Voce del Foro 1-2/2010 - ORDINE degli AVVOCATI di BENEVENTO

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Voce del Foro 1-2/2010 - ORDINE degli AVVOCATI di BENEVENTO
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Direttore editoriale
NICOLA DI DONATO
Direttore responsabile
DOMENICO ZAMPELLI
Segretaria di redazione
ANNALISA PELOSI
LUCIANA FESTA
Comitato di redazione
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FRANCESCO LUONGO
ALBERTO MAZZEO
ROSANNA PAGLIUCA
ALEXIAE PALUMBO
LEOPOLDO PAPA
LUISA VENTORINO
Tutto il materiale pervenuto alla redazione potrà essere pubblicato anche su altri giornali o riviste o immesso in rete sul sito dell’Ordine degli Avvocati di Benevento o su altri siti.
Rivista associata all’USPI
(Unione Stampa Periodica Italiana)
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Sommario
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Parte Prima
PROFILI
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GIACOMO OBERTO, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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DOTTRINALI
GIOVANNI PORTOGHESE, L’istituto della mediazione in Italia.
Brevi cenni sulla sua applicazione in molti paesi europei ed extraeuropei.
Decreto Legislativo n. 28 del 4/03/2010 e fonti normative collegate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
ALBERTO MASCIA, La mediazione finalizzata alla conciliazione:
sintesi del D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
FABIO LEPORE, I connotati del principio dispositivo
in ambito processual penalistico nel raffronto con la giurisdizione civile
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Parte Seconda
OSSERVATORIO
GIURISPRUDENZIALE
Tribunale di Benevento - Sezione Civile - 22 giugno 2010,
in tema di separazione personale tra coniugi e imputabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99
Tribunale di Benevento - Sezione Civile - 21 settembre 2010,
in tema di impugnazione di testamento per lesione di legittima e condizione risolutiva 103
Parte Terza
VITA
DELL’AVVOCATURA
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Regolamento pratica forense (modificato nella seduta del 1° ottobre 2010) . . . . . . . . . . . . 109
Nuovi importi del contributo unificato
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115
UGO CAMPESE, Giudizio e pregiudizio
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124
Comunicazione consultazione biblioteca sito web . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126
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LA VOCE DEL FORO - N. 1–2 - 2010
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Sommario
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Parte Quarta
ATTUALITÀ
LEGISLATIVE E GIURISPRUDENZIALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Corte Costituzionale, ordinanza 7 - 22 luglio 2010 n. 276,
in materia di matrimonio tra persone dello stesso sesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Corte di Cassazione, Sezione II Civile, 22 giugno 2010 n. 15108,
in materia di guida pericolosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135
Corte di Cassazione, Sezione II Civile, 8 luglio - 3 agosto 2010 n. 18035,
in materia di denuncia vizi inviata a mezzo telegramma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 9 agosto 2010 n. 18480,
in materia di reddito di cittadinanza, con nota di LUIGI GALASSO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 9 settembre 2010 n. 19246,
in materia di opposizione a decreto ingiuntivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 30 marzo 2010 n. 12433,
in materia di ricettazione e incauto acquisto, con nota di GIANLUCA ZARRO
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165
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 22 aprile - 27 maggio 2010 n. 20300,
in materia di copia audio delle intercettazioni e ordinanza di custodia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185
Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 11-26 maggio 2010 n. 20064,
in materia di etilometro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223
Corte di Cassazione, Sezione II Penale, 11 giugno - 20 luglio 2010 n. 28210,
in materia di scriminante speciale ex art. 649 c.p. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225
Tribunale di Milano, Sezione III Civile, 14 giugno - 5 luglio 2010,
in materia di opposizione di terzo all’esecuzione e ripartizione dell’onere probatorio 235
Giudice di Pace di Bari, 13 febbraio 2010 n. 1341,
in materia di danno da stress per inadempimento contrattuale
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Notizie sugli Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245
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PARTE P RIMA
Profili dottrinali
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Profili dottrinali
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La comunione coniugale
nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo*
1. La comunione coniugale nel diritto comparato. Breve descrizione dei
principali sistemi.
Il tema della comunione tra coniugi nel contesto della comparazione
tra i diversi regimi patrimoniali della famiglia conosciuti nel mondo suscita ormai da diversi decenni l’attenzione degli studiosi. Particolare rilievo all’argomento è stato dato dalla dottrina comparatista francese1, nell’ambito della quale spiccano gli studi, ormai piuttosto risalenti, condotti dall’associazione Henri Capitant2, ma anche da organismi internazionali, come
l’Unione Internazionale del Notariato Latino3; altri lavori raccolgono (come del resto molti di quelli appena citati) risultati di congressi e simposi,
solitamente composti da contribuzioni piuttosto slegate tra di loro4, ovvero dedicate ad una comparazione settorialmente limitata ad numero limitato di sistemi5. Non vi è dubbio che quanto mai ardua risulti l’opera di
chi intenda porre a confronto ordinamenti che, in pochi altri settori come in questo, risentono di culture e tradizioni profondamente diverse.
Peraltro si deve riconoscere che, nel corso di questi ultimissimi anni, va
registrato un certo avvicinamento delle diverse legislazioni, quanto meno
a livello europeo. Per comprendere le ragioni di tale fenomeno vanno tenute presenti, in primo luogo, la poliedricità e le sfumature delle variegate forme di manifestazione dei regimi patrimoniali legali tra coniugi nei
diversi ordinamenti6.
Limitando l’analisi al panorama europeo, potremo distinguere - innanzi
tutto - alcuni sistemi ispirati alla regola della separazione, ormai decisamente minoritaria e ancora saldamente arroccata nei Paesi di Common
Law7, sebbene non solo in questi8. Ma, come si dirà tra breve, neppure negli ordinamenti di matrice anglo-sassone i patrimoni dei coniugi sono destinati a rimanere completamente separati, attesi gli amplissimi poteri concessi al giudice in caso di crisi coniugale; poteri che sovente ritroviamo
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Profili
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anche negli altri ordinamenti solitamente indicati come separatisti, in nessuno dei quali può oggi dirsi che si registri una totale “impermeabilità”
tra le due masse patrimoniali9.
Abbiamo poi, tutto all’opposto, legislazioni che prevedono come regime legale quello della comunione universale: è questo il caso, a quanto pare ormai unico, della gemeenschap van goederen dei Paesi Bassi10, ove
il codice civile (Burgerlijk Wetboek) del 1970, successivamente modificato, prevede (cfr. artt. 1:93 ss.) che la comunione legale si componga di
tutti i beni presenti e futuri dei coniugi - salvo quelli donati o legati all’uno
o all’altro sotto l’espressa condizione che rimangano personali (uitsluitingsclausule), e dei beni strettamente personali (cfr. art. 1:94, primo e secondo comma del codice civile) - ma anche dei debiti, contratti dai coniugi sia prima che dopo le nozze (cfr. art. 1:94, terzo comma, del codice civile), mentre le pensioni rimangono escluse (cfr. art. 1:94, quarto
comma, del codice civile). Singolare il sistema prescelto per l’amministrazione (bestuur) dei beni: essa compete di regola al solo coniuge che ha
conferito gli stessi in comunione (cfr. art. 1:97 del codice civile), mentre il diritto d’uso e godimento (genot en gebruik) sugli stessi pertiene ad
entrambi, così come il potere di disporre dei beni soggetti a registrazione (immobili, aeromobili, navi, azioni ed obbligazioni), per i quali è richiesto l’agire congiunto. In caso di alienazione compiuta dal coniuge
non amministratore o di violazione della regola dell’agire congiunto, ove
prevista, l’atto può essere annullato su istanza dell’interessato entro un anno da che ha avuto conoscenza dell’atto, e sempre a condizione che il
terzo sia in mala fede11. Queste regole possono peraltro essere liberamente modificate per contratto di matrimonio, in forza del quale si può altresì aderire ad altri modelli legali, quali la comunione dei profitti e dei
redditi (artt. 1:123 ss. del codice civile), o quella dei guadagni e delle perdite (art. 1:127 del codice civile).
La comunione degli acquisti (a dispetto della sua estraneità al diritto
romano) costituisce, invece, il regime legale della maggior parte degli ordinamenti di matrice romanistica: Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo,
Portogallo, Spagna, nonché da svariati ordinamenti dell’Europa centrale
orientale: dai Paesi Baltici alla Polonia, alla Repubblica Ceca, alla Repubblica
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Slovacca, all’Ungheria, ai Paesi nati dall’ex Jugoslavia, fino alla Romania
e alla Bulgaria12. Secondo quest’ultimo principio, la contitolarità viene ad
interessare solo i diritti acquistati, a qualunque titolo, dopo la celebrazione delle nozze, nonché i redditi e proventi da attività dei coniugi ed i frutti dei beni personali e comuni percepiti nel medesimo periodo, sebbene
anche qui si manifestino divergenze di non poco rilievo tra modello e modello13. I coniugi restano invece proprietari esclusivi dei beni di cui erano
titolari al momento della celebrazione del matrimonio, così come di altri
cespiti, pervenuti anche in costanza di regime, quali, ad esempio, quelli
ricevuti per donazione o successione14, o quelli di uno strettamente personale, o relativi all’esercizio della professione, o, infine, i beni surrogati ai
precedenti. Più complessa la situazione relativa ai debiti, prevedendo al riguardo i vari ordinamenti una distinzione tra obbligazioni contratte prima delle nozze, di solito qualificate come personali, ed obbligazioni relative al ménage, considerate usualmente come gravanti - quanto meno “in
prima battuta” - sui beni comuni. L’amministrazione è ormai ispirata,
ovunque in Europa, a criteri di parità, con concessione ad ogni singolo
coniuge del potere di agire disgiuntamente, tranne che per gli atti di straordinaria amministrazione (cfr. art. 180 c.c. italiano), o per determinati atti
dispositivi singolarmente individuati (cfr. ad es. artt. 1421 ss. del Code Civil
francese) e salva sempre la possibilità di ricorrere al giudice al fine di superare impasses quali il rifiuto ingiustificato, l’assenza, l’incapacità, etc.
E’ noto, poi, che la tradizione giuridica di alcuni Paesi “di comunione” ha notevolmente influenzato i diritti di svariate ex colonie: così il diritto olandese ha esportato la comunione universale in Sud Africa, mentre quello francese ha contribuito all’affermazione del regime comunitario, ad esempio, in Québec15 e lo stesso è avvenuto per il sistema spagnolo nel Nuovo Mondo, non soltanto per ciò che riguarda gli ordinamenti
dell’America Latina16, ma anche quelli di alcuni Stati degli Stati Uniti
d’America, che hanno sviluppato un communion system (o community property system), in controtendenza rispetto alla tradizione “separatista” di
Common Law17, vigente nella maggior parte degli States.
Una variante particolare della comunione degli acquisti è riscontrabile in alcuni Paesi Scandinavi, ove i previgenti regimi di compartecipazio-
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ne differita al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti dai coniugi
post nuptias sono stati sostituiti, nella seconda metà del XX secolo, da forme di contitolarità - pur sempre differita, ma con alcuni elementi di “attualità” - dei beni18. Così, in Svezia, i beni di ciascuno dei coniugi che
non formano oggetto di proprietà individuale (enskild egendom), secondo
quanto stabilito nel contratto matrimoniale (ovvero per il fatto di essere
stati donati o lasciati in eredità da terzi con la clausola di personalità, ovvero ancora che non derivino dal reimpiego di beni personali), si reputano formare oggetto della proprietà coniugale (giftorättsgods) e pertanto verranno divisi in parti uguali al momento dello scioglimento del matrimonio per morte o divorzio, salvo patto contrario. Particolari restrizioni impediscono che di tali cespiti, in particolare degli immobili, si possa disporre
senza il consenso del coniuge.
Anche in Danimarca, sebbene si definisca come di “proprietà comune” il regime dei beni acquisiti durante l’unione in assenza della pattuizione di un regime alternativo, va detto che il profilo comunitario
emerge solo al momento dello scioglimento del matrimonio, con la divisione dei relativi beni. Prima di tale evento, ogni coniuge dispone di
ampi poteri di gestione dei beni acquistati durante l’unione. Non è però
possibile porre in essere determinati atti dispositivi di certi cespiti (in
particolari la residenza coniugale ed i relativi arredi) senza il consenso
del coniuge e, più in generale, non si possono compiere atti che potrebbero ridurre le aspettative del coniuge sui beni della proprietà coniugale, pena l’obbligo di risarcimento del danno, mentre in taluni casi è addirittura concessa la possibilità di chiedere l’annullamento dell’atto dispositivo contro il terzo acquirente19. E’ quindi evidente che questi particolari regimi si vengono a collocare, per così dire, a metà strada tra quelli comunitari e quelli separatisti, presentando forti elementi
di somiglianza con alcuni di questi ultimi20, per la mancanza di una situazione di contitolarità di diritti in costanza di matrimonio, ma “anticipando” (anche se solo a limitati effetti) forme di tutela, che usualmente solo ad un coniuge contitolare perterrebbero (si pensi all’impugnativa di certi atti dispositivi), al fine di garantire la comunione dei beni che si formerà all’atto dello scioglimento del vincolo.
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Il sistema sopra descritto da ultimo differisce ancora da quello della
(mera) compartecipazione differita al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti post nuptias, proprio della Zugewinngemeinschaft tedesca (§§
1363 ss. BGB), o della partecipazione differita al valore degli acquisti
(Errungenschaftsbeteiligung - participation aux acquêts - partecipazione agli acquisti) di cui agli artt. 196 ss. del codice civile svizzero21. Invero, ciò che
qui viene differito nel tempo (al momento dello scioglimento del regime)
non è (almeno di regola) la costituzione di una situazione di contitolarità
di beni, ma la nascita di un credito alla metà del plusvalore realizzato dal
patrimonio del coniuge (variamente determinato) durante la vigenza del
rapporto matrimoniale.
Una regola, questa, che sembra cumulare in sé i vantaggi della separazione e quelli della comunione. Il regime, pertanto, durante la sua vigenza, funziona come separatista, mentre il momento comunitario emerge all’atto dello scioglimento. Si conserva così l’autonomia di gestione propria del primo tipo di sistemi, senza gli “impacci” cui la comunione può
dar luogo. Naturalmente ciò presuppone un’esatta determinazione dei beni che formeranno oggetto dell’Ausgleich finale22, così come una precisa
articolazione dei rimedi in grado di impedire, da un lato, combines in danno dei creditori e, dall’altro, operazioni fraudolente poste in essere, specie
all’insorgere della crisi coniugale, a detrimento del coniuge più debole23,
come l’esperienza italiana della comunione de residuo purtroppo fin troppo eloquentemente dimostra24. Anche qui si potrà dire che siffatto modello, previsto come legale in Germania, nonché, con alcune varianti25, in
Svizzera, è conosciuto come convenzionale in altri sistemi: da quello spagnolo26, a quello catalano27, o a quello francese della participation aux acquêts28, ed è certamente “costruibile” anche da noi sulla base di un’apposita convenzione atipica29.
Si potrà infine ricordare che, in taluni ordinamenti, residuano forme
di comunione (immediata) dei mobili e degli acquisti, in cui, oltre ai beni sopra descritti, che usualmente formano oggetto dei regimi di contitolarità degli acquisti, divengono comuni anche (tendenzialmente) tutti i mobili posseduti dai coniugi al momento della celebrazione delle nozze, oltre quelli ad essi pervenuti successivamente per donazione o successione30.
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2. Linee di convergenza.
Le riforme del diritto di famiglia che, a partire dalla fine degli anni
Sessanta dello scorso secolo, hanno interessato un po’ tutti gli ordinamenti
europei consentono di scorgere linee di convergenza e movimenti d’avvicinamento rispetto a situazioni di partenza anche molto distanti. In questo panorama giocano un ruolo sicuramente decisivo ritrovati principi, come quello dell’autonomia negoziale nella stipula delle convenzioni matrimoniali e nella realizzazione di quegli adattamenti cui possono essere sottoposti i regimi legali31, oltre a regole più o meno “nuove” - quale quella della moficabilità in ogni tempo e senza soverchi ostacoli delle convenzioni matrimoniali32 e la possibilità di creare, addirittura, regimi patrimoniali atipici33 - o, ancora, eversive di assetti secolari, come l’abolizione del
divieto delle donazioni tra coniugi34, il riconoscimento della piena capacità della donna, prima, e della piena parità tra i sessi, poi. Così, notevoli convergenze a livello europeo si registrano soprattutto sul piano del c.d.
regime primario35, ove, eliminata ogni residua idea di soggezione della moglie ad una qualche forma di puissance del marito, il concetto di mantenimento è stato sostituito da quello di contribuzione, ispirato a criteri di
uguaglianza sostanziale, mentre verso i terzi si sono un po’ ovunque definiti i criteri di distinzione tra debiti personali e comuni, procedendosi altresì all’introduzione di vere e proprie forme di protezione del logement de
la famille.
Proprio con riguardo a quest’ultimo argomento non potrà farsi a meno di notare come in diversi ordinamenti europei (sebbene non nel nostro) la tutela di siffatto bene primario abbia assunto un rilievo tale da superare la distinzione tra comunione e separazione dei beni, giungendo ad
imporre regole e principi “di rispetto” negli atti di disposizione sull’immobile adibito a residenza della famiglia, a prescindere del tutto dal regime patrimoniale prescelto36. Ora, la protezione di questo così rilevante interesse non può operarsi se non prevedendo regole che attribuiscano al
coniuge non proprietario il diritto di opporsi ad atti dispositivi ed eventualmente di impugnarli, in un’ottica che è propria della comunione e che
inevitabilmente finisce con l’avvicinare il regime separatista (legale o convenzionale che sia) a quello comunitario.
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Un’ulteriore forma di avvicinamento tra i diversi regimi emerge ove
si ponga mente alle svariate soluzioni che in numerosi Paesi si sono escogitate per risolvere, soluto matrimonio, il problema degli apporti effettuati
in regime di separazione, in vista dell’acquisto di uno o più determinati
beni a nome di uno solo dei coniugi; soluzioni, queste, che vanno da una
ripetizione del contributo in denaro, al riconoscimento di una compartecipazione sul piano proprietario mediante istituti quali il mandato, la società semplice, o il trust, come si è avuto modo di illustrare in altre sedi37.
E’ dunque innegabile che anche siffatti rimedi contribuiscano a, per così
dire, “gettare un ponte” tra comunione e separazione. Non dovrà poi neppure trascurarsi il fatto che in Europa risulta tradizionalmente assai usuale, pur tra coniugi in regime di separazione, porre in essere acquisti in comune, specie per particolari beni quali la casa d’abitazione o delle vacanze. Neppure estranea alla nostra tradizione continentale è la previsione per
via convenzionale38, o addirittura legale (cfr. l’art. 219 c.c. italiano)39, di
apposite presunzioni di contitolarità di beni, volte a risolvere i problemi
legati all’individuazione, spesso ardua, della proprietà di cespiti tra coniugi séparés de biens a molti anni dall’intervenuto acquisto.
Se si volge poi l’attenzione a regimi notoriamente ritenuti separatisti,
quali quelli dei Paesi di Common Law, si scopre che lo scenario appare
tutt’altro che omogeneo40 e alieno ad idee di compartecipazione dei coniugi alla ricchezza accumulata nel corso della vita coniugale. Basti pensare al potere che oggi il giudice inglese ha, in sede di crisi coniugale, di
operare una “riallocation of property by issuing property adjustment orders upon divorce”, ai sensi della Section 4 del Matrimonial Proceedings and
Property Act 1970, ora sostituto dalla Section 24 del Matrimonial Causes Act
1973, a sua volta modificato dal Matrimonial and Family Proceedings Act 1984
e dal Family Law Act 1996. In tal modo si può determinare per via giudiziale (e non solo negoziale) un trasferimento di proprietà dall’uno all’atro
dei coniugi, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, incluso il reddito attuale o potenziale e le necessità finanziarie, ma anche l’interesse della prole e il contributo fornito dall’uno e dall’altro dei coniugi al welfare of
the family41. Ora, se si tiene conto di siffatto equitable distribution system in
forza del quale, pur permanendo l’assenza di regole di attribuzione co-
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mune dei beni in costanza di matrimonio, al momento del divorzio il giudice può dividere questi ultimi a prescindere dalla loro intestazione formale, e magari si considera tale sistema alla luce della c.d. clean break theory42
- che designa la tendenza a risolvere il problema del mantenimento del
coniuge economicamente debole attraverso l’attribuzione di una somma
una tantum (lump sum) o l’assegnazione di uno o più beni appartenenti
all’altro, limitando ad ipotesi residuali il pagamento di somme periodiche
- ci si potrà rendere conto della rispondenza, per molti aspetti, al vero della paradossale affermazione per cui la tradizionale separazione dei beni dei
paesi anglo-americani non sarebbe ormai più “qu’une légende”43.
La penetrazione delle idee comunitarie nei regimi separatisti si opera,
talora, per via strettamente giurisprudenziale, anche in contesti legislativi
influenzati da antiche tradizioni non certo favorevoli alla posizione della
donna. Si potrà citare al riguardo il caso di Israele. Qui, attuato nel 1951
il superamento dell’antica regola rabbinica della ketoubah (cioè del contratto prematrimoniale in forza del quale il marito si impegnava a consegnare alla moglie una certa somma di denaro in caso di ripudio o di morte), nonché del principio dell’incapacità della donna coniugata, la legge
stabilì che la moglie avrebbe potuto disporre dei suoi beni come se fosse
stata nubile e che il matrimonio non avrebbe avuto effetto alcuno sul suo
patrimonio. Ebbene, il diritto giurisprudenziale, pur in questa evidente situazione di separazione dei beni, ha dato vita ad una presunzione di comunione per quote uguali ed opponibile verso i terzi dei beni acquistati
in costanza di matrimonio, anche singolarmente, da ciascuno dei coniugi: un procedimento argomentativo applicabile ed applicato, del resto, anche alle convivenze more uxorio44.
Evidenti, poi, le tracce di un possibile percorso inverso rispetto a quello sopra descritto: dalla comunione, cioè, alla separazione.
Significativo l’esempio che viene dalla Francia, ove dal 1965 si è introdotto come legale (contro una tradizione, come si è visto, secolare) un regime pur sempre comunitario, ma in misura decisamente meno accentuata rispetto a quello previgente. Rilevante anche la lezione che viene dai
Paesi Scandinavi. Qui - adottati come legali regimi di comunione, ancorché differita, degli acquisti - dopo l’abbandono di regole, precedentemen-
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te vigenti, di compartecipazione agli incrementi di valore dei rispettivi patrimoni, alla maniera della Zugewinngemeinschaft tedesca - l’impatto con
l’esplosione delle crisi coniugali ha reso evidente l’inaccettabilità del principio per cui, anche dopo un matrimonio di breve durata, un coniuge era
autorizzato ad ottenere la metà delle fortune accumulate durante la vita coniugale. Così, il codice svedese del matrimonio del 1987 ha previsto che
la divisione dei beni in parti uguali sia possibile solo se l’unione sia durata
almeno cinque anni, mentre per la legge norvegese del 1991 ogni coniuge può chiedere che i beni di cui era titolare prima delle nozze o quelli
pervenutigli per donazione o successione siano esclusi dalla divisione45.
Concludendo sul punto, occorre riconoscere che, alla penetrazione
delle idee separatiste nei regimi comunitari - cui era dedicata una celebre
tesi di dottorato parigina del 1956, volta a dimostrare la necessità dell’esclusione (che effettivamente si realizzò alcuni anni dopo) dall’oggetto della
comunione legale dei mobili “apportati” al momento della celebrazione
delle nozze46 - fa riscontro, per converso, un’altrettanto sicura irruzione
delle idee comunitarie nei regimi separatisti, con effetti di contaminazione e compenetrazione47 tra due principi tradizionalmente ritenuti come
inconciliabili.
D’altro canto, se è vero che l’incremento del numero delle donne che
accedono al mercato del lavoro sembrerebbe, almeno in linea di principio, contrario all’economia tradizionale del regime di comunione, è però
anche vero che questo fenomeno non ha determinato in Europa (se si
esclude l’Italia, ma per altri motivi) una crisi della communauté légale, neppure in un Paese come la Francia, dove esso si è manifestato ben prima
che da noi. E lo stesso è a dirsi per un altro fenomeno che, assai più radicalmente del precedente, ha sconvolto e sconvolge le famiglie europee: vale a dire la crescita a livello esponenziale delle crisi coniugali, che sembra
invece aver segnato irrimediabilmente il sostanziale fallimento del regime
legale contemporaneo nel nostro Paese48, senza porre analoghi problemi al
di fuori dei nostri confini. Ciò che dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno, che la ragione di tale insuccesso non risiede nell’idea, in sé, della
compartecipazione agli acquisti post nuptias, ma va ricercata nella tecnica
legislativa con la quale siffatto intento è stato da noi attuato.
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3. La comunione legale nel sistema italiano di diritto internazionale privato.
Per meglio comprendere la collocazione del regime comunitario italiano nel contesto europeo ed i suoi possibili sviluppi futuri, sarà opportuno soffermarsi ora brevemente sulla disciplina internazionalprivatistica
dell’istituto, la quale trova oggi la sua fonte, come noto, nell’art. 30 della
l. 31 maggio 1995, n. 21849. La norma, mediante un rinvio al precedente
art. 29 in tema di rapporti personali tra coniugi, individua quale criterio
fondamentale, in assenza di una legge nazionale comune tra le parti, quello della legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata. Ma la riforma del sistema del diritto internazionale privato,
di cui alla citata legge, ha anche segnato una decisa svolta verso un sicuro
potenziamento dell’autonomia privata, a cominciare dal ventaglio di possibilità che l’art. 30 l. cit. è venuto ad offrire alle parti, in alternativa rispetto al criterio appena citato, nel caso di matrimonio caratterizzato dalla presenza di un elemento di estraneità.
Si noti, in primo luogo, che il numero stesso degli elementi di estraneità risulta incrementato rispetto al disposto dell’abrogato50 art. 19 prel.,
che ammetteva esclusivamente la stipula di convenzioni in base alla “nuova legge nazionale comune” nel caso di “cambiamento di cittadinanza dei
coniugi”51. La vigente normativa consente invece la stipula di accordi in
deroga rispetto ai principi fissati dall’art. 29 l. cit. anche nel caso di semplice residenza in (e non solo in caso di cittadinanza di) un paese diverso
da quello costituente l’elemento di collegamento rilevante per la determinazione della legge relativa ai rapporti personali, richiamata nel campo
dei rapporti patrimoniali52. Il legislatore è - tra l’altro - venuto implicitamente ad ammettere, a vent’anni di distanza dalla riforma del 1975, la possibilità che i coniugi risiedano in luoghi distinti53: pertanto, una coppia italiana in cui la moglie, per esempio, per ragioni di lavoro, risieda all’estero, potrà convenire (per iscritto) che i rapporti economici siano regolati
per l’appunto dalla legge del paese di residenza di quest’ultima.
Le opzioni consentite, per ciò che attiene ai rapporti patrimoniali, sono dunque oggi le seguenti:
(a) legge nazionale comune;
(b) legge dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente lo-
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calizzata, se i coniugi hanno cittadinanze diverse o più cittadinanze
comuni;
(c) legge dello stato del quale uno dei coniugi è cittadino, se così si è convenuto per iscritto;
(d) legge dello stato nel quale uno dei coniugi risiede, se così si è convenuto per iscritto;
(e) legge dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, se i coniugi che pure hanno una (sola) legge nazionale comune (non coincidente con la prima) hanno convenzionalmente deciso di far prevalere la prima sulla seconda54.
Uno degli aspetti salienti dell’odierna regolamentazione del diritto internazionale privato dei rapporti patrimoniali tra coniugi è quindi costituito dalla facoltà di una optio juris55, ai sensi del primo comma dell’art. 30
cit., conformemente ad uno dei criteri ispiratori della riforma del 1995,
tesa ad esaltare nel suo complesso ben più che in passato il criterio della
volontà per l’individuazione della legge applicabile56. La scelta del diritto
applicabile potrà attuarsi sul presupposto della sussistenza delle condizioni
sopra evidenziate, e cioè che l’accordo sia concluso per iscritto e che si riferisca alla legge di uno stato di cui uno dei coniugi abbia la cittadinanza
o in cui uno di essi sia residente, oltre alla circostanza che il patto sia considerato valido dalla legge scelta o da quella del luogo in cui l’accordo è
stato stipulato (art. 30 cpv., l. n. 218/95).
Questa scelta di politica legislativa, che consente alla nostra legislazione di allinearsi alle più moderne tendenze rinvenibili sia nelle legislazioni
straniere che a livello di convenzioni internazionali57, esalta l’autonomia
dei coniugi, permettendo loro - come si è detto in altra sede - di inserire nella lex contractus (matrimonii) istituti tratti da ordinamenti diversi dal
nostro, quali, per esempio, quegli accordi preventivi in vista del divorzio
che tanto scandalo suscitano nella nostra giurisprudenza di legittimità a livello di ordine pubblico interno, ma che hanno già passato indenni il vaglio della Cassazione a livello di ordine pubblico internazionale58. Si noti,
per ritornare al tema (caro a chi scrive) della necessità di salvaguardia delle “esigenze di certezza”, con particolare riguardo alle coppie in crisi59,
che proprio con riferimento agli accordi sulla legge applicabile si è esal-
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tata la funzione di “fattore di stabilizzazione” svolta da siffatte intese, di
fronte alle non poche incertezze legate all’individuazione in concreto del
paese di “prevalente localizzazione della vita matrimoniale”60.
Sotto un altro profilo andrà poi rilevato che l’art. 30 cit. viene ad erodere almeno due dei limiti tradizionalmente posti dalle norme imperative
in materia di convenzioni matrimoniali. Il primo è di carattere formale ed
attiene al requisito dell’atto notarile61 ex art. 162 c.c., stabilendosi invece,
con riguardo all’accordo sulla legge applicabile, la sufficienza della mera
forma scritta62. Il secondo tocca invece il disposto dell’art. 161 c.c., a mente del quale “Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro
rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali
non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto
il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti”. E’ chiaro infatti che, nel momento in cui si consente ai coniugi (beninteso, alle condizioni sopra specificate) di stipulare un pactum de lege utenda, si viene ad ammettere che in tale fattispecie le parti possono limitarsi
ad un generico richiamo al sistema di un dato paese: ne consegue che l’art.
161 c.c. trova oggi applicazione solo quando i rapporti patrimoniali tra coniugi sono sottoposti alla legge italiana63. Né in proposito vale obiettare
che a siffatta soluzione osterebbero ragioni di chiarezza, sussistendo il rischio di non poter concretamente individuare il regime prescelto64: il generico richiamo ad un determinato ordinamento straniero, senza ulteriori specificazioni, determina invero l’automatica applicazione del regime
che in quel sistema viene designato quale “legale”, cioè applicabile in difetto di opzione per un regime diverso65.
In conclusione sul punto potrà osservarsi che, come esattamente rilevato in dottrina, l’attuale disciplina internazionalprivatistica ha attribuito
ai coniugi la possibilità di scegliere o di modificare il diritto applicabile ai
loro rapporti patrimoniali, adeguando la disciplina dei suddetti rapporti alla luce dei mutamenti intervenuti nella loro situazione familiare. Il cambiamento della regola di diritto internazionale privato corrisponde a quello intervenuto nel diritto sostanziale con la riforma del diritto di famiglia
del 1975. Questa, invero, capovolgendo la disciplina previgente, è venuta
ad accogliere in pieno il principio della modificabilità delle convenzioni
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matrimoniali e ad attribuire ampio riconoscimento all’autonomia privata
nella regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi66. Alla luce di
tale profondo mutamento del diritto sostanziale si spiega dunque il cambiamento della regola di diritto internazionale privato, e la tendenza a riconoscere ampi margini all’esplicazione della volontà delle parti67.
4. Il diritto comunitario dei regimi matrimoniali.
Il diritto comunitario di questi ultimi anni ha mostrato una spiccata e
sempre crescente tendenza ad intervenire nelle questioni giusfamiliari. Non
è questa certo la sede per discutere in che misura tale movimento risponda alle basi giuridiche rinvenibili nei principi del Trattato CE68, né, tanto
meno, per vaticinare se e tra quanto tempo un codice civile europeo vedrà mai la luce e tratterà del diritto di famiglia69: sta di fatto che neppure
la materia dei rapporti tra coniugi appare indenne da un’impetuosa ventata innovatrice. Una ventata innovatrice che, preso l’avvio dallo “spirito
di Bruxelles” - cioè dall’idea di disciplinare a livello comunitario, mercé
appositi regolamenti, le questioni di diritto processuale civile internazionale attinenti alla determinazione del giudice dotato di competenza giurisdizionale per le cause transfrontaliere, nonché i relativi criteri di determinazione della prevenzione e le conseguenti modalità di circolazione, riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in tali campi emesse70 - è successivamente entrata in quella che potremmo definire come “l’ottica di
Roma”71, vale a dire la previsione delle regole uniformi di diritto internazionale privato sulla legge applicabile72.
Quanto sopra forma oggetto, come noto, di un procedimento ancora
in itinere per ciò che attiene alla materia delle controversie in tema di crisi coniugale (separazione, divorzio, annullamento del matrimonio) e per
le questioni attinenti alla c.d. responsabilità genitoriale, ove il regolamento n. 2201/200373, superato il (di poco) precedente strumento comunitario sulla stessa materia74, sarà ben presto completato da un nuovo regolamento, oggi allo stadio di mera proposta, contenente, tra l’altro principi
in tema di competenza giurisdizionale e di legge applicabile, con attribuzione di un rilievo senza precedenti all’accordo delle parti75. Questo siste-
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ma verrà affiancato da un regolamento sulle obbligazioni alimentari che,
nella medesima duplice ottica (diritto processuale civile internazionale e
principi sulla legge applicabile), disciplinerà il tema degli obblighi di mantenimento76.
Le autorità europee - e qui viene il punto più interessante della riflessione - meditano peraltro di coprire con lo strumento regolamentare
anche l’area dei regimi patrimoniali, la quale si trova oggi ad essere estranea al sistema in vigore77. L’esigenza di una disciplina al riguardo è sentita ormai da tempo dalla dottrina più accorta, che pone in guardia dal rischio di una “chasse au tribunal (le mieux-disant)”, nonché dal pericolo
che la medesima questione sia giudicata in due Paesi diversi, ciò che non
corrisponde certo all’auspicio generale “de voir s’instaurer des règles transparentes et des solutions prévisibles ainsi que susceptibles d’être obtenues
sans des débours élevés”78. I timori di cui sopra sono aggravati dal fatto
che l’estrema frammentazione (di cui si è tentato di dare poc’anzi conto)
circa i sistemi patrimoniali coniugali e, in particolare, le molteplici forme
di manifestazione della comunione, possono sicuramente indurre, in assenza di un’adeguata opera di coordinamento, a far sì che non solo una
stessa coppia possa essere ritenuta soggetta a due regimi diversi, a seconda
dello Stato in cui la controversia viene giudicata, ma addirittura che un
medesimo regime applicabile ad una coppia venga ritenuto di tipo comunitario in un Paese e di tipo separatista in un altro.
Riflessioni di questo genere hanno dato luogo alla pubblicazione di
un apposito libro verde sul tema del conflitto di leggi in materia di regime patrimoniale dei coniugi, compreso il problema della competenza giurisdizionale e del riconoscimento reciproco79. Nell’ambito di questo lavoro, fornita una serie di definizioni degli istituti che da un futuro possibile
regolamento dovrebbero risultare disciplinati (regime patrimoniale, contratto di matrimonio, unione registrata, unione libera, ecc.), e preso atto
della circostanza che la Convenzione de l’Aja del 14 marzo 1978 sulla legge applicabile ai regimi patrimoniali dei coniugi80 è stata ratificata solo da
Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi81, si pone in evidenza come appaia ormai necessario armonizzare a livello europeo le norme di conflitto e disciplinare la competenza giurisdizionale, anche in modo da garantire la
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coerenza tra le norme future e quelle sui procedimenti giudiziari in materia di divorzio e successioni. Ancora una volta si afferma chiaramente la
necessità di cercare soluzioni che lascino alle parti una certa autonomia
nella scelta del tribunale competente, pur non trascurando il fatto che essendo gli aspetti patrimoniali del matrimonio regolati sovente in sede
non contenziosa - appare opportuno affrontare pure la questione del ruolo e della competenza delle autorità non giudiziarie e del riconoscimento dei documenti e degli atti extragiudiziari resi da queste autorità. Inoltre,
il significativo aumento del numero di coppie non sposate negli Stati membri si risolve in un corrispondente aumento delle situazioni giuridiche internazionali che le riguardano. Il diritto comunitario disciplina già la responsabilità genitoriale sui figli di queste coppie con il regolamento (CE)
n. 2201/2003 del Consiglio, e le obbligazioni alimentari con il regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio82. La presenza, poi, di un numero
crescente di Paesi che hanno ritenuto di disciplinare contratti e unioni registrate davanti a un’autorità pubblica, impone la necessità di affrontare
anche i problemi che possono sorgere, ad esempio, quando uno dei partner risiede o possiede beni nel loro territorio di Stati che non conoscono
tali forme di unione o che le regolamentano in modo diverso.
Ma gli sforzi tendenti all’uniformità nelle regole che determinano il
giudice competente, nonché la circolazione delle sue decisioni, con conseguenti riconoscimento ed esecuzione, nonché all’uniformità nelle regole di determinazione del diritto sostanziale e processuale applicabile non
sembrano soddisfare ancora gli interpreti. Questi ultimi, invero, hanno correttamente sottolineato la necessità di pervenire ad un avvicinamento delle stesse regole materiali dei vari Paesi e ciò proprio in un settore quale
quello dei regimi patrimoniali della famiglia, tanto legittima che di fatto.
Gli Stati, in altre parole, dovrebbero considerare l’eventualità di fare in
modo che i coniugi che concludono un “matrimonio internazionale” (il
cui numero appare aumentare in misura esponenziale) si vedano proporre identiche soluzioni giuridiche ai loro problemi patrimoniali, e ciò a prescindere dai Paesi di cui sono cittadini o in cui sono residenti. Solo una
“armonizzazione materiale” di questo genere risponderebbe pienamente
al bisogno degli sposi di prevedibilità degli esiti di possibili controversie, a
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prescindere dalla scelta della legge, che rischia di comportare risultati diversi da quelli attesi83. Inoltre, bisogna tenere presenti le complicazioni legate ai cambiamenti (oggi possibili in misura assai più evidente che in passato) del luogo di residenza abituale della famiglia e dunque occorre evitare che la legge applicabile sia quella di uno Stato con cui le parti hanno
perso, magari da tempo, ogni forma di contatto. E, del resto, anche il fenomeno del mutamento, in sé, della legge applicabile al regime per adeguarla agli spostamenti della residenza coniugale comporta non poche difficoltà e perplessità. Meglio dunque pensare alla creazione di un regime
matrimoniale armonizzato a livello europeo, diretto a disciplinare - facoltativamente, beninteso - i rapporti patrimoniali nell’ambito di matrimoni
caratterizzati dalla presenza di un elemento di estraneità.
5. Il futuro europeo della comunione. Lineamenti di un possibile regime
patrimoniale europeo della famiglia.
Ma quale potrebbe essere, allora, questo istituendo regime patrimoniale europeo? Gli studi sull’argomento evidenziano l’opportunità di disporre di un sistema uniforme, fondato su di un partage égal, al momento
dello scioglimento dell’unione, dei beni acquistati durante il matrimonio,
eccezion fatta per quelli provenienti da liberalità o successioni, o per quelli di uso strettamente personale o attinenti all’attività professionale o imprenditoriale. Dovrebbe peraltro essere il più possibile salvaguardata l’indipendenza dei coniugi84, purché sempre nel quadro di precisi limiti, uno
dei quali dovrebbe essere costituito dall’indisponibilità del domicile familial
senza il consenso dell’altro coniuge85. Più discutibile appare invece (ma qui
ci collochiamo già sul piano del c.d. regime primario) la proposta86 di introdurre una responsabilità solidale per le obbligazioni contratte, entro certi limiti, nell’interesse della famiglia. Si sottolinea poi anche che partage
égal non significa necessariamente divisione in parti uguali di una certa
massa di beni, ben potendo immaginarsi l’applicazione di una regola che
consenta il versamento di somme denaro che di tali beni esprimano il valore87, mentre, per ciò che attiene al punto cruciale dell’individuazione di
cosa forma oggetto di compartecipazione, in caso di dubbi o prove insuf-
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ficienti per l’accertamento della data dell’acquisto, dovrebbero soccorrere
presunzioni in favore della comunione88.
Proprio in quest’ottica sembra volersi muovere, si diceva, Bruxelles.
Nello studio prodromico alla presentazione di un progetto di strumento
comunitario in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e conviventi89
si legge che obiettivo primario dell’Unione Europea non è quello di promuovere una unificazione dei diversi diritti interni e tanto meno di elaborare un codice europeo della famiglia. Ciò che si intende fare è, semmai, approfittare dello sforzo di armonizzazione del diritto internazionale privato in questo campo per includervi alcune disposizioni di diritto interno, nella misura in cui queste appaiano complementari alle disposizioni di diritto internazionale privato uniformi. Si tratta del resto di un procedimento non del tutto estraneo alla Convenzione de L’Aja del 14 marzo 1978 sulla legge applicabile ai regimi matrimoniali, in cui si possono
scorgere norme materiali, per così dire, di contorno a regole di conflitto
di leggi90.
Ecco dunque l’idea, suggerita dal citato rapporto, di completare l’opera di armonizzazione del diritto internazionale privato europeo dei regimi matrimoniali con l’aggiunta, da un lato, di un “embrione di regime
primario europeo” - che includerebbe principi quali il dovere di contribuzione, la protezione minima della demeure familiale principale, i poteri
di rappresentanza dei coniugi, il diritto di stipulare e modificare i contratti
di matrimonio, etc.91 - e, dall’altra, di un “regime sussidiario convenzionale”, comune a tutti gli stati membri92. Tale ultimo regime si affiancherebbe a quelli già esistenti in ciascuno degli Stati membri e rappresenterebbe altresì una novità per quegli ordinamenti (si tratta dei sistemi di
Common Law) che tale nozione di regime patrimoniale non conoscono.
Ci troveremmo così di fronte ad un regime convenzionale, che le parti
potrebbero adottare qualora, in considerazione “de leur situation de mobilité constante ou simplement possible, ce régime leur conviendrait”. Non
vi è dubbio che in tal modo si otterrebbe, obiettivamente, un avanzamento
verso un grado superiore di armonizzazione, posto che la disciplina di questo regime non sarebbe più racchiusa nelle disposizioni nazionali, ma nel
regolamento comunitario, contenente regole assolutamente identiche, si
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badi, non solo per i coniugi che avessero optato per tale regime, ma anche per tutti i terzi che in qualche modo con questo regime venissero in
contatto. Proprio per questa ragione il citato studio auspica la previsione
di regole aventi ad oggetto l’istituzione di un pubblico registro dei regimi
patrimoniali e degli atti modificativi degli stessi. Da sottolineare poi che
il medesimo documento non sembra neppure voler proporre come necessaria la presenza di elementi di estraneità, al fine di consentire l’adozione del regime, che riposerebbe così sul solo accordo dei coniugi.
Quale, dunque, il modello suggerito per addivenire all’auspicato partage égal tra i coniugi, di fronte alla estrema complessità delle regole oggi
vigenti nel nostro Continente? La presa di posizione del citato studio commissionato dalla U.E.93 appare senza dubbio favorevole ad un modello di
partecipazione agli acquisti tipo Zugewinngemeinschaft o participation aux acquêts, per la metà degli incrementi patrimoniali conseguiti durante il matrimonio, peraltro lasciando al giudice “un pouvoir correcteur en équité
aux fins de modifier éventuellement la nature, la quotité ou le mode de
calcul du droit de participation”. Ciò che consentirebbe di combinare elementi, per così dire, di Common Law, con momenti di Civil Law. Per impedire gli eventualmente troppo rigidi effetti di una soluzione troppo meccanica, si dovrebbe consentire all’interessato di dimostrare “que la contribution économique ou non économique de son conjoint dans la constitution de ses acquêts et économies aurait été très considérablement inférieure à la sienne, soit lorsqu’en raison d’un comportement gravement fautif de l’époux créancier l’importance de sa créance de participation serait
jugée gravement inéquitable”.
Ovviamente, non tutti i beni acquistati durante la vita coniugale dovrebbero considerarsi rilevanti al fine della “compensazione” finale, andando esclusi, sulla base di una tradizione praticamente comune a tutti i sistemi europei, gli acquisti per successione o donazione, così come quelli di
carattere strettamente personale (perché d’uso personale o necessari per la
professione o l’impresa del coniuge). L’incremento di valore dei beni personali andrebbe pure escluso dal calcolo finale e non dovrebbe pertanto ritenersi costituire un acquisto. Il diritto competente al coniuge al momento dello scioglimento sarebbe un semplice credito al valore della metà de-
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gli incrementi patrimoniali, così evitando le difficoltà di una divisione in
natura; anche qui, però, si potrebbe concedere al giudice, in determinati
casi, la possibilità di ammettere rivendiche in natura sulla quota. La disciplina in oggetto dovrebbe poi prevedere anche in maniera precisa le regole di effettuazione della stima del valore degli acquisti operati dai coniugi.
Il modello così proposto coincide con quello caldeggiato dalla dottrina tedesca, che sulla scorta di alcune obiezioni mosse alla regola della
Zugewinngemeinschaft, nonché in base alla comparazione ad altri modelli di
contitolarità differita degli incrementi patrimoniali, suggerisce, per
un’”esportazione” a livello europeo, di correggere l’istituto di cui ai §§
1363 ss. BGB come segue: “eliminazione delle limitazioni al potere dispositivo, eliminazione del conguaglio per l’incremento patrimoniale cui
l’altro coniuge non abbia fornito alcun contribuito diretto o indiretto (risarcimento del danno per lesioni fisiche, risarcimento del danno morale),
eliminazione del conguaglio per aumenti di valore del patrimonio iniziale, eliminazione dell’aggiunta fittizia al patrimonio finale di valori patrimoniali donati o dissipati qualora si tratti di beni che il coniuge abbia apportato al matrimonio o acquistato a titolo di eredità, rilevanza del patrimonio iniziale negativo per il successivo conguaglio patrimoniale, eliminazione del conguaglio degli incrementi sotto il profilo successorio”94. Ad
avviso del medesimo Autore testé citato, “Il conguaglio degli incrementi
riformato in questo modo potrebbe costituire senz’altro un modello interessante per paesi che, da un lato, desiderano confermare la comunione
degli acquisti come regime patrimoniale legale e, dall’altro lato, intendono offrire ai propri cittadini anche un’eccellente soluzione per il regime
facoltativo della separazione dei beni - un regime patrimoniale adatto alla moderna società di mercato”. Un punto che andrebbe sicuramente affrontato, al fine di evitare gli inconvenienti posti in luce dal sistema della
comunione de residuo nel nostro ordinamento, sarebbe la previsione (del
resto conosciuta dal vigente diritto tedesco) di strumenti al fine di garantire il coniuge più debole da possibili manovre fraudolente dell’altro, specie nel momento in cui si dovesse profilare la crisi dell’unione.
L’ottica sin qui esposta non è peraltro condivisa - o, per lo meno, condivisa fino in fondo - da tutti gli interpreti95. Così, sulla base del rilievo
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per cui, nella dialettica tra sistema comunitario e sistema partecipativo, il
primo “répondra sans doute mieux aux attentes d’un couple avec une certaine inégalité économique, alors que la participation conviendra parfaitement à des époux à pouvoir économique égal”, si è ritenuto di dover
suggerire l’adozione, a livello europeo, non già di un solo modello di regime, bensì di due: “l’un participatif et l’autre communautaire”96. Ma la
proposta, nell’intento di soddisfare tutte le esigenze, finirebbe con l’introdurre solo sconcerto e disorientamento, facendo perdere gran parte dello
smalto e dell’efficacia innovativa propria della creazione di un regime “comunitario” (in tutti i sensi, verrebbe da dire!) europeo, destinato, lo si ripete, non già a sostituire (almeno per il momento) i regimi nazionali, ma
ad affiancarsi a questi ultimi97. E dunque, partendo dal presupposto dell’esistenza, nella maggior parte dei Paesi europei, di regimi legali di comunione immediata degli acquisti, sarebbe opportuno che, quanto meno nella fase iniziale, il nuovo regime “suggerito” da Bruxelles avesse esclusivamente i tratti della compartecipazione paritaria e differita agli incrementi
di valore determinati dagli acquisti effettuati e dai redditi percepiti post
nuptias.
Dott. Giacomo Oberto
NOTE
*) Testo della relazione svolta nell’ambito del Convegno “Il regime patrimoniale della comunione legale di beni tra i coniugi” tenutosi in Benevento il 25 giugno 2010.
1) Cfr. ad esempio AA. VV., Le régime matrimonial légal dans les législations contemporaines. Travaux
et recherches de l’Institut de droit comparé de l’Université de Paris, XIII, Paris, 1957; AA. VV., Le régime matrimonial légal dans les législations contemporaines. Travaux et recherches de l’Institut de droit comparé de l’Université de Paris, XXXIV, Paris, 1974. Di un certo interesse a tali fini sono anche i lavori pubblicati in AA. VV., La condition de la femme dans la société contemporaine. Travaux et recherches de l’Institut de droit comparé de l’Université de Paris, Paris, 1938.
2) Cfr. AA. VV., Le problème de la mutabilité du régime matrimonial, in AA. VV., Travaux de
l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, VII, Paris, 1952; AA. VV., Les régimes
matrimoniaux, in AA. VV., Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française,
XII, 1958, Paris, 1961, p. 719 ss.; v. inoltre AA. VV., Aspects de l’évolution récente du droit de la famille, in AA. VV., Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, XXXIX,
1988, Paris, 1990, passim.
3) Cfr. i due corposi volumi dell’UNION INTERNATIONALE DU NOTARIAT LATIN -
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COMMISSION DES AFFAIRES EUROPEENNES, Régimes matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit
international privé et Droit comparé, sous la direction de M. Verwilghen, I e II, Neuchâtel, 1979.
4) Cfr. ad esempio KIRALFY (a cura di), Comparative law of matrimonial property. A symposium
of the International Faculty of Comparative Law in Luxembourg on the Laws of Belgium, England,
France, Germany, Italy and the Netherlands, Leyden, 1972 e, più di recente, HENRICH e SCHWAB
(a cura di), Eheliche Gemeinschaft, Partnerschaft und Vermögen im europäischen Vergleich, Beiträge
zum europäischen Familienrecht, 6, Bielefeld, 1999; BONOMI e STEINER, Les régimes matrimoniaux
en Droit comparé et en Droit international privé: Actes du Colloque de Lausanne du 30 septembre 2005,
Genève, 2005.
5) Cfr. ad esempio BRAAT, Indépendence et interdépendence patrimoniales des époux dans le régime matrimonial légal des droits français, néerlandais et suisse, Berne, 2004; v. inoltre, sempre a titolo d’esempio, BOELE-WOELKI, Matrimonial Property Law from a Comparative Law Perspective, Ars
Notariatus C111, Stichting ter Bevordering der Notariële Wetenschap, Amsterdam, 2000, disponibile
all’indirizzo web seguente: http://www.reading.ac.uk/nmsruntime/saveasdialog.asp?lID=7018&sID=34870. Per una panoramica generale in lingua italiana cfr. SIMO SANTONJA, I regimi matrimoniali nel mondo, Milano, 1992; per uno studio ormai risalente in lingua spagnola cfr.
FERNANDEZ CABALEIRO, El régimen económico-matrimonial legal en Europa, Madrid, 1969.
6) CONSORTIUM ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions d’harmonisation. Rapport final établi à l’intention exclusive de la Commission Européenne. Etude sur les régimes matrimoniaux des couples maries et sur le patrimoine des couples non maries dans le droit international prive et le droit interne des états membres de l’Union Européenne effectuée à la demande de la
Commission Européenne - Direction Générale Justice et Affaires Intérieures - Unité A3 - Coopération
Judiciaire en Matière Civile (offre n ° JAI/A3/2001/03), disponibile alla pagina web seguente:
http://ec.europa.eu/justice_home/doc_centre/civil/studies/doc/regimes/report_regimes_030703_fr.pdf, p. 28: “Il est vrai que celui de la communauté d’acquêts est parvenu à réunir un nombre non négligeable d’États membres (…), mais la notion même d’acquêts n’y est
pas comprise de façon uniforme. L’harmonie apparente s’estompe lorsqu’il s’agit de savoir si
tel bien est ou non acquêt, donc commun. Parfois, le doute existe, en raison d’hésitations jurisprudentielles et doctrinales.
7) Possiamo annoverare al riguardo i sistemi dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda del
Nord, della Scozia e della Repubblica d’Irlanda.
8) Vengono solitamente citati al riguardo gli ordinamenti dell’Austria, della Grecia, nonché
del Portogallo, ma solo limitatamente, per quest’ultimo Paese, ad ipotesi eccezionali, vale a dire quelle del matrimonio celebrato da chi abbia oltre sessant’anni d’età, o da chi non abbia rispettato il disposto in tema di pubblicazioni, valendo altrimenti il regime legale della comunhão
de adquiridos (cfr. artt. 1717 e 1720 del Código civil). Da menzionare inoltre il sistema della separació de béns, previsto come regime legale dagli artt. 37 ss. del Codi de familia catalano.
9) Così in Grecia gli artt. 1400 - 1402 del codice civile stabiliscono una forma di partecipazione agli utili in caso di divorzio, di separazione ultratriennale, o di annullamento del matrimonio. Questo diritto si fonda peraltro sull’idea di un contributo fornito dall’ex coniuge richiedente, che si presume, salvo prova contraria, nella misura di un terzo dell’incremento pa-
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trimoniale della controparte, escluse donazioni ed eredità ricevute. L’azione va proposta in un
termine di prescrizione di due anni dallo scioglimento o dall’annullamento del matrimonio. Un
regime di comunione degli utili e degli acquisti è stipulabile mercé apposita convenzione notarile, ai sensi degli artt. 1403 ss. del predetto codice (cfr. DACORONIA, The Greek Family Law and
the Principle of the Equality of the Two Sexes, in AA. VV., The Marriage, Milano, 1998, p. 234 ss.).
In Austria, in caso di divorzio, il § 81 della legge sul matrimonio (Ehegesetz - EheG) stabilisce
che l’eheliches Gebrauchsvermögen (cioè i beni che durante la vita coniugale servivano all’uso dei
coniugi, quali in particolare la casa familiare) e gli eheliche Esparnisse (risparmi accumulati durante
la vita familiare) vadano divisi equitativamente tra i coniugi; vengono comunque esclusi dalla
divisione i beni di cui le parti erano titolari prima della celebrazione delle nozze, così come quelli ricevuti per donazione o successione, o quelli relativi all’attività professionale o imprenditoriale dell’uno o dell’altro. Nel caso gli ex coniugi non trovino un accordo sulla divisione, viene attribuito un notevole potere al giudice, il quale dovrà operare secondo equità, avuto riguardo ai criteri fissati dal § 83, comma primo, della citata legge matrimoniale: contributo fornito nella creazione del patrimonio, interesse della prole, cooperazione nell’attività del coniuge, mantenimento ed educazione dei figli, etc. (cfr. JESSER, Ehe- und Scheidungsrecht. Landesbericht
Österreich, in AA. VV., The Marriage, cit., p. 41 ss.; v. anche RECHBERGER, Autriche, in UNION
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matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit international privé et Droit comparé, sous la direction de
M. Verwilghen, I, cit., p. 390 ss.). Ancora, potrà notarsi come, nel regime (legale) catalano di
separazione dei beni, l’art. 41 del relativo codice di famiglia preveda una compensazione economica in caso di crisi coniugale in favore del coniuge che abbia contribuito direttamente o indirettamente al benessere dell’altro, senza compenso o con un compenso inadeguato, con conseguente squilibrio dei rispettivi patrimoni: “Article 41. Compensació econòmica per raó de treball. - 1. En els casos de separació judicial, divorci o nullitat, el cònjuge que, sense retribució o
amb una retribució insuficient, ha treballat per a la casa o per a l’altre cònjuge té dret a rebre
d’aquest una compensació econòmica, en el cas que s’hagi generat, per aquest motiu, una situació de desigualtat entre el patrimoni de tots dos que impliqui un enriquiment injust. - 2. La
compensació s’ha de satisfer en metàllic, llevat d’acord entre les parts o si l’autoritat judicial, per
causa justificada, autoritza el pagament amb béns del cònjuge obligat. El pagament ha de tenir
efecte en un termini màxim de tres anys, amb meritació d’interès legal des del reconeixement,
cas en el qual pot acordar-se judicialment la constitució de garanties a favor del cònjuge creditor. - 3. El dret a aquesta compensació és compatible amb els altres drets de caràcter econòmic
que corresponen al cònjuge beneficiat, i ha d’ésser tingut en compte per a la fixació d’aquests
altres drets”. Non stupisce, dunque, che talora si qualifichino tali regimi (non già come di separazione, ma) come di compartecipazione differita agli acquisti: cfr. (con riguardo al sistema
greco e a quello austriaco) HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, in Familia, 2002,
p. 1059, 1063.
10) Sull’argomento cfr., anche per gli ulteriori rinvii, VAN DER PLOEG, Pays-Bas, in UNION
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M. Verwilghen, II, cit., p. 247 ss.; EBBEN, Marriage and Divorce in Netherlands, in AA. VV., The
Marriage, cit., p. 335 ss.; BRAAT, op. cit., passim. Inutile dire che, in forza del principio, universalmente conosciuto, di autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali, una comunione convenzionale può costituirsi in quasi tutti gli ordinamenti, sebbene talora con il rispetto di precisi limiti attinenti all’oggetto e/o all’amministrazione (cfr. ad es. artt. 210, secondo e terzo comma, c.c. italiano; artt. 1497 ss. Code Civil francese; §§ 1417, 1418, 1422 ss. BGB; art. 1699 cpv.
del Código civil portoghese).
11) Per osservazioni critiche su questo sistema cfr. BOELE-WOELKI, The Road Towards a
European Family Law, vol. 1.1, Electronic Journal of Comparative Law, (November 1997), disponibile alla pagina web seguente: http://law.kub.nl/ejcl/11/art11-1.html. L’Autrice, dopo aver osservato che “The Dutch legal matrimonial property regime, which recognises complete community of property, is unique in Europe”, si chiede se tale sistema “is still in harmony with modern views on the independent position of the husband and wife, especially as regards the financial point of view. After all, a quarter of all the marriages celebrated here are done so after
a prenuptial contract has been entered into”.
12) Da notare che il regime comunitario era quello legale anche nei Paesi Socalisti (cfr. per
tutti BADIALI, Famiglia, V) Regime patrimoniale della famiglia - Dir. comp. e stran., in Enc. giur.
Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 2).
13) Da segnalare, ad esempio, il caso italiano della comunione meramente de residuo per i
beni descritti dagli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c., laddove (e sempre ad esempio) in
Francia i frutti dei beni personali e i proventi dell’attività separata sono senz’altro comuni: cfr.
(a dispetto della mancanza di chiarezza sul punto dell’art. 1401 del Code Civil) l’opinione dominante sul punto, su cui v. per tutti TERRÉ e SIMLER, op. cit., p. 205 ss., 215 ss. In modo molto chiaro l’art. 1347 del Código civil spagnolo stabilisce che “Son bienes gananciales: 1. Los obtenidos por el trabajo o la industria de cualquiera de los cónyuges. 2. Los frutos, rentas o intereses que produzcan tanto los bienes privativos como los gananciales. (…)”.
14) Si noti però che, ad esempio, in Svezia, tali beni cadono nella “proprietà matrimoniale” destinata ad essere divisa in parti uguali allo scioglimento del matrimonio, a meno che non
vi sia una previsione in senso contrario da parte del donante o del testatore: cfr. CONSORTIUM
ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions d’harmonisation, cit., p. 83.
15) Cfr. BALA, Canada: The Law of Marriage, Divorce & Unmarried Cohabitation, in AA. VV.
The Marriage, cit., p. 90 ss.
16) Per la sociedad conyugal del Messico cfr. CHAVEZ ASENCIO, El matrimonio en Mexico, in
The Marriage, cit., p. 296 ss.
17) Gli stati degli U.S.A. che conoscono questo sistema sono otto, quasi tutti ex colonie spagnole (o francesi): Arizona, California, Idaho, Louisiana, New Mexico, Nevada, Texas e
Washington; ad essi andrà aggiunto il Wisconsin, ove il sistema viene chiamato Marital Property.
La relativa disciplina varia da ordinamento a ordinamento: è peraltro regola comune in questi
sistemi che entrambi i coniugi divengano contitolari ex lege per quote uguali dei beni acquisiti
da ciascuno durante il matrimonio, ad eccezione di quelli pervenuti per donazione o successione, nonché le somme dovute a titolo di risarcimento del danno ed i beni acquistati con il prez-
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zo o lo scambio dei beni personali, purchè l’origine del denaro sia rintracciabile. La divisione
avviene per quote uguali (cfr. ad esempio il § 4800 del California Civil Code), sebbene in taluni
stati al giudice sia attribuito il potere di attribuire la proprietà per quote diverse in caso di divorzio (così il § 767.255 del Wisconsin Statute si limita a presumere fair la divisione per quote
uguali, mentre in Texas “the court shall divide the property in a manner that the court deems
just and right, having due regard for the rights of each party and any children of the marriage”:
cfr. § 9.203 del Texas Family Code).
Il sistema vigente invece nei rimanenti stati viene definito come di separate property, sulla base della tradizione britannica: esso consente quindi ad ogni coniuge di mantenere la proprietà
di tutti i beni dallo stesso acquistati sia prima che dopo le nozze, ma permette al giudice di operare, all’atto dello scioglimento dell’unione, una riallocazione delle proprietà acquisite durante
la vita matrimoniale, “without regard to ownership”. Le normative che ammettono questa procedura sono chiamate “equitable division statutes”. Sarà interessante notare che, mentre negli
stati di comunione si escludono dalla divisione al momento dello scioglimento sicuramente e
sempre i beni acquistati per successione o donazione, in taluni degli altri stati anche questi beni possono essere coinvolti nell’operazione divisoria, specialmente al fine di evitare che una delle parti si venga a trovare in stato di bisogno: risulta così evidente che, nella pratica, ordinamenti
separatisti possono talora risultare “più comunitari” di quelli di comunione. I fattori di cui si tiene usualmente conto nella divisione dei patrimoni sono il contributo effettivamente prestato dal
coniuge alla formazione della marital property, ivi compreso il lavoro domestico, il valore degli
accantonamenti operati da ogni coniuge, la durata del matrimonio e ogni altra circostanza rilevante (ad esempio l’interesse della prole). La diversità di sistemi da stato a stato determina un
groviglio di problemi relativi ai cittadini residenti in uno stato e che procedono ad effettuare
acquisti in uno stato diverso, similmente a ciò che avveniva sotto il vigore del droit coutumier
francese (su questi temi cfr. MELLI, Marriage and Divorce in the United States, in The Marriage, cit.,
p. 471 s., 482 ss.; per un dettagliato schema riepilogativo della situazione nei diversi ordinamenti
giusfamiliari degli Stati Uniti cfr. Marital Property laws - Information on the law about Marital Property,
disponibile alla pagina web seguente: http://law.jrank.org/pages/11839/Marital-Property.html).
In Canada, nelle province diverse dal Québec, le riforme degli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo hanno sottolineato i poteri discrezionali del giudice nella divisione della proprietà al momento dello scioglimento del matrimonio, sulla base peraltro di una “presumption
of equal division of marital property”, fatta salva la validità degli accordi delle parti ed alcune
disposizioni inderogabili a tutela della matrimonial home (Cfr. BALA, op. cit., p. 91 ss.). Naturalmente
anche qui, come in tutti i Paesi di Common Law, quanto mai ampio e generoso è il ricorso al
trust (su cui cfr. OBERTO, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Famiglia e diritto, 2004, p.
201 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario
fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2005, p. 183 ss.;
ID., Il trust familiare, dal 10 giugno 2005 al seguente indirizzo web: http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm). Per informazioni sul sistema australiano cfr. HARRISON, Matrimonial Property Reform, in Family Matters, n. 31, April 1992, p. 18
ss.; SHEEHAN e HUGHES, Division of matrimonial property in Australia, Melbourne, 2001.
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18) In generale sulle evoluzioni dei modelli matrimoniali e dei regimi patrimoniali nei Paesi
nordici cfr. CARLSSON, WETTERBERG, MELBY e ROSENBECK, The Nordic Model of Marriage and
the Welfare State, disponibile all’indirizzo web seguente: www.pcr.uu.se/conferenses/myrdal/pdf/ccw_km_br.pdf.
19) Sul punto cfr. DÜBECK, Matrimonial Law in Denmark, in AA. VV., The Marriage, cit., p.
103 ss. Non molto diversi da questi ordinamenti sono quello norvegese e finlandese.
20) E’ il caso, già ricordato in questo §, di quelli greco ed austriaco.
21) Ai sensi dell’art. 181 del citato codice elvetico tale sistema costituisce il regime legale.
22) Sul punto cfr. infatti quanto disposto dal § 1379 BGB, che prevede un preciso dovere
di informazione sulla consistenza patrimoniale dei coniugi, attribuendo a ciascuno di essi il diritto di pretendere la redazione di un inventario redatto da notaio.
23) Ed infatti cfr. quanto stabilito dai commi secondo e terzo del § 1375 BGB, a mente dei
quali si imputano al patrimonio finale dei coniugi anche, in linea di massima, le attribuzioni patrimoniali effettuate a titolo gratuito, così come gli atti di dispersione del patrimonio, ovvero
ancora gli atti fraudolentemente posti in essere al fine di danneggiare l’altro coniuge, ad eccezione di quelli cui quest’ultimo abbia espressamente consentito.
24) Sul punto cfr. per tutti OBERTO, Comunione de residuo e tutela della parte debole: la
Cassazione abbandona la teoria del “coniuge virtuoso”, Nota a Cass., 7 febbraio 2006, n. 2597, in
Corr. giur., 2006, p. 813 ss.
25) La più rilevante sembra essere quella per cui, mentre nel sistema germanico l’Ausgleich
investe anche il c.d. Eigengut, cioè gli incrementi di valore sul patrimonio personale di ognuno
dei coniugi, in Isvizzera la partecipazione all’aumento riguarda solo gli acquisti effettuati post
nuptias (art. 210 codice civile) e non i beni propri. Per un’illustrazione di tali differenze cfr.
HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1059 ss.
26) Cfr. artt. 1411 ss. del Código civil spagnolo: “En el régimen de participación cada uno de
los cónyuges adquiere derecho a participar en las ganancias obtenidas por su consorte durante
el tiempo en que dicho régimen haya estado vigente”. Sul tema cfr. ad esempio LOPEZ, MONTÉS
e ROCA, Derecho de familia, Valencia, 1997, p. 269 ss.
27) Cfr. le norme in tema di règim de participació en els guanys, di cui agli artt. 48 ss. del Codi de
familia catalano. Ai sensi dell’art. 48 cit. “1. El règim econòmic matrimonial de participació en els
guanys atribueix a qualsevol dels cònjuges, en el moment de l’extinció del règim, el dret a participar en els guanys obtinguts per l’altre durant el temps que aquest règim hagi estat vigent. 2. Aquest
règim s’ha de convenir en capítols matrimonials i es regeix, en tot allò que no s’hi prevegi, per les
disposicions d’aquest capítol. En darrer terme, durant la seva vigència es regeix per les normes del
règim de separació de béns, incloses les relatives a les compres amb pacte de supervivència”.
28) Cfr. artt. 1569 ss. del Code Civil francese. Per un’illustrazione delle differenze tra le possibili varianti dei regimi legali e convenzionali di partecipazione differita agli acquisti cfr. HENRICH,
Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1059 ss.
29) Sul tema cfr. OBERTO, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Famiglia
e diritto, 1995, p. 604 ss.; ID., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 636 ss.
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30) Il regime in esame, che per anni dominò il panorama delle coutumes francesi, vige Oltralpe
solo per effetto di apposita convenzione (cfr. art. 1497, primo comma e cpv. n. 1, Code Civil,
secondo cui “Les époux peuvent, dans leur contrat de mariage, modifier la communauté légale par toute espèce de conventions non contraires aux articles 1387, 1388 et 1389. Ils peuvent,
notamment, convenir: 1º Que la communauté comprendra les meubles et les acquêts (…)”. Cfr.
inoltre in Spagna, per ciò che attiene al derecho foral aragonese, quanto disposto dall’art. 37, quarto comma, della ley 15/1967, dell’8 aprile (de la Compilación del Derecho Civil de Aragón), che prevede la caduta nella comunidad legal tra coniugi anche, in linea di massima, di tutti i beni mobili dei coniugi al momento della celebrazione delle nozze.
31) Per i richiami in proposito cfr. per tutti OBERTO, I precedenti storici del principio di libertà
contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.
32) In Europa sembra che il solo Portogallo conservi il principio di divieto di modifica delle convenzioni matrimoniali (cfr. art. 1714, peraltro con le eccezioni stabilite dall’art. 1715, del
Código civil portoghese: per l’illustrazione del principio cfr. PEREIRA COELHO e GUILHERME DE
OLIVEIRA, Curso de Direito da Família, I, Introdução ao Direito Matrimonial, Coimbra, 2001, p. 493
ss.; ANTUNES VARELA, Direito da Família, I, Lisboa, 1999, p. 447), mentre in svariati altri ordinamenti, come nel nostro, le legislazioni hanno poco a poco abolito (cfr. l’art. 162 c.c. italiano,
come risultante dalla riforma di cui alla l. 10 aprile 1981, n. 142, su cui v. per tutti OBERTO,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 643 ss.; v. inoltre le
legislazioni di Germania, Austria, Lussemburgo e Belgio) l’autorizzazione giudiziale un tempo
richiesta per tali modifiche. Per il punto sulla situazione cfr. il Document de travail des services de
la commission. Annexe au Livre Vert sur le règlement des conflits de lois en matière de régime matrimonial, traitant notamment de la question de la compétence judiciaire et de la reconnaissance mutuelle, SEC
(2006) 952 {COM(2006) 400 final}, p. 9, disponibile alla pagina web seguente: http://ec.europa.eu/justice_home/doc_centre/civil/doc/sec_2006_952_fr.pdf; v. inoltre CONSORTIUM ASSER
- UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions d’harmonisation, cit., p. 29 s.
33) Sul tema, relativamente al diritto italiano, cfr. per tutti OBERTO, L’autonomia negoziale
nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 636 ss. Per il diritto comparato v. CAPARROS
e DAMÉ-CASTELLI, Les rapports patrimoniaux dans la famille en droit interne comparé, in UNION
INTERNATIONALE DU NOTARIAT LATIN - COMMISSION DES AFFAIRES EUROPEENNES, Régimes
matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit international privé et Droit comparé, sous la direction de
M. Verwilghen, I, cit., p. 89 ss., i quali mettevano in evidenza la rigidità (all’epoca) propria di
certi sistemi socialisti, che non consentivano alcun tipo di deroga al regime legale, contrapponendola invece ai sistemi d’origine francese, che, riferendo la materia dei regimi matrimoniali a
quella contrattuale, lasciavano non solo ai coniugi la possibilità di optare per regimi alternativi
rispetto a quello legale, ma consentivano (e consentono tuttora) di combinare regimi diversi tra
di loro, o di dare vita a sistemi del tutto nuovi, con il rispetto dei principi generali di non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume (peraltro sulla necessità del rispetto
di una certa coerenza interna nel sistema prescelto e sull’obbligo di evitare di alterarne la struttura “dans un sens contraire à sa nature”, posto che in tal caso il regime “ne serait pas juridiquement viable. C’est-à-dire, ne serait pas valable”, cfr. CARBONNIER, Le régime matrimonial: sa
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nature juridique sous le rapport des notions de société et d’association, Bordeaux, 1932, p. 556 ss. il quale rimarca anche che “le contrat de mariage ne peut pas engendrer des monstres juridiques”).
Da notare che, dopo la caduta del Muro di Berlino, anche nei Paesi dell’Est il principio della
libertà negoziale nella stipula delle convenzioni matrimoniali sembra essere stato adottato: cfr.
ad es. RUSAKOVA, Difficulties in Drafting Marital Contracts, in AA. VV., Building a Law Based State:
Reality and Problems. Perspectives of Russian and Belgian Lawyers, Leuven, 1999, p. 53 s.
34) Sulle ricadute in Italia dell’abrogazione di siffatto divieto cfr. OBERTO, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 638 ss. Un’analoga tendenza alla eliminazione, o comunque ad una sostanziale riduzione, della portata del tradizionale divieto di
donazioni tra coniugi si può registrare un po’ ovunque in Europa. Significativo il caso della
Francia, ove la riforma di cui alla legge n. 439 del 26 maggio 2004 (entrata in vigore il 1° gennaio 2005) ha soppresso la regola della nullità delle donazioni dissimulate o effettuate per interposta persona tra coniugi, rendendo irrevocabili le donazioni di beni presenti, anche in caso di
divorzio. La successiva legge n. 728 del 23 giugno 2006, entrata in vigore il 1° gennaio 2007,
ha confermato la validità e l’irrevocabilità delle donazioni di beni presenti tra persone coniugate, sancendo la revocabilità automatica per divorzio delle donazioni di beni futuri, salvo patto
contrario (cfr. art. 265 del Code Civil). Sulla riforma francese del diritto delle successioni e delle donazioni di cui alla l. n. 728 del 23 giugno 2006, cit., v. il sito http://www.senat.fr. La legge, che ha modificato circa 200 articoli del Code Civil, prevede, tra l’altro: (a) un rafforzamento dei diritti dei concubins pacsés (più esattamente: l’annotazione d’ufficio del Pacs a margine
dell’atto di nascita; l’obbligazione “d’entraide et d’assistance” dei conviventi; un droit temporaire
de jouissance d’un an sur le logement commun e il beneficio dell’attribuzione preferenziale del droit
au logement per il partner superstite); (b) la creazione di un “pacte successoral” in forza del quale un soggetto viene autorizzato a rinunziare in tutto o in parte ad una futura eredità per effetto di un pacte firmato con il suo futuro de cuius, a beneficio di determinati parenti (interessante
al riguardo la previsione che impone l’intervento di due notai, di cui uno scelto dalle parti e
l’altro dalla chambre des notaires); (c) l’ammissibilità della “donation partage trans-générationnelle” in favore dei nipoti ex filio, con l’accordo dei figli (cioè dei genitori dei destinatari) in tal
modo pretermessi, con atto compiuto inter vivos dal nonno.
35) Per un’analisi di tipo comparato sul tema cfr. UNION INTERNATIONALE DU NOTARIAT
LATIN - COMMISSION DES AFFAIRES EUROPEENNES, Régimes matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit international privé et Droit comparé, sous la direction de M. Verwilghen, I e II, citt., passim; v. inoltre SCANNICCHIO, Beni, soggetti e famiglia nel regime patrimoniale e primario. Un’analisi
comparata (comunione e contribuzione in Italia, Francia, Inghilterra), Bari, 1992, p. 276 ss.
36) Sul tema, dal punto di vista della comparazione e sui limiti della soluzione italiana cfr.
OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 16 ss. Cfr. inoltre
BOULANGER, Droit civil de la famille, I, Aspect comparatifs et internationaux, Paris, 1997, p. 288 ss.
Non va del resto trascurato che il tema della protezione del logement de la famille costituisce oggetto d’attenzione anche da parte di organismi di carattere internazionale. Potrà menzionarsi in
proposito la raccomandazione n. R (81) 15, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa il 16 ottobre 1981 (Recommandation nº R (81) 15 concernant les “ droits des époux relatifs
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à l’occupation du logement de la famille et à l’utilisation des objets du ménage “), che richiede ai governi dei paesi membri “d’assurer aux époux le droit à l’occupation du logement de la famille
et à l’utilisation du mobilier et des objets destinés à l’usage de la famille dans le logement”, auspicando l’introduzione di principi conformi a quelli enunciati nell’allegato alla predetta raccomandazione. Tra questi ultimi figura, in particolare, quello relativo al consenso dei coniugi sugli atti dispositivi concernenti il logement de la famille. Per un’analisi comparativa sul punto v. anche BRAAT, op. cit., p. 114 ss.
37) Il tema è troppo vasto per poter essere anche solo sfiorato in questa sede; basti rinviare,
per tutti, a OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 336 ss., 347
ss.
38) Per questa considerazione cfr. il Document de travail des services de la commission. Annexe
au Livre Vert sur le règlement des conflits de lois en matière de régime matrimonial, traitant notamment de
la question de la compétence judiciaire et de la reconnaissance mutuelle, SEC (2006) 952 {COM(2006)
400 final}, p. 12, disponibile alla pagina web seguente: http://ec.europa.eu/justice_home/doc_centre/civil/doc/sec_2006_952_fr.pdf.
39) Su cui v. per tutti OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit.,
p. 261 ss.
40) Si sono già ricordati, nel § precedente, gli Stati U.S.A. che conoscono come legale il sistema della comunione.
41) Cfr. Section 25 (1) e (2) del Matrimonial Causes Act 1973. Le disposizioni in esame vennero intese in un primo tempo nel senso che la distribuzione era limitata al fatto di permettere
al coniuge di mantenere il suo precedente tenore di vita: Dart v. Dart, [1996] 2 FLR 286; ciò
conduceva spesso ad attribuire al coniuge richiedente un terzo dei family assets: cfr. LOWE e
DOUGLAS, Bromley’s Family Law, London, 1998, p. 825 s., finché nel celebre caso White v. White
la House of Lords affermò il principio secondo cui “equality is now laid down as a guideline,
rather than reasonable requirements”: cfr. White v. White, [2000] 2 FLR 981, spec. 989; sul punto v. anche FREEMAN, Exploring the Boundaries of Family Law in England in 2000, in BAINHAM (a
cura di), The International Survey of Family Law 2002, Bristol, 2002, p. 134 ss.; HODSON, White:
Equality on Divorce?, in Fam. Law, 2000, p. 870 ss. La giurisprudenza successiva ha poi reso chiaro che una divisione per quote diverse da quelle paritarie è ammessa solo in casi eccezionali: cfr.
Lambert v. Lambert, [2003] 1 FLR 139, su cui cfr. HODSON, GREEN e DE SOUZA, Lambert Shutting Pandora’s Box, in Fam. Law, 2003, p. 37 ss.; la decisione afferma che “it is unacceptable to place greater value on the contribution of the breadwinner than that of the homemaker
as a justification for dividing the product of the breadwinner’s efforts unequally between them.
Each contribution should be recognised as no less valueable than the other. Only special contributions can justify an unequal division, but therefore exceptional circumstances are necessary”. Sul tema v. anche AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, in CONSEIL DE L’EUROPE, Actes de la troisieme conférence européenne sur le droit de la famille. Le droit de la famille dans l’avenir, Strasbourg, 1995, p. 71, disponibile al seguente sito web: http://www.coe.int/t/f/affaires_juridiques/coop%E9ration_juridique/droit_de_la_famille_et_droits_des_enfants/conf%E9rences/CEDF(1995Cadiz)F.pdf; CRETNEY
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e MASSON, Principles of Family Law, London, 1997, p. 121 ss.; AL MUREDEN, Assegno post-matrimoniale: è possibile valutare il “capitale invisibile” ed attuare una equa condivisione delle risorse della
famiglia?, nota a Trib. Monza, 28 novembre 2005, in Famiglia e diritto, 2006, p. 301 ss.
42) Su cui v. per tutti CRETNEY e MASSON, op. cit., p. 454 ss.; BLUMBERG, The Financial
Incidents of Family Dissolution, in KATZ, EEKELAAR e MACLEAN (a cura di), Cross currents, Family
Law and Policy in the United States and England, Oxford, 2000, p. 398 ss.; EEKELAAR, Post-divorce Financial Obligations, ivi, p. 413 ss.
43) Così DROZ, L’activité notariale internationale, in AA. VV., Recueil des cours de l’Académie de
droit international, t. 280, Dordrecht - Boston - London, 1999, p. 69.
44) Sul punto cfr. SHIFMAN, Mariage et divorce en Israël, in AA. VV., The Marriage, cit., p. 249 ss.
45) Cfr. AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les
mariages internationaux ?, cit., p. 71.
46) SAUJOT, La pénétration des idées séparatistes dans les régimes communautaires, Paris, 1956, p.
27 ss., 167 ss., 283 ss.
47) Di una interpenetración tra i vari sistemi europei parlava già FERNANDEZ CABALEIRO, op.
cit., p. 40 s., il quale segnalava una conseguente “desaparición de las soluciones “puras” separatistas o comunitarias de un régimen matrimonial que por basarse en la “igualdad jurídica” de los
cónyuges concilie la independencia de los esposos con la solidaridad económica que implica el
matrimonio”.
48) Sull’argomento cfr. per tutti OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215219, cit., p. 6 ss.
49) L’art 30 della legge di riforma del diritto internazionale privato italiano presenta profili
alquanto innovativi rispetto alla disciplina dei rapporti patrimoniali fra coniugi contenuta nelle
disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile del 1942. L’art. 19 prel. prevedeva, infatti, che tali rapporti fossero regolati dalla norma legge dello Stato di cittadinanza del marito al momento della celebrazione del matrimonio, fatta salva la facoltà, seppur limitata, attribuita ai coniugi, di stipulare convenzioni matrimoniali “in base alla nuova legge nazionale comune”. Anche se l’art. 19 prel. era stato pensato al fine di preservare la moglie da variazioni di
regime a lei sfavorevoli, dovute a cambiamenti intenzionali di cittadinanza a opera del marito,
con l’avvento della Costituzione repubblicana, ispirata a principi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e
parità fra i coniugi (art. 29 Cost.), parte della dottrina aveva iniziato a sollevare, anche in relazione a tale disposizione, i primi dubbi di legittimità costituzionale, che divennero ancora più
concreti in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 1987, la quale dichiarò incostituzionale l’art. 18 prel. (per i rinvii cfr. DI STASIO, in AA. VV., Codice della famiglia, a cura
di M. Sesta, II, Milano, 2007, p. 4150). La Consulta, pur investita diverse volte, non si pronunziò mai - prima della riforma del 1995 - sulla legittimità costituzionale dell’art. 19: invero,
dapprima la Corte rinviò la questione al giudice a quo per difetto di motivazione quanto alla rilevanza nel suo giudizio di merito (cfr. Corte cost., 16 aprile 1975, n. 87, in Riv. dir. int. priv.
proc., 1975, p. 515), mentre in seguito i giudici a quibus non ritennero la questione rilevante nei
giudizi in cui era stata sollevata (cfr. Cass., 8 gennaio 1981, n. 131, in Riv. dir. int. priv. proc.,
1982, p. 48; Trib. Milano 16 marzo 1992, ivi, 1993, p. 700). La disposizione ha invece forma-
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to oggetto di una declaratoria, per così dire, “postuma”, di illegittimità, ad opera di Corte cost. 21 giugno 2006, n. 254, la quale ha stabilito che è costituzionalmente illegittimo l’art. 19,
comma primo, prel. (disposizione che, sebbene abrogata dall’art. 73, l. 31 maggio 1995, n. 218,
continua ad applicarsi in tutti i giudizi iniziati anteriormente alla entrata in vigore della norma
abrogatrice), posto che siffatta norma realizza - privilegiando, per ragioni legate esclusivamente
alla diversità di genere fra i coniugi, la legge nazionale del marito - una discriminazione in danno della moglie in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 29, secondo comma, Cost.
Per un commento all’art. 30 cit. cfr. CLERICI, Commento all’art. 30, in AA. VV., Riforma del
sistema italiano di diritto internazionale privato: legge 31 maggio 1995, n. 218. Commentario, in Riv.
dir. int. priv. proc., 1995, p. 1061 ss.; EAD., Considerazioni sulla legge regolatrice dei rapporti patrimoniali tra coniugi, disponibile all’indirizzo web seguente: http://appinter.csm.it/incontri/relaz/8866.pdf;
ANDRINI, L’autonomia negoziale dei coniugi nella riforma del diritto internazionale privato con particolare riguardo alla modifica delle convenzioni matrimoniali e dei patti conseguenti alla separazione consensuale, in Vita not., 1996, p. 7 ss.; CONETTI, Commento all’art. 30, in AA. VV., Riforma del sistema
italiano di diritto internazionale privato (l. 31 maggio 1995, n. 218), in Nuove leggi civ. comm., 1996,
p. 1176 ss.; SALERNO CARDILLO, Rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto internazionale privato e riflessi sull’attività notarile, in Riv. notar., 1996, I, p. 190 ss.; UCCELLA, Il fondamento della famiglia nel nuovo diritto internazionale privato: prime considerazioni, in Vita notar., 1996, p. 1174 ss.;
VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato, in Giust. civ., 1996,
II, p. 447 ss.; ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova,
1997, p. 219 s.; DOGLIOTTI, I rapporti familiari nel nuovo diritto internazionale privato, in Dir. fam.
pers., 1997, p. 299 ss.; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 171 ss.
50) Con effetto dal 1° settembre 1995: cfr. art. 73, l. n. 218/95 cit.
51) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 171 ss. Anche per PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 307, il principio circa la scelta del
regime in relazione al diritto dello stato di cui almeno uno dei coniugi è cittadino o in cui almeno uno dei due risiede attribuisce un ruolo significativo all’autonomia negoziale come criterio di scelta della legge applicabile.
52) Vale a dire quello di cui entrambi i coniugi sono cittadini, o in cui “la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata”: su tale concetto v. per tutti SALERNO CARDILLO, op. cit.,
p. 193 s.; VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato, cit., p.
452; DOGLIOTTI, I rapporti familiari nel nuovo diritto internazionale privato, cit., p. 300.
53) Per la soluzione positiva v. per tutti DOGLIOTTI e FIGONE, Commento all’art. 45 c.c., in
Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, I, Torino, 1991, p. 45.
54) Favorevole a questa possibilità, non espressamente prevista dalla legge, è ANDRINI, L’autonomia negoziale dei coniugi nella riforma del diritto internazionale privato con particolare riguardo alla
modifica delle convenzioni matrimoniali e dei patti conseguenti alla separazione consensuale, cit., p. 7.
55) Così VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato, cit.,
p. 453.
56) Sul tema v. per tutti PICONE, La teoria generale del diritto internazionale privato nella legge
italiana di riforma della materia, in Riv. dir. int., 1996, p. 289 ss., spec. 307 ss.
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57) Così VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato,
cit., p. 453.
58) Cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 493 ss., 560 ss. (con particolare riferimento a Cass., 3 maggio 1984, n. 2682, che ha escluso il contrasto con l’ordine pubblico internazionale di un accordo preventivo di divorzio concluso tra cittadini statunitensi residenti in
Italia). Sul tema dei prenuptial agreements in contemplation of divorce cfr., anche per i rinvii, OBERTO,
Contratto e famiglia, in AA. Vv., Trattato del contratto, a cura di V. Roppo, VI, Interferenze, a cura
di V. Roppo, Milano, 2006, p. 251 ss.; ID., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia,
2008 (in corso di pubblicazione).
59) Cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss.
60) VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato, cit., p. 453.
61) Su cui si fa rinvio, anche per gli ulteriori richiami, a OBERTO, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 608 s.
62) Nel senso che le condizioni di validità formale dell’accordo sulla legge applicabile sono
solo quelle di cui all’art. 30 cit. e che il rinvio all’ordinamento prescelto o a quello del luogo in
cui il patto è stato concluso, di cui all’art. 30 cpv. cit., si riferisce solo alle condizioni sostanziali di validità cfr. VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato,
cit., p. 455; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 171 ss.; BARGELLI e BUSNELLI, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 459.
63) Sostanzialmente nel medesimo senso v. CONETTI, op. cit., p. 1177 s.; SALERNO CARDILLO,
op. cit., p. 195; VILLANI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto internazionale privato,
cit., p. 456.
64) Così v. invece ANDRINI, L’autonomia negoziale dei coniugi nella riforma del diritto internazionale privato con particolare riguardo alla modifica delle convenzioni matrimoniali e dei patti conseguenti alla separazione consensuale, cit., p. 9 s.
65) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 174; BARGELLI e BUSNELLI, voce Convenzione
matrimoniale, cit., p. 459.
66) Sul tema cfr. per tutti OBERTO, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi
(non in crisi), cit., p. 617 ss.; ID., Contratto e famiglia, cit., p. 107 ss.
67) Cfr. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 308 ss., 310; sul
tema cfr. anche ID., Sulla modificabilità del regime patrimoniale dei coniugi, in Nuova giur. civ. comm.,
1998, II, p. 219 ss.
68) Sul tema, in generale, anche per gli ulteriori necessari rinvii, cfr. HONORATI, Verso una
competenza della Comunità Europea in materia di diritto di famiglia?, in BARIATTI (a cura di), La famiglia nel diritto internazionale privato comunitario, Milano, 2007, p. 3 ss.; TOMASI, La nozione di famiglia negli atti dell’Unione e della Comunità europea, ivi, p. 47 ss.; cfr. inoltre LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, Milano, 2006. Svariati contributi sul tema sono poi raccolti in BOELE-WOELKI (a cura di), Perspectives for the Unification and Harmonisation of
Family Law in Europe, Antwerp-Oxford-New York, 2003; tra questi si segnalano in particolare
PINTENS, Europeanisation of Family Law, p. 3 ss., 16 ss.; DETHLOFF, Arguments for the Unification
and Harmonisation of Family Law in Europe, p. 37 ss.; cfr. inoltre BOELE-WOELKI, The Road towards
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a European Family Law, loc. cit.; QUEIROLO, Separazione, annullamento, divorzio e responsabilità genitoriale: il regolamento CE 2201/2003, in AA. VV., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da
G. Ferrando, I, Matrimonio, separazione e divorzio, Bologna, 2007, p. 1107 ss.
69) Sul tema cfr. HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1055 ss.
70) Per una veloce panoramica sullo “stato dell’arte” circa la situazione della cooperazione
giudiziaria in materia civile si potrà visitare il sito della Rete Giudiziaria Europea in materia civile e commerciale, all’indirizzo web seguente: http://ec.europa.eu/civiljustice/index_it.htm. Lo
“spirito di Bruxelles”, cui si fa cenno nel testo, prese, come noto, l’avvio nel 1968 con la convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che è servita di base per il Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio,
del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Nella medesima ottica si è poi proceduto all’emanazione di regolamenti attinenti ad alcuni profili della disciplina processuale delle cause transfrontaliere in altre materie: dalla crisi coniugale alla responsabilità genitoriale, dall’insolvenza alla responsabilità extracontrattuale.
71) Dalla Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali aperta alla firma
a Roma il 19 giugno 1980.
72) Per una panoramica dei principi di diritto internazionale privato che regolamentano i
vari ordinamenti dei Paesi dell’U.E. cfr. il Document de travail des services de la commission. Annexe
au Livre Vert sur le règlement des conflits de lois en matière de régime matrimonial, traitant notamment de
la question de la compétence judiciaire et de la reconnaissance mutuelle, cit., p. 15 ss. Per uno studio
precedente v. anche SOCINI LEYENDECKER, Les rapports patrimoniaux dans la famille en droit international privé comparé, in UNION INTERNATIONALE DU NOTARIAT LATIN - COMMISSION DES
AFFAIRES EUROPEENNES, Régimes matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit international privé et
Droit comparé, sous la direction de M. Verwilghen, I, cit., p. 165 ss.
73) Regolamento (CE) n. 1347/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia
di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi. Sul tema v. per tutti BARUFFI, Osservazioni
sul regolamento Bruxelles II-bis, in BARIATTI (a cura di), La famiglia nel diritto internazionale privato
comunitario, cit., p. 175 ss.
74) Cfr. il Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo
alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in
materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000.
75) Cfr. la Proposta di Regolamento del Consiglio che modifica il regolamento (CE) n.
2201/2003 limitatamente alla competenza giurisdizionale e introduce norme sulla legge applicabile in materia matrimoniale (presentata dalla Commissione) {SEC(2006) 949}{SEC(2006)
950}, su cui v. per tutti POCAR, Osservazioni a margine della proposta di regolamento sulla giursidizione e la legge applicabile al divorzio, in BARIATTI (a cura di), La famiglia nel diritto internazionale
privato comunitario, cit., p. 276 ss.
76) Sulla necessità di comprendere nel concetto comunitario di obbligazione alimentare anche le prestazioni di mantenimento e gli assegni tra coniugi e tra genitori e figli cfr. per tutti
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OBERTO, Aspetti del contenzioso tra coniugi e conviventi nell’ambito dei Paesi membri dell’Unione Europea
(relazioni personali e patrimoniali, esclusi i rapporti con la prole), dal 12 ottobre 2007 disponibile al
seguente sito web: http://www.geocities.com/CollegePark/Classroom/6218/giornataeuropea2007/contenzioso_ue_sommario.htm, §§ 11 ss. Sulla proposta di regolamento cfr. per tutti
VIARENGO, Le obbligazioni alimentari nel diritto internazionale privato comunitario, in BARIATTI (a
cura di), La famiglia nel diritto internazionale privato comunitario, cit., p. 227 ss.
77) Sull’estraneità del regime patrimoniale al sistema dei regolamenti comunitari oggi vigenti, così come alla convenzione di Bruxelles del 1968 cfr. OBERTO, Aspetti del contenzioso tra
coniugi e conviventi nell’ambito dei Paesi membri dell’Unione Europea (relazioni personali e patrimoniali, esclusi i rapporti con la prole), loc. ult. cit. Da segnalare sul punto che la Corte di giustizia delle Comunità europee, nelle sue sentenze del 27 marzo 1979 (in causa 143/78, de Cavel c. de
Cavel, in Raccolta, 1979, p. 1055) e del 31 marzo 1982 (in causa 25/81 C.H.W. c. G.J.H., in
Raccolta, 1982, p. 1189), ha chiarito che la nozione di regime patrimoniale tra i coniugi di cui
all’art. 1 della Convenzione di Bruxelles (e, ora, del Regolamento n. 44/2001, là ove esso prevede che le relative disposizioni non trovano applicazione con riguardo, tra l’altro, agli argomenti seguenti: “lo stato e la capacità delle persone fisiche, il regime patrimoniale fra coniugi, i
testamenti e le successioni”) comprende non solo il regime dei beni specificamente ed esclusivamente contemplato da determinate legislazioni nazionali, ma anche tutti i rapporti patrimoniali che derivano direttamente dal vincolo coniugale o dallo scioglimento di esso. Tali rapporti - ad eccezione di quelli alimentari e comunque attinenti al profilo degli assegni relativi alla
crisi coniugale - rimangono pertanto al di fuori dell’ambito di operatività del regolamento n.
44/2001.
Come messo bene in evidenza da AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des
époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, cit., p. 75, la maggior parte dei sistemi europei si fonda sulla netta distinzione tra i profili attinenti al mantenimento, o comunque all’assegno, tra coniugi separati o divorziati e questioni attinenti alla titolarità dei beni in relazione al
regime patrimoniale, laddove tale antinomia appare assai meno netta nei sistemi di Common Law:
“Une distinction nette entre ces deux aspects est établie dans la plupart des pays. Les questions
relatives aux obligations alimentaires ont un caractère économique, mais elles ne concernent pas
les biens. Néanmoins, cette distinction n’est pas consacrée dans la tradition de la common law,
tout au moins en droit anglais, puisqu’il n’existe pas de régime matrimonial au sens traditionnel. Par conséquent, toutes les questions de caractère financier peuvent être évaluées simultanément dans le contexte d’un divorce. Sous un régime matrimonial qui ne peut guère avoir
pour fondement la liberté d’appréciation, le partage des biens sera essentiellement tributaire de
ce qui s’est produit antérieurement. D’autre part, l’obligation alimentaire est dans une large mesure fondée sur les événements futurs en ce qui concerne les besoins financiers d’une personne
et la capacité d’une autre personne de subvenir ultérieurement à ces besoins. Bien entendu, il
est exact que le partage des biens a pour effet d’influer sur le besoin d’un conjoint en aliments
après le divorce. Il existe également des motifs d’insérer une clause de “sauvegarde” sous un régime régissant les biens, et cela afin d’aménager le partage des biens dans des cas particuliers, si
les conséquences conformes aux dispositions de base risquent d’entraîner un résultat incompa-
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tible avec l’équité. Cependant, théoriquement, les questions relatives aux aliments doivent être
distinguées de la mise en place d’un régime matrimonial”.
78) Cfr. AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les
mariages internationaux ?, cit., p. 72.
79) Cfr. il libro verde Sul conflitto di leggi in materia di regime patrimoniale dei coniugi, compreso
il problema della competenza giurisdizionale e del riconoscimento reciproco (presentato dalla Commissione)
{SEC(2006) 952}; il testo è disponibile alla pagina web seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2006/com2006_0400it01.pdf. I contributi e le reazioni al libro verde inviati sono disponibili alla pagina web seguente: http://ec.europa.eu/justice_home/news/consulting_public/matrimonial_property/news_contributions_matrimonial_property_en.htm.
80) Il cui testo è disponibile al sito web seguente: http://www.hcch.net/index_en.php?act=conventions.text&cid=87, mentre commenti e lavori preparatori sono consultabili
alla pagina web seguente: http://www.hcch.net/index_en.php?act=conventions.publications&dtid=3&cid=87. Per un ulteriore commento cfr. DROZ, Les principaux traités multilatéraux
relatifs aux régimes matrimoniaux, successions et libéralités, in U NION I NTERNATIONALE DU
NOTARIAT LATIN - COMMISSION DES AFFAIRES EUROPEENNES, Régimes matrimoniaux. Successions
et libéralités. Droit international privé et Droit comparé, sous la direction de M. Verwilghen, I,
cit., p. 225 ss.
81) Mentre quella precedente, del 17 luglio 1905, sarebbe in vigore per Italia, Portogallo e
Romania: cfr. POCAR, TREVES, CLERICI, DE CESARI, TROMBETTA-PANIGADI, Codice delle convenzioni di diritto internazionale privato e processuale, Milano, 1999, p. 1847. Sul tema cfr. anche
DROZ, Les principaux traités multilatéraux relatifs aux régimes matrimoniaux, successions et libéralités,
cit., p. 218 ss.
82) E, in un futuro che si auspica non remoto, con un nuovo e più efficace apposito regolamento sulle obbligazioni alimentari, cui già si è fatto cenno.
83) Così Cfr. AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans
les mariages internationaux ?, cit., p. 73. Sulla necessità di introdurre in Europa regimi patrimoniali uniformi cfr. anche HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1057 ss.
Sull’idea di un regime matrimoniale convenzionale europeo v. inoltre AGELL, The Division of
Property upon Divorce from a European Perspective, in POUSSON-PETIT (a cura di), Liber Amicorum
Marie-Thérése Meulders-Klein, Droit comparé des personnes et de la famille, Bruxelles, 1998, p. 1 ss.;
STEENHOFF, Harmonisatie van huwelijksvermogensrecht binnen de EU: wat is voorlopig haalbaar ?, in
BOELE-WOELKI, BRANTS e STEENI-TOFF (a cura di), Het plezier van de rechtsvergelijking, Opstellen
over unificatie en harmonisatie van het recht in Europa aangeboden aan prof. mr. E.H. Hondius, Deventer,
2003, p. 87 ss.; VERBEKE, Perspectives for an International Marital Contract, in Maastricht Journal of
European and Comparative Law, 2001, p. 189 ss.
84) AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, cit., p. 77.
85) Non va del resto trascurato che il tema della protezione del logement de la famille costituisce oggetto d’attenzione anche da parte di organismi di carattere internazionale: cfr. la già
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rammentata raccomandazione n. R (81) 15 adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa il 16 ottobre 1981.
86) Per una valutazione critica di questa idea cfr. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 153 ss., 173 ss.; nello stesso senso v. anche BRAAT, op. cit., p. 415.
87) AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, cit., p. 79.
88) AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, cit., p. 79 ss.
89) Cfr. CONSORTIUM ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions
d’harmonisation, cit., p. 54 ss.
90) Cfr. quanto stabilito all’art. 12 che, dopo aver posto norme di conflitto in tema di forma di contratti di matrimonio, stabilisce che tali contratti debbono “toujours faire l’objet d’un
écrit daté et signé des deux époux”.
91) Cfr. CONSORTIUM ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions
d’harmonisation, cit., p. 183 ss. L’idea di un regime primario europeo, anche se a livello embrionale, era già stata espressa da CAPARROS e DAME-CASTELLI, Les rapports patrimoniaux dans la
famille en droit interne comparé, cit., I, p. 98: “La prise en considération des besoins impératifs de
la famille ne date pas de nos jours, comme le prouve la réglementation des charges du mariage.
Cependant, ces besoins impératifs de la famille ont donné lieu, depuis cinquante ans, à une réglementation plus complète, accordant de véritables droits à la famille et confiant à chaque
conjoint le droit-fonction de défendre ces droits en s’opposant, au besoin, aux actes de l’autre
conjoint, titulaire du droit individuel”.
92) Cfr. CONSORTIUM ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions
d’harmonisation, cit., p. 186 ss. Sulla stessa linea d’onda si pone HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1063 ss., 1069, il quale propone l’introduzione di regole uniformi
non solo di diritto internazionale privato, bensì anche materiale, mercé la predisposizione di un
modello uniforme per una comunione degli acquisti.
93) Cfr. CONSORTIUM ASSER - UCL, Analyse comparative des rapports nationaux et propositions
d’harmonisation, cit., p. 190 ss.
94) HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1063.
95) Si noti che lo stesso HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1069,
nel medesimo contributo citato - favorevolmente orientato alla predisposizione di un regime
europeo di compartecipazione differita agli acquisti, sebbene “mitigata” nel senso indicato nel
testo - sembra in conclusione esprimere una preferenza, quanto meno nell’immediato (non già
verso il sistema della compartecipazione differita agli acquisti, bensì) rispetto alla comunione immediata degli acquisti “perché si tratta del regime patrimoniale più frequente in Europa”. Il citato Autore (cfr. HENRICH, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, cit., p. 1064 ss.) rileva che,
se si intendesse uniformare i vari sistemi di comunione immediata, occorrerebbe cercare di ottenere un maggior grado di flessibilità nella gestione del patrimonio comune, riducendo i beni
destinati a farne parte, che potrebbero essere limitati, ad esempio, a quei soli acquisti che hanno visto un contributo effettivo di entrambi i coniugi. La proposta non può, però, non destare
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perplessità, atteso che, in tal modo, si verrebbe a snaturare la ratio stessa del regime legale, che
- come l’esperienza storica, da un lato, e la realtà attuale, dall’altro, dimostrano - è diretta alla
“spartizione” in via forfettaria delle ricchezze accumulate dalla famiglia post nuptias, a prescindere dal contributo dall’uno o dall’altro prestato al ménage familiare, senza dire del fatto che la
prospettiva della possibile apertura di un contenzioso sull’an e sul quantum del contributo effettivamente prestato rischierebbe di far perdere agli occhi delle nuove coppie gran parte dell’appeal dell’instituendo regime. Sempre il predetto Autore propone, per i proventi dell’attività separata e per i frutti dei beni personali, l’adozione della soluzione italiana della comunione de residuo, la quale peraltro, come già detto, ha fornito nella pratica pessima prova di sé, per gli abusi cui può dar luogo la libera disponibilità dei beni sino allo scioglimento.
96) Cfr. BRAAT, op. cit., p. 415 s.
97) Almeno parzialmente diversa è la proposta di AGELL, 6. Vers l’uniformisation des droits patrimoniaux des époux, en particulier dans les mariages internationaux ?, cit., p. 83 s., il quale suggerisce di introdurre il nuovo regime mercé una convenzione internazionale, che dovrebbe elevare tale sistema al rango di sistema legale delle coppie il cui matrimonio dovesse presentare determinati elementi di internazionalità.
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L’istituto della mediazione in Italia
Brevi cenni sulla sua applicazione
in molti paesi europei ed extraeuropei
Decreto Legislativo n. 28 del 4/03/2010
e fonti normative collegate
INTRODUZIONE
Si premette che nella esposizione di tale articolo non si vuole avere la
pretesa di spiegare nei dettagli la mediazione o di esaurire tutto ciò che si
dovrebbe sapere sulla mediazione prima di schierarsi a favore o meno della stessa da parte di tutti gli operatori del diritto e della Giustizia, ma solo una breve sintesi su come essa è strutturata e a cosa serve realmente e
gli strumenti esistenti oggi per realizzarne la sua reale efficacia senza necessariamente svilire il diritto o la professionalità degli Avvocati, in modo
che chi può vederne una risorsa può dare un ulteriore contributo a migliorarla, servendosi, perché no, anche della critica, ma non in modo superficiale o opportunistica ma in modo competente e leale, finalizzata a
migliorare, principalmente, la risoluzione delle controversie dei propri
clienti e non invece a pensare come fare per lucrare dai propri clienti quanto più possibile, senza, spesso, alcuna utilità per gli stessi nell’aver agito
giudizialmente.
Il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010, è il primo strumento legislativo in Italia che intende determinare la materia della mediazione civile tout court e non per singoli settori. Dopo anni di studi sulla mediazione e di investimenti operati da coloro che vi hanno sempre creduto, non
certamente per creare solo altro mercato senza alcun serio obbiettivo. Tale
fiducia è derivata dalle esperienze dei paesi europei ed americani. Infatti,
in tali paesi, la mediazione ha avuto grande sviluppo ed ha inciso notevolmente anche sul risparmio di economia sia pubblica che privata. Invero,
è stata capace di risolvere i conflitti tra imprese o tra imprese e utenti o
tra gli stessi privati, senza i costi e i tempi che richiede qualsiasi processo
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giudiziale con risultati di soddisfazione per le parti, non paragonabili ai risultati che si sarebbero ricevuti da una regolare sentenza a conclusione di
un processo giudiziale. Inoltre, a differenza di ciò che accade nelle liti giudiziarie, mai una parte risulterà sconfitta e una vincitrice, tale da comportare un inevitabile proseguimento della sfida nella vita tra le persone
coinvolte anziché una risoluzione che permetta in seguito anche una pacifica convivenza. Infatti, caratteristica della mediazione è che entrambi le
parti in lite sapranno essere capaci di far risorgere dalle ceneri di una controversia una risoluzione che soddisfi i loro interessi economici o di altro
e allo stesso modo recuperano il rapporto con il soggetto in lite, riaprendosi per entrambi scenari utili per i loro interessi senza più ledersi e recuperando soprattutto la stima reciproca a volte lesa solo da equivoci o disattenzione nei rapporti reciproci.
E’ notorio che nell’attività commerciale internazione i paesi della
Comunità Europea o i paesi extracomunitari intrecciano rapporti commerciali solo con quei paesi ove esiste e funziona la mediazione preventiva nel caso di insorgenza di conflitti, perché con la mediazione
spesso risparmiano in costi, tempo e perdite soprattutto della loro clientela.
Per questo motivo molte Imprese estere non hanno voluto intrecciare rapporti con l’Italia o imprese italiane perché non era ancora presente
l’istituto della mediazione prima al livello culturale e poi al livello giuridico sino all’introduzione recente della esaminanda normativa.
E’ stato studiato, nel corso degli anni e dalle statistiche, che i risultati
di una conciliazione sono sempre determinati dalla capacità del mediatore. Questi, quindi, deve essere preparato a dialogare tra le parti in modo
corretto serio e leale, secondo caratteristiche ben precise che vengono insegnate negli appositi corsi di formazione; di conseguenza, devono essere
sempre imparziali nel condurre il dialogo per la mediazione ed evitare ogni
occasione che possa mettere in pericolo il dialogo stesso e ovviamente, deve essere riservato sulle questioni che viene a conoscenza durante i colloqui segreti con ciascuna parte, al fine che l’altra parte non si possa approfittare delle situazioni di difficoltà o di debolezza dell’altro o che per sua
dignità non voglia farle conoscere all’altra parte..
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In sintesi, il mediatore esperto ha l’arduo compito di far dialogare le
parti e di farle ragionare sui loro singoli interessi sottostanti alla lite o della lite stessa senza che debbano approfittare di qualunque debolezza dell’altra parte che a sua volta cercherà di ottenere il suo obbiettivo principale
attraverso la mediazione stessa. Il mediatore, quindi, favorisce il dialogo di
ciascuno ed il relativo punto di vista di ciascuno anche personale e sta attento nella conduzione che questo confronto sia sorretto da una serena e
completa valutazione a cui ciascuna parte è chiamata a fare nell’interesse
delle stesse per poi far pervenire le parti stesse ad una soluzione; inoltre si
deve attivare in modo che nella valutazione degli obbiettivi che intendano raggiungere siano responsabilizzati a manifestare in modo completo,
reale e logico il loro punto di vista, procedendo di solito con la formulazione di domande alle quali i litiganti siano costretti a rispondere in modo logico e comprensibile, quindi, utili alla risoluzione.
Per fare questo, il mediatore ha bisogno di approfondire determinate
tecniche che risultano molto efficaci per far dialogare le parti in modo costruttivo ed utile per raggiungere un accordo che li soddisfi in pieno.
Pertanto, la recente normativa è nata sotto la spinta della cultura della mediazione seria e studiata da anni dagli studiosi ma anche sostenuta e
spinta dalla politica che si è interessata al problema sol perché ha visto una
possibilità per ridurre i contenziosi e i costi connessi che gravano sulla spesa pubblica, nonché sostenuta dai magistrati che vogliono a tutti i costi ridurre il loro lavoro più che per rendere vera giustizia alle parti in lite o
soddisfare le ragioni delle parti in modo serio ed equilibrato.
Ovviamente, tutti questi interessi hanno creato una normativa non
proprio orientata alla sola diffusione della cultura della mediazione in modo semplice e naturale ma spesso forzandola in alcuni aspetti come il fatto di renderla obbligatoria prima di iniziare una controversia civile e a volte offrendo il fianco a speculazioni di mercato soprattutto per la creazione di scuole di formazione che tutto fanno fuorché preparare con serietà
i conciliatori, Vedremo, in futuro se la disciplina emanata sarà capace di
evitare questi guai che ne compromettono la fiducia da parte di chi, senza alcun pregiudizio di sorta, vorrebbe approcciarsi ad un nuovo metodo
e ad una opportunità utile per i propri clienti.
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In sintesi la mediazione ha come scopo principale quello di costituire
uno degli strumenti, di risoluzione delle controversie, complementare ma
non sostitutivo al processo che è sempre garantito per i cittadini in via assoluta; la mediazione come disciplinata non è altro che una opportunità
studiata in modo qualificato, per coloro che investiti di una controversia sia
come parti che come avvocati possono utilizzare prima di iniziare un processo onde evitare lungaggini inutili processuali, costi elevati di giustizia,
prospettive di risoluzione non legate alle mere questioni di diritto o di principi sterili ma risolubili dal punto di vista dei veri interessi sottesi ai processi giudiziari che ciascuna parte potrebbe realizzare con un accordo di tipo contrattuale la cui negoziazione è solo aiutata e facilitata da un terzo
esperto non tanto in materia giuridica processuale o tecnico commerciale
ma solo del modo con cui far aprire le parti al dialogo nel loro esclusivo
interesse e con un certo grado di cultura per comprendere intercettare gli
interessi di ciascuno e favorirne la loro soddisfazione possibilmente senza
necessariamente trovare un compromesso tra interessi identici ma aprire
magari orizzonti più ampi di risoluzione individuando interessi diversificati e quindi completamente satisfattivi a prescindere dalla lite insorta. La creatività degli esperti mediatori facilità l’incontro tra le parti.
La mediazione non è un processo anticipato ma semplicemente un incontro per una possibile trattativa non solo sulle questioni insorte tra le
parti ma su possibili incroci di interessi che le potrebbero soddisfare attraverso un accordo che essi stessi decideranno di preferire rispetto ad un
contenzioso incerto e spesso insoddisfacente dal punto di vista pratico, ovvero economico o di soddisfazione morale.
Tale possibilità non può precludere mai la via giudiziaria la quale è garantita dall’art. 24 della Costituzione, né può costituire un escamotage per
i furbi per ritardare l’azione giudiziaria contro di essi, poiché la normativa comunitaria ha imposto un limite massimo per la trattativa in mediazione non superiore ai 4 mesi.
Nonostante le perplessità dei cultori giuridici ma forse con spiccate
qualità solo teoriche, che hanno posto in dubbio la legittimità del decreto sotto alcuni aspetti come quello della presunta violazione del diritto
della parte di accedere immediatamente alla giustizia ordinaria senza do-
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ver necessariamente passare prima attraverso la procedura di mediazione
nei casi in cui questa sia imposta come obbligatoria dalla legge, la
Giurisprudenza comunitaria e nazionale già si espressa in senso negativo
a tale obiezione di principio motivando seriamente la sterilità della critica mossa1.
Hanno avuto modo di spiegare che il tentativo di conciliazione contenuto in un periodo massimo di 4 mesi non impedisce né l’accesso alla
giustizia né costituisce un significativo ritardo; peraltro i costi moderati
della mediazione non costituisce un ostacolo all’accesso alla giustizia ordinaria, anzi il legislatore ha previsto anche per tale procedura il gratuito
patrocinio come nei processi della giurisdizione ordinaria.
Anche in ordine alle altre critiche di diritto mosse alla procedura di
mediazione in ordine anche a violazioni ipotizzabili solo in astratto, si è
precisato più volte da parte degli esperti, che nella cultura della mediazione l’obbiettivo principale della stessa è la volontarietà delle parti a concludere un accordo in modo soddisfacente per i loro obbiettivi siano essi solo interessi o siano anche posizioni di diritto o principi irrinunciabili, quindi una volta che la mediazione si svolge per finalizzare tali obbiettivi ogni
questione di diritto o procedurale non ha più rilevanza evitando inutili questioni giuridiche innanzi ai Tribunali che favorirebbero solo la lungaggine
dei processi e un arricchimento di tutti meno che delle parti in lite.
Premesso che la mediazione può sempre operarsi in qualunque tempo, prima durante e dopo il processo, in quanto non è altro che una procedura informale per addivenire ad una soluzione concordata tra le parti,
né più né meno come è reso possibile da sempre dal nostro sistema giuridico, cioè della possibilità per le parti di accordarsi sempre anche in modo diverso da quanto disposto dalle decisioni dell’Autorità Giudiziaria sempre che essi lo vogliono e limitatamente ai loro diritti disponibili. L’unica
novità introdotta con la mediazione e che essi possono farsi assistere nella contrattazione da un terzo neutrale ai loro interessi capace di evidenziare ai litiganti ciò che ad essi potrebbe far comodo ma che non hanno
intercettato, soprattutto perché tesi a prevalere l’uno sull’altro e non invece a vedere cosa sia meglio per ciascuno di essi. Inoltre, con l’introduzione della mediazione il legislatore per meglio farla conoscere e applicare ha
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previsto alcuni indiscutibili vantaggi quali ad esempio i costi vantaggiosi
rispetto ai processi o agli arbitrati; Agevolazioni fiscali; Facilità nel poter
far eseguire gli obblighi assunti dalle parti senza necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria, come sarebbe stato necessario in caso di contrattazione
ordinaria, per la quale sarebbe necessario in caso di mancata esecuzione
rivolgersi al Giudice prima per accertare la validità giuridica e formale della stessa e poi per procedere in via esecutiva..
Ad esempio il verbale di conciliazione opportunamente omologato dal
Tribunale dopo una verifica solo formale del rispetto di esso alle norme
imperative e di ordine pubblico, costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di
ipoteca giudiziale;
Inoltre la semplice domanda di mediazione-conciliazione comunicata
alla controparte interrompe i termini di prescrizione e decadenza per l’esercizio in via giudiziaria dei propri diritti e addirittura può essere trascritta
ai fini dell’interruzione del tempo per l’usucapione.
Anche in campo commerciale è utile per evitare a volte costosi esborsi di denaro per trasferimento di beni in quanto con il verbale di conciliazione ciò avviene con tutte le agevolazioni fiscali per cui vi è una esenzione per la tassa di registrazione fino ad un limite di valore di Euro
51.546,00, cioè significa che il valore oggetto della mediazione se è inferiore a tele importo è esente da imposta. Considerato che il valore è calcolato sulla rendita catastale il beneficio si può applicare a numerose transazioni di mercato anche immobiliare di valore commerciale consistente
anche a parecchi miliardi.
Le materie per le quali è previsto il tentativo obbligatorio di mediazione prima di iniziare la controversia giudiziaria sono: condominio; diritti reali; divisione; successioni ereditarie; patti di famiglia; locazione; comodato; affitto di aziende; risarcimento
dei danni derivante da responsabilità medica; risarcimento del
danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o
con altro mezzo di pubblicità, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, contratti assicurativi, contratti bancari e finanziari.
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Inoltre il legislatore si è preoccupato di non estendere la disciplina del
tentativo obbligatorio di mediazione in alcune procedure per sua natura
urgenti o cautelari che non possono subire ritardi di alcun genere, neanche di un giorno, perché potrebbero di fatto vanificare l’interesse di chi
abbia a soddisfare una sua legittima pretesa come ad esempio: nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di
cui all’art. 667 del codice di procedura civile; nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703, terzo comma,
del codice di procedura civile; nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; nei procedimenti in
camera di consiglio; nell’azione civile esercitata nel processo penale.
Un ultima precisazione da fare è che tale mediazione non esclude o
impedisce quelle che già erano previste da normative specifiche già esistenti come in tema di telecomunicazioni, in materia bancaria e finanziaria anche se in alcuni casi il mediatore non era terzo rispetto alle parti come nella mediazione paritetica presso le Banche ove il mediatore era designato dalla Banca stessa.
Né la mediazione di cui al Decreto Legislativo 28/03/2010 impedisce il tentativo obbligatorio in materia agraria, ma si aggiunge a questo in
modo facoltativo.
Alla luce di queste sintetiche ma non esaustive considerazioni la normativa entrata in vigore, in pratica, è una normativa che, riprendendo molte intuizioni già precedentemente espresse nel decreto legislativo del 17
gennaio 2003, n. 5 e nei successivi collegati decreti ministeriali n. 222/223
del 2004, si candida a divenire la normativa di riferimento nel campo della mediazione civile e commerciale, insieme al decreto ministeriale di attuazione DM. n. 180 del 18/10/2010 entrato in vigore il 4/11/2010.
ISTITUTO DELLA MEDIAZIONE
Dopo questo breve cenno storico e critico cerchiamo di far comprendere ai lettori soprattutto ai colleghi Avvocati che se recepiamo be-
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ne l’istituto, la normativa non ci mette assolutamente paura e non toglierà lavoro ma anzi lo arricchirà di ulteriori possibilità per accontentare i nostri clienti che, in quest’epoca, vedono nel loro difensore solo
colui che pensa a soddisfare le sue tasche ma non a risolvere concretamente i loro problemi, anzi questi, si aggravano con le parcelle, poi e
comunque da pagare.
1) COSA E’ LA MEDIAZIONE?
Molti non sanno ancora cosa realmente sia e se esiste una definizione
tecnica e normativa della cosiddetta Mediazione di cui dovremo comunque occuparci.
Preliminarmente, il decreto definisce la mediazione come quell’attività, avente una durata non superiore a quattro mesi, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più
soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una
proposta per la risoluzione della stessa. Il mediatore è definito di
conseguenza come la persona o le persone fisiche che, individualmente
o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni
caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti. Invece la
conciliazione è la conclusione positiva della mediazione ovvero il raggiungimento dell’accordo che viene sacramentato con un apposito verbale definito VERBALE DI CONCILIAZIONE. Se la conciliazione non
riesce il Verbale è redatto lo stesso ma verrà chiamato: VERBALE NEGATIVO DI CONCILIAZIONE. In pratica la Conciliazione è definita
dal legislatore in modo esplicito, (risolvendo in modo definitivo e senza appello, l’eterna discussione, in Italia, sull’utilizzo dei due termini conciliazione e mediazione), come la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione. che non
è altro che: l’attività esercitata dal mediatore, mentre con il termine conciliazione si deve intendere, esclusivamente, il risultato finale positivo (sinonimo quindi di accordo) dell’attività di
mediazione.
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2) DEFINIZIONE TERMINOLOGICA TRA MEDIATORE e/o
CONCILIATORE
Il primo problema di ordine terminologico è il seguente: si dovrà
parlare (solo) di “MEDIATORE” o anche ancora di “CONCILIATORE”?
La differenza non è solo accademica o di scuola ma i problemi di determinazione terminologica nascondono vere e proprie impostazioni concettuali e di modelli di approccio di ricerche e studi del tutto differenti.
Già nelle definizioni, si deve sottolineare, come si è voluto dare un
“valore” aggiuntivo alla mediazione, nel senso che il decreto determina
come attività propria della mediazione, non solo quella di facilitare l’incontro delle parti (conciliazione c.d. facilitativa), ma anche quella di determinare una proposta, ad opera del mediatore, che potrà liberamente essere fatta propria dalle parti (conciliazione c.d. valutativa). Tale modello di
mediazione è sicuramente un modello non “puro”, in quanto al mediatore vengono affidate delle funzioni (quelle di articolare una proposta non
vincolante, ma anche altre, ad esempio la facoltà di nominare un perito)
che potrebbero anche avere una certa rilevanza, come vedremo dopo, in
caso di mancata conciliazione e quindi in caso (malaugurato!) di prosecuzione dell’iter giudiziale.
3) CARATTERI DELLA MEDIAZIONE INTRODOTTA CON IL
DECRETO VIGENTE
Il Ministero della Giustizia ha avuto modo di precisare i caratteri della conciliazione societaria introdotta con la riforma del
diritto societario nonostante l’abrogazione precoce di questa, ed
oggi ripetuti per la mediazione civile. Essi si possono così sintetizzare:
- l’imparzialità: il conciliatore deve essere un terzo imparziale e indipendente rispetto alle parti. Se esistono ragioni anche remote e indirette di conflitto di interessi, il conciliatore deve astenersi dall’assumere
l’incarico ed è responsabile del mancato assolvimento del dovere di
imparzialità;
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l’equità: l’accordo conciliativo dovrà sempre tendere a contemperare
gli interessi di entrambe le parti, senza disparità e assicurando un reciproco grado di soddisfazione;
la salvezza: se le parti non raggiungono l’accordo, mantengono intatti le loro pretese e il diritto di promuovere l’azione in giudizio o
dare avvio a un procedimento arbitrale: tuttavia, la mancata comparizione di una delle parti e le posizioni da esse assunte dinanzi al conciliatore sono liberamente valutate dal giudice nell’eventuale successivo giudizio ai fini della decisione sulle spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., potendo il giudice decidere sulle spese in termini diversi dal criterio della soccombenza, escludendo la ripetizione
delle spese da parte della parte vittoriosa o addirittura condannandola a rimborsare le spese al soccombente;
l’autonomia: le parti possono condurre la trattativa nei modi che ritengono più opportuni e decidere il grado di incidenza dell’attività del
conciliatore sulla formazione dell’accordo. Possono determinare liberamente il contenuto dell’accordo, secondo quella che ritengono essere la maggiore rispondenza ai loro interessi;
la rapidità: la singola sessione di mediazione non ha tempi minimi di
durata. L’accordo può essere raggiunto anche al primo incontro e l’intero procedimento non può durare più di quattro mesi;
l’economicità: le parti saranno tenute a corrispondere soltanto l’onorario del conciliatore, che è fisso e predeterminato in ragione del valore della controversia, nonché le spese (anch’esse fisse) di segreteria (al
riguardo si veda il decreto ministeriale del 23 luglio 2004, n. 223);
la riservatezza: il conciliatore ha l’obbligo di non rivelare alcuna informazione relativa all’incarico ricevuto, sia con riguardo alle parti, sia
con riguardo allo svolgimento della procedura conciliativa, sia con riguardo ai contenuti dell’eventuale accordo. Analogo vincolo ricade
sulle parti, atteso che le dichiarazioni rese dalle parti nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio promosso a seguito dell’insuccesso del tentativo di conciliazione, né possono essere
oggetto di prova testimoniale;
la responsabilità: il conciliatore abilitato deve essere assicurato dall’or-
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ganismo di conciliazione di cui fa parte con una polizza conformata a
uno standard assicurativo che fornisce sufficiente garanzia agli utenti in
ordine ad eventuali pretese derivanti dallo svolgimento del servizio.
4) CHI E’ IL CONCILIATORE PROFESSIONISTA E COME SI DIVENTA
Secondo la normativa vigente, per svolgere l’attività di mediazione occorre essere o diventare un conciliatore professionista. Questi, ricevuta l’abilitazione non potrà esercitare la funzione a lui demandata se non è iscritto
presso un apposito Organismo di Conciliazione che sono presenti già sul
territorio nazionale o che si formeranno secondo la disciplina emanata con
apposito decreto di attuazione del Decreto legislativo n. 28 del 4/3/2010,
(esattamente il D.M. n. 180 del 18/10/2010 pubblicato sulla G.U. n. 258
del 4/11/2010) il cui elenco o più tecnicamente registro degli organismi
di conciliazione è controllato e tenuto dal Ministero della Giustizia (Cfr sito www. ministero della giustizia organismi di conciliazione).
Il registro è tenuto presso il Ministero nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già esistenti presso il Dipartimento per gli affari di giustizia; ne è responsabile il direttore generale della giustizia civile, ovvero persona da lui delegata con qualifica dirigenziale nell’ambito
della direzione generale. Ai fini della vigilanza sulla sezione del registro
per la trattazione degli affari in materia di rapporti di consumo di cui al
comma 3, art. 3 decreto citato parte i), sezione C e parte ii), sezione C,
il responsabile esercita i poteri di cui al presente decreto sentito il Ministero
dello sviluppo economico.
Il registro è diviso in due macro aree, una per gli enti pubblici, l’altra
per quelli privati. Nel registro sono iscritti, a domanda, gli organismi di
conciliazione costituiti da enti pubblici e privati o che costituiscono autonomi soggetti di diritto pubblico o di diritto privato.
Rimane escluso che l’organismo di conciliazione possa essere una persona fisica.
Gli organismi per essere iscritti devono indicare e/o possedere i seguenti requisiti: dettati dall’Art. 4 comma 2 del D.M. cit.
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5) REQUISITI DEGLI ORGANISMI DI MEDIAZIONE
a) La capacità finanziaria e organizzativa del richiedente, nonché la compatibilità dell’attività di mediazione con l’oggetto sociale o lo scopo
associativo; ai fini della dimostrazione della capacità finanziaria, il richiedente deve possedere un capitale non inferiore a quello la cui sottoscrizione è necessaria alla costituzione di una società a responsabilità limitata; ai fini della dimostrazione della capacità organizzativa, il
richiedente deve attestare di poter svolgere l’attività di mediazione in
almeno due regioni italiane o in almeno due province della medesima regione, anche attraverso gli accordi di cui all’articolo 7, comma
2, lettera c) del D.M. cit.;
b) il possesso da parte del richiedente di una polizza assicurativa di importo non inferiore a 500.000,00 euro per la responsabilità a qualunque titolo derivante dallo svolgimento dell’attività di mediazione;
c) i requisiti di onorabilità dei soci, associati, amministratori o rappresentanti dei predetti enti, conformi a quelli fissati dall’articolo 13 del
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58;
d) la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso
il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui
eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale;
e) le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione, nonché la conformità del regolamento alla legge e al presente decreto, anche per quanto attiene al rapporto giuridico con i mediatori;
f) il numero dei mediatori, non inferiore a cinque, che hanno dichiarato la disponibilità a svolgere le funzioni di mediazione per il richiedente;
g) la sede dell’organismo.
Mentre gli organismi costituiti, anche in forma associata, dalle CCIAA
e dai consigli degli ordini professionali sono iscritti su semplice domanda, all’esito della verifica della sussistenza del solo requisito costituito dal
possesso da parte del richiedente di una polizza assicurativa di importo
non inferiore a 500.000,00 euro per la responsabilità a qualunque tito-
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lo derivante dallo svolgimento dell’attività di mediazione (art. 4 comma
2 lett.b). Nei casi di cui sopra se, dopo l’iscrizione, sopravvengono o risultano nuovi fatti che l’avrebbero impedita, ovvero in caso di violazione degli obblighi di comunicazione di cui agli articoli 8 e 20 o di reiterata violazione degli obblighi del mediatore, il responsabile dispone la
sospensione e, nei casi più gravi, la cancellazione dal registro (Cfr Art.
4 e art. 10 D.M. cit).
Per gli organismi costituiti da consigli degli ordini professionali diversi dai consigli degli ordini degli avvocati, l’iscrizione è sempre subordinata alla verifica del rilascio dell’autorizzazione da parte del responsabile, ai
sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 28/2010.
6) REQUISITI DEI MEDIATORI
I mediatori invece devono essere in possesso dei seguenti requisiti di
qualificazione:
a) titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, devono essere iscritti a un ordine o collegio professionale;
b) il possesso di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione in base all’articolo 18 decreto cit.;
c) il possesso, da parte dei mediatori, dei seguenti requisiti di onorabilità:
1. non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a
pena detentiva non sospesa;
2. non essere incorso nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici;
3. non essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza;
4. non avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento;
5. la documentazione idonea a comprovare le conoscenze linguistiche necessarie, per i mediatori che intendono iscriversi negli elenchi di cui all’articolo 3, comma 3, parte i, sezione B e parte ii), sezione B, D.M. cit.
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Il possesso dei requisiti di cui ll’art. 4 commi 2 e 3, eccetto che per quello di cui al comma 2, lettera b), può essere attestato dall’interessato mediante
autocertificazione. Il possesso del requisito di cui al comma 2, lettera b), è
attestato mediante la produzione di copia della polizza assicurativa.
7) CONOSCENZA E ABILITA’ DEL CONCILIATORE PROFESSIONISTA
Da uno studio dell’Avv. Marinelli, con esperienza multinazionale in
campo della mediazione ho ricavato in modo sintetico ma esaustivo tutte
le caratteristiche del buon MEDIATORE O CONCILIATORE che possono leggersi di seguito per avere una chiara e non deformante idea di un
vero conciliatore.
Nel nostro ordinamento giuridico, la figura del mediatore/conciliatore non risulta completamente determinata, se non rispetto a specifiche
norme. Possiamo quindi definire il ruolo del mediatore prendendo in esame soprattutto la riforma del diritto societario, la normativa inizialmente
richiamata del 2010 e l’evoluzione del ruolo nell’Ente che può essere preso a riferimento in Italia per capillarità geografica, storia e attività: la Camera
di Commercio.
Al conciliatore delle Camere di Commercio è richiesta, come si è dettagliatamente analizzato, una formazione di base che comprende varie materie, da quelle prettamente pratiche, relative all’utilizzo delle tecniche di
mediazione, a quelle più generali e teoriche.
Lo studioso Giovanni Cosi, ritiene che il mediatore risulta essere un
professionista (poiché acquisisce un saper-fare tecnico specializzato grazie
alla preparazione personale ed all’esperienza) che sceglie professionalmente di violare il dogma del cosiddetto XI comandamento: “non occuparti
dei fatti altrui”. Non ha certo l’autorità di un arbitro o di un giudice, ma
ha l’autorevolezza acquisita dalla sua posizione. Il mediatore, nel momento in cui assume la una funzione, rispetto ai terzi in conflitto, riveste una
posizione particolare.
Gli studiosi interessati alla struttura dell’autorità, si sono chiesti da dove derivi il potere o l’autorità di porsi di fronte ai terzi come mediatore.
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Il potere del mediatore deriva senz’altro da un accordo delle parti stesse,
ma anche dalle capacità della persona, qualche volta dalla tradizione (come accade nelle culture orientali) e qualche volta da un’autorità più elevata (come la funzione di mediatore del giudice di pace).
Vi è poi un’altra fonte di potere: il trovarsi in un determinato momento
in un determinato luogo fisico: “… i passanti, che di fronte ad un ingorgo
inestricabile entrano in mezzo all’incrocio e si mettono a dirigere il traffico, si vedono attribuito il potere di selezionare quali macchine sia opportuno fare passare per prime in modo da migliorare l’efficienza della situazione; la loro autorità è solo quella di un suggerimento, e tuttavia viene accettata nella circostanza” (Schelling).
Il mediatore deve essere:
- realista, per poter osservare le cose come sono, e poterle così farle comprendere alle parti, in modo da intravedere immediatamente standard
oggettivi applicabili alla controversia, essere cioè “agente di realtà”;
- flessibile e fermo, per essere elastico con le persone e rigido nel far rispettare la procedura;
- ottimista, perché deve essere il primo ad essere convinto che ci sia una
soluzione ottimale per risolvere il conflitto delle parti, pur rimanendo convinto che il mancato accordo in una conciliazione non significa il fallimento del mediatore come professionista (la prestazione rimane di mezzi e non di risultato, anche se la normativa del 2010 prevede un possibile bonus per il mediatore civile che riesca a raggiungere un accordo tra le parti…);
- senza pregiudizi, in quanto dalla sua apertura mentale spesso dipende
la soluzione creativa ed innovativa (anche se poi la stessa deve essere
generata in collaborazione con le parti);
- acuto nelle percezioni, per saper individuare gli interessi e i bisogni delle parti, per far affiorare le pressioni dei terzi referenti, per prevedere
situazioni che in futuro potrebbero effettivamente crearsi (es. nuovi
rapporti commerciali tra le parti);
- comunicativo, per poter ascoltare e capire i reali interessi nel conflitto,
dotato del c.d. occhio prensile, attento ai dettagli e capace di ristabilire un canale comunicativo tra le parti.
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Il mediatore deve essere terzo imparziale, ma anche empaticamente interessato alla vicenda, deve tendere alla conoscenza delle parti e del conflitto, senza prediligerne nessuna (piuttosto che equidistante, dovrebbe essere “equivicino”).
Il mediatore non deve essere necessariamente uno specialista della materia oggetto del conflitto, anche perché, in casi specifici, si potrà far sempre aiutare dalla collaborazione di un tecnico chiamato per risolvere determinate questioni rilevanti (anzi, con la nuova normativa del 2010 né
ha la piena facoltà). Secondo alcuni è indispensabile che il mediatore abbia invece un buon livello di competenza tecnica, perché così può sapere
come mediare, ma anche cosa mediare. Per altri il mediatore non può essere uno specialista, ma più in generale può sempre accompagnarsi ad un
terzo tecnico, pena il rischio di trovarsi di fronte ad un “tuttologo” (o una
sorta di perito dei periti). Risulta certo che una buona competenza specifica e una competenza di base di tipo psicologico e comunicativo non
potranno che aiutare il mediatore, anche facendogli acquisire quella autorevolezza indispensabile per dominare il procedimento conciliativo. Questo
punto può comunque trovare una prima soluzione con l’utilizzo di Collegi
di Mediatori (tutti portatori di diverse professionalità).
Al mediatore vene richiesto di saper domandare, deve cioè, senza timore, chiedere ed interrogare le parti, rispetto a tutto quello che non risulta sufficientemente chiaro, formulando il tutto in maniera chiara e coerente, nel modo meno emotivo possibile. Con le domande si manifesta interesse verso l’oggetto del conflitto e verso la parte, si può facilitare una
riflessione ed accelerare la conclusione del procedimento di mediazione.
Ma soprattutto al mediatore è richiesto di saper ascoltare le parole e la cadenza delle parole, ma anche i silenzi e le eventuali reticenze. Risulta anche importante saper comprendere i gesti, gli sguardi, tutti i comportamenti del corpo. E sapere interpretare tali movimenti.
Il mediatore, inoltre, dovrebbe avere una conoscenza di base di sei
scienze complementari, e cioè, in ordine sparso: la comunicazione, la psicologia, la sociologia, l’economia, il diritto e l’etica.
Per quanto riguarda la capacità comunicativa, il mediatore dovrà utilizzarla:
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-
per aprire canali comunicazionali tra le parti;
per far sviluppare uno scambio di idee ed una discussione ordinata e
tendente allo scopo di una ricerca di un accordo pro futuro;
- per ascoltare le parti e cercare di capire quali siano gli interessi nascosti che si celano dietro ogni presa di posizione;
- per riassumere i risultati della discussione, parafrasando le frasi delle
parti;
- per far notare i miglioramenti raggiunti e smorzare eventuali toni aggressivi;
- per far presente la propria opinione senza imporla, ma presentandola
come un consiglio qualora venga richiesto da entrambe le parti.
Per quanto riguarda la deontologia del mediatore professionista, oltre a
far riferimento agli standard camerali, possiamo prendere in esame gli standard di condotta definiti congiuntamente dalla American Bar Association
(A.B.A.), dalla Society of Professional in Dispute Resolution (S.P.I.D.R.)
e dalla American Arbitration Association (A.A.A.).
Autodeterminazione: il mediatore deve riconoscere che la mediazione
è basata sul principio di autodeterminazione delle parti. Le parti mantengono una libertà sia iniziale, nell’accettare di intervenire in conciliazione,
sia durante l’iter conciliativo, perché possono sempre abbandonare la sede
di conciliazione, sia alla fine, perché possono sempre decidere di non firmare la bozza di accordo che si è delineata. Il mediatore invece ha una sua
autorevolezza rispetto alle regole del procedimento, che deve fare rispettare, pena la impossibilità di arrivare ad una soluzione della controversia.
Imparzialità: il mediatore deve condurre la mediazione in maniera
imparziale. Il mediatore assume infatti una funzione importante, anche se
non è investito della capacità di decidere della questione. Qualora si dovesse accorgere di non poter sostenere l’iter conciliativo in maniera imparziale dovrebbe abbandonare la conciliazione, comunicandolo alle parti. Il mediatore dovrebbe comunque evitare qualsiasi atteggiamento che
possa ingenerare dubbi sulla sua imparzialità, anche non fondati (per esempio è buona norma dare alle parti gli stessi tempi e la stessa attenzione, anche solo per la premura di non apparire neutrali). Il mediatore deve quindi anche sembrare (=dimostrarsi) imparziale (oltre che esserlo).
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Conflitto d’interessi: il mediatore deve ragionevolmente cercare di evitare ogni conflitto d’interessi, presente e futuro. Se si ingenerano dubbi
sulla persona del mediatore, anche per relazioni economiche o personali
con una delle parti, si viene a minare l’autorevolezza del mediatore e questo non solo rispetto alla singola conciliazione, ma anche come professionista. Il mediatore non dovrebbe mai accettare altri incarichi dalle parti in
conflitto, ne divenire loro consulente in altra separata sede (es. dichiarazione di imparzialità e mancanza di conflitto d’interessi che il conciliatore professionale deve firmare).
Competenza: il mediatore deve operare solo se ha le competenze necessarie a soddisfare le aspettative delle parti. In questa visione il mediatore è uno specialista della materia, o almeno sa di che cosa si sta trattando.
Questo permette di poter assumere una discussione con un registro tecnico e permette anche di capire prima di tutto determinati interessi specifici delle parti e poterli trasfondere in un accordo soddisfacente.
Riservatezza: il mediatore deve soddisfare le parti nelle loro aspettative di riservatezza. Una delle cause per cui può essere scelta la strada della
mediazione è quella che prevede la riservatezza dell’intero procedimento.
Anche un eventuale accordo può essere difeso da una clausola di riservatezza estesa al mediatore. Di per se il mediatore assume un ruolo che lo
potrebbe portare a conoscere informazioni riservate e sensibili, e per questo deve garantire alle parti il suo silenzio. Questo permetterà alle parti
stesse di potersi aprire senza timori, in una maniera differente che se avessero di fronte un giudice od un arbitro. Qualsiasi normativa in materia di
conciliazione dovrebbe prevedere l’obbligo del segreto professionale per il
conciliatore, dichiarando espressamente il divieto di chiamarlo e di ascoltarlo, quale testimone, in un’eventuale causa giudiziaria.
Qualità della procedura: il mediatore deve condurre la mediazione con
trasparenza, diligenza e nel rispetto del principio di autodeterminazione
delle parti. Il mediatore gestisce il procedimento di mediazione e deve far
rispettare alle parti determinati obblighi perché tale iter possa avere il più
alto grado di probabilità di successo. La mediazione, pur essendo improntata ad un estremo informalismo, ha infatti un suo svolgimento, con regole e doveri per le parti, nell’ottica di garantire un servizio di ottimo li-
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vello. Tra le altre cose, la procedura deve prevedere un tempo limitato,
perché la velocità temporale resti uno dei vantaggi della mediazione.
Pubblicità ed offerta dei servizi (informazione): il mediatore deve essere veritiero nel pubblicizzare e offrire servizi di mediazione. Per questo
può essere presa a riferimento “la
settimana della conciliazione” che ogni anno viene organizzata dalle
Camere di Commercio italiane e che diventa anche un momento di discussione sulla conciliazione in generale, sui risultati raggiunti e sulla promozione del servizio. Nulla vieterebbe però, in ipotesi, al singolo mediatore professionista di promuovere la propria attività anche da un punto di
vista pubblicitario (specie considerando anche le ultime aperture circa le
attività promozionali degli iscritti a ordini professionali che si erano sempre dichiarati più che sfavorevoli rispetto a tale possibilità).
Compensi: il mediatore deve produrre chiare informazioni sui compensi e sui costi del servizio a carico delle parti. Un fiore all’occhiello della mediazione è la sua economicità, se paragonata anche ad altri metodi
A.D.R. come per esempio l’arbitrato e se, naturalmente, paragonata alle
vie ordinarie di giustizia. Le parti devono essere informate sui costi, anche prima di iniziare il procedimento mediativo, perché questa informazione potrà essere alla base della scelta autodeterminata di procedere alla
conciliazione.
Obblighi verso il procedimento di mediazione: i mediatori hanno l’obbligo di migliorare le loro capacità tecniche. Ciò significa che il mediatore, come ogni professionista, deve offrire un servizio sempre eccellente ed
essere aggiornato, seguendo corsi di formazione specifici ed avanzati, come per esempio in Italia è già previsto per i conciliatori delle Camere di
Commercio, rispetto agli ultimi standard di formazione Unioncamere.
Anche il professionista (avvocato, dottore commercialista, consulente
del lavoro, ecc.) può in qualche modo essere il soggetto propulsore della
mediazione. La posizione del professionista rispetto al procedimento mediativo può essere differente:
- può assistere la parte come rappresentante che si affianca al cliente;
- può svolgere le funzioni di conciliatore.
Nel secondo caso, il professionista dovrà intervenire come conciliato-
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re, quindi sarà importante far capire alle parti che il suo ruolo è differente da quello abituale. E’ importante non confondere il professionista-conciliatore da quello che convoca la parte avversa presso il proprio studio per
tentare un negoziazione. In questo caso, al di là dell’atteggiamento più o
meno spiccatamente conciliativo del professionista, quest’ultimo non agirà
come conciliatore, perché rimane comunque e sempre un rappresentante
di una sola parte e quindi non avrebbe tutte le caratteristiche del conciliatore. Dal punto di vista economico, nei paesi in cui i metodi A.D.R.
sono ormai acquisiti anche dalla mentalità dei potenziali clienti, il professionista risulta avvantaggiato sia come risparmio di “energie” che di tempo impiegato.
Infine, può essere interessante descrivere, a livello internazionale, come la Society of Professionals in Dispute Resolution, ovvero l’associazione di
rappresentanza dei mediatori americani, abbia formulato un elenco delle
abilità che un mediatore dovrebbe avere, non prima di aver sottolineato
come, specie negli Stati Uniti, il possesso di un titolo accademico non sia
considerato prerequisito per poter svolgere l’attività di mediatore.
L’elenco prevede una elencazione di abilità generali:
- capacità di ascolto attivo;
- capacità di identificazione, analisi e separazione dei problemi;
- capacità comunicative e sensibilità rispetto ai valori delle parti;
- capacità di separazione del problema oggettivo dai comportamenti soggettivi;
- capacità nel capire squilibri di potere;
- capacità di mantenimento del proprio controllo.
Si richiedono poi altre caratteristiche, chiamate “abilità specifiche per
la conciliazione”:
- capacità di capire la procedura di mediazione e il ruolo degli avvocati;
- capacità di generare fiducia;
- capacità di identificare gli interessi ed i bisogni delle parti dalle loro
posizioni iniziali;
- capacità di individuare le questioni non conciliabili;
- capacità di trovare standard e criteri oggettivi;
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capacità di coadiuvare le parti per la ricerca di soluzioni innovative e
creative;
capacità di coadiuvare le parti alla ricerca delle loro migliori alternative fuori dall’accordo;
capacità di consigliare le parti sulla esecutività pratica di un accordo.
8) OSSERVAZIONI FINALI
Se la mediazione verrà realizzata nel modo descritto e se i conciliatori saranno preparati seriamente a questo, l’Istituto potrebbe funzionare,
nonostante che per i più furbi, una giustizia ordinaria lenta e spesso approssimativa, per non dire ingiusta, potrebbe rappresentare un occasione
ulteriore per perdere tempo e stancare il soggetto che vuole tutelare i suoi
diritti. Ma è altrettanto vero, che quando le persone sono costrette in qualche modo a ragionare anche per dignità propria e comunque offrire all’esterno una immagine di se stessi almeno comprensibile, come nel caso del
tentativo obbligatorio di conciliazione, potrebbero più concretamente risolvere una lite in modo corretto e spesso satisfattivo dei loro interessi senza correre il rischio di perdere il confronto con l’altra parte in un giudizio che sfocerà in una decisione di un GIUDICE spesso distante dai problemi e dalle aspettative di entrambe le parti.
Per i colleghi professionisti non si tratta affatto di perdere prestigio di
fronte alla figura professionale del mediatore in quanto gli Avvocati con la
A maiuscola, con le loro alte capacità tecniche e di esperienza del vivere
civile ben possono rendersi conto dei vantaggi per i propri clienti di una
buona mediazione rispetto ad un giudizio, oggi come mai, dall’esito del
tutto incerto, dispendioso e troppo lungo.
A tal proposito mi ricordo una espressione di mio zio l’Avv. Michele
Portoghese (stimato per il suo valore professionale e per una sconfinata
esperienza) che usava spesso e da sempre per i suoi clienti, in forma dialettale: “MEGLIO NU MALE ACCORDO CHE NA’ CAUSA VINTA”,
inutile la traduzione in italiano.
Se quindi, già da mezzo secolo, e credo anche oltre, la frase citata era
una massima comune per un saggio consiglio ai propri clienti, non vedo
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perché una buona mediazione (che tende, a dirimere una lite su una base meno approssimativa e rudimentale della frase innanzi citata “Meglio
nu male accordo etc……”), non può non rappresentare un metodo più
vantaggioso, specifico, e competente per redimere la lite soddisfacendo gli
interessi veri delle parti e recuperando anche il loro rapporto personale,
importante, per loro stessi e per il tessuto sociale ed economico.
Pertanto gli Avvocati sono i primi che potrebbero approfondire la cultura della mediazione per favorire la risoluzione delle controversie in modo non contenzioso ed in ogni caso potrebbero essere veramente gli interlocutori saggi dei loro clienti anche nel procedimento di mediazione
sempre che s’impegnino ad approfondirne la portata e gli obbiettivi e non
invece come ho sentito, banalizzandola o criticandola, senza averla conosciuta o addirittura rifiutata di conoscerla. Anzi, non ci sarebbe bisogno
di rendere obbligatoria l’assistenza degli avvocati nelle mediazioni, se i
clienti sono consapevoli che i loro avvocati sono capaci di assisterli con
competenza, senza alcun pregiudizio, ormai invece consolidato, che questi più che risolvere i loro problemi pensano solo alle loro tasche e non alla strada migliore per la definizione delle liti nell’interesse dei loro rappresentati.
Ovviamente un’assistenza dinanzi ai mediatori o nelle conciliazioni
rappresenta un attività dell’avvocato pari a qualsiasi attività transattiva, peraltro, nella mediazione occorrono competenze ben specifiche da parte
degli avvocati, che in termini economici si traducono giustamente in parcelle più corpose, ma con risultati positivi per i loro assistiti e di realizzo
in tempi brevi.
Se la materia del contendere riguarda poi problemi tecnici non solo
giuridici ma anche contabili o altro, come in ogni altra ipotesi, i clienti
potrebbero nominare come loro rappresentante nella mediazione oltre
all’Avvocato suo naturale tecnico anche qualcuno del settore specifico per
valutare le opportunità che emergano dalla mediazione stessa.
Se la normativa entrata in vigore, a volte aspramente criticata senza costrutto, ha bisogno di modifiche o rettifiche di fronte ad una politica legislativa in materia, non sempre coerente con l’obbiettivo naturale da raggiungere è compito anche dei colleghi dare un contributo serio nell’inte-
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resse di tutti, approfondendo gli aspetti della materia e ottimizzando le varie scelte sia politiche che giuridiche per perseguire gli obbiettivi condivisi.
Colleghi non stanchiamoci di studiare e di migliorare una giustizia ormai collassata lasciata all’improvvisazione, al caso, alla furbizia e all’espediente che fa la fortuna di pochi e l’ingiustizia per tutti.
IN SINTESI QUALI SONO I VANTAGGI
E GLI SVANTAGGI DELLA MEDIAZIONE?
Mi permetto di riportare in sintesi uno studio tratto dagli autori
Giuseppe Palo, Leonardo D’Urso e Dwight Golan del Manuale del mediatore professionista Ed. Giuffrè – Milano 2010.
Dall’esperienza internazionale e da studi di esperti seri della materia
in particolare si cita: (Lipski Seeber, The use of ADR in US Corporetions
Executive Summary, A Joint Iniziative of Cornell University, Foundation
for the Prevision and Early resolution of Conflict (PERC) and PWC,
1988), il ricorso alla mediazione stragiudiziale è in grado di portare una
lite alla definitive risoluzione nel 75-85% dei casi, ovviamente quando le
parti hanno veramente intenzione di risolvere il problema con l’altro litigante agendo in buona fede a tutela dei propri interessi ed insieme perseguono gli stessi obiettivi:
1) risolvere la vertenza negozialmente
2) regolare i contenuti autonomamente
3) tenere riservata la procedura e/o l’esito di questa
4) limitare il tempo ed i costi del processo (ordinario e arbitrale)
5) evitare l’incertezza del giudizio
6) mantenere rapporti in futuro.
Nel commercio internazionale, il ricorso sempre più crescente al tentativo di conciliazione non è frutto di una scoperta di una formula magica o di una moda o altro ma semplicemente deriva dalla predilezione per
modalità maggiormente vantaggiosa dal punto di vista costo-benefici della gestione delle liti.
In ogni caso è esperienza che la mediazione se gestita da organismi
specializzati e da mediatori appositamente formati può offrire i seguenti
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VANTAGGI
TEMPI RAPIDI: ha inizio nei tempi voluti dalle parti e dura quanto
essi stabiliscono. Nell’esperienza una mediazione dura più di due giorni
consecutivi in rarissimi casi.
COSTI CONTENUTI E PREVEDIBILI: le sessioni vengono prenotate a blocchi di tempo (mai meno di mezza giornata) ed il compenso del
mediatore è ancorato ad una tariffa oraria, i costi della procedura saranno
sempre anche prevedibili; ciò non significa che una mediazione deve esaurirsi in un’unica sessione o che se fallita non si possa riprovare.
CONTROLLO DEL RISULTATO DELLA PROCEDURA: il controllo sui risultati esercitato dalle parti si sostanzia nella possibilità di raggiungere soluzioni condivise e adatte alle esigenze di ciascuna parte coinvolta
nella lite, improntate al soddisfacimento degli effettivi interessi economici e non sulla tecnica o strategia processuale che a volte fanno la gioia e
la ricchezza degli avvocati ma poco conveniente per gli interessi veri delle parti, soprattutto economici, sottesi alle liti giudiziarie, infatti anche in
caso di vittoria della lite spesso hanno dovuto esborsare di spese più di
quanto gli ha arrecato la vittoria e poi le soluzioni nella mediazione non
sono vincolate al principio della domanda, ma fondate dai principi e regole della libera contrattazione negoziale.
ATTENZIONE AGLI INTERSSI PROFONDI: il terzo neutrale può
concentrarsi su elementi come le emozioni, le paure, le suggestioni, e le
aspettative future dei litiganti che, nel giudizio ordinario e nell’arbitrato,
non troverebbero mai né devono trovare uno spazio adeguato.
RISERVATEZZA: altro vantaggio della procedura ADR è senz’altro il
carattere riservato e confidenziale, in base al quale l’esito della procedura
e, se del caso, persino l’avvenuto svolgimento di questa restano segreti. In
pratica, tutte le parti coinvolte nella lite, non potranno mai servirsi in giudizio di tutto ciò che si è detto nel corso della procedura, né mai il terzo
neutrale deciderà la lite, come avviene, invece, quando la conciliazione,
ad esempio, è tentata dinanzi ad un giudice in via preliminare, poiché in
questi casi le parti sono restie ad essere confidenziali per la paura di compromettere a loro danno la decisione successiva ed eventuale del giudice,
in caso di tentativo fallito o mancato accordo.
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Inoltre, il mediatore non potrà rivelare all’altra parte notizie apprese
dall’altra se non è espressamente autorizzato da questa.
Tutto ciò a beneficio di una comprensione totale degli aspetti del litigio in modo che il terzo potrà più facilmente capire quali potrebbero essere le soluzioni possibili al caso senza però che l’una parte si possa appropriare dei fatti dell’altra per poi profittarne nella trattativa o ancor peggio in un successivo giudizio in caso di mancato accordo.
ASSENZA DI RISCHIO: in caso di disaccordo le parti mantengono
intatto il loro diritto di adire le vie giudiziarie.
POSSIBILI SVANTAGGI
Il primo dei più grandi svantaggi è l’inidoneità della procedura a soddisfare la volontà ed il desiderio di stravincere ad ogni costo; inteso questo concetto non come il sano desiderio di prevalere nella contesa, specie
quando in buona fede si è convinti di avere ragione, bensì il desiderio incontrollabile di atterrare e umiliare l’avversario con ogni mezzo, lungi da
sani desideri di civiltà anche giudiziaria o di etica umana, spendendo risorse finanziarie spropositate pur di farcela, anche quando magari, è risaputo sin dall’inizio che la decisione o il lodo non potranno essere eseguiti fruttuosamente. Questa motivazione di molti litiganti, ben nota agli avvocati, rende addirittura la stessa espressione “mediazione” spesso difficile da pronunciare.
a) NEGOZIATORI ABILI POSSONO RISOLVERE IL CASO DIRETTAMENTE:
Avvocati e uomini di affari pervengono quotidianamente ad accordi
per sé e per i propri clienti tramite negoziati diretti, tuttavia, il negoziato
cosiddetto “FACCIA A FACCIA” presenta limiti e barriere intrinseci che
nell’ottica della massimizzazione dell’esito negoziale, il mediatore può superare a costi di transazione molto inferiore;
b) SE NON SI SA ANCORA ABBASTANZA DEL CASO PER TROVARE UN ACCORDO:
Le parti in causa ed i loro difensori necessitano di informazioni basilari sul merito di una lite per poter elaborare un accordo e questo, spesso, ri-
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chiede un minimo di istruzione probatoria; E’ però innegabile che, anche
quando gli aspetti legali di una controversia sono cruciali, la cooperazione
tra negoziatori esperti può minimizzare tempi e costi di questa fase; Inoltre,
le tesi eventualmente corroborate dall’esperimento della fase istruttoria potrebbero rilevarsi irrilevanti ai fini di un accordo conciliativo, ad esempio,
basato sugli interessi. Riportiamo un esempio di scuola2:
c) LA CONTROPARTE POTREBBE APPROFITTARE DELLA
DISPONIBILITÀ MOSTRATA.
Diversi avvocati ammettono di opporsi normalmente alla proposta di
tentare la mediazione perché preoccupati di apparire eccessivamente disponibili, in pratica temono di segnalare alla controparte una debolezza
della propria posizione o l’ansia del cliente di pervenire ad un accordo. I
difensori si preoccupano anche dell’eventualità che gli avvocati sfruttino
la procedura conciliativa solo per guadagnare tempo.
Questi timori, seppure comprensibili, non costituiscono buon motivo per respingere sempre e comunque la mediazione. In realtà, lo stesso
problema di non lanciare meta-messaggi di disponibilità minaccia maggiormente i negoziati “FACCIA A FACCIA” dove le parti devono intavolare una discussione senza aiuto-esterno.
D’altra parte, se ogni negoziato o mediazione fossero da sconsigliare
ogni lite finirebbe sempre dinanzi ad un giudice. In realtà, come è risaputo per esperienza, solo un numero limitato di cause giunge ad una decisione, poiché le parti litiganti ed i loro rappresentanti riescono spesso a
trovare un accordo, anche se spesso questo arriva tardi e per sfinimento.
La mediazione al contrario, facilita un avvio tempestivo delle trattative
e, con il mediatore nel ruolo di facilitatore della procedura, tiene le parti
coinvolte ed interessate al procedimento perché esso termini rapidamente.
Infine, grazie al principio di informalità e soprattutto di confidenzialità che governa l’intera procedura, i mediatori esperi sono in grado di
proteggere le parti da tattiche di sfruttamento della situazione.
d) ALCUNI CASI DEVONO NECESSARIAMENTE ESSERE DECISI DA UN TRIBUNALE
Alcune controversie presentano aspetti di tale novità ed importanza da
richiedere la decisione di un magistrato che stabilisca un precedente.. Ma
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tali casi sono più rari di quello che si possa immaginare. Anche in cause
ove la posta in gioco è elevata spesso è più conveniente per le parti avere
la libertà di trovare una soluzione creativa, piuttosto che doversi accontentare di uno dei pochi, provvedimenti ottenibili in sede contenziosa, ossia un ordine di dare, fare o non fare, ovvero una pronuncia di accertamento.
Quanti avvocati non ricordano di essere stati travolti almeno una volta dall’esaltazione di una controversia “di principio” da combattere a spada tratta sino alla fine; dopo un anno o due, tuttavia, è spesso difficile per
quegli stessi avvocati rammentare i motivi che facevano apparire la questione così appassionante. I clienti, poi, alla fine, scoprono che anche le
cause importanti si possono perdere, finendo per rimpiangere amaramente e ancor più per non essere riusciti a trovare un accordo accettabile.
PREGIUDIZIO SULLA MEDIAZIONE E PREOCCUPAZIONE PER
COSA FAREBBERO GLI AVVOCATI E I GIUDICI SE IL CONTENZIOSO DIMINUISSE DRASTICAMENTE?
Molti avvocati amano le battaglie legali o almeno si sentono a proprio
agio in tale ruolo, che è poi quello principale, se non esclusivo, appreso
nelle aule universitarie e successivamente in quelle della formazione professionale. Questa educazione genera resistenza pregiudizievole nei confronti della ADR in generale.
In realtà il problema che naturalmente si viene a creare è meno serio
di quello che possa apparire: gli avvocati esperti conseguono spesso risultati migliori per i loro clienti mediante la mediazione; né i clienti, specie
quelli più sofisticati pensano lontanamente a partecipare alle procedure di
mediazione privandosi dei loro difensori; Infine, non è vero che tutti gli
avvocati desiderano approdare in giudizio per ogni causa.
Per i Giudici vale lo stesso discorso, cioè è impensabile che la diffusione della mediazione delle ADR renderanno i Magistrati privi del loro
lavoro quotidiano a risolvere conflitti, invero, essi permarranno e con essi la necessità di una magistratura competente e di qualità non di quantità
ed in grado di espletare effettivamente un servizio fondamentale per la sta-
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bilità e la crescita della società civile, sia di professionisti del contenzioso
e come valido baluardo per i furbetti della società civile o di quelli che
vogliono approfittare dei più deboli.
La speranza è quindi che vi sia a disposizione dei litiganti una solida
infrastruttura di ADR e avvocati in grado di seguire e consigliare i loro
clienti in questi circuiti contigui alla giurisdizione.
Mi pare doveroso a questo punto concludere con le sagge parole di un noto avvocato dell’Illinois ABRAMO LINCOLN, il
quale, rivolgendosi ai suoi colleghi disse:
“Dissuadete dalle liti. Convincete i vostri vicini a trovare un
accordo ogni qual vota possibile… Gli avvocati hanno migliori
opportunità di fare del bene quali portatori di pace. Ci sarà sempre abbastanza lavoro per tutti”.
Dall’esperienza egli ha ragione, invero, la mediazione è in grado di favorire accordi migliori e più rapidi ma non eliminerà mai né la necessità
di un supporto legale nel corso della procedura conciliativa, né tanto meno, l’esistenza del contenzioso. Ma se per caso il numero di cause combattute fino alle estreme conseguenze dovesse davvero ridursi in modo cospicuo, saranno i legali specializzati (anche) nelle procedure ADR a servire meglio i propri clienti.
Avv. Giovanni Portoghese
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
Manuale del conciliatore professionista di Giuseppe De Palo, Leonardo D’Urso,
Dwight Golann Ed. Giuffrè 2004.
Mariano Marinelli (2010) “Il mediatore civile”, NAPOLI: Edizioni Giuridiche
Simone.
Giurisprudenza di merito n. 05/2010 doc. n. 164 Ed. Giuffrè “Il nuovo istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di
Roberto Masoni e Santo Viotti pag. n. 1212.
Mediazione e Processo nelle controversie civili e commerciali: Risoluzione Negoziale
Delle Liti e Tutela Giudiziale Dei Diritti in Le Società Rivista di diritto e pratica commerciale societaria e fiscale n. 5/2010 pagg. 619-636 Ed. Ipsoa.
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NORMATIVA NAZIONALE E INTERNAZIONALE
SULLA MEDIAZIONE
Commission Recommendation 257-98-CE, 30 marzo 1998 on the principles applicable to the bodies responsible for out-of-court settlement of consumer disputes.
Commission Recommendation 310-2001-CE, 4 aprile 2001 on the principles
for out-of-court bodies involved in the consensual resolution of consumer disputes.
Council of Europe - Committee of Ministers - ottobre 2002.
Decreto Legislativo 6 febbraio 2004, n. 37 Modifiche ed integrazioni ai decreti
legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio 2003, recanti la riforma del diritto societario,
nonché al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993, e al testo unico dell’intermediazione finanziaria
di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998.
Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 Norme generali sull’ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Delibera n. 182/02/CONS - 18 luglio 2002 Vecchio regolamento concernente la risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni ed utenti.
Delibera n. 173/07/CONS - 22 maggio 2007 Nuovo regolamento concernente
la risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni ed utenti.
Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2004 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.
Osservazioni Unioncamere sulla proposta di direttiva.
Decreto Legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria
e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
ESTRATTO - Legge 14 novembre 1995, n. 481 Norme per la concorrenza e
la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei
servizi di pubblica utilità.
ESTRATTO - Legge 29 dicembre 1993, n. 580 Riordinamento delle Camere
di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura.
ESTRATTO - Legge 31 luglio 1997, n. 249 Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi.
ESTRATTO Legge 18 novembre 1998 n. 415 - Modifiche alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e ulteriori disposizioni in materia di lavori pubblici e Estratto
Legge 1 agosto 2002 n. 166 - Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti.
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Legge 18 giugno 1998, n. 192 Disciplina della subfornitura nelle attività produttive.
Legge 6 maggio 2004, n. 129 Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale.
Legge 29 marzo 2001, n. 135 Riforma della legislazione nazionale del turismo.
UNCITRAL Model Law on International Commercial Conciliation - 17/28
giugno 2002.
Codice del Consumo - Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n. 206.
Regolamento UNIONCAMERE 2005.
Decreto 24 luglio 2006 Decreto Dirigenziale del 24 luglio 2006 che approva i requisiti per l’accreditamento dei soggetti e/o enti abilitati a tenere corsi di formazione
in materia societaria, e il modulo di domanda per l’iscrizione degli organismi di conciliazione in materia societaria.
FONTI NORMATIVE PRIMARIE DALLE QUALI E’ NATA LA RECENTE DISCIPLINA GENERALE IN ITALIA SULLA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE.
Proposta di DIRETTIVA CEE 28/02/2008.
Posizione comune del Consiglio dell’Unione Europea sulla proposta di
direttiva europea in materia di conciliazione delle controversie transfrontaliere.
DIRETTIVA 21/05/2008 n. 52 del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 21/05/2008 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale pubblicata su G.U.C.E. n. L. 136 del 24/05/2008, essa
rappresenta la FONTE E L’INDIRIZZO normativo, che ha dato origine al Dlgs. n.
28 del 4/03/2010.
Tutti gli elencati testi normativi devono essere comunque rivisti alla luce del nuovo
Dlgs. n.28 del 4/3/2010, specificando comunque che le norme riguardanti la conciliazione nel diritto societario di cui al Decreto Legislativo 17 gennaio 2003 n. 5, è
stato abrogato ma riciclato (se così si sul dire) nella innovativa normativa sulla mediazione in generale in materia Civile e Commerciale e che in tema di
intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, le disposizioni emanate restano comunque applicabili in modo concorrente con la disciplina di cui al Dlgs
n.28 del 4/03/2010, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Decreto 23 luglio 2004, n. 222 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonchè di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del D.lgs. n. 5/2003).
Decreto 23 luglio 2004, n. 223 (Regolamento recante approvazione delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione a norma dell’art. 39 del D.lgs. n. 5/2003).
Tale ultimi due decreti sono stati interamente sostituiti, in attuazione
dell’art. 16 del Dlgs. n.28 del 4/03/2010 dal DM. n. 180 del 18/10/2010.
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DISPOSIZIONI NORMATIVE IN ORDINE ALLA CONCILIAZIONE
ON LINE.
Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31-2000-CE, 8 giugno
2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (Direttiva sul commercio elettronico).
Decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70.
NOTE
1) Cfr. Corte di Giustizia 18 marzo 2010, procedimenti riuniti C-317/08, C-318/08, C
319/08 e C320/08, nella quale,con riferimento al tentativo obbligatorio di conciliazione previsto in materia di servizi di comunicazioni elettroniche tra utenti finali e fornitori del servizio,
la Corte ha precisato che “il principio della tutela giurisdizionale effettiva non osta ad una normativa nazionale che impone il previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti,
non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda
la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per
le parti, e purchè la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accessoa detta procedura
di conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”.
2) Un impresa del settore tecnologico assunse un dirigente, nel quale riponeva grandi speranze, per licenziarlo bruscamente alcuni mesi dopo, adducendo come giustificazione l’eccentricità del suo comportamento di certe sue decisioni. Il dirigente intentò causa, chiedendo la
corresponsione di due anni di retribuzione, come previsto dal contratto, ma il direttore generale dell’azienda rifiutò di pagare alcunché. Gli avvocati di entrambe le parti suggerirono di ricorrere alla mediazione. Nel corso delle sessioni private il mediatore apprese che il dirigente si
stava sottoponendo, all’insaputa dell’azienda, ad una cura per tumore cerebrale, che spiegava il
suo comportamento. La circostanza creava per il dirigente l’urgenza di poter continuare a godere della copertura sanitaria, e per l’azienda il rischio di un possibile ricorso per discriminazione dovuta ad infermità; Con il permesso del dirigente, il mediatore spiegò la situazione. A questo punto, l’ira del direttore generale scemò e anche il dirigente divenne meno rigido. Le parti
giunsero rapidamente ad un accordo per la cessazione del rapporto di lavoro che comprendeva
l’assistenza ospedaliera di base e specialistica per un certo periodo di tempo.
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La mediazione finalizzata alla conciliazione:
sintesi del D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28
La recente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5 marzo
2010 del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 in materia di mediazione finalizzata
alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, successivo all’art.
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (recante”Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”) ha ridisegnato i contenuti della gestione stragiudiziale dei conflitti,
dando rilievo alla richiesta di competenza e alta specializzazione insita nel
ruolo di mediatore e nel procedimento di mediazione.
Tale previsione normativa rende necessaria una rilettura di tutti quei
comportamenti, riflessioni, dibattiti inerenti al tema giustizia, viste le importanti novità presentate nel decreto.
I professionisti appartenenti ai settori più svariati e tutti coloro che
svolgono quotidianamente importanti compiti nella gestione dei conflitti
ad ampio raggio devono essere protagonisti di un cambiamento culturale
e operativo richiesto dalla normativa in esame, dovendosi confrontare con
uno strumento caratterizzato da profili innovativi e di immediata applicazione.
Il decreto prosegue il fondamentale lavoro di semplificazione, modernizzazione e arricchimento degli strumenti in grado di proporre metodi
più efficienti e responsabili di definizione dei conflitti, sulla base anche
delle previsioni contenute nei più illustri precedenti, segnatamente il decreto legislativo 5/2003 e i dd.mm. 222 e 223 del 2004.
Ogni profilo operativo è preso in esame nella normativa con scrupolo e metodo, richiedendo impegno e dedizione nello sviluppo e applicazione delle tecniche di mediazione finalizzata alla conciliazione.
La recente presa di posizione favorevole del Consiglio di Stato (adunanza del 20 settembre 2010) sullo schema di Regolamento di attuazione
ministeriale, di prossima uscita, consente di completare un percorso che
può davvero segnare il futuro dell’amministrazione della giustizia. Tale regolamento, atteso da molti addetti ai lavori per dare contenuti e forme al
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comparto ‘formazione’ e ‘mediazione’, definisce specifici aspetti legati tanto all’iscrizione nel Registro degli Organismi di mediazione quanto quella nell’elenco dei formatori per la mediazione, senza trascurare le indennità spettanti agli Organismi anzidetti.
Profili di grande contenuto pratico, imprescindibili per una gestione
corretta, trasparente e organizzata del servizio di mediazione. Qui di seguito una sintesi operativa dei contenuti del decreto 28/2010.
DEFINIZIONI
Il legislatore ha voluto individuare, in questa prima parte del decreto,
le caratteristiche del servizio di mediazione, nonché dare rilievo alle strutture e ai professionisti chiamati a gestire i relativi procedimenti.
La mediazione è l’attività del mediare, del mettere insieme, del gestire
situazioni di conflittualità, alla ricerca di accordi condivisi e duraturi. L’accento sul momento facilitativo di tale attività è più volte evidenziata nel
decreto 28/2010, a conferma di una colorazione innanzitutto negoziale
dello strumento.
Il riferimento alla conciliazione è di tipo oggettivo e identifica l’accordo che si vuole raggiungere durante il procedimento di mediazione.
La figura del terzo mediatore (di norma facilitatore) è il perno dell’intero modello camerale e caratterizza la composizione stragiudiziale dei
conflitti. Il carattere valutativo dei poteri dello stesso è rapportato alla formulazione di eventuali proposte per la risoluzione della disputa.
La richiesta di professionalità è soddisfatta grazie al riferimento agli
Organismi che dovranno gestire i procedimenti in esame e al Registro, in
cui gli stessi sono iscritti, previo possesso dei requisiti prescritti dal Ministero
della Giustizia.
PROCEDIMENTO DI MEDIAZIONE FINALIZZATA ALLA CONCILIAZIONE
Il procedimento di mediazione è tendenzialmente informale, ha principi guida racchiusi in un apposito Regolamento scelto e definito dagli
Organismi di Mediazione accreditati, alle cui regole e principi devono attenersi i mediatori e le parti durante i vari incontri negoziali. Particolare
rilievo viene dato alla riservatezza del procedimento, alla imparzialità del
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mediatore, alla competenza e professionalità nell’espletamento dell’incarico. La previsione di modalità telematiche di svolgimento della mediazione, consente di dare ancora più flessibilità al procedimento, elemento che
costituisce senza dubbio la caratteristica vincente dello stesso.
PROFILI OGGETTIVI DELLA MEDIAZIONE
AMBITO DI APPLICAZIONE
L’accesso ampio alla mediazione e ai vantaggi che il relativo procedimento è in grado di offrire (celerità, economicità, riservatezza, gestione
condivisa del conflitto) viene disciplinato dal decreto legislativo che apre
le porte a ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, senza preclusione per altre forme di negoziazione o risoluzione
delle dispute, differenti dal modello camerale disciplinato. Tale previsione
si riferisce all’importanza di avere una pluralità di strumenti da scegliere
per definire in ottica negoziale un conflitto.
OBBLIGO DI INFORMAZIONE DELL’AVVOCATO
Un punto senz’altro significativo dell’intera disciplina contenuta nel
decreto 28/2010 è l’obbligo per l’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, di informare per iscritto, in modo chiaro, il proprio assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20, nonché dei
casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Alla violazione degli obblighi di informazione, il legislatore fa conseguire l’annullabilità del contratto. Il rispetto di
tale obbligo è soggetto al controllo del giudice che verifica se il documento che contiene l’informazione è stato o meno allegato all’atto introduttivo del giudizio; in caso contrario, o provvede ai sensi dell’articolo 5,
comma 1, ovvero informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Il momento informativo è uno dei perni centrali della ‘riforma’, in
quanto responsabilizza fortemente la figura dell’avvocato che assume il
ruolo di vero e proprio assistente degli interessi del proprio cliente, vagliando insieme allo stesso la strada migliore da seguire, informandolo a
dovere di cosa può accadere, e accompagnandolo, se del caso, in media-
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zione, con spirito non litigioso e avversariale, ma diretto a supportare la
scelta di un accordo soddisfacente, secondo gli interessi e le esigenze del
cliente impegnato nel conflitto.
Il salto di qualità a cui sono chiamati gli avvocati è di tipo prettamente culturale e richiede serietà e professionalità nel completare e arricchire
il proprio ruolo e i propri poteri di difensore durante un giudizio con l’assunzione del ruolo di assistente degli interessi della parte durante una mediazione.
ACCESSO ALLA CONCILIAZIONE
La flessibilità innanzi menzionata è rinvenibile nella fase di accesso alla mediazione, che si svolge in modo piuttosto snello e celere:
- deposito di una istanza (avvio della mediazione);
- contenuto dell’istanza: organismo, parti, oggetto e ragioni della pretesa;
- pluralità di istanze: in caso di più domande relative alla stessa controversia, vale il principio della prevenzione (si fa riferimento alla data di
ricezione della comunicazione) e quindi la mediazione avviene dinanzi
all’organismo al quale è stata presentata la prima domanda.
TENTATIVO OBBLIGATORIO DI MEDIAZIONE
I CASI PREVISTI (CONDIZIONE DI PROCEDIBILITÀ)
La previsione contenuta nell’art. 5 del decreto 28/2010 vede la mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in specifiche materie (l’entrata in vigore di tale previsione è differita al 20 marzo 2011, salvo proroghe non auspicabili). Ad essere connotato di obbligatorietà è l’esperimento del tentativo di mediazione (e non l’intera procedura di mediazione), nei seguenti casi: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Il più immediato riferimento, allorquando si parla di tentativo obbligatorio, è senz’altro agli articoli del cpc in materia di controversie di lavoro, sebbene vi siano differenze sotto il profilo operativo, di competen-
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ze e di principi guida. La differenza più importante e significativa è senz’altro data dalla presenza, nella riforma del decreto 28/2010, di Organismi
creati ad hoc e deputati a gestire problematiche e conflittualità mediante
l’utilizzo di professionisti formati e aggiornati sulle tecniche negoziali di
gestione dei conflitti. Tale elemento consente di guardare alla mediazione
finalizzata alla conciliazione con maggiore fiducia e liberare il campo da
paragoni tutt’altro che appropriati, poste le differenze di cui sopra.
Un cenno meritano le finalità deflattive, il cui perseguimento è stato
più volte ritenuto legittimo da parte della Corte Costituzionale, attraverso la previsione della condizione di procedibilità. La relazione illustrativa
ministeriale al decreto 28/2010 sottolinea come tale previsione non inficia l’accesso alla giustizia, ma realizza un punto di equilibrio tra diritto
d’azione ex articolo 24 Cost. e interessi generali alla sollecita amministrazione della giustizia e al contenimento dell’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale.
COME E QUANDO SI RILEVA L’IMPROCEDIBILITÀ
Sotto il profilo procedurale, l’improcedibilità va eccepita:
- da parte del convenuto, a pena di decadenza;
- rilevata dal giudice d’ufficio non oltre la prima udienza.
POTERI DEL GIUDICE E FAVOR VERSO LA MEDIAZIONE
(ANCHE DELEGATA)
In caso di esperimento della mediazione, non ancora conclusa (la durata è di 4 mesi che decorrono dal deposito della istanza di mediazione o
dal termine fissato dal giudice per il deposito, qualora non era stato fatto),
il giudice fissa una udienza successiva alla scadenza di tale termine di 4
mesi.
In caso di mancato esperimento della mediazione, il giudice assegna
alle parti un termine di 15 gg per presentare la domanda di mediazione.
Il giudice, inoltre, ha la facoltà di invitare le parti a procedere alla mediazione, anche in grado di appello, fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni o di discussione della causa. Per far ciò dovrà valutare la natura della causa, lo stato dell’istruzione, il comportamento delle parti.
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LE
PARTI SULL’INVITO DEL GIUDICE
Qualora le parti aderiscono all’invito del giudice di andare in mediazione, quest’ultimo fissa una udienza successiva alla scadenza del termine
di 4 mesi e, se non era stata presentata domanda di mediazione, da 15 gg.
alle stesse per presentare la domanda di mediazione.
MEDIAZIONE E SPECIFICI PROCEDIMENTI: NESSUNA PRECLUSIONE
Ai commi 3 e 4 dell’art. 5 del decreto 28/2010, sono elencati i procedimenti il cui svolgimento non è precluso dalla mediazione.
Innanzitutto il comma 3, che fa riferimento alla concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, e alla trascrizione della domanda giudiziale, non
preclusi dalla mediazione. La ratio è quella di non precludere l’accesso alla giurisdizione rispetto a situazioni che richiedono una decisione in tempi molto ristretti e sulle quali il mediatore è privo di qualsiasi potere d’intervento, come ricordato dalla relazione illustrativa.
Il comma 4 individua tutta una serie di procedimenti che, secondo la citata relazione, sono accomunati dal fatto di essere posti a presidio di interessi per i quali un preventivo tentativo obbligatorio di mediazione appare inutile o controproducente, a fronte di una tutela giurisdizionale che è
invece in grado, talvolta in forme sommarie e che non richiedono un preventivo contraddittorio, di assicurare una celere soddisfazione degli interessi medesimi.
Tali procedimenti sono:
a) procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia
sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del
rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;
c) procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui
all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
d) procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
e) procedimenti in camera di consiglio;
f) civile esercitata nel processo penale.
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CLAUSOLA
DI MEDIAZIONE NEL CONTRATTO,
ATTO COSTITUTIVO, STATUTO DELL’ENTE
Secondo la previsione contenuta nell’art. 5, comma 5, in presenza
di una clausola di mediazione-conciliazione contenuta in un contratto,
nello statuto ovvero nell’atto costitutivo dell’ente e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di 15 gg. per presentare la
domanda di mediazione, fissando la successiva udienza dopo la scadenza del termine di durata del procedimento (4 mesi). Nello stesso modo
il giudice o l’arbitro provvede, fissando la successiva udienza quando la
mediazione o il tentativo di conciliazione sono stati iniziati, ma non sono stati conclusi.
Per quanto attiene all’Organismo di Mediazione competente, la domanda è presentata davanti a quello indicato dalla clausola, se iscritto nel
Registro tenuto presso il Ministero, ovvero, in mancanza, davanti a un altro organismo iscritto, con il rispetto del criterio della prevenzione, in caso di più istanze di mediazione. In ogni caso, però, le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo,
l’individuazione di un diverso organismo iscritto.
PRESCRIZIONE E DECADENZA
Il comma 6 dell’art. 5 equipara l’istanza di mediazione alla domanda
giudiziale ai fini della decorrenza dei termini di prescrizione e dell’impedimento della decadenza. Tale previsione, che ricalca quanto previsto in
passato in materia di conciliazione societaria (ex art. 40, d.lgs. 5/2003), si
differenzia da quest’ultima perché dispone che la decadenza venga impedita una sola volta, al fine di evitare che vi siano istanze strumentali e dilatorie, per differire la scadenza del termine decadenziale.
Gli effetti sulla prescrizione e sulla decadenza si producono a decorrere dalla ricezione della comunicazione all’altra parte.
RISERVATEZZA
Uno dei profili operativi maggiormente apprezzati e condivisi da tutti gli operatori della mediazione, riguarda la riservatezza (confindentiality
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d’oltreoceano), espressamente disciplinata dal decreto 28/2010 in entrambi i suoi aspetti: riservatezza interna ed esterna.
Innanzitutto è stabilito che tutti coloro che operano o prestano servizio all’interno dell’Organismo di Mediazione sono tenuti al rispetto dell’obbligo di riservatezza rispetto a ogni dichiarazione resa o informazione acquisita durante il procedimento di mediazione.
Per quanto riguarda la riservatezza interna, viene previsto che le informazioni e dichiarazioni che una parte fa al mediatore, durante gli incontri riservati (caucuses), devono restare riservate, a meno che sia la stessa parte a dire cosa riferire e in che termini all’altra parte del conflitto.
Per quanto attiene la riservatezza esterna, si dispone che le dichiarazioni e le informazioni acquisite durante il procedimento di mediazione non
possano essere acquisite in un futuro giudizio, avente un oggetto (anche
parzialmente) simile, salvo consenso della parte da cui provengono, nè sulle stesse è ammessa prova testimoniale o giuramento decisorio.
LUOGO DI SVOLGIMENTO DELLA MEDIAZIONE
Il decreto 28/2010 prevede che il procedimento, caratterizzato da
un’ampia informalità, si svolge presso la sede dell’organismo ovvero nel
luogo indicato nel Regolamento di procedura dell’Organismo. Tale previsione consente di strutturare percorsi di mediazione finalizzata alla
conciliazione anche in luoghi diversi dalla sede legale o dalle sedi accreditate (es. sede secondaria) previo l’accordo tra l’Organismo, il mediatore incaricato e le parti interessate. L’importanza dell’accordo con
le parti è sempre al centro di ogni valutazione da parte degli addetti ai
lavori che mirano a conferire assoluta centralità alle esigenze, priorità e
interessi delle parti in conflitto, superando anche apparenti limitazioni
e presunte rigidità.
MANCATA PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO
E VALUTAZIONE DEL GIUDICE
Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento
di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo
giudizio ai sensi dell’articolo 116, 2° comma, c.p.c.
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La partecipazione agli incontri che si svolgono all’interno del procedimento in oggetto rappresenta un importante momento per responsabilizzare le parti in conflitto e renderle edotte dei plus offerti dal servizio di
mediazione. Un servizio che è una reale opportunità per confrontarsi e
cercare il dialogo e non una mera pratica burocratica da evadere con sufficienza o preconcetti, solo per far finta di aver cercato una soluzione di
tipo negoziale, magari agli occhi del giudice in un futuro e non auspicato giudizio.
ESITO DELLA MEDIAZIONE: VERBALE DI AVVENUTA
E FALLITA CONCILIAZIONE
I possibili esiti della mediazione sono individuabili nell’avvenuta (anche parziale) o fallita conciliazione.
In caso si esito positivo, al verbale di conciliazione redatto dal mediatore è allegato il testo dell’accordo. Il verbale di (avvenuto) accordo, il cui
contenuto non sia contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, è
omologato, su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario
ha sede l’organismo. Nelle controversie transfrontaliere, previste dall’art.
2, direttiva 2008/52/CE, il verbale è omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione. Il verbale così
omologato vale come titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione in forma specifica e l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Qualora le parti concludano con l’accordo raggiunto uno dei contratti
o compiano uno degli atti previsti dall’art. 2643 c.c., per procedere alla
trascrizione dello stesso la sottoscrizione del verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
L’accordo raggiunto, anche successivamente alla proposta del mediatore, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento (astreintes).
Nel caso in cui non si riesca a raggiungere un accordo, il decreto
28/2010 prevede la possibilità del mediatore di formulare una proposta di
conciliazione, possibilità che diventa un obbligo in presenza di una con-
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giunta richiesta delle parti. Il mediatore è tenuto, in questi casi, a fornire
alle parti ogni informazione in merito alle conseguenze previste dall’art.
13 (spese processuali).
La proposta di conciliazione, che non deve contenere alcun riferimento
alle dichiarazioni rese e informazioni acquisite durante la mediazione (salvo accordo delle parti), va comunicata per iscritto alle parti, le quali entro 7 gg devono comunicare l’accettazione o meno della stessa. La mancata risposta nel termine di 7 gg è valutata come rifiuto della stessa.
In caso di esito negativo della mediazione ovvero se le parti non aderiscono alla proposta del mediatore, viene sempre formato un verbale di
fallita conciliazione, sottoscritto dalle parti e dal mediatore, in cui viene
indicata la suddetta proposta. In tale verbale viene anche indicata la mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione.
Il verbale è depositato presso la segreteria dell’Organismo di mediazione e ogni parte può chiedere il rilascio di una copia.
Con riferimento alla possibilità del mediatore di proporre una sua
valutazione della questione mediante apposita relazione, prima ancora
della richiesta congiunta delle parti, ogni Organismo valuterà concretamente cosa indicare e come indicarlo nel proprio Regolamento operativo, anche al fine di non snaturare eccessivamente il procedimento di
mediazione che è e resta connotato da contenuti negoziali, facilitativi
e di norma volontari.
SPESE PROCESSUALI
Il particolare regime delle spese contenuto nel decreto 28/2010 aderisce al favor che il legislatore ha voluto dare alla mediazione quale strumento di definizione amichevole ed efficiente del conflitto.
L’art. 13 contiene espresse e precise indicazioni al riguardo:
- qualora il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta (fatta dal mediatore), il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione
della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento
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all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto;
qualora il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponda interamente al contenuto della proposta, il giudice, in presenza
di gravi ed eccezionali ragioni, può escludere la ripetizione delle
spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al
mediatore e per il compenso dovuto all’esperto (consulente) di cui
all’art. 8, comma 4; il giudice, in tal caso, deve indicare espressamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese;
si applicano sempre e comunque, in presenza dei relativi presupposti,
gli artt. 92 (condanna alle spese per singoli atti; compensazione delle
spese) e 96 (responsabilità aggravata) del c.p.c.;
le disposizioni precedenti non si applicano ai procedimenti davanti ad
arbitri, salvo diverso accordo delle parti.
PROFILI
SOGGETTIVI DELLA MEDIAZIONE
NOMINA DEL MEDIATORE
La nomina avviene da parte del responsabile dell’organismo (nel momento in cui viene presentata la domanda di mediazione), il quale fissa il
primo incontro entro 15 gg dal deposito della domanda. Si prevede la possibilità di avere co-mediatori, per le controversie che presentano elementi di complessità e particolari tecnicismi.
RUOLO DEL MEDIATORE
Il mediatore ha il principale ruolo di facilitare e agevolare il dialogo, la
comunicazione tra le parti, al fine di farle addivenire a un accordo condiviso.
Un eventuale ruolo valutativo viene espressamente indicato in specifici casi (es. art. 11), proprio per non snaturare come si ricordava in precedenza l’istituto della conciliazione, che è una vera e propria negoziazione assistita. Sotto tale profilo i Regolamenti degli Organismi di mediazione potranno adottare una linea operativa finalizzata a evitare tali
snaturamenti.
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OBBLIGHI DEL MEDIATORE
Il mediatore è direttamente legato all’Organismo di mediazione,
dal quale riceve incarichi e compensi per l’attività prestata (non può
e non deve essere pagato direttamente dalle parti), mentre è fatto allo stesso e ai suoi ausiliari divieto di assumere diritti o obblighi connessi, in modo diretto o indiretto, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio.
Lo stesso mediatore dovrà:
- sottoscrivere una dichiarazione di imparzialità per ogni affare che dovrà trattare nonché assumere ogni altro impegno secondo quanto previsto dal Regolamento dell’organismo di mediazione;
- informare l’organismo e le parti se vi sono ragioni che possano pregiudicare l’imparziale svolgimento della mediazione;
- formulare proposte (valutative) nel pieno rispetto di norme imperative e ordine pubblico;
- relazionarsi sempre e rispondere a ogni richiesta organizzativa adottata dal responsabile dell’organismo.
La sostituzione del mediatore è prevista in tutti quei casi in cui vi sia
una istanza (motivata) di parte, nel qual caso si provvederà alla nomina di
un altro mediatore da parte del responsabile dell’organismo. Se la mediazione è svolta da quest’ultimo, il regolamento di mediazione prevederà chi
è competente a decidere sulla sostituzione.
CONSULENTI DEL MEDIATORE
Si prevede che il mediatore possa avvalersi di esperti iscritti negli albi
dei consulenti presso i tribunali, quando non si può provvedere alla nomina di un co-mediatore. Il regolamento di procedura di ogni Organismo
deve prevedere le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti agli esperti eventualmente utilizzati.
REGISTRO E ORGANISMI DI MEDIAZIONE
Mutuando le disposizioni contenute nella normativa relativa alla conciliazione ‘societaria’, il Ministero della Giustizia e il legislatore intendo-
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no proseguire nella direzione di una professionalizzazione del settore della mediazione, attraverso specifiche previsioni, finalizzate a:
- abilitare enti pubblici e privati (che diano garanzie di serietà ed efficienza) a costituire organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del decreto 28/2010;
- istituire un Registro in cui verranno iscritti gli Organismi di mediazione che rispettano le prescrizioni contenute in appositi decreti ministeriali (sul modello dei dd.mm. 222 e 223 del 2004;
- dettare i requisiti per l’iscrizione: ogni Organismo dovrà necessariamente depositare, oltre all’apposita domanda, anche il Regolamento
di Mediazione, le Tariffe del servizio (che rappresentano le tabelle di
indennità spettanti agli organismi), il Codice etico di condotta dei mediatori, Previsioni di utilizzo di modalità telematiche di gestione dei
conflitti in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati.
I consigli degli ordini degli avvocati (senza alcuna preclusione per materia) e quelli professionali (nelle materie riservate alla loro competenza)
possono istituire appositi Organismi di mediazione.
Per istituire Organismi di Mediazione presso i tribunali, si prevede
l’iscrizione nel Registro suindicato, sulla base della presentazione di una
semplice domanda, nel rispetto di quanto prescritto dall’art. 16.
Per istituire Organismi di Mediazione presso i Consigli degli ordini
professionali, è richiesta la previa autorizzazione del Ministero della Giustizia.
Gli Organismi di mediazione presso le Camere di Commercio, basta
la semplice presentazione della domanda, nel rispetto delle prescrizioni di
cui all’art. 16.
ALTRE
PREVISIONI
FORMAZIONE
Lo svolgimento dell’attività di formazione deve avvenire in modo da
garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. La partecipazione consapevole e responsabile a percorsi di formazione e la presenza di formatori che abbiano i necessari requisiti di competenza ed esperienza sono i due
pilastri su cui fondare la diffusione della cultura della conciliazione, sotto
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il profilo didattico. È piuttosto evidente che una conoscenza meramente
teorica dell’istituto mediazione non consente di portare agli incontri formativi quella naturale e necessaria richiesta di qualità e quel valore aggiunto che possono fornire solo i professionisti che hanno trattato l’argomento con estrema dedizione, vivendolo in prima persona sia attraverso
mediazioni gestite, sia attraverso l’importante e poco conosciuto lavoro
sporco che riguarda tutta la fase di creazione, modifica e aggiornamento
della vita di un Organismo di Mediazione e di un Ente di formazione.
AGEVOLAZIONI FISCALI
Qui di seguito i principali vantaggi di natura fiscale che contraddistinguono la scelta della mediazione:
- tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di
mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o
diritto di qualsiasi specie e natura;
- il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di
valore di 50.000 euro, mentre per la parte eccedente l’imposta è dovuta;
- chi si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (è richiesta la documentazione che comprovi la veridicità di
quanto dichiarato), nelle ipotesi in cui il tentativo di mediazione è obbligatorio (art. 5, comma 1), non è tenuto a versare alcuna indennità
all’Organismo;
- coloro che corrispondono l’indennità ai soggetti abilitati a svolgere il
procedimento di mediazione presso gli organismi è riconosciuto, in
caso di successo della mediazione, un credito d’imposta commisurato
all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro 500, determinato secondo quanto disposto dall’art. 20, commi 2 e 3. In caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà.
ABROGAZIONI
Gli articoli 38, 39 e 40 del decreto legislativo 5/2003 sono abrogati e
i rinvii operati dalla legge a tali articoli si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del presente decreto.
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Sono fatte salve le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonchè le
disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 c.p.c. (lavoro). In tali casi, questi procedimenti vengono esperiti in luogo di quelli previsti dal decreto 28/2010.
Una chiosa finale. Quando si parla di mediazione si parla di cultura,
cambiamento, diversità, partecipazione, responsabilità. Cinque parole che
identificano un metodo innovativo, una risorsa che mira a scuotere ed animare le coscienze di chi crede realmente nella efficacia del suo utilizzo, e
meno nel suo essere ‘affare economico’.
Mahatma Gandhi diceva: ‘Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere’. Una frase netta nei contenuti, perentoria, che non lascia adito
a dubbi o incertezze. Diventare le parole che si proclamano, sapendosi
mettere in discussione, sapendo preferire un lavoro serio e scrupoloso a
schiamazzi inappropriati, sapendo percepire e accogliere il vento del cambiamento, che deve essere non (solo) quello degli altri, ma prima di tutto
il nostro.
Avv. Alberto Mascia
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I connotati del principio dispositivo
in ambito processual penalistico
nel raffronto con la giurisdizione civile
Con il codice di procedura penale del 1988, senza dubbio, l’individuazione e il rafforzamento di facoltà dispositive è parsa una novità dirompente. Forse mai, nella storia del processo penale italiano, le parti si
sono viste attribuire simili poteri in termini dispositivi.
A riguardo è doveroso ricordare a titolo di esempio che le parti possono «concordare» l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché la documentazione relativa alla investigazione difensiva (artt. 431 comma 2, 493 comma 3, 555
comma 4 c.p.p.); sempre su «accordo delle parti» le dichiarazioni precedentemente rese dalla persona informata sui fatti e contenute nel fascicolo delle indagini possono essere acquisite per il dibattimento ai sensi dell’art.
500 comma 7 c.p.p.; allo stesso modo nel caso in cui il teste rifiuti si sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, le relative dichiarazioni risultano inutilizzabili solo se la parte che non ha avuto risposta lo
accetti (art. 500 comma 3 c.p.p.). Inoltre, giova ancora ricordare per quanto concerne le prove di altri procedimenti, ai sensi dell’art. 238 comma 4
c.p.p. i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati nel dibattimento
solo nei confronti dell’imputato che vi «consenta»; ancora quando si procede a lettura di verbali di dichiarazioni rese dall’imputato rimasto assente, contumace o che ha rifiutato di sottoporsi ad esame, tali dichiarazioni
sono utilizzabili nei confronti di altri solo con il loro «consenso» (art. 513
comma 1 c.p.p.).
Ora, senza volersi sdilinquire su tutta la casistica del codice, si vuole
rilevare come l’idea di contrattualità (intesa in senso di accordo e di consenso) abbia trovato terreno fertile nella visione del legislatore riformatore del 1988.
Tutto ciò emerge su uno sfondo giuridico-sociale abbastanza peculiare determinato da un sempre più marcato riconoscimento in capo al cit-
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tadino di un ruolo non più subalterno ma attivo e paritario nei confronti dello Stato. Ciò è parsa una tendenza generalizzata tradottasi nell’ampliamento delle possibilità di «negoziazione» tra privati e autorità anche in
materie in cui, di regola, solo quest’ultima sarebbe legittimata ad assumere decisioni giuridicamente vincolanti.
Questa ondata non ha riguardato solo il rito penale ma anche altri settori del diritto pubblico1, nonché del diritto penale sostanziale2. Da qualche parte le facoltà dispositive sono state viste in ambito processual penalistico con la stessa lente del rito civile, cioè si è affermato che l’individuazione di tali facoltà rendessero il processo penale dispositivo negli stessi termini di quello civile. L’analisi è finalizzata a fugare dubbi e stabilire i
contorni di tali poteri. Per fare ciò, l’indagine non può che partire dal significato che la dottrina processual civilistica riconosce al principio dispositivo: 1) potere di proporre e rinunciare alla domanda o al giudizio e
influire su di esso; 2) nel vincolo che il giudice ha nei confronti della domanda giurisdizionale, oltre e fuori della quale non può statuire; 3) nel
vincolo del giudice all’iniziativa delle parti nella formazione del materiale cognitivo; sono le parti che devono fornire la prova dei loro assunti,
tant’è che a riguardo si parla di onere della prova (art. 2697 c.c.)3.
Per quanto attiene alla prima questione è chiaro il riferimento all’istituto della rinuncia agli atti del giudizio (disciplinato dall’art. 306 c.p.c. secondo cui il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa
è accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni. Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.
Il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del
processo.
Il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo
tra loro. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza
non impugnabile) che conferma la libera disponibilità della tutela giurisdizionale ad opera delle parti, le quali cosi come possono liberamente scegliere se adire o meno l’autorità giudiziaria per la tutela dei propri diritti, allo stesso modo possono, successivamente all’instaurazione del pro-
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cesso, decidere di rinunciare ad esso; altre figure contigue prive di un’espressa disciplina quali la rinuncia al diritto, la rinuncia all’azione, la rinuncia
ad una delle più domande; oppure all’istituto dell’estinzione per inattività delle parti (previsto dall’art. 307 c.p.c., il quale dispone che, se dopo
la notificazione della citazione nessuna delle parti siasi costituita entro il termine
stabilito dall’articolo 166, ovvero, se, dopo la costituzione delle stesse, il giudice,
nei casi previsti dalla legge, abbia ordinata la cancellazione della causa dal ruolo,
il processo, salvo il disposto dell’art. 181 e dell’articolo 290, deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di tre mesi, che decorre rispettivamente dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto a norma dell’articolo 166, o dalla data del provvedimento di cancellazione; altrimenti il processo si estingue.
Il processo, una volta riassunto a norma del precedente comma, si estingue se
nessuna delle parti siasi costituita, ovvero se nei casi previsti dalla legge il giudice
ordini la cancellazione della causa dal ruolo.
Oltre che nei casi previsti dai commi precedenti, e salvo diverse disposizioni di
legge, il processo si estingue altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la
citazione, o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Quando la legge autorizza il giudice a fissare il termine, questo non può essere inferiore ad un mese nè superiore a tre.
L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del
giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio.).
Tali facoltà non sono ravvisabili in materia penale in virtù dell’art. 112
Cost. (il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale) coordinato con l’art. 50 c.p.p.
In altri termini l’esercizio dell’azione penale non è materia disponibi4
le . Inoltre mentre nel rito civile le parti possono definire la controversia
anche in via extragiudiziale; in ambito penale il ricorso alla funzione giurisdizionale costituisce l’unica modalità possibile per l’attuazione del nucleo sanzionatorio previsto dalla fattispecie di reato. Senza dimenticare
nemmeno il fatto che nella giurisdizione civile le parti possono influire in
maniera rilevante sull’instaurazione del processo con alcuni atti quali: l’accordo sulla deroga della competenza, l’accordo sulla deroga della giurisdi-
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zione, la rimessione del giudizio ad arbitri, considerati negozi processuali da alcuni autori quali Betti, Miele, Amato. Accordi per nulla consentiti nel processo penale. In riferimento alla seconda questione essa riflette
l’art. 112 c.p.c. (il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti), che sancisce il principio di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato, secondo cui il giudice è vincolato a pronunciare
su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Tant’è che costituisce vizio della sentenza l’ultrapetizione, consistente in un provvedimento che va
oltre la domanda (ad es. l’attore chiede la condanna a euro 500 e la sentenza accorda una somma maggiore); e l’extrapetizione, cioè quando il
giudice emette una pronuncia in assenza di una domanda o su un oggetto diverso. La trasposizione di tale connotato nel rito penale condurrebbe all’assurdo che qualora pubblico ministero e imputato chiedessero un
provvedimento di condanna, il giudice pur in presenza di una palese innocenza dell’imputato non potrebbe assolverlo. Mentre, qualunque siano
le richieste delle parti, il giudice conserva sempre la possibilità di pronunciare una delle sentenze previste dagli artt. 529-533 c.p.p. In relazione alla terza questione va precisato che mentre il processo civile vuole un
giudice sostanzialmente muto nei confronti delle iniziative delle parti in
relazione all’introduzione del materiale cognitivo nel processo; nel rito penale il legislatore, da un lato, ha attribuito grande rilievo alla volontà delle parti in tema probatorio (artt. 190,500 comma 3, 500 comma 7, 238
comma 4 c.p.p.) ma dall’altro, sembra aver rafforzato i poteri ufficiosi del
giudice posti a presidio della legalità dell’accertamento e della giustezza
della decisione (artt. 506 e 507 c.p.p.).
Ai sensi dell’art. 506 il presidente, anche su richiesta di altro componente del collegio, in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle parti o a seguito delle letture disposte a norma degli
articoli 511, 512 e 513, può indicare alle parti temi di prova nuovi o più
ampi, utili per la completezza dell’esame; al secondo comma, invece, è stabilito che il presidente, anche su richiesta di altro componente del collegio, può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici,
alle persone indicate nell’articolo 210 ed alle parti già esaminate, solo do-
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po l’esame e il controesame. Resta salvo il diritto delle parti di concludere l’esame secondo l’ordine indicato negli articoli 498, commi 1 e 2, e
503, comma 2. Mentre l’art. 507 c.p.p. dispone che terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove. Di grandissimo rilievo, è il comma 1-bis dell’art. 507, il quale è norma di chiusura
del sistema, in quanto il giudice può disporre a norma del comma 1 anche l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per
il dibattimento a norma degli articoli 431, comma 2, e 493, comma 3. In
buona sostanza non si vuole negare l’esistenza del principio in questione,
ma se ne vuole rilevare la peculiarità. Le parti, nel processo penale, possono agire secondo la propria visione dell’interesse che perseguono, ma
non possono delimitare, condizionare o annullare il potere del giudice di
accertare la verità. Nonostante in dottrina5 risulta ancora fortemente acceso il dibattito circa il contenuto da attribuire al concetto in questione,
il punto fermo è rappresentato dall’aspetto indisponibile dell’accertamento giurisdizionale penale. In altri termini, un conto è dare rilievo alla fenomenica volontaristica delle parti per quanto concerne la selezione del
materiale probatorio e la scelta del rito; altro è concettualizzare l’intera
trama processuale sull’assunto che il suo avvio e tutto ciò che avviene al
suo interno dipendano esclusivamente dal contegno delle parti. L’indisponibilità del processo penale dipende dall’inscindibile compenetrazione
tra diritto sostanziale e processo, nel senso che in tale ambito quest’ultimo rappresenta lo strumento unico ed esclusivo per l’attuazione del diritto punitivo6. Questo deve rappresentare il necessario punto di partenza
dell’indagine. E’ indispensabile che la decisione giurisdizionale penale tragga la sua efficacia persuasiva dalla giustezza della decisione, intesa nel senso che l’iter dispositivo delle parti culmini, in ogni caso, con la decisione
di un organo terzo e imparziale. Tale esigenza impone alla giurisdizione
penale di essere pienamente cognitiva nonostante tutto l’armamentario
consensualistico delle parti7. Quindi la corretta visione della trama processuale penale appare la seguente: in prima battuta, la parola spetta alle
parti, che possono rinunciare o consentire; in seconda battuta al giudice
che ha un potere di controllo esercitabile d’ufficio. In tale visione il giu-
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dice diviene garante di questa dispositività nel senso che vigila in una situazione di equidistanza. A conclusione di questa breve analisi comparativa è possibile affermare che il valore della dispositività civilistica è inadattabile al processo penale. Però, va anche osservato che, in un ordinamento processuale che riconosce grande rilievo ai poteri delle parti, ponendo il giudice in una posizione di controllo e supplenza, non è azzardato parlare di dispositività. Senza dimenticare, però, che l’esercizio di tali poteri riconosciuti alle parti mai possono condizionare i poteri ufficiosi del giudice finalizzati all’accertamento giurisdizionale. Mentre nella giurisdizione civile, per certi versi, il legislatore legittima una visione agonistica del processo nel senso di “vinca il migliore”; in quella penale è assolutamente da ripudiare. Lo scopo della giurisdizione penale è accertare le
fattispecie di reato e le relative responsabilità, e poiché le parti in conflitto possono non essere eguali quanto a capacità e mezzi, il legislatore pone il giudice in posizione di garante8, che vigila in una situazione di equidistanza, titolare di incisivi poteri d’ufficio. In altri termini la valorizzazione dell’aspetto volontaristico rende il processo penale dispositivo per
quanto attiene alle modalità di acquisizione della prova ed ai percorsi decisori, ma non nei termini evidenziati per il processo civile9. Quindi qualsiasi significato si voglia attribuire al principio in questione il punto fermo è rappresentato dall’indisponibilità dell’accertamento giurisdizionale
penale10. In conclusione, in ambito processual penalistico, alla dispositività
degli strumenti processuali corrisponde la indisponibilità della giurisdizione.
Dott. Fabio Lepore
NOTE
1) Né costituisce un palese esempio l’art. 11 della legge n. 241 del 1990 che disciplina l’attività pattizia nel procedimento. A riguardo c’è chi ha ritenuto che tale norma abbia codificato
la negoziabilità dell’interesse pubblico. Ancora a titolo di esempio possiamo ricordare i condoni nel campo edile e tributario, le convenzioni urbanistiche, ecc.
2) Il momento di svolta, sia pure a livello embrionale è stato individuato nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, dove all’adesione del condannato al programma di
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trattamento penitenziario conseguono considerevoli vantaggi. Tale tendenza ha riguardato poi
la disciplina relativa alla criminalità associata di stampo mafioso e di carattere eversivo estendendo poi i suoi confini ad altri settori della giustizia penale tanto da far temere la nascita di un
diritto penale negoziato.
3) GRIFFO “Volontà delle parti e processo penale”. Sul principio dispositivo cfr.: CARNELUTTI “Sistema di diritto processuale civile”, ANDRIOLI “Lezioni di diritto processuale
civile”, SATTA “Teoria e pratica nel processo, BETTI “Diritto processuale civile”.
4) Il principio subisce alcune eccezioni. Si tratta delle ipotesi nelle quali è necessario che sia
presente una condizione di procedibilità, e cioè la querela, l’istanza, la richiesta o l’autorizzazione a procedere. Proprio perché si tratta di eccezioni, è necessario che vi sia una norma di
legge che, in relazione ad un determinato reato, preveda la singola condizione di procedibilità.
5) Per parte della dottrina la questione è semplicemente di natura terminologica. Secondo
Riccio il tentativo è sempre lo stesso: introdurre indebitamente concetti propri di altro ramo
del diritto, con il risultato di riferire al principio dispositivo ogni atto che sia estrinsecazione della volontà di una delle parti. Dove per volontà si intende l’iniziativa della parte. Secondo lo stesso non è la constatazione della rilevanza della volontà a permettere un discorso in chiave dispositiva, cioè non ogni atto volontario o facoltativo è emanazione del potere dispositivo. (RICCIO, “La volontà delle parti nel processo penale” pag. 219). Invece secondo Massa le parti sarebbero investite di un potere dispositivo: a) nei casi di diritti, poteri o facoltà concernenti aspetti del processo non incidenti sul potere del giudice di accertare la verità; b) nei casi di diritti,
poteri o facoltà concernenti aspetti del processo nei quali sul comportamento delle parti sovrasta il potere del giudice di supplire alla loro eventuale inerzia; c) nei casi di diritti, poteri e facoltà concernenti l’impugnazione dei provvedimenti del giudice. (MASSA “Il principio dispositivo” pag. 373). Di diverso avviso è Riccio secondo il quale, nel primo caso, proprio perché
la volontà della parte non incide sul potere del giudice, non si può parlare di disponibilità; nel
secondo, avendo il giudice un potere sostitutivo, di conseguenza, è negato ogni potere dispositivo della parte in quanto il potere si pone in termini di esclusività; nel terzo caso invece, non
è la presunzione di approssimazione a giustizia del provvedimento a giustificare il potere dispositivo ma l’incidenza che quel provvedimento ha sull’interesse sostanziale, autonomo ed esclusivo di ciascuna parte. (RICCIO “La volontà delle parti nel processo penale” cit. pag. 220.)
6) GRIFFO “Volontà delle parti e processo penale”.
7) Tale esigenza dello Stato di diritto è sancita nel nostro ordinamento dall’art. 27 comma 2
della Cost. che enuncia la presunzione di non colpevolezza, subito dopo l’affermazione del principio di personalità della responsabilità penale (sancito al comma 1 dell’art. 27 della Cost.) e prima della disposizione riguardante l’esecuzione della pena a norma dell’art. 27 comma 3 della
Cost. Per una maggiore trattazione del tema vedi ORLANDI “Provvisoria esecuzione delle sentenze e presunzione di non colpevolezza” in AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, p. 133.
8) Ciò induce TONINI a discorrere di principio dispositivo attenuato.
9) GRIFFO “Volontà delle parti e processo penale”.
10) RICCIO “La volontà delle parti nel processo penale”.
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PARTE S ECONDA
Osservatorio
giurisprudenziale
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Osservatorio giurisprudenziale
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Tribunale Civile di Benevento
Sentenza del 22 giugno 2010
Presidente relatore: dott.ssa G. GIULIANO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 21.10.2008, M. M.R., premettendo
che, in data 22.08.1981, in P., aveva contratto matrimonio con R. L.; che,
dal matrimonio erano nati due figli, R. G., il 1.2.01.1985, e R. L., il
17.04.1988; che, l’unione negli ultimi anni, si era deteriorata al punto da
far venire meno il necessario affectio coniugalis, a causa del carattere del
R. che aggrediva verbalmente la ricorrente, ledendone l’integrità morale
e sociale; che, la M., all’esito di un altro litigio era stata colta da sindrome
ansiosa depressiva e, dopo una degenza in Ospedale si era trasferita a vivere presso sua sorella; tanto premesso, la ricorrente chiedeva, previa fissazione della comparizione delle parti innanzi al Presidente del Tribunale
per l’esperimento del tentativo di conciliazione, ed, in mancanza, per l’emanazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, fosse pronunziata la separazione personale dei coniugi con addebito al marito; con vittoria di
spese e competenze del giudizio.
Si costituiva R. L. che contestava la domanda di parte ricorrente, eccependo che il fallimento dell’unione coniugale era da imputare, in via
esclusiva., alla M. che, sin dal giugno del 2008, aveva abbandonato la casa coniugale e che, già in passato, si era sottratta ai doveri coniugale, intraprendendo, peraltro, una relazione sentimentale con uno dei suoi datori di lavoro. All’udienza presidenziale i coniugi erano autorizzati a vivere
separatamente, e l’uso della casa coniugale concessa al R. con il quale coabitano i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti.
La causa era, poi, istruita, mediante acquisizione della documentazione prodotta dalle parti ed escussione dei testi addotti.
Quindi, sulle conclusioni rassegnate dalle parti, all’udienza del
08.01.2010 la causa era ritenuta alla decisione del Collegio, previa assegnazione dei termini di legge.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
La separazione personale dei coniugi va pronunziata.
Invero, dal ricorso proposto dalla M. e da quanto dedotto in comparsa di costituzione e risposta dal R., appare evidente la ricorrenza dei presupposti per la richiesta separazione giudiziale.
Pacifica ed incontestata risulta, infatti, la sopravvenuta mancanza d’affiatamento coniugale fra le parti e l’insormontabilità oggettiva delle cause
che la hanno determinata.
Palese risulta dagli atti la totale assenza tra i coniugi di corrispondenza d’intenti, elementi indispensabili per la sussistenza. del vincolo matrimoniale tutto ciò ha comportato, quindi, un susseguirsi di circostanze di
fatto, attestate anche dai frequenti attriti, concretatisi in singoli fatti ed episodi che, pur se di natura eterogenea tra loro, complessivamente valutati,
appaiono sintomatici di un’oggettiva impossibilità di prosecuzione del rapporto.
Tali circostanze, quindi, evidenziano l’assenza. tra le parti di corrispondenza d’intenti e, quantomeno, di sopravvenuta affectio coniugalis,
risultando sintomatici di un’oggettiva impossibilità di prosecuzione del rapporto.
Quanto all’addebitabilità della separazione, richiesta da entrambi nei
confronti dell’altro coniuge, va rilevato che essa è emersa palesemente imputabile a M. M.R..
La deposizione resa dai due figli della coppia ha evidenziato che M.
M.R. ha progressivamente manifestato disinteresse verso i figli ed intolleranza verso il coniuge che, certamente non per sua colpa, aveva perso il
lavoro.
R. G. e R. L., pur se con comprensibile difficoltà, hanno attestato che
la madre, da circa tre anni, ed, in particolare, da quando aveva iniziato a
lavorare presso una persona per la quale mostrava particolare interesse, acquistava costosi prodotti di bellezza, mai usati prima, e si abbigliava in modo non consono all’attività di collaboratrice domestica che espletava.
Gli atteggiamenti assunti dalla ricorrente sono stati ritenuti dai due figli altamente sintomatici di una relazione sentimentale, instaurata dalla madre con il datore di lavoro ed, in ogni caso, causa determinante della cri-
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si coniugale, atteso che, come dagli stessi concordemente riferito, prima
la loro “era una famiglia normale”.
Di contro, alcun addebito specifico è emerso a carico del R., che, sebbene colpito da malattia invalidante, è risultato dedito alla famiglia ed alla coltivazione del terreno ed a lavori saltuari, al quale anche i testi addotti
da parte ricorrente si sono limitati ad imputare peculiarità caratteriali che,
tuttavia, fin ad ora non avevano determinato la crisi coniugale.
Pertanto, la palese intolleranza alla nuova situazione economica del coniuge, il disinteresse riguardo alle esigenze dei figli che, proprio perché
maggiorenni, hanno ancor più risentito, a livello morale, della situazione
familiare, costituiscono ragioni più che valide per l’imputabilità esclusiva
del fallimento del matrimonio a M. M.R..
Per quanto suesposto, quindi, la richiesta separazione dei coniugi va pronunziata e l’imputabiluità della stessa va ascritta esclusivamente a M. M.R.
Per quanto attiene, infine, alle statuizioni provvisorie, rese dal Presidente
del Tribunale, va rilevato che le stesse possono essere confermate in ordine alla concessione in uso della casa coniugale al R., in virtù della coabitazione dei due figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti.
Per quanto attiene, invece, alla contribuzione al mantenimento dei due
figli comuni su cui il Presidente ha ritenuto, allo stato degli atti, di non
provvedere, devesi rilevare che l’età anagrafica della M., ancora attiva per
il lavoro, e la circostanza che la stessa ha già esplicato attività di collaboratrice domestica, induce a determinare a suo carico un assegno di complessivi euro 200,00 mensili, per i due figli, da versarsi all’inizio d’ogni
mese e rivalutabile, a far data dalla domanda, secondo gli indici ISTAT.
Alla pronunzia d’addebito consegue la condanna della ricorrente alle
spese del giudizio, liquidate d’ufficio, in assenza di nota spese.
P.Q.M.
Il Tribunale di Benevento, definitivamente pronunziando sulle domande di cui in narrativa, ogni altra istanza, deduzione, eccezione disattesa, così provvede:
1) Dichiara la separazione personale di M. M.R. e R. L., coniugi in virtù
di matrimonio contratto in P., in data 22.08.1.981, trascritto nel regi-
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2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
stro degli atti di matrimonio del Comune di P., al n. 00021, parte Il,
Serie A dell’anno 1981.
Dichiara la separazione dovuta a fatto addebitabile a M. M.R..
Respinge la domanda d’addebito proposta dalla ricorrente nei confronti di R. L.
Assegna l’uso della casa coniugale a R. L.
Pone a carico di M. M.R. un assegno di contribuzione al mantenimento dei due figli, di euro 200,00 mensili, da versarsi all’inizio d’ogni
mese e rivalutabile, a. far data, dalla domanda, secondo gli indici ISTAT
oltre alla contribuzione, in virtù del 50%, alle spese straordinarie.
Conferma, nel resto, quanto statuito nell’ordinanza presidenziale del
05.01.2009.
Condanna M. M.R. al pagamento delle spese processuali, liquidate in
euro 300,00 per spese, euro 900,00 per diritti ed euro 1.100,00 per
onorario d’avvocato, oltre rimborso forfetario I.V.A. e C.P.A. come
per legge.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di legge.
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Tribunale Civile di Benevento
Sentenza del 21 settembre 2010
Presidente relatore: dott.ssa G. GIULIANO
MOTI VAZIONE
Con l’atto introduttivo del giudizio, V. M., I. e G., premettendo che
in data 27.042002 era deceduto V. L., lasciando a sé superstiti i figli, a nome M., I., R., G., S., G. e R.; che il de cuius, con testamento per notar
I. del 28.03.2001 aveva proceduto alla divisione dei beni fra gli eredi legittimi, istituendo, altresì, V. G. e S., eredi per la maggior parte dei beni;
che il de cuius aveva posto a carico di S. e G. l’obbligo di provvedere alla sua assistenza materiale e morale in vita; che, pertanto, il testamento, oltrechè lesivo della legittima era nullo, ovvero, annullabile; tanto premesso,
gli attori chiedevano pronunziarsi lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria, previa declaratoria di nullità ed annulabilità del testamento,
ovvero, in subordine, riduzione delle disposizioni lesive dei diritti dei legittimari. Nel costituirsi in giudizio, V. G. e V. S. hanno contestato la dedotta nullità del testamento e l’eccepita lesione di legittima, aderendo alla sola domanda di scioglimento giudiziale della comunione ereditaria.
La causa è stata, poi, istruita con escussione dei testi addotti ed espletamento di C.T.U..
Quindi, all’udienza del 25.02.2010 è stata ritenuta alla decisione del
Collegio sulla pregiudiziale questione relativa alla nullità del testamento.
Ciò posto, rileva il Collegio che il testamento redatto da V. L. è valido ed efficace.
V. L. ha, infatti, subordinato l’istituzione ereditaria alla condizione risolutiva dell’assistenza materiale e morale, da intendersi come la più ampia possibile, in suo favore, posta a carico delle istituite. Tale condizione
non è però inficiata da nullità o annullabilità.
Va preliminarmente, rilevato che V. L. ha fondato l’istituzione testamentaria sull’assistenza che le figlie avevano già prestato in suo favore, subordinandola anche al prosieguo della sua vita. Sul punto, devesi eviden-
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ziare che, in tema di successione testamentaria, le condizioni sospensive o
risolutive apposte all’istituzione d’erede, secondo le previsioni dell’art. 633
c.c., sono quelle che la fanno dipendere dal caso, dal fatto del terzo o dalla, volontà dell’erede.
La presenza di una clausola testamentaria, condizionale è rivelata non
tanto dalla sua formulazione letterale e dalla sua collocazione nel contesto
del negozio, quanto dal carattere intrinseco del fatto cui è subordinata l’efficacia del negozio stesso, indipendentemente dalle parole adoperate (cfr.
Cassazione civile, sez. II, 09 dicembre 1980, n. 6365; Cassazione civile,
sez. II, 06 ottobre 2005, n. 19463; Cassazione civile, sez. II, 29agosto 1992,
n. 10008).
Peraltro, anche la disposizione testamentaria a carattere sanzionatorio
(o “poenae nomine”) diretta ad esercitare una pressione psicologica sul beneficiario al fine di indurlo a compiere, se vuol conseguire il beneficio,
quanto richiestogli dal testatore, ha lo stesso trattamento della disposizione condizionale, soggetta all’unico limite incidente sulla loro validità. di
non essere impossibili o illecite (Cassazione civile, sez. II, 18 novembre
1991, n. 12340).
Ciò posto, rileva il Collegio che, nel caso di specie, dalla scheda testamentaria di V. L. emerge indiscutibilmente la volontà di condizionare
risolutivamente l’istituzione testamentaria delle figlie S. e G. alla mancata
prestazione d’assistenza morale e materiale in suo favore.
Appare, infatti, evidente che V. L., che già aveva revocato altro testamento in favore dei figli che non gli prestavano assistenza, ha intesto subordinare le disposizioni testamentarie all’obbligo d’assistenza morale e
materiale, da prestare in suo favore.
Difatti, dal contesto della scheda testamentaria redatta da V. L. emerge con evidenza la volontà di assicurarsi l’assistenza morale e materiale, da
intendersi nel senso più ampio, e, soprattutto, in vecchiaia ed in caso di
malattia.
Orbene, rileva il Collegio nel caso di specie, non si può ritenere verificata la condizione risolutiva, cui era subordinata l’istituzione testamentaria di V. G. e V. S.
Dalle risultanze istruttorie non è emerso l’inadempimento di V. G. e
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V. S. all’obbligo di prestare assistenza, cui era risolutivamente subordinata
la loro istituzione testamentaria.
Né, peraltro, gli attori hanno fornito, in merito, adeguata prova contraria.
Sul punto, giova rilevare che il chiamato all’eredità per il caso di mancato avveramento della condizione cui è subordinata la chiamata d’altro
soggetto ha, in quanto tale, interesse a fare accertare l’illegittimità dell’accettazione del precedente chiamato sotto condizione, essendo innegabile
il suo interesse a stabilire in modo certo e definitivo se si sia verificata la
condizione dalla quale dipende la propria chiamata (Cassazione civile, sez.
II, 29 marzo 1982, n. 1928).
Tuttavia, nel caso di specie, gli attori, in qualità di coeredi, si sono limitati a dedurre l’inadempimento di V. S. e G. senza fornire, però, alcun
concreto riscontro di tale assunto.
Sul punto, devesi, infatti, evidenziare che l’obbligo di prestare assistenza non si traduce, necessariamente, in un impegno di natura economica, concretandosi, per lo più, nell’assistenza costante e quotidiana del
beneficia soprattutto, ove vecchio e malato.
Per quanto suesposto, quindi, le disposizioni testamentarie di V. L. sono valide ed efficaci.
In conseguenza, la causa va rimessa sul ruolo per il prosieguo e la discussione del progetto divisionale.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, non definitivamente pronunziando sulle domande di cui
in narrativa, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così, provvede:
1) Rigetta. la domanda principale, proposta con atto di citazione notificato in data 19.051004, da V. M., V. I. e V. G., nei confronti di V. S.,
V. G. e V. R. e, per l’effetto,
2) Dichiara la validità ed efficacia delle disposizioni contenute nel testamento di V. L., redatto per notar I. in data 28.03.2001.
3) Rimette la causa in istruttoria come da separata ordinanza.
4) Spese al definitivo.
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PARTE T ERZA
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Vita dell’avvocatura
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Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
BENEVENTO
REGOLAMENTO DELLA PRATICA FORENSE
1. La domanda di iscrizione al Registro Speciale dei Praticanti Avvocati
istituito presso l’Ordine degli Avvocati di Benevento dovrà essere corredata, oltrechè dalla documentazione espressamente prevista dalla legge, dalla seguente ulteriore documentazione:
- Certificato di laurea attestante che il richiedente ha superato, fra gli altri, i seguenti esami: a) istituzioni di diritto privato; b) diritto civile;
c) diritto commerciale; d) diritto del lavoro; e) diritto amministrativo;
f) diritto penale; g) diritto processuale civile; h) diritto processuale penale; i) diritto costituzionale.
2. Il praticante avvocato avrà l’obbligo di rispettare rigorosamente le
norme in tema di pratica forense previste dal D.P.R. 10/04/1990 n. 101,
nonché le disposizioni normative precedenti non abolite dallo stesso.
3. Il praticante avvocato dovrà depositare il libretto della pratica presso il Consiglio dell’Ordine ogni sei mesi (deposito semestrale da effettuarsi entro un mese dal giorno seguente la scadenza semestrale) compilando
la parte denominata “atti processuali o relativi ad attività stragiudiziali più rilevanti” con l’oggetto di una controversia e l’atto processuale predisposto e la parte denominata “questioni giuridiche di
maggiore interesse” con almeno 5 brevi questioni rappresentate dal
cliente al proprio legale senza l’indicazione di articoli o di attività svolta o
da svolgersi, al fine di consentire la verifica e il controllo dell’attività effettuata nel periodo considerato. La omissione ovvero l’ingiustificato ritardo nel deposito comporterà la cancellazione del praticante avvocato dal
Registro Speciale, ex art. 4, comma III, R.D. 22/01/1934 n. 371.
4. Fermo restando quanto previsto circa la partecipazione alle udienze, la redazione di atti rilevanti nonché la trattazione di questioni giuridiche particolari, solo al termine del primo anno di pratica il praticante avvocato dovrà svolgere due relazioni su due istituti giuridici a scel-
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ta da depositarsi presso il Consiglio dell’Ordine, giusta quanto previsto
dall’art. 7, comma I, D.P.R. 101/902.
5. La partecipazione alle venticinque udienze per semestre dovrà essere documentata mediante l’annotazione delle stesse (indicandone l’autorità
giudiziaria, il numero di ruolo, le parti e la data di svolgimento) nel libretto
della pratica; le udienze non devono essere di mero rinvio e ciò risulterà
da apposita fotocopia del verbale dell’udienza o da autocertificazione che
obbliga l’Ente che la riceve a dei controlli a campione che verranno effettuati richiedendo copia del verbale di causa dell’udienza alla quale il praticante ha autodichiarato di aver partecipato. Al fine di consentire un adeguato controllo di tale adempimento, il praticante avvocato dovrà:
- depositare, personalmente, due volte al mese, dal lunedì al venerdì,
dalle ore 9.00 alle ore 12.30, presso la Segreteria dell’Ordine degli
Avvocati, il libretto stesso, unitamente alle fotocopie del verbale o alla autocertificazione comprovante le udienze alle quali ha partecipato.
Il libretto della pratica gli sarà restituito (dopo l’apposizione del visto
di controllo da parte del Presidente del Consiglio dell’Ordine ovvero
dal Consigliere a tanto delegato) a partire dal giorno successivo a quello di deposito. Saranno svolti controlli a campione3;
- Non è possibile effettuare due movimenti nella stessa mattinata, nel
senso che un giorno si deposita ed un altro si ritira;
- Per ottenere i due visti mensili occorre almeno una udienza del mese
corrente per ciascun visto; quelle dei mesi precedenti possono essere
inserite per integrazione purchè appartengano allo stesso semestre;
- Per l’apposizione del secondo visto mensile, almeno una delle udienze trascritte sul libretto dovrà essere successiva al primo timbro
mensile;
- Nel mese di agosto non si effettuano depositi;
- Nel mese di settembre è necessario un solo visto;
- Qualora in un mese non sia riesca ad ottenere uno o entrambi i visti,
si potrà recuperarli nel mese immediatamente successivo e si sommeranno, pertanto, ai due visti obbligatori previsti in quel mese;
- Qualora entro la fine del semestre non si riesca a raggiungere il numero di 25 udienze, si potrà recuperare nel semestre successivo, pre-
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via autorizzazione del Consigliere Delegato e purchè si siano raccolte almeno 20 udienze;
- Sul libretto di pratica non devono essere trascritte udienze superiori
al n.25, salvo recuperi previsti.
6. Dal 1° giorno del secondo anno di pratica, il praticante avvocato
potrà richiedere il patrocinio, da esercitare nelle forme e con le modalità
previste dalla normativa vigente (Vedi Nota A). L’esercizio potrà avvenire
solo dopo il giuramento dinanzi al Presidente del Tribunale di Benevento,
da effettuarsi alla presenza del Presidente del Consiglio dell’Ordine o di
Consigliere delegato.
7. Il patrocinio può essere concesso al praticante iscritto nel Registro
in qualsiasi momento, anche post biennio, ma la sua durata (6 anni) è computata a partire dal primo giorno del secondo anno di iscrizione nel Registro
dei Praticanti, indipendentemente dalla data di richiesta del patrocinio, di
talchè la permanenza nel registro dei Praticanti abilitati al patrocinio non
può, in nessun caso, superare i sei anni successivi al primo anno di pratica senza abilitazione. (ex circolare n.5/07 C.N.F. e parere n°9 del
20/2/2008). Al termine dei sei anni, il praticante abilitato decadrà e sarà
reinserito nel registro dei praticanti senza abilitazione.
8. Al termine del biennio di pratica, a seguito del rilascio del certificato di compiuta pratica, i praticanti avvocati con o senza l’abilitazione al patrocinio, non dovranno continuare a rispettare l’obbligo relativo al deposito semestrale del libretto della pratica; il praticante rimarrà iscirtto nel Registro, salvo sua richiesta di cancellazione; in caso di
permanenza nel Registro l’unico onere previsto è il versamento della quota di iscrizione;
9. I praticanti avvocati iscritti nel Registri dei Praticanti con abilitazione al patrocinio, sono tenuti a conseguire, a decorrere dal 1° gennaio
successivo al rilascio del certificato di compiuta pratica, i crediti
formativi di cui al Regolamento del C.N.F.del 13/7/07 recepito dal
Consiglio dell’Ordine con delibera del 26/10/2007 mediante partecipazione agli eventi formativi validi a tal fine.
10. I praticanti avvocati iscritti nel Registro Speciale a far tempo dal
01/01/2000, con e senza abilitazione al patrocinio, nel corso del bien-
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nio, dovranno seguire i corsi di formazione professionale che il Consiglio
dell’Ordine istituirà, rispettando le modalità e i termini che saranno resi
pubblici tempestivamente. La partecipazione ai corsi di formazione, necessaria ai fini del rilascio di compiuta pratica, non sarà sostitutiva degli
obblighi previsti per il praticante.
11. Per quanto non espressamente previsto dal presente Regolamento,
si intendono richiamate le disposizioni vigenti in materia, nonché le disposizioni di carattere amministrativo deliberate in precedenza dal Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Benevento.
12. Per ogni e qualunque difficoltà derivante dall’interpretazione e
dall’applicazione del presente Regolamento, i praticanti avvocati sono
espressamente invitati a rivolgersi per chiarimenti al Coordinatore della
Commissione Albi, referente del Consiglio per tutto quanto relativo alla
pratica forense.
13. Si fa presente che il presente regolamento potrà subire variazioni
nel rispetto e conformemente ai pareri e circolari del C.N.F.; in tal caso
sarà cura dell’Ordine comunicare tempestivamente agli iscritti eventuali
modifiche anche con la pubblicazione sul sito ufficiale dell’Ordine.
Parere C.N.F. relativo alla pratica.
In relazione alla Vostra richiesta di parere del 20 Giugno scorso, comunico che la Commissione consultiva ha esaminato la richiesta nella seduta del 12 Luglio 2000, ed ha deliberato quanto segue.
Il quesito concerne il trattamento di alcune ipotesi che comportano
l’impossibilità temporanea per il praticante di svolgere la pratica forense.
Dopo ampia discussione, la Commissione fa propria la richiesta del relatore, ed adotta il seguente parere:
- i casi prospettati di gravidanza, malattia, servizio di leva, servizio civile sostitutivo della leva integrano ipotesi di sospensione dello svolgimento della pratica forense; questa, diversamente dai casi di interruzione, può riprendere al cessare della relativa causa, senza che il soggetto perda il diritto al riconoscimento del periodo già maturato, previa istanza al Consiglio dell’Ordine attestante l’impedimento di cui so-
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pra con allegata certificazione: in tal caso il Consiglio autorizzerà alla
continuazione della pratica (ciò si intende per un periodo di inattività
non superiore a sei mesi).
Per ciò che concerne eventuali corsi di formazione, la frequenza a
Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali e a Corsi riconosciuti dal Consiglio dell’Ordine competente, possono essere ritenuti sostitutivi di non oltre un anno di pratica (vedi il D.P.R. n° 101/1990) ed anche
del Corso obbligatorio; il praticante che vorrà avvalersi di detta sostituzione dovrà depositare presso la Segreteria del Consiglio dell’Ordine istanza con allegato certificato di frequenza alla Scuola: al termine del biennio,
al fine del rilascio del certificato di compiuta pratica, il Praticante
dovrà depositare il diploma rilasciato dalla Scuola (o un certificato sostitutivo dello stesso purchè attesti che lo stesso diploma
originale non è stato consegnato). (Approvato nella seduta del 6 marzo 2008 - Modificato nella seduta del 1 ottobre 2010).
Benevento, 15/02/07.
IL PRESIDENTE
IL CONSIGLIERE DELEGATO
Avv. Umberto Del Basso De Caro
Avv. Alberto Mazzeo
L’ASSISTENTE DI SEGRETERIA
Luciana Festa
NOTA A
Art. 7 L.479/1999: “I Praticanti Avvocati, dopo il conseguimento dell’abilitazione al patrocinio, possono esercitare l’attività professionale ai sensi del regio decreto 27 novembre 1933 n.
1578, convertito con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934 n. 36 e successive modificazioni,
nella cause di competenza del giudice di pace e dinanzi al Tribunale in composizione monocratica, limitatamente: a) negli affari civili: 1) alle cause, anche se relative a beni immobili, di
valore non superiore a £ 50.000.000; 2) alle cause per le azioni possessorie, salvo il disposto
dell’art. 688, secondo comma, del codice di procedura civile; 3) alle cause relative ai rapporti di
locazione e di comodato di immobili urbani ed a quelli di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie; E’ fatta eccezione per lavoro e previdenza;
b) negli affari penali: 1) alle cause, per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva
non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla pre-
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detta pena detentiva; 2) alle cause per i seguenti reati: violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale prevista dall’art. 336, primo comma, del c.p.; resistenza ad un pubblico ufficiale prevista
dall’art. 337 del c.p.; oltraggio ad un magistrato in udienza aggravato a norma dell’art. 343 secondo comma del c.p.; violazione di sigilli aggravata a norma dell’art. 349, secondo comma, del
c.p.; favoreggiamento reale previsto dall’art. 379 del c.p.; maltrattamenti in famiglia o verso i
fanciulli, quando non ricorre l’aggravante previsto dall’art. 572 secondo comma del c.p., rissa
aggravata a norma dell’art. 588, secondo comma del c.p.; con l’esclusione delle ipotesi in cui
nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; omicidio colposo previsto dall’art. 589 del c.p.; violazione del domicilio aggravata a norma dell’art. 614, quarto comma del c.p.; furto aggravato a norma dell’art. 625 del c.p.; truffa aggravata a norma dell’art.
640 secondo comma, del c.p.; ricettazione prevista dall’art. 648 del c.p.” E’ fatta eccezione dunque, per lavoro e previdenza.
NOTE
1) Il termine di sei mesi è previsto ex lege, la sua osservanza è tesa a documentare la continuità della pratica forense richiesta dalla legge. E’ evidente che verranno valutati gli eventuali
casi di comprovata e documentata impossibilità, corroborata da apposita e specifica certificazione del “dominus”.
2) Deve ribadirsi che le relazioni devono essere depositate solo al termine del primo anno
di pratica mentre la sintetica indicazione degli atti più rilevati redatti e dell’oggetto degli stessi
deve essere sempre riportata allorquando si effettua il deposito semestrale del libretto.
3) Al solo scopo di permettere una migliore formazione, si suggerisce di assistere ad udienze trattate sia dinanzi al Giudice di Pace che dinanzi al Tribunale e alla Corte d’Appello, tanto
in materia civile che penale.
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Contributo unificato dal 2010
Salgono ancora, dopo le modifiche recentemente apportate dalla finanziaria 2010 (L. n. 191/2009), gli importi dovuti a titolo di contributo unificato per i procedimenti civili.
L’incremento, fissato nella misura del 10%, è previsto dall’art. 48-bis
del Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 recante “Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, così
come introdotto dalla legge di conversione del 30 luglio 2010, n. 122.
Il contributo unificato per i procedimenti giurisdizionali civili, a decorrere dal 31 luglio 2010, è pertanto dovuto nei seguenti importi:
a) euro 33 per i processi di valore fino a 1.100 euro;
b) euro 77 per i processi di valore superiore a euro 1.100 e fino
a euro 5.200 e per i processi di volontaria giurisdizione, nonché per i processi speciali di cui al libro IV, titolo II, capo VI,
del codice di procedura civile;
c) euro 187 per i processi di valore superiore a euro 5.200 e fino a euro 26.000 e per i processi contenziosi di valore indeterminabile di competenza esclusiva del giudice di pace;
d) euro 374 per i processi di valore superiore a euro 26.000 e fino a euro 52.000 e per i processi civili e amministrativi di valore indeterminabile;
e) euro 550 per i processi di valore superiore a euro 52.000 e fino a euro 260.000;
f) euro 880 per i processi di valore superiore a euro 260.000 e
fino a euro 520.000;
g) euro 1.221 per i processi di valore superiore a euro 520.000.
Ritoccato altresì l’importo dovuto per le procedure esecutive, così come risulta dalle modifiche apportate al comma 2 dell’art. 13 del T.U. delle Spese di Giustizia.
Per i processi di esecuzione immobiliare il contributo dovuto è pari a euro 220. Per gli altri processi esecutivi lo stesso importo è ridotto della metà. Per i processi esecutivi mobiliari di
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valore inferiore a 2.500 euro il contributo dovuto è pari a euro
30. Per i processi di opposizione agli atti esecutivi il contributo
dovuto è pari a euro 132.
Il maggior gettito che ne deriverà, nelle intenzioni del legislatore, è
destinato a sopperire ai costi connessi con l’assunzione di circa 250 magistrati ordinari già vincitori dell’ultimo concorso.
Contributo unificato: aumento del 10% dal 31 luglio 2010.
Si riportano gli articoli del Testo unico delle spese di giustizia
(DPR 115/2002) come modificati dalla finanziaria 2010 - Legge 23
dicembre 2009, n. 191 (art. 2 comma 212), recentemente pubblicata in
Gazzetta Ufficiale. Sono evidenziate le parti interessate dalle modifiche.
Sebbene gli importi dei vari scaglioni di valore in base ai quali il contributo unificato di iscrizione a ruolo viene versato non siano stati
ritoccati, è stato introdotto il versamento del contributo stesso anche laddove in precedenza non era previsto, con l’evidente duplice finalità di scoraggiare il contenzioso, così alleggerendo il carico dei ruoli di giustizia,
nonché di rivitalizzare le esangui casse dell’erario.
Vanno in particolare evidenziati:
a) L’introduzione del contributo per le opposizioni a sanzioni
amministrative ex art. 23 della legge 24 novembre 1981, n.
689 per cui allo scopo è stato aggiunto il comma 6 bis all’art.
10 del T.U.
b) L’abrogazione del 4 comma dell’art. 10 del T.U., così estendendo il contributo unificato a tutte le procedure esecutive
mobiliari, sebbene per le procedure di valore inferiore ad euro 2.500,00 il valore del contributo unificato anziché pari ad
euro 100,00 è fissato nella misura di euro 30,00 (art. 13 comma 2 del T.U.).
c) L’introduzione nei giudizi di cui alla Legge 2 aprile 1958, n.
319 (Esonero da ogni spesa e tassa per i giudizi di lavoro) del
contributo unificato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione (art. 10, comma 6 bis del T.U.)
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d) L’abrogazione del 4 comma dell’art. 13 del T.U. Ne deriva che
i processi in materia di locazione, comodato, occupazione
senza titolo e di impugnazione di delibere condominiali non
sono più soggetti al contributo fisso pari ad euro 103,30, ma
alla conseguente applicazione del contributo unificato in base al valore della causa.
***
ARTICOLO 9
Contributo unificato.
1. È dovuto il contributo unificato di iscrizione a ruolo, per ciascun
grado di giudizio, nel processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, e nel processo amministrativo, secondo gli importi previsti dall’articolo 13 e salvo quanto previsto
dall’articolo 10.
ARTICOLO 10
Esenzioni
1. Non è soggetto al contributo unificato il processo già esente, secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza o di valore, dall’imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura,
nonché il processo di rettificazione di stato civile, il processo in materia
tavolare, il processo esecutivo per consegna e rilascio, il processo di cui
all’articolo 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89.
2. Non è soggetto al contributo unificato il processo, anche esecutivo, di opposizione e cautelare, in materia di assegni per il mantenimento
della prole, e quello comunque riguardante la stessa.
3. Non sono soggetti al contributo unificato i processi di cui al libro
IV, titolo II, capi I, II, III, IV e V, del codice di procedura civile.
[4. Non è soggetto al contributo unificato il processo esecutivo mobiliare di valore inferiore a euro 2.500.
5. Il contributo unificato non è dovuto per il processo cautelare attivato in corso di causa e per il processo di regolamento di competenza e di giurisdizione.] (Commi abrogati dalla finanziaria 2010).
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6. La ragione dell’esenzione deve risultare da apposita dichiarazione
resa dalla parte nelle conclusioni dell’atto introduttivo.
6-bis. Nei procedimenti di cui all’articolo 23 della legge 24
novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni, gli atti del
processo sono soggetti soltanto al pagamento del contributo unificato, nonché delle spese forfetizzate secondo l’importo fissato
all’articolo 30 del presente testo unico. Nelle controversie di cui
all’articolo unico della legge 2 aprile 1958, n. 319, e successive
modificazioni, e in quelle in cui si applica lo stesso articolo, è in
ogni caso dovuto il contributo unificato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione.
ARTICOLO 13
Importi
1. Il contributo unificato è dovuto nei seguenti importi:
a) euro 30 per i processi di valore fino a 1.100 euro;
b) euro 70 per i processi di valore superiore a euro 1.100 e fino a euro 5.200 e per i processi di volontaria giurisdizione, nonché per i processi speciali di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del codice di procedura civile;
c) euro 170 per i processi di valore superiore a euro 5.200 e fino a euro 26.000 e per i processi contenziosi di valore indeterminabile di competenza esclusiva del giudice di pace;
d) euro 340 per i processi di valore superiore a euro 26.000 e fino a
euro 52.000 e per i processi civili e amministrativi di valore indeterminabile;
e) euro 500 per i processi di valore superiore a euro 52.000 e fino a
euro 260.000;
f) euro 800 per i processi di valore superiore a euro 260.000 e fino a
euro 520.000;
g) euro 1.110 per i processi di valore superiore a euro 520.000.
2. Per i processi di esecuzione immobiliare il contributo dovuto è pari a euro 200. Per gli altri processi esecutivi lo stesso
importo è ridotto della metà. Per i processi esecutivi mobiliari
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di valore inferiore a 2.500 euro il contributo dovuto è pari a euro 30.
Per i processi di opposizione agli atti esecutivi il contributo
dovuto è pari a euro 120.
2-bis. Fuori dei casi previsti dall’articolo 10, comma 6-bis, per
i processi dinanzi alla Corte di cassazione, oltre al contributo unificato, è
dovuto un importo pari all’imposta fissa di registrazione dei provvedimenti
giudiziari.
3. Il contributo è ridotto alla metà per i processi speciali previsti nel
libro IV, titolo I, del codice di procedura civile, compreso il giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo e di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Ai fini del contributo dovuto, il valore dei processi di
sfratto per morosità si determina in base all’importo dei canoni non corrisposti alla data di notifica dell’atto di citazione per la convalida e quello
dei processi di finita locazione si determina in base all’ammontare del canone per ogni anno.
[4. Per i processi in materia di locazione, comodato, occupazione senza titolo e di impugnazione di delibere condominiali, il contributo dovuto
è pari a euro 103,30] (Comma abrogato dalla Finanziaria 2010).
5. Per la procedura fallimentare, che è la procedura dalla sentenza dichiarativa di fallimento alla chiusura, il contributo dovuto è pari a euro
672.
6. Se manca la dichiarazione di cui all’articolo 14, il processo si presume del valore indicato al comma 1, lettera g).
6-bis. Per i ricorsi proposti davanti ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato il contributo dovuto è di euro 500; per i ricorsi previsti dall’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, per
quelli previsti dall’articolo 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241,
per i ricorsi aventi ad oggetto il diritto di cittadinanza, di residenza, di soggiorno e di ingresso nel territorio dello Stato e per i ricorsi di esecuzione della sentenza o di ottemperanza del giudicato il contributo dovuto è
di euro 250; per i ricorsi previsti dall’articolo 23-bis., comma 1, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nonché da altre disposizioni che richiamano il citato articolo 23-bis, il contributo dovuto e` di euro 1.000; per i
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predetti ricorsi in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture, nonché di provvedimenti delle Autorità, il contributo dovuto è di euro 2.000.
L’onere relativo al pagamento dei suddetti contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale
delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. Ai fini predetti,
la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza.
Non è dovuto alcun contributo per i ricorsi previsti dall’articolo 25 della
citata legge n. 241 del 1990 avverso il diniego di accesso alle informazioni di cui al decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, di attuazione della
direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.
6-ter. Il maggior gettito derivante dall’applicazione delle disposizioni
di cui al comma 6-bis è versato al bilancio dello Stato, per essere riassegnato allo stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze,
per le spese riguardanti il funzionamento del Consiglio di Stato e dei
Tribunali amministrativi regionali.
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“ Giudizio e pregiudizio. Sogno o realta’?”
Ho fatto un sogno:
“Ogni Avvocato è protagonista del giudizio nel suo divenire, cercando
di orientare in modo a sé favorevole la decisione della res controversa.
Ogni Giudice è autore di quel dicere ius che sfocia nel provvedimento
finale del processo, sintesi del fatto e del diritto sulla base della prospettazione offerta dalle parti.
Queste sono le coordinate essenziali che concorrono alla formazione di
ogni giudizio.
Il risultato rischia seriamente di essere falsato allorquando venga sovvertito il tempo ed il modo del suo naturale fluire.
Laddove il Giudice sostituisca al giudizio il pregiudizio, – nel senso
etimologico del termine (cioè: giudicare prima) –, sulla base della semplice
percezione di impressioni, sposando acriticamente le ragioni di una parte
o prescindendo dal completo esame del materiale istruttorio, verrà meno
alla prerogativa peculiare della Sua funzione.
In tal caso il Giudice non solo non sarà terzo ma non apparirà tale agli
occhi di (almeno) uno dei contendenti.
E’ vero che l’argomento è delicato ed è spesso abusato dagli Avvocati
nel tentativo di giustificare una decisione sfavorevole (nemo propheta in patria), ma è altrettanto vero che qualche volta capita di avvertire la forte percezione che al giudizio si sostituisca il pregiudizio.
E’ una percezione impalpabile che aleggia sul processo, una cappa pesante che lo permea condizionandone lo svolgimento ed i comportamenti
dei suoi protagonisti.
Tutto viene vissuto in una strana penombra ed il Giudice viene visto
non come Arbitro esclusivo ma come una ulteriore Parte (rectius:
Controparte).
Cambia completamente la prospettiva della difesa; la serenità lascia il
posto all’inquietudine, la calma all’ansia, la lucidità al nervosismo di doversi difendere su più fronti, avventurare su terreni diversi ed inconsueti.
Il processo diviene un incubo, un girone infernale da cui uscire in
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Vita dell’avvocatura
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qualche modo nella speranza di giocare il round successivo innanzi ad un
Giudice finalmente terzo.
Il pregiudizio non è sconosciuto nemmeno agli Avvocati, quale aprioristica diffidenza nel Giudicante o nel Collega di controparte, molto spesso assimilato a quest’ultima.
Ciò comporta una inevitabile deminutio della delicata funzione difensiva, perno centrale dell’Avvocatura, e lascia il campo ad una rigidità di
comportamento dettata da preconcetti ed antipatie.
Tramonta così il dialogo che deve sempre esistere nella dialettica processuale; esistono soltanto monologhi difensivi rivolti al Giudice e tesi sistematicamente ad ignorare le ragioni dell’altra parte.
Vi è un abbassamento della soglia di attenzione, un appannamento della attività di esame delle argomentazioni avversarie, la sostituzione alla complessa realtà processuale (fatta di molteplici sfaccettature) di una realtà esclusivamente incentrata sulle proprie ragioni.
Vi è infine per l’Avvocato un modo ben più grave di intendere la locuzione pregiudizio: quello di determinare l’esito negativo della controversia con comportamenti improntati alla sufficienza, alla approssimazione o alla esaltazione del proprio ego.
In parole povere: quello di pregiudicare la causa!
In tal modo si diventa non solo mandante ed esecutore dell’omicidio
del giudizio ma anche del suicidio della funzione difensiva.
Il peggio si ha quando nell’omicidio della causa e nella istigazione del
suicidio della funzione difensiva concorrono più esecutori, Avvocati e
Giudici che siano.
In tal caso il processo sarà stato soltanto l’occasione per scrivere la pagina di un thriller giudiziario pieno di colpi di scena e di suspance.”
Di improvviso mi sveglio sudato e senza fiato, mi siedo sul letto e penso: meno male, questo assurdo contesto surreale è soltanto frutto di un incubo, di un brutto scherzo della mia fantasia.
O no?
Ugo Campese
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Vita
dell’avvocatura
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Comunicazione consultazione
biblioteca sito web
Lo Studio Legale Campese comunica che nella sezione “biblioteca”
del proprio sito www.studiocampese.it è stato inserito un form per richiedere la consultazione gratuita degli oltre 1000 volumi monografici riguardanti il diritto civile (con particolare riferimento ai settori del diritto
commerciale, societario, bancario, dei contratti, delle successioni e del lavoro), il diritto processuale civile, il diritto fallimentare, il diritto tributario ed il diritto dell’informatica, nonché dei Trattati, dei Commentari,
delle Collane, delle Riviste e della Banche Dati esistenti presso la sede di
Benevento.
La possibilità di consultazione è estesa a tutti coloro che ne abbiano
necessità per motivi di studio o professionali.
Si prega di dare cortese notizia del presente comunicato.
Benevento, 15 settembre 2010.
Per lo Studio
Avvocato Ugo Campese
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PARTE Q UARTA
Attualità legislative
e giurisprudenziali
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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Corte Costituzionale
Ordinanza 7 - 22 luglio 2010 n. 276
Presidente: F. AMIRANTE - Relatore: A. CRISCUOLO
- OMISSIS Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 107, 108,
143, 143-bis, 156-bis del codice civile, nella parte in cui non consentono
il matrimonio tra persone del medesimo sesso;
che, come la Corte rimettente riferisce, l’ufficiale di stato civile di
Firenze ha respinto la richiesta di B. E. e di R. M., diretta ad ottenere la
pubblicazione di matrimonio, “ritenendo l’istituto inaccessibile alle persone dello stesso sesso”;
che il Tribunale di Firenze, al quale gli interessati hanno proposto tempestivo ricorso, ha confermato il diniego, “considerando la decisione
dell’Ufficiale di stato civile coerente alla legislazione vigente e all’assetto
costituzionale della Repubblica”;
che i richiedenti hanno proposto reclamo alla Corte di appello di Firenze,
osservando quanto segue: a) non è reperibile nell’ordinamento alcuna esplicita definizione del matrimonio, in effetti mutuata per via esegetica dalla
realtà sociale; b) non vi è una disposizione normativa diretta a vietare in modo espresso il matrimonio tra persone omosessuali; c) l’evoluzione sociale
rende pienamente accettabile l’unione coniugale tra persone dello stesso sesso; d) la possibilità di contrarre matrimonio con la persona prescelta esprime un diritto inalienabile dell’essere umano; e) nessuna discriminazione di
tipo sessuale può comprimere tale diritto; f) l’autonomia privata non è in
grado di sopperire alla disciplina pubblicistica del matrimonio, sia sotto il
profilo delle garanzie, sia sotto il profilo dei vincoli; g) il divieto di matrimonio omosessuale non soltanto è privo di valida base normativa, ma comprime un diritto fondamentale della persona, lede il principio di uguaglianza
e comporta una discriminazione basata sull’orientamento sessuale;
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
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che, pertanto, i reclamanti hanno chiesto, in via principale, la riforma
del provvedimento impugnato, con l’ordine di procedere alla pubblicazione del matrimonio sulla base dell’interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata della legge esistente, o comunque, in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108,
143, 143-bis, 156-bis cod. civ., per contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 13, 29
e 117 Cost.;
che il Procuratore generale della Repubblica ha espresso parere contrario all’accoglimento del reclamo;
che, ad avviso della Corte rimettente, la domanda principale non può
essere accolta, in quanto l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale “impone d’interpretare le norme senza stravolgere il significato delle parole attraverso le quali si manifesta l’intenzione del legislatore e non v’è
dubbio che nella lingua italiana per matrimonio s’intenda il “rapporto di
convivenza dell’uomo e della donna in accordo con la prassi civile ed eventualmente religiosa, diretta a garantire la sussistenza morale, sociale e giuridica della famiglia” (dizionario Devoto-Oli)”;
che, del resto, il Tribunale ha posto in evidenza i plurimi riferimenti
normativi che, confermando l’analisi etimologica, portano ad escludere la
volontà del legislatore di alludere con quel termine a qualcosa di diverso,
ed ha ricordato che non spetta al giudice dare veste istituzionale, o comunque rilevanza giuridica, ai mutamenti intervenuti nel costume e nella sensibilità sociale, al di là di quanto rientra nel ragionevole esercizio della funzione ermeneutica;
che, invece, secondo il giudice a quo, si deve dubitare della legittimità
costituzionale del divieto di matrimonio omosessuale, in base all’orientamento seguìto dal Tribunale di Venezia (ordinanza 3 aprile 2009) e dalla
Corte di appello di Trento (ordinanza 9 luglio 2009) che, in casi del tutto analoghi, svolgendo argomenti pregevoli e di ampio respiro, hanno rimesso gli atti alla Corte costituzionale per lo scrutinio di legittimità del
menzionato divieto;
che, “rinviando in linea di massima alle corpose motivazioni dei giudici già remittenti”, la Corte territoriale considera arduo negare al diritto di sposarsi – non a caso divenuto uno dei cavalli di battaglia delle mi-
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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litanze omosessuali in tutto il mondo – la dignità di diritto fondamentale
della persona, richiamando al riguardo l’art. 2 Cost., nel cui ambito l’unione coniugale va ricondotta, come sodalizio in cui si esprime la personalità dell’individuo;
che l’istituto de quo esprimerebbe uno dei profili essenziali in cui si
manifesta la dignità umana, come “riconosciuto dagli artt. 12 e 16 della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948,
nonché dagli artt. 8 e 12 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 20 marzo 1952 e, infine, dagli artt. 7 e 9 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
del 7 dicembre 2000, sicché ogni interpretazione riduttiva della prospettive di tutela accennata sembra del tutto insostenibile”;
che l’art. 3 Cost. impedisce che l’inclinazione sessuale possa costituire motivo di discriminazione tra i cittadini, onde, secondo il rimettente,
bisogna ritenere garantita dall’ordinamento la possibilità di scegliere un coniuge dello stesso sesso, allo stesso modo in cui il principio di uguaglianza assicura la libertà di scegliere un coniuge di una certa razza, religione
o condizione personale;
che “il progresso della sensibilità comune ha ormai felicemente emancipato l’omosessualità dal ghetto di emarginazione, se non di aperta repressione, in cui ideologie autoritarie del passato l’avevano confinata, facendo comprendere e rispettare alla generalità dei consociati “un modo
d’essere” (per usare le parole spese da Corte Cost. n. 165/1985 per i transessuali) che risponde a moti insindacabili dell’animo umano, di cui la normativa di un ordinamento civile non può che prendere atto e consentire
l’affermazione, evitando anzi ingerenze e sgombrando il campo da ogni
ostacolo al dispiegarsi del diritto di autodeterminazione di ciascuno”;
che, inoltre, la trasformazione dei costumi ha portato, secondo il giudice a quo, al superamento del monopolio detenuto dal modello della famiglia tradizionale cattolica nel dettare lo stile dei rapporti di convivenza
ed offre esempi sempre più frequenti di legami alternativi, che aspirano
legittimamente ad ottenere dignità e riconoscimento istituzionale;
che l’esclusione degli omosessuali dalla possibilità di contrarre tra loro il vincolo coniugale non può fondatamente discendere, secondo il ri-
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
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mettente, dal rilievo secondo cui l’art. 29 Cost. riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, “sia perché la tutela della famiglia supposta “naturale” potrebbe tranquillamente estendersi
ad una famiglia “meno naturale” o “diversamente naturale” senza per questo rinnegare se stessa, sia perché, equiparando aprioristicamente la “famiglia naturale” a quella composta da uomo e donna, si cade in una petizione di principio che il giudice delle leggi potrebbe a buon diritto scardinare, riconoscendo che nella società odierna il crisma della “naturalità”
può essere tranquillamente riconosciuto anche alla convivenza omosessuale”;
che, infatti, volendo definire un concetto di unione coniugale adatto ai
tempi, il dato di natura non sarebbe da considerare immutabile, ma andrebbe
filtrato e desunto dagli esiti concreti dell’evoluzione sociale, come sarebbe
desumibile dalle esperienze storiche nelle varie regioni del mondo;
che, paradossalmente, il vero limite idoneo a frenare l’allargamento
dell’istituto coniugale alle coppie omosessuali starebbe nella considerazione per cui il “diritto” al matrimonio “non reca soltanto benefici, ma trascina una nutrita serie di controindicazioni, ammantando lo sposo di una
veste intessuta di connotazioni largamente coercitive”, in quanto comporta
“pesanti limitazioni nella sfera delle libertà individuali, quali l’obbligo di
coabitazione, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di fedeltà
sessuale, che sarebbero inconcepibili senza sottendere il perseguimento di
una finalità superiore”;
che questa riflessione smentisce apertamente, secondo il rimettente, la
possibilità per l’autonomia privata di supplire in modo adeguato alla disciplina matrimoniale, all’evidenza pervasa da interessi pubblicistici, sicché
nessun contratto potrebbe obbligare alla coabitazione o alla fedeltà sessuale, ma soltanto il matrimonio potrebbe assicurare agli omosessuali il conseguimento di tale risultato, peraltro non privo di costi che nella coppia
eterosessuale (almeno ab origine) trovano corrispettivo nella finalità procreativa e, quindi, si collegano “alla necessità di saldare un nucleo stabile
iperprotettivo a fondamento della famiglia”;
che, in quest’ottica, “il divieto del matrimonio tra omosessuali perderebbe così ogni sapore discriminatorio per assumere una funzione addi-
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rittura di salvaguardia, nei confronti di chi, non potendo procreare, verrebbe messo al riparo da impegni che l’ordinamento considera altrimenti
intollerabili”;
che, tuttavia, la finalità procreativa, continua ancora il giudice a quo,
svolge ormai un ruolo soltanto tendenziale nel giustificare l’instaurazione
del matrimonio, istituto sicuramente accessibile alle coppie eterosessuali
sterili, “nel perseguimento di interessi solidaristici e morali che sarebbe
palesemente incongruo precludere alle coppie omosessuali”, avuto riguardo
anche alle nuove tecniche di procreazione;
che, pertanto, “l’evocazione dell’originaria finalità procreativa alla radice dell’istituto matrimoniale si rivela quanto meno azzardata allo scopo
di rendere accettabile sul piano della legittimità costituzionale la “protezione” degli omosessuali dalla “schiavitù” coniugale, sicché il discorso non
riesce a dissipare soddisfacentemente i dubbi in precedenza avanzati sulla
fisionomia discriminatoria dell’esclusione”;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio con atto
depositato l’11 maggio 2010, sostenendo che la questione sarebbe inammissibile e, comunque, infondata perché con conterrebbe alcun elemento di sostanziale novità o diversità rispetto alle questioni già risolte da questa Corte con la sentenza n. 138 del 2010.
Considerato che la Corte di appello di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della
Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 107, 108, 143,
143-bis, 156-bis del codice civile, “nella parte in cui non consentono il
matrimonio tra persone del medesimo sesso”;
che questa Corte, con la sentenza n. 138 del 2010, emessa a seguito
delle ordinanze del Tribunale di Venezia e della Corte d’appello di Trento
menzionate dall’attuale rimettente, ha già esaminato la questione di legittimità costituzionale delle norme in questa sede censurate, in riferimento
ai parametri costituzionali qui richiamati, nonché all’art. 117, primo comma, Cost. (che non può ritenersi evocato dalla Corte fiorentina mediante la generica relatio ai citati provvedimenti del Tribunale di Venezia e della Corte di appello di Trento);
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
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che, in particolare, con la sentenza n. 138 del 2010 la questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost. è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata;
che con la medesima sentenza la questione, sollevata con riferimento
ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost., è stata dichiarata non fondata, sia perché l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo
significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, sia perché (in ordine all’art. 3 Cost.) le unioni omosessuali non
possono essere ritenute omogenee al matrimonio;
che non risultano qui allegati profili diversi o ulteriori, idonei a superare gli argomenti addotti nella precedente pronuncia;
che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale, sollevata con
riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, e la questione sollevata con riferimento agli artt. 3 e 29 Cost.
deve essere dichiarata manifestamente infondata (ex plurimis: ordinanze n.
42, n. 34 e n. 16 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87,
e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale degli articoli 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 2 della Costituzione, dalla Corte
di appello di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe;
b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione, dalla Corte di appello di
Firenze con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 7 luglio 2010.
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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Corte di Cassazione - Sezione II Civile
22 giugno 2010 n. 15108
Presidente: G. SETTIMJ - Relatore: P. D’ASCOLA
La pericolosità della condotta di guida prevista dall’art. 141 c. strad. deve essere desunta dalle caratteristiche e dalle condizioni della strada e del traffico e da
ogni altra circostanza di qualsiasi natura; pertanto, la relativa valutazione costituisce il portato di un giudizio dei verbalizzanti che implica un’attività di elaborazione da parte degli stessi, i quali devono rilevare i fatti in accadimento e sottoporli
a critica, per desumerne la valutazione di congruità ai criteri di buona condotta di
guida o, appunto, di pericolosità. Ne consegue che detta valutazione è priva dell’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 2700 c.c. e la sua contestazione nel
giudizio di opposizione non richiede la proposizione della querela di falso. (Nella
specie, la Corte, alla stregua del principio enunciato, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata con la quale era stato ritenuto che il verbale di accertamento relativo all’omessa regolazione della velocità in prossimità di un’intersezione non poteva godere della suddetta fede privilegiata).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il giudice di pace di Reggio Emilia con sentenza del 1° marzo 2006
accoglieva l’opposizione proposta da M.R. avverso il comune di Reggio
Emilia/Comando Polizia Municipale, per l’annullamento del verbale di
contestazione n. **** del ****, relativo a violazione dell’art. 141 C.d.S..
Rilevava che l’addebito mosso all’opponente - non aver regolato la velocità in prossimità di una intersezione - non era stato adeguatamente dimostrato, giacchè il M. non era stato coinvolto in alcun sinistro e il giudizio valutativo degli agenti non godeva di fede privilegiata.
Il comune di Reggio Emilia ha proposto ricorso per Cassazione, notificato il 16 aprile 2007; l’opponente è rimasto intimato.
Avviata la trattazione con il rito previsto per il procedimento in came-
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ra di consiglio, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso perchè manifestamente infondato. Parte ricorrente ha depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denuncia in rubrica “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” e nello svolgimento si riferisce all’art. 2700
c.c.; il ricorrente sostiene che il verbale formato dai vigili urbani avrebbe
efficacia probatoria privilegiata, anche nel caso di specie, perchè i fatti rilevati dagli agenti accertatori sarebbero “oggettivi e privi di qualsiasi apprezzamento personale”, perchè i verbalizzanti avrebbero attestato il transito dell’automobilista ad una velocità non commisurata alle condizioni
oggettive della strada, la quale presentava varie intersezioni, passi carrai e
traffico. A fronte di tale verbalizzazione, il trasgressore avrebbe dovuto proporre querela di falso per togliere valore di prova all’atto amministrativo.
Con il secondo motivo, che lamenta vizi di motivazione, il ricorso deduce l’irrilevanza della circostanza che non si siano verificati sinistri stradali e l’illogicità della tesi secondo cui la valutazione dei vigili sarebbe stata meramente discrezionale. Il ricorso è manifestamente infondato. A mente dell’art. 2700 c.c., “L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. La norma fa dunque riferimento ai fatti verificatisi in presenza del pubblico ufficiale. Le Sezioni Unite di questa Corte di recente (SU 17355/09) hanno affermato che nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione
relativo al pagamento di una sanzione amministrativa è ammessa la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della violazione
che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale.
Ricadono in tale disciplina accadimenti e circostanze (da descrivere con
indicazione delle particolari condizioni soggettive ed oggettive dell’accertamento, ricordano le Sezioni Unite) avvenuti alla presenza del pubblico
ufficiale, quali il passaggio di un’autovettura con semaforo rosso o l’uso della cintura di sicurezza o il puntamento di apparecchiatura elettronica per il
calcolo della velocità di un veicolo, indipendentemente dalla condizione
dinamica o di stasi dell’autore del fatto e del mezzo usato. Nel caso di spe-
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cie, il giudice di merito non ha violato tali principi. Ciò che è avvenuto
alla presenza del pubblico ufficiale e che poteva essere attestato con fede
privilegiata è solo il transito del veicolo in movimento in quella strada.
Secondo l’art. 141 C.d.S., la pericolosità della condotta di guida deve
essere desunta dalle caratteristiche e dalle condizioni della strada e del traffico e da ogni altra circostanza di qualsiasi natura. Essa di per sè non costituisce, come bene ha colto il giudicante, un fatto storico, che possa essere
attestato, ma è il portato di un giudizio, di una valutazione sintetica, che è
desunta dagli elementi indicati dal legislatore. Il giudizio di pericolosità implica un’attività di elaborazione da parte dell’agente accertatore, il quale deve rilevare i fatti che stanno avvenendo (condizione del veicolo, della strada, del traffico) e sottoporli a critica, per desumerne la valutazione di congruità ai criteri di buona condotta di guida o, appunto, di pericolosità.
Ne consegue che detta valutazione è priva di efficacia probatoria privilegiata e che il giudice di pace ha correttamente interpretato l’art. 2700 c.c.
Del tutto priva di fondamento è poi la censura alla motivazione addotta dal giudice di primo grado, il quale ha rilevato non solo che la pericolosità di guida non era risultata, come solitamente avviene quando non
si sia in presenza di un eccesso di velocità, dal verificarsi di un sinistro, ma
anche che il verbale era sguarnito di elementi utili a supportare la valutazione data dagli agenti. La sentenza riferisce che dal verbale non emergeva “nessun elemento specifico e obbiettivo risultante dagli accertamenti”
e aggiunge esemplificativamente, con indubbia efficacia espositiva, che tali elementi potevano consistere in tracce di frenata o dichiarazioni testimoniali. Conclude ineccepibilmente che non sussiste la prova del fatto addebitato all’opponente. Trattasi di motivazione priva di vizi logici e pronunciata nel rispetto dei canoni di concisione di cui all’art. 132, offrendo
tuttavia chiara nozione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso, cui non segue la pronuncia sulla refusione delle spese di lite in mancanza di attività difensiva
dell’intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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Corte di Cassazione - Sezione II Civile
8 luglio - 3 agosto 2010 n. 18035
La denuncia dei vizi della merce acquistata può essere fatta anche a mezzo telegramma, idoneo ad interrompere il termine di prescrizione purché lo stesso contenga, oltre la denuncia della scoperta dei vizi, anche l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto alla garanzia per i vizi nei confronti della società destinataria del telegramma stesso, con l’effetto sostanziale di costituirla in mora.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 23-3-1998 A.I.D. conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di Nola la s.n.c. N. European Doors e, premesso
di avere acquistato da quest’ultima in data 18-9-1996 33 porte interne in
massello, oltre ad alcune porte blindate, assumeva che, dopo aver effettuato il pagamento, aveva verificato in sede di installazione, a seguito di alcune scalfitture superficiali del legno, che questo, pur essendo di noce, era
rigenerato e non era invece a massello.
L’attore chiedeva quindi la condanna della convenuta al risarcimento
dei danni ed alla riduzione del prezzo in considerazione della diversa qualità riscontrata nella fornitura rispetto a quella pattuita, nella misura da determinarsi in corso di causa.
Si costituiva in giudizio la s.n.c. N. European Doors chiedendo il rigetto della domanda eccependo che le porte erano state consegnate il 1211-1996, con conseguente estinzione per prescrizione del diritto azionato.
Il Tribunale di Nola (subentrato al Pretore dopo la soppressione delle
Preture) con sentenza del 21-3-2003 rigettava la domanda attrice.
Proposto gravame da parte dello I.D.cui resisteva la s.n.c. N. European
Doors la Corte di Appello di Napoli con sentenza del 18-5-2005 ha rigettato l’impugnazione, rilevando che la domanda introdotta dall’appellante, diretta ad ottenere la riduzione del prezzo per mancanza delle qua-
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lità promesse ovvero essenziali per l’uso, doveva essere inquadrata nell’ambito dell’art. 1497 c.c., e che il termine di prescrizione annuale di cui
all’art. 1495 terzo comma c.c., decorrente dalla consegna, era ormai spirato al momento dell’introduzione del giudizio.
Avverso tale sentenza lo I.D. ha proposto un ricorso affidato ad un
unico motivo cui la s.p.a. N. Porte (già s.n.c. N. European Doors) ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo formulato il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 1495-1497-2934 e 2943 c.c. nonché vizio di motivazione, censura
la sentenza impugnata per aver accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla controparte non avendo considerato - come pure dedotto nel secondo motivo di appello - che, premesso come fatto pacifico l’avvenuta
consegna della merce in data 18-11-1996, l’esponente nello stesso giorno
della fortuita scoperta dei vizi (24-3-1997) aveva inviato un telegramma alla Ditta N. con il quale aveva denunciato “difformità rispetto massello noce medio convenuto ordine 533 18.09.96 materiale porte fornite...” cui la
venditrice aveva replicato con telegramma del 25-3-1998; quindi, interrotto il termine prescrizionale annuale con il suddetto telegramma, la domanda giudiziale era stata promossa tempestivamente con la notifica dell’atto di
citazione il 23-3-1998, ovvero un giorno prima della scadenza dell’anno.
La censura è fondata nei limiti che saranno ora delineati.
Premesso che dall’esame diretto degli atti risulta che effettivamente lo
I.D. nell’atto di appello, nel censurare la sentenza di primo grado per aver
accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla controparte, aveva fatto
riferimento al fatto che la scoperta dei vizi della merce suddetta era avvenuta in un momento successivo alla sua consegna, e precisamente in data
24-3-1997, e che in quello stesso giorno l’appellante aveva inviato alla società venditrice un telegramma con cui la informava della sussistenza dei
vizi medesimi, si osserva che la Corte territoriale, nel rilevare che il termine prescrizionale decorreva dalla consegna della merce, avvenuta nella
fattispecie oltre un anno prima dell’introduzione del giudizio di primo
grado, non ha fatto alcun riferimento al suddetto telegramma.
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Orbene, premesso che in questa sede non è stata censurata la statuizione della sentenza impugnata secondo cui il termine prescrizionale previsto dall’art. 1495 terzo comma c.c. decorre dalla consegna della merce,
ovvero nella specie dal 18-11-1996, si rileva che tuttavia il mancato esame da parte della Corte territoriale del telegramma menzionato nell’atto
di appello riguarda un punto decisivo della controversia, avente ad oggetto l’eventuale efficacia interruttiva del termine di prescrizione annuale tramite l’invio del telegramma suddetto (con gli effetti, nel caso di risposta
affermativa a tale quesito, di cui all’art. 2945 primo comma c.c.).
In proposito quindi in sede di rinvio occorrerà accertare se nel telegramma del 24-3-1997 sia contenuta, oltre la denuncia della scoperta dei
vizi alla venditrice, anche l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o
la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile
volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto alla garanzia
per i vizi nei confronti della società destinataria del telegramma stesso, con
l’effetto sostanziale di costituirla in mora.
In definitiva quindi il ricorso deve essere accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di
Appello di Napoli.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la
sentenza impugnata, e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese
del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.
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Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili
9 agosto 2010 n. 18480
Presidente: V. CARBONE - Relatore: U. MORCAVALLO
FATTO
RITENUTO IN FATTO
1. C.C. si rivolgeva al giudice di pace di Benevento domandando la condanna della Regione Campania e del Comune di Benevento alla corresponsione del reddito di cittadinanza previsto L.R. 19 febbraio 2004, n. 2,
art. 2 per l’importo di Euro 1635,18, oltre interessi. Assumeva che tale beneficio era stato negato in base ad una interpretazione erronea - fornita dalla Giunta regionale con deliberazione n. 705 del 2005 - secondo cui l’importo massimo erogabile, di L. 350 euro mensili, dovesse essere corrisposto
per intero sino alla capienza delle risorse finanziarie assegnate dalla Regione
per ciascun ambito territoriale, sii che la prestazione non veniva assicurata
mediante importi inferiori a quello massimo - a tutti i soggetti ammessi al
beneficio, ma - per llintero importo di 350 euro mensili - ai soli soggetti
utilmente collocati nella relativa graduatoria compilata dal Comune.
1.1. Con sentenza n. 5151 del 2008 il giudice adito dichiarava la propria incompetenza per materia e rimetteva le parti dinanzi al Tribunale di
Benevento, in funzione di giudice del lavoro.
2. La C. proponeva appello dinanzi al Tribunale di Benevento, deducendo la natura non assistenziale della prestazione e instando per l’accoglimento della sua pretesa; resistevano all’impugnazione la Regione
Campania e il Comune di Benevento, che proponevano altresì appello incidentale sostenendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in
favore del giudice amministrativo.
2.1. Con sentenza del 2 febbraio 2009 il Tribunale, respinta l’eccezione di giurisdizione, accoglieva l’appello della C. e condannava in solido la Regione e il Comune al pagamento dell’importo domandato in giudizio. In particolare, il Tribunale rilevava che: a) il diritto alla prestazione
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traeva fondamento direttamente dalla legge, non essendo previsto alcun
potere discrezionale della p.a. con riguardo al suo riconoscimento e alla
individuazione dei beneficiari, sii che la controversia apparteneva senz’altro al giudice ordinario;
b) non si configurava una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, ai sensi dell’art. 442 c.p.c., che il beneficio non era
connesso ad un rapporto di lavoro, ovvero ad un rapporto pensionistico,
o ad un’assicurazione sociale, né poteva ritenersi una misura di assistenza
obbligatoria, duratura e applicabile alla generalità dei cittadini; c) la domanda era fondata, poiché la normativa regionale invocata dall’attrice prevedeva, in effetti, che tutti i fondi stanziati per il reddito di cittadinanza
dovevano essere suddivisi fra gli aventi diritto, tra cui era inserita la C., sii
che doveva considerarsi illegittima - e dunque andava disapplicata - la delibera della Giunta regionale che aveva invece disposto di assegnare il massimo erogabile fino ad esaurimento dell’intera somma disponibile per l’ambito territoriale - solo a pochi richiedenti sulla base del minor reddito.
3. Contro questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione la
Regione Campania, con due motivi, e, in via incidentale, il Comune di
Benevento, con quattro motivi. La C. ha resistito ad entrambe le impugnazioni con distinti controricorsi. La Regione ha depositato memoria ai
sensi dell’art. 378 c.p.c..
DIRITTO
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In via preliminare, i due ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell’art.
335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
Ancora in limine, deve ritenersi ammissibile, ai sensi dell’art. 334 c.p.c.,
il ricorso incidentale tardivo del Comune di Benevento, ancorché di contenuto adesivo al ricorso principale, in base al principio - recentemente
enunciato da queste Sezioni unite - secondo cui l’interesse all’impugnazione può sorgere dalla proposizione dell’impugnazione principale che, se
accolta, comporterebbe una modifica delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal litisconsorte, quale - nella specie - il Comune (cfr.
Cass., sez. un., n. 6444 del 2009; n. 24627 del 2007).
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2. Il ricorso della Regione Campania comprende due motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sostenendosi che l’attribuzione del reddito di cittadinanza
ai sensi della L.R. n. 2 del 2004, art. 2 scaturisce soltanto dall’esercizio di
un potere discrezionale della pubblica amministrazione, che si è risolto,
nella specie, nella compilazione di una graduatoria di selezione, in base alle diverse situazioni reddituali, per l’individuazione degli aventi diritto
nell’ambito delle risorse di bilancio.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2 della citata legge regionale e delle norme del regolamento attuativo, ivi previsto
all’art. 3, sostenendosi che l’operato della pubblica amministrazione, nel
limitare l’attribuzione del reddito di cittadinanza - nell’intero importo di
Euro 350,00 mensili - ai soli soggetti inseriti nella graduatoria per reddito e nell’escludere le domande “ammissibili e non finanziate”, è coerente con le previsioni del Legislatore regionale.
3. Il ricorso incidentale del Comune di Benevento si articola in quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo si sostiene il difetto di giurisdizione del giudice ordinario deducendosi - in adesione alle deduzioni della Regione l’erroneità della decisione impugnata nella configurazione di un diritto
soggettivo alla prestazione, derivante direttamente dalla legge.
3.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione delle norme sulla
competenza per materia e si lamenta che il Tribunale, pronunciando nel
merito in grado d’appello, abbia negato la competenza del giudice del lavoro, in base all’erroneo presupposto che la controversia non riguardasse
una prestazione assistenziale ai sensi dell’art. 442 c.p.c. e segg..
3.3. Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 43 c.p.c. e segg.
e degli artt. 353, 354 e 339 c.p.c., in relazione agli art. 3, 25 e 111
Cost., per non avere il Tribunale, quale giudice d’appello, rimesso la causa al giudice di pace, in conseguenza dell’accoglimento del gravame in relazione alla competenza, e per avere invece trattenuto la controversia definendola con decisione sul merito.
3.4. Con il quarto motivo, denunciandosi violazione della legge regionale sopra menzionata e delle norme in materia di disapplicazione de-
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gli atti amministrativi, in relazione all’art. 97 Cost., si sostiene la insussistenza di un diritto soggettivo della C. alla percezione del reddito di cittadinanza nell’intero importo mensile di 350,00 Euro e si deduce la conseguente erroneità della decisione impugnata nella disapplicazione degli
atti che avevano dato attuazione al dettato normativo.
4. I motivi riguardanti la giurisdizione (primo motivo del ricorso principale e di quello incidentale) non sono fondati.
4.1. La L. 8 novembre 2000, n. 328 (legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali) all’art. 1, comma 1, nel
fissare i principi generali e la finalità della legge, ha affermato che la
Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della
vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilita, di bisogno e di disagio
individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli artt. 2, 3 e 38
Cost... Il comma 2 del medesimo articolo dispone, inoltre, che per interventi e servizi sociali si intendono tutte le attività previste dal D.Lgs. 31
marzo 1998, n. 112, art. 1288 (conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo 1 della L. 15 marzo 1997, n. 59). Il richiamato D.Lgs. n. 112 del 1998,
artt. da 128 a 134, disciplina le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla materia dei servizi sociali. In particolare, l’art. 128, comma 2 dispone che con tale nozione si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno o di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita,
escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
4.2. In tale sistema integrato l’intervento dello Stato, dapprima inteso
come sussidiario rispetto all’intervento delle regioni e degli enti locali nella politica di contrasto delle situazioni di indigenza, diviene meramente concorrente, secondo una evoluzione che ha infine comportato la competenza
legislativa delle regioni nella materia dei servizi sociali, salva la potestà legi-
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slativa dello Stato per la materia della previdenza e per la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale - ex art. 117 Cost.,
comma 2, lett. m), - (cfr. Corte cost. n. 287 del 2004; n. 423 del 2004).
4.3. Analogamente ad altre regioni, in applicazione del sistema integrato delineato dalla L. n. 328 del 2000, la regione Campania, con la L.
19 febbraio 2004, n. 2 (istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza), ha previsto che ai residenti comunitari ed extracomunitari da
almeno sessanta mesi nella regione, con reddito annuo inferiore ad Euro
5000,00, e assicurato il reddito di cittadinanza come misura di contrasto
alla povertà e all’esclusione e come strumento teso a favorire condizioni
efficaci di inserimento lavorativo e sociale; tale reddito, che fa riferimento alle persone nel contesto del nucleo familiare, consiste in una erogazione monetaria che non supera i 350,00 Euro mensili per nucleo familiare e in specifici interventi mirati all’inserimento scolastico, formativo e
lavorativo dei singoli componenti (art. 2, commi 1 e 2; art. 3, comma 1).
4.4. La legge regionale prevede esplicitamente che si tratta di una prestazione concernente un diritto sociale fondamentale l’art. 1, comma 1) e
che, in particolare, hanno diritto all’erogazione monetaria, nei limiti delle risorse disponibili, i soggetti che, ricorrendo le condizioni previste, “ne
fanno richiesta” (art. 3, comma 1). Si configura, dunque, un diritto soggettivo che trova la sua fonte direttamente nella legge e non presuppone
alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione, alla quale si richiede, esclusivamente, la verifica delle condizioni reddituali - in base a
modalità generali di calcolo del reddito fissate da apposito regolamento del
Consiglio regionale, su proposta della Giunta -e la selezione degli aventi
diritto, da parte dei Comuni, sulla base delle domande ricevute (art. 3,
comma 3, e art. 6, comma 1). E ciò comporta, di conseguenza, che sono
devolute alla cognizione del giudice ordinario le controversie come quella in esame sulla esistenza del diritto e sulla spettanza del beneficio, così
come esattamente ritenuto dal Tribunale.
5. Parimenti infondati sono i motivi riguardanti la competenza e la
censura di nullità della sentenza impugnata per la mancata rimessione al
giudice a quo, o comunque per avere il Tribunale pronunciato nel meri-
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to anziché limitarsi a confermare la pronuncia declinatoria della competenza (secondo e terzo motivo del ricorso del Comune).
5.1. La ricognizione normativa, così operata ai fini della giurisdizione,
consente di configurare, indubbiamente, il reddito di cittadinanza come una
prestazione di natura assistenziale, per la quale trova applicazione l’art. 442
c.p.c., in ciò dovendosi correggere la sentenza impugnata. Ed infatti nell’intento del Legislatore le disposizioni contenute nei provvedimenti legislativi
sopra richiamati evidenziano la sussistenza di un nesso funzionale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento (famiglia, minori, anziani, disabili, indigenti, emarginati), e la rimozione o il superamento di situazioni di
svantaggio o di bisogno, per la promozione del benessere fisico e psichico
della persona, a prescindere dalla sua occupazione lavorativa e dalla costituzione di un rapporto assicurativo: questa correlazione è di per sé idonea alla
definizione di una prestazione come di natura assistenziale, intesa alla tutela
dei diritti sociali dei cittadini (art. 38 Cost.) e, più in generale, all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale finalizzati, ai sensi dell’art.
2 Cost., alla garanzia dei diritti inviolabili di ogni persona (cfr. Cass., sez. un.,
n. 5386 del 1993). Non rileva, invece, il carattere “territoriale” della provvidenza, né la sua “temporaneità”: da un lato, il conferimento alle regioni di
una potestà normativa in materia di servizi sociali, esercitata mediante il coordinamento con funzioni e compiti amministrativi attribuiti agli enti locali,
completa il decentramento del sistema di sicurezza sociale (cfr. Cass. n. 10248
del 2009, n. 19273 del 2004, n. 8799 del 2001), nel cui ambito le misure dirette alla tutela della persona contro l’emarginazione sociale (reddito di cittadinanza, reddito di ultima istanza), essendo destinate ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale e dunque a favore di soggetti che si trovano in situazione di estremo bisogno, costituiscono una misura assistenziale demandata alle regioni (cfr. Corte cost. n. 423 del 2004, cit.); dall’altro, la necessità
dell’intervento assistenziale anche per la tutela di bisogni temporanei, come
quelli connessi alla perdita dell’occupazione lavorativa (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, indennità di mobilità) e alla precarietà del lavoro conseguente alla crisi dell’impresa e alla trasformazione delle relazioni industriali (c.d. flexicurity), dimostra che la durata della prestazione non influisce sul suo carattere assistenziale, verificandosi, al contrario, che la tutela
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debba essere diretta, sempre più, ad impedire il consolidamento di situazioni di definitiva emarginazione e a favorire l’inserimento sociale.
5.2. La configurazione di una controversia soggetta alla disciplina di cui
all’art. 442 c.p.c., e segg. non comporta, in ogni caso, alcuna nullità della sentenza impugnata in relazione alla mancata rimessione della causa al giudice
competente, come esattamente individuato nella decisione di primo grado,
e cioè allo stesso Tribunale di Benevento in funzione di giudice del lavoro;
ed infatti questa Corte ha precisato che “quando, di fronte ad una declinatoria di competenza da parte del giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della sua giurisdizione equitativa, venga proposto appello con contestazione della fondatezza della pronuncia, il tribunale, ove la censura sia infondata, è investito dell’esame del merito quale giudice deh”appello in conseguenza del normale effetto devolutivo proprio di tale impugnazione restando escluso sia che la pronuncia sul merito possa considerarsi come resa dal
tribunale stesso in primo grado, sia che al rigetto dell’appello sul motivo afferente alla competenza debba seguire la rimessione delle parti avanti allo stesso tribunale quale giudice competente affinché la controversia venga decisa
in primo grado” (cfr. Cass. n. 20636 del 2006). Né, d’altra parte, assume rilievo che la controversia sia stata decisa mediante l’adozione del rito ordinario in luogo di quello speciale, e senza il mutamento del rito ai sensi dell’art.
426 c.p.c., poiché tale circostanza può determinare l’invalidità del procedimento solo nell’ipotesi non ricorrente nella specie - in cui essa abbia causato un concreto pregiudizio alle parti riguardo al regime delle prove e all’esercizio del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 1222 del 2006).
5.2.1. Questa conclusione trova conferma anche nella considerazione generale, più volte evidenziata da questa Corte, che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo, derivante dall’art. 111 Cost.,
comma 2, e dagli art. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, impone al giudice ai sensi degli art. 175 e 127
c.p.c. di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia, fra i quali rientrano certamente quelli che
si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso da essen-
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ziali garanzie del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo, in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale ee destinato ad esplicare i suoi effetti (cfr.
Cass., sez. un., n. 26373 del 2008; Cass. n. 2723 del 2010; n. 27129 del 2009).
5.2.2. L’incidenza del giusto processo, di cui la ragionevole durata è elemento costitutivo, si riflette sul giudizio di cassazione e sul potere di controllo, anche officioso, delle nullità verificatesi nel giudizio di merito, così
come queste Sezioni unite hanno precisato anche in relazione al difetto di
giurisdizione, individuando, in particolare, le nullità la cui rilevazione vale
a realizzare le finalità dell’art. 111 Cost., comma 2, (cfr. Cass., sez. un., n.
24883 e n. 26019 del 2008), secondo una nuova concezione del processo anche in ordine alla consecutio logica delle questioni da trattare (cfr. Cass.,
sez. un., n. 26373 del 2008 e Cass. n. 2723 del 2010, cit.) - che, infine, ha
trovato rispondenza nell’art. 360 bis c.p.c., introdotto dalla L. 18 giugno
2009, n. 69, art. 47 per cui le sole censure rilevanti nel giudizio di legittimità sono quelle relative alla violazione dei principi regolatori del giusto
processo: norma che, ancorché inapplicabile nella specie ratione temporis,
é comunque ricognitiva di un principio definitivamente acquisito nel diritto vivente, inteso a realizzare la funzione propria del processo, cioè la pronuncia del giudice sulla fondatezza della domanda in base ad un processo
giusto e, quindi, anche in un termine ragionevole, restando così circoscritte alla sola violazione delle regole processuali fondamentali - connesse allo
svolgimento di un processo giusto - le ipotesi di pronunce, meramente ricognitive di nullità del procedimento, che valgono a impedire, o a rendere
inefficace, il giudizio definitivo sulle condizioni dell’azione proposta.
6. Non fondate, infine, sono le censure relative al riconoscimento del
diritto alla prestazione in capo alla controricorrente (secondo motivo del
ricorso della Regione e quarto motivo del ricorso del Comune).
6.1. In base alla L.R. n. 2 del 2004, art. 3, comma 1 hanno diritto all’erogazione monetaria di cui al reddito di cittadinanza i componenti delle famiglie anagrafiche, che ne fanno richiesta, con un reddito annuo inferiore ad
Euro 5000,00; la medesima erogazione spetta nel limite fissato dall’art. 2, comma 2, della stessa legge, cioè sino a 350,00 Euro mensili per nucleo familiare,
mentre i diversi interventi mirati all’inserimento scolastico, formativo e lavo-
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rativo - che ugualmente compongono il reddito di cittadinanza spettano senza limiti di numero per nucleo familiare. La previsione normativa è inequivoca nel riconoscere il diritto a tutti coloro che, trovandosi nelle condizioni prescritte, ne facciano richiesta, sia che l’intervento successivo della pubblica amministrazione secondo le ripartizioni di competenza, anche territoriale, stabilite dall’art. 4 e segg. della stessa legge - è diretto, come già si è visto a proposito della giurisdizione, alla sola ricognizione e verifica della sussistenza delle
predette condizioni, cioè, per quanto riguardo l’erogazione monetaria, alla verifica della entità del reddito secondo i parametri fissati, ai sensi dell’art. 4, comma 3, da apposito regolamento del Consiglio regionale (la cui potestà regolamentare, al riguardo, è appunto limitata alla individuazione dei criteri di utilizzo degli indicatori economici ai fini della fissazione del limite reddituale).
6.2. Ne consegue che, una volta accertato il non superamento del limite di reddito, la prestazione economica spetta a tutti gli aventi diritto,
fra i quali devono essere suddivise le risorse disponibili, derivando dunque
la efficacia dell’intervento sociale, esclusivamente, dalla scelta specifica in
ordine all’entità delle spesa pubblica da destinare al sostegno contro la povertà e l’esclusione (che costituisce la finalità dell’intervento ai sensi dell’art.
2 della legge regionale); non trova giustificazione, invece, la destinazione
delle risorse mediante attribuzione dell’intero importo nel tetto massimo
di 350,00 Euro mensili ad alcuni soltanto degli aventi diritto, secondo il
minor reddito, con esclusione degli altri, secondo la distinzione fra “domande ammesse e finanziate” e “domande ammesse e non finanziate”
adottata, in modo illegittimo, dalle amministrazioni ricorrenti, mediante
l’emanazione di atti correttamente disapplicati dal Tribunale.
7. In conclusione, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario
e vanno rigettati entrambi i ricorsi, come sopra riuniti.
La complessità delle questioni esaminate induce a compensare fra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, riunisce i ricorsi, dichiara la giurisdizione
del giudice ordinario e rigetta entrambe le impugnazioni. Compensa fra
tutte le parti le spese del giudizio.
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CONTROVERSIE IN MATERIA DI REDDITO DI CITTADINANZA, CON
PARTICOLARE RIGUARDO AGLI APPELLI CONTRO LE SENTENZE DEL
GIUDICE DI PACE (RELAZIONE PRESENTATA AI MAGISTRATI DELLA
SEZIONE CIVILE IN OCCASIONE DI RIUNIONE EX ART. 47 QUATER
ORD. GIUD.):
- LA SENTENZA DELLE SS.UU. CIVILI DELLA S.C., N. 18480, DEL
9.8.2010;
-
I MAGISTRATI A DESIGNARSI;
IL RITO DA SEGUIRE;
LA TIPOLOGIA DELLE DECISIONI DELLE SENTENZE IMPUGNATE E
CORRELATIVE DECISIONI DA ASSUMERSI DAL TRIBUNALE.
***
La presente nota (qui appena ampliata) è stata dallo scrivente presentata, dietro richiesta della Dott.ssa RINALDI, Presidente di Sezione
f.f., ai magistrati della Sezione Civile, in occasione di riunione ex art. 47
quater ord. giud., tenutasi il 16.11.2010, come scritto destinato a suscitare
la riflessione e la discussione.
I. La sentenza delle SS.UU. civili della S.C., n. 18480, del 9.8.2010.
In materia di reddito di cittadinanza, la recente sentenza delle SS.UU.
civili della S.C., n. 18480, del 9.8.2010 (non divulgata presso il CED della S.C.; la si può leggere in DeJure, Archivio Sentenze Cassazione Civile,
A. Giuffré Editore), ha chiarito che trattasi di “prestazione di natura assistenziale, per la quale trova applicazione l’art. 442 c.p.c.”.
La parte interessata alla condanna della Regione Campania e del
Comune, dunque, deve rivolgersi al Giudice del lavoro, senza che susssista la giurisdizione del Giudice amministrativo, né la competenza, in primo grado, del Giudice di pace.
La sentenza veniva resa in un caso, nel quale, invece, la parte aveva adito il Giudice di pace di Benevento, il quale, correttamente, aveva declinato la competenza, rimettendo le parti innanzi al Tribunale, in funzione di
Giudice del lavoro.
Appellata la sentenza, e proposto appello incidentale, col quale la Regione
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ed il Comune deducevano il difetto di giurisdizione, il Tribunale riteneva la
giurisdizione, ma osservava che la causa non apparteneva al Giudice del lavoro,
e decideva il merito, nel senso che i fondi stanziati per il reddito di cittadinanza dovevano essere ripartiti fra tutti gli aventi diritto, disapplicando la delibera
regionale che aveva, invece, assegnato il massimo erogabile, ma soltanto a taluni richiedenti, individuati secondo il minor reddito (la sentenza veniva pubblicata nella rivista La Voce del Foro, n. 1-2/2009, pagg. 72 ss., e si può leggere in:
http://www.ordineavvocati.bn.it/download/Voce%20del%20Foro%2012_2009.pdf).
Secondo la S.C., benché il Giudice di pace avesse esattamente deciso,
non poteva il Tribunale che decidere nel merito, sia per effetto del principio devolutivo (la Corte richiamava la propria precedente sentenza n.
20636/2006), che regola l’appello, sia in forza della nuova disciplina dell’art.
111 Cost., in particolare quella sulla ragionevole durata del processo.
La Cassazione riteneva, ancora, che, quantunque il Tribunale non avesse
disposto il mutamento del rito, nessuna concreta lesione delle parti, riguardo
al regime delle prove ed all’esercizio del diritto di difesa, si fosse verificata; reputava, infine, corretta la decisione sotto il profilo della ripartizione delle somme, destinate al reddito di cittadinanza, tra tutti gli aventi diritto.
Poiché pendono, innanzi al Tribunale, numerosi appelli contro altre
sentenze del Giudice di pace, è opportuno sviluppare uno schema delle
possibili decisioni, secondo il contenuto di quella emessa dal Giudice di
pace medesimo: previamente, è utile accennare ai magistrati a designarsi
ed al rito da seguirsi.
II. I Magistrati a designarsi.
Il magistrato da designare, ove si consideri il criterio tabellare della
materia, dev’essere addetto alle cause di lavoro, previdenza ed assistenza.
Ove si consideri prevalente altro criterio, ossia la considerazione che quei
magistrati non si occupano se non di cause di primo grado, si dovrà assegnare
il processo ai magistrati addetti alle cause civili ordinarie: bisogna, però, spiegare quale sia la base, normativa o tabellare, dell’assegnazione a quei magistrati delle sole cause di primo grado (certo tale norma non è quella posta dall’art. 413,
co. 1, c.p.c., la quale individua il Tribunale come giudice del lavoro di primo
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grado: ma come ufficio giudiziario nel suo insieme, non certo nella sotto-articolazione dei magistrati del lavoro, sfornita – si veda l’ampