda della competizione internazionale non riuscirà a
cogliere, nei comportamenti dei concorrenti o dei consumatori esteri, quei segnali che
servono per costruire una strategia vincente. In particolare, se il sistema di valori del
management è di evitare, per quanto possibile, la scomodità che deriva dall’accettare la
sfida della globalizzazione, si troveranno tutte le scuse per rifiutare persino l’idea che il
settore possa evolvere la globalizzazione.
Se vogliamo veramente competere in un settore industriale che si va globalizzando è
essenziale conoscere quali schemi mentali sono utilizzati dai manager che operano da
tempo in mercati già globalizzati; molti di questi schemi sono effettivamente utili, ma sarà
compito del management scegliere quelli più adatti al caso specifico (stando però attenti a
non scegliere in funzione del minor cambiamento richiesto al management stesso).
Partnership. Solo le aziende che hanno incominciato a operare come multinazionali
almeno trenta anni fa hanno l’opzione di procedere da sole; tutte le altre devono accettare
di operare, in molti dei cinquanta mercati importanti (o che saranno tali nel prossimo
decennio) con delle joint venture con qualcun altro cha ha già una posizione di vantaggio
locale, o che comunque è complementare. Bisogna quindi considerare le partnership come
fatti positivi, permanenti e non come una spiacevole necessità, da sostituire appena
possibile con il dominio diretto (perdendo quindi il vantaggio dell’imprenditorialità del
partner). La Corning è un ottimo esempio; metà dei suoi profitti derivano da joint venture
internazionali; la Snia Fibre ha collocato tutti i suoi business in joint venture 50/50.
Primato degli apolidi. Operare come azienda globale è terribilmente scomodo, dal
punto di vista della vita privata dei manager; bisogna viaggiare sempre, essere disposto a
spostare la famiglia da un paese all’altro, non avere preferenze nazionali per la
localizzazione del quartier generale ecc. Ci vuole quindi un sistema di selezione del
management che privilegi proprio quelli che sono capaci di accettare un tale tipo di vita, su
basi permanenti e di non discriminazione verso quelli di cittadinanza diversa da quella degli
azionisti principali (altrimenti prima o poi gli “stranieri” in gamba lasceranno l’azienda).
Importanza reale delle persone. Operare contemporaneamente in Cina e in Canada,
sviluppare tecnologie in centri di eccellenza localizzati in paesi diversi, rischiare per
cogliere delle opportunità di business richiede persone affiatate, omologate per le loro
singole capacità, desiderose di continuare a stare nella stessa azienda, pur disperse in
quattro continenti. Tutte le aziende dicono che le persone sono “il maggior asset”, ma
poche si comportano di conseguenza; gli asset umani davvero importanti vogliono
autonomia, hanno dosi insospettate di imprenditorialità, devono essere “coccolate”, non
hanno bisogno di grandi coordinamenti e controlli. Se tali persone ne hanno la possibilità,
sapranno cogliere le opportunità di differenziazione locale, permettendo al contempo
all’azienda di mantenersi fortemente unitaria e focalizzata.
Uniformità dei clienti. Le aziende globali sanno benissimo che gli 800 milioni di
consumatori finali o le migliaia di aziende industriali (per chi vende semiprodotti o
componenti) sono tutti diversi; ma tale diversità non è concettualmente dissimile da quella
che comunque esiste nei 50 milioni di consumatori o nelle centinaia di clienti industriali del
vecchio mercato domestico. Il maggior numero di consumatori potenziali mondiali consente
inoltre di progettare prodotti mirati a sottosegmenti che, su base nazionale, sarebbero
insufficienti a rendere economico lo sviluppo di prodotti specifici; nell’automobile, per
esempio, si è passati da riconoscere quattro segmenti base ad almeno una decina. Il
prodotto o servizio che si offre su base mondiale deve quindi essere sufficientemente
uniforme per poter essere gestito, ma al proprio interno deve comprendere la possibilità di
differenziarsi per ogni paese. Il consumatore è al contempo uniforme e con mille
sfaccettature diverse; non si può quindi né fare tanti prodotti diversi quanti sono i paesi, né
ignorare dei mercati perché richiedono sostanzialmente dei prodotti diversi. Centrare bene
l’offerta è essenziale per avere la massa critica necessaria; quello che si perde in
differenziazione si guadagna in termini di economie di scala.
Irrilevanza della geografia politica. I manager delle aziende globali hanno una fede
incrollabile nel fatto che, prima o poi, ciò che ha funzionato in un paese funzionerà anche in
un altro. E’ interessante sentir parlare i manager di aziende globali come CocaCola o
Exxon; citano incessantemente esempi tratti dai quattro angoli del mondo per dimostrarne
l’applicabilità anche in Italia (la reazione istintiva di un manager italiano è che noi siamo
diversi!). Anche nei settori molto regolamentati (banca, energia elettrica, grande
distribuzione) l’azienda che si comporta da azienda globale considera come anomali i
vincoli posti da ogni particolare mercato e prende posizioni oggi contando che domani
anche quelle anomalie verranno rimosse per adeguarsi agli standard dei mercati più
sviluppati. Questo modo di pensare non è mai disponibile in chi opera in un solo mercato.
Valore della quota di mercato omogenea. Il management di un’azienda globale prende
come riferimento la quota di mercato che l’azienda ha nei mercati non protetti e non si
illude che la propria forza competitiva derivi da una media di questo mercato con quella di
evidente maggior forza nel mercato di origine.
Importanza dei processi trasversali. Il management di un’azienda che opera in un solo
mercato e in una sola lingua può avere l’illusione di capire tutto e di poter supplire con
l’intelligenza e il decisionismo verticistico alle carenze dei processi gestionali; chi opera
invece in tanti paesi diversi e in tante lingue è certo di non riuscire mai a capire tutto e ha
solo l’alternativa di progettare dei processi trasversali (sviluppo prodotti, investimenti,
logistica ecc.) che mediamente garantiscano di cogliere correttamente le opportunità.
Naturalmente, ciò implica anche un forte grado di delega e di automatismo, in quanto un
vertice che non può capire i singoli casi non può nemmeno far finta di decidere.
Disaccoppiamento di responsabilità strategiche e operative. E’ fuori discussione che il
capo azienda ha sempre una responsabilità unitaria, ma in un sistema globale
estremamente complesso chi fa i piani spesso non è la stessa persona che li esegue; il
responsabile di un mercato, di uno stabilimento o di una linea di prodotti non ha la
prospettiva sufficiente per sviluppare autonomamente dei piani di business e ci vuole quindi
un forte staff centrale, o ancor meglio dei gruppi di progetto costituiti in modo eterogeneo,
per poter fissare le linee strategiche corrette. Il capo azienda può solo creare delle
condizioni organizzative aperte e di facile interscambio di opinioni per far emergere le
strategie vincenti. Hamel e Prahalad identificano, inoltre, fra i criteri di un’azienda vincente
su basi multinazionali, il fatto che il top management pensi a se stesso come l’architetto
dello sviluppo piuttosto che come decisore dei problemi attuali, e che dedichi molto tempo
a far emergere dall’interno una visione condivisa della strategia.
Relazione strategia/mercato dei capitali. Le aziende controllate da un corporate sono
particolarmente attente a contenere gli investimenti all’interno del proprio flusso di cassa,
dato che aumenti di capitale metterebbero a rischio il controllo e il rapporto debt/equity non
può essere troppo spinto. Al contrario, le aziende globali sostanzialmente monobusiness
non hanno la preoccupazione di dover aumentare la propria base di equity (per esempio
per una grande acquisizione o per una fusione), sempreché l’idea di business sia buona e
riconosciuta come tale dal mercato dei capitali: tali aziende hanno quindi una certa
preferenza per l’equity piuttosto che per il debito. In un’impresa globalizzata i capitali non
sono mai un limite per delle buone idee.
Questi modi di pensare, tipici del management di un’azienda che opera in un mercato
globale, sono complementari a quelli comunque validi e utilizzati universalmente:
certamente i concorrenti devono essere conosciuti intimamente, la struttura organizzativa
deve al contempo stimolare e rassicurare le persone e così via.
Il problema del ruolo corporate
Il corporate nazionale è l’ostacolo principale allo sviluppo, in termini di globalità, dei singoli
business, perché con tale evoluzione perde il potere accumulato negli anni e normalmente
non sa ritrovare un ruolo come snodo finanziario.
Tutta la cultura del corporate, con l’eccezione della Finanza, è orientata all’interno, a
comandare, coordinare, controllare, imporre servizi e in ciò il corporate si adegua alla
‘legge’, identificate da Lawrence e Lorsch già nel 1967, di un’inevitabile maggior incidenza
degli “overhead costs” rispetto ai costi diretti, man mano che l’azienda invecchia o diventa
più grande. Se ogni business evolve verso una dimensione da impresa globale e diventa
più autonomo, il corporate cosa fa? Deve recuperare uno spazio sul fronte della finanza e
delle relazioni con gli investitori, ma in tal caso bastano poche persone, con caratteristiche
molto particolari; si comprendono quindi le resistenze a tutte quelle iniziative che
diminuiscono il potere del corporate, dagli aumenti di capitale nei singoli business alle joint
venture paritetiche.
Esiste invece un ruolo nuovo che può essere giocato da un corporate intelligente e che
richiede professionalità difficilmente classificabili con gli schemi del passato. Gli elementi
componenti di tale ruolo sono i seguenti:
Creare, sia nel business che presso gli azionisti, le condizioni culturali e oggettive
necessarie per accettare lo sviluppo in termini di azienda globale. Ciò vuol dire
essenzialmente dare più importanza al rafforzamento competitivo del business che al
controllo dello stesso.
Negoziare direttamente con i partner internazionali le necessarie joint venture; il
management dedicato al business può infatti essere riluttante ad accettare joint venture
nelle quali finirà, prima o poi, in una posizione di sudditanza. Naturalmente, non basta aver
negoziato “una tantum” una joint venture; occorre mantenere e rivivificare il rapporto con il
partner (o la sua società madre) in modo che diventi un modo stabile di esistere; questo
compito può evidentemente essere condiviso con il management del business.
Studiare il business, pur consegnato in gestione al management specifico, in modo da
saper dialogare con tale management per quanto riguarda le scelte fondamentali: la politica
di investimenti e di indebitamento, la politica delle licenze, le scelte tecnologiche o
commerciali di base ecc. Il management del business ne saprà sempre di più del corporate
e nel tempo sarà più difficilmente influenzabile. L’attività del corporate non sarà quindi
quella attuale (che può essere quasi definita come "dare fastidio al business per vedere
cosa succede", come dimostrano le inutili sessioni di discussione dei piani o dei budget) e
che può essere fatta da schiere di personaggi di secondo ordine; il corporate dovrà
rassegnarsi a fare solo scelte fondamentali quali la sostituzione del management, la
vendita del business, la forzatura di una joint venture minoritaria ecc. E’ evidente che scelte
di tale importanza non vengono affidate a persone di staff, ma devono essere maturate e
realizzate personalmente dalle quattro-cinque persone di maggior peso nel corporate
stesso.
Assistere il management del business, in termini di reale valore aggiunto; la prova del
valore aggiunto si ha soltanto se il management, liberamente, richiede i consigli, senza
l’arrière pensée della captatio benevolentiae. Occorre quindi che le singole persone del
corporate siano effettivamente di altissima professionalità ed esperienza e abbiano un
atteggiamento da consulenti, scevro da preoccupazioni per la propria sorte se per caso non
vengono mai utilizzati. L’unica prova vera che dimostri che si è raggiunta tale situazione è
se i consigli vengono effettivamente richiesti.
Gestire direttamente particolari progetti (entrata in un mercato, sviluppo di una
tecnologia, quotazione di una consociata ecc.) che avrebbero potuto distrarre il
management del business, ma comunque con un atteggiamento non revanchista e con un
approccio sostanzialmente condiviso. La gestione di successo di progetti serve anche al
corporate per dimostrare, in modo positivo, che esso esiste e che, magari, è anche capace
di fare bene.
Gestire direttamente il rapporto con la comunità finanziaria e in particolare con gli
investitori di lungo periodo; non si tratta di fare delle “social relations” ma di comprendere
bene come essi ragionano in modo da trasferire tali ragionamenti nelle strategie di
business e di presentare in modo adeguato, corretto e coerente nel tempo quello che il
business sta cercando di fare in termini di accresciuta competitività e valore. Bisogna
invece stare attenti alla gestione delle “relazioni esterne” perché talvolta non ha un’utilità
pratica e serve soltanto per gratificare o aumentare l’immagine dei principali attori del
corporate.
Queste attività non richiedono grandi masse di persone (una decina e sufficiente) ma
richiedono una grande e riconosciuta qualificazione delle singole persone; comunque, nel
tempo le persone di corporate tendono a collocarsi nel business stesso. Se non si
persegue la strada dell’effettivo valore aggiunto e della professionalità indiscussa i
corporate si illudono di contare veramente, perché nel tempo la forza dei singoli business
forti e grandi travalica quella dei corporate.
Diventare un operatore importante in un mercato globale richiede prima di tutto la capacità
di pensare nel modo adatto a percepire i problemi e le opportunità; ciò comporta la
capacità di disaccoppiare i problemi personali da quelli del business e di influenzare gli altri
stakeholders a fare la stessa cosa. Non è un progetto di breve termine: dieci anni sono il
minimo per un’azienda che parta da una base essenzialmente nazionale, perché il mondo
è grande e le risorse umane necessarie si formano soltanto in molti anni. Comunque, una
volta iniziata questa strada, tutto diventa più semplice, perché un’azienda che inizia a
essere apolide in un mondo di competizione giobalizzata ha molte occasioni di sfruttare le
debolezze dei concorrenti che mantengono una forte caratterizzazione nazionale (e che
quindi si precludono la possibilità di fare delle vere joint venture paritetiche, di
rappresentare una definitiva scelta di lavoro per i manager adatti per tale missione ecc.).
Una volta che missione globale e modo di pensare siano allineati, la progettazione di una
struttura organizzativa diventa l’elemento chiave per “costringere” l’azienda a diventare
veramente un operatore globale; una struttura efficace sarà costruita solo con schemi che
sono all’opposto di quelli attualmente utilizzati da società operanti nell’illusione che esista
ancora un mercato domestico.
GIANFILIPPO CUNEO
Bain, Cuneo e Associati
Nota1: Per il concetto di organizzazione a "cluster" si veda il libro di D. Quinn Mills, La
rinascita dell’impresa
*****
Nota terminologica
È spesso difficile – a volte impossibile – tradurre termini che corrispondono a concetti o
esperienze recenti americane che non hanno equivalenti in Italia; il linguaggio degli autori è
inoltre influenzato da riferimenti alla cultura dell’elettronica californiana, ai film di
fantascienza, ai colloquialismi frequentemente utilizzati nella letteratura manageriale (ad
esempio in Tom Peters).
Quelli che seguono sono i termini e le espressioni più tipiche e originali del linguaggio di
Hamel e Prahalad che, comunque, ha nel contesto d’uso una sua comprensibilità ed
efficacia immediata.
Benchmarking, best practice: confronto con altre aziende relativo al costo, ricavo,
investimento ecc. sostenuto per una specifica operazione, funzione o attività. Il
benchmarking è utilizzato soprattutto dalle aziende follower, inseguitrici, per misurarsi con i
migliori.
Brand Equity: capitalizzazione del valore del marchio: anche se un marchio non ha un
valore registrabile nell’attivo patrimoniale, costituisce un patrimonio virtuale che può
aumentare o diminuire a seconda delle politiche di marketing.
Core Business: core è la parte centrale, sovente nascosta, lo strato interno di
qualcosa (es. un bastone con l’anima di piombo). Core business è quindi l’area di attività
più peculiare e caratteristica di un’azienda.
Core competencies: competenze distintive, fondamentali. Il pensare all’azienda come
un portafoglio di core competencies, invece che ad un portafoglio di business, è stato un
contributo importante degli autori, descritto per la prima volta nell’articolo sulla Harvard
Business Review “The Core Competencies of the Corporation” del maggio-giugno 1990,
pp. 79-91, tradotto in italiano con il titolo ”Le competenze distintive dell’azienda”, in Michael
E. Porter e Cynthia Montgomery (a cura di), Strategia, il Sole 24 Ore Libri, Milano 1993,
pp.305-328.
Coreplatforms: piattaforme di base, architetture di sistemi attraverso le quali si
possono dare servizi diversi.
Corporate: il vertice dell’azienda multibusiness o le staff centrali di una holding. Il
corporate incorpora anche tutta una serie di funzioni di finanza e di relazioni con gli
azionisti che nelle aziende italiane, controllate da un azionista, sono spesso altrove.
Empowerment: delega di autorità e di decisioni ai livelli più bassi dell’organizzazione;
responsabilizzazione e autonomia per ottenere risultati.
Fit: equilibrio, corrispondenza di una sagoma all’incastro. Una strategia aziendale può
essere fit (adatta, corrispondente) alle caratteristiche dell’azienda; spesso fit è usato in
contrasto con stretch.
Foresight: capacità di previsione di tipo intuitivo, qui tradotto percezione del futuro.
Mentre una previsione è un fatto puntuale e matematico (per es. previsioni del tempo, degli
andamenti dei mercati finanziari), il foresight incorpora degli elementi di irrazionalità, dei
presentimenti; è un aggregato di osservazioni puntuali e previsioni con un qualcosa in più
che deriva da esperienza e capacità innate di anticipare gli eventi.
Gateways to the future: una crasi di gate (porta) e ways (strada). Nel linguaggio di
Hamel e Prahalad è il punto obbligato di passaggio per il futuro: i “gate” sono anche le
porte che permettono il passaggio o meno della corrente nei semiconduttori.
Insight: conoscenza puntuale di una realtà, ottenuta attraverso l’analisi degli elementi
importanti; per es. insight del funzionamento di una fabbrica ottenuta conoscendo
tecnologie, andamenti produttivi, atteggiamenti del personale ecc. Un aggregato di insight
più ragionamenti analogici più esperienza possono condurre a un buon foresight.
Intercept: dal gioco del football americano; l’intercept è, appunto, intercettare la palla
dell’avversario e ne consegue normalmente che la squadra in difesa passa improvvisamete
all’attacco, per merito suo o per un errore dell’avversario.
Leverage: effetto leva, amplificazione, ottenere di più con meno. Si usa normalmente
in campo finanziario (leverage buyout) per descrivere un’operazione fatta con poco capitale
proprio e molto debito. È collegato al conecetto di stretch, in quanto il leverage serve per
amplificare l’effetto di un’azione condizionata da risorse scarse (finanza, persone, tempo
ecc.).
Migration paths: percorsi di migrazione; si riferisce normalmente alle tecnologie o ai
concetti di prodotto quando si spostano da un prodotto o da un’industria a un’altra.
Outsourcing/Cosourcing: esternalizzazione di attività verso un fornitore specializzato e
con maggiori economie di scala; implica una sostanziale partnership fra cliente e fornitore.
Premption: azione anticipatrice di occupazione di un mercato atto a scoraggiare i
concorrenti, ed acquisire così un vantaggio competitivo anche correndo qualche rischio in
più; anche nelle acquisizioni si possono fare preemptive offers (offerte di acquisto prima di
una trattativa ufficiale). Nel linguaggio della pubblicità la preemption è un’occupazione
preventiva degli spazi.
Regenerating strategies: strategie che si rigenerano, quasi come il droide di terminator
che pur massacrato si rigenera per raggiungere l’obiettivo.
Scoreboard: tabellone segnapunti. Nella cultura americana c’è necessità di un sistema
segnapunti per ogni attività (dai compiti in classe al business).
Share of mind: quota di mercato potenziale nella “testa” dei consumatori; è il
complesso delle esperienze che i consumatori hanno avuto con la marca, l’immagine che
essa ha (awareness, recognition, ecc.); è in sostanza una quota di mercato potenziale dei
marchi noti a livello mondiale che può essere applicata ai nuovi prodotti.
Skills: abilità, individuali o collettive, si riferisce normalmente agli artigiani (skilled
craftsman); implica studio ma anche molta pratica e qualche dote naturale.
Skunk work: laboratori sottoscala (letteralmente “tane di puzzole”). Il mito (e qualche
volta la realtà) degli inventori californiani nel campo dell’elettronica: giovani brillanti che si
sono costruiti un piccolo laboratorio in garage e hanno avuto successo. Skunk workers
sono lavoratori un po’ anarchici e pochissimo strutturati con i quali anche le grandi aziende
hanno cercato di replicare l’ambiente creativo dei laboratori nel garage di casa.
Strategic intent: intendimento strategico, precisa volontà di raggiungere un certo
obiettivo competitivo o di presenza sul mercato. La strategia come intento competitivo è
stata discussa nell’articolo degli autori “Strategic Intent”, in Harward Business Review, 67,
n°.3, 1989, pp. 63-76.
Streetch: tensione, cercare di raggiungere qualcosa che sta più in là (es. un bambino
che cerca di prendere la marmellata su uno scaffale che è appena più alto dell’estensione
del suo braccio). Il concetto di streetch come motore del successo aziendale è stato trattato
dagli autori nell’articolo “Strategy As Stretch and Leverage”, in Harward Business Review,
71, n°.2, 1993, pp. 75-84.
Time to market: tempo di sviluppo e di collocamento sul mercato dei prodotti. La teoria
corrispondente è stata ampiamente sviluppata da Stalk Gorge Jr. e Thomas M. Hout in
Competing Against Time: How Time-Based competition is reshaping Global Markets, The
Free Press, New York 1990 (tr. It. Competere contro il tempo, Sperling & Kupfer, Milano
1991).
Value to the customer: valore per il cliente, di prodotti o servizi che vengono offerti. Il
valore è definito in termini relativi ad altri prodotti o servizi, ed è misurato in funzione dei
minori costi o maggiori ricavi che consente al cliente.
Virtual interation: integrazione e interdipendenza fra imprese, che sono in rapporti di
fornitore/cliente di prodotti, tecnologie ecc. Sistema di aziende-rete.
GIANFILIPPO CUNEO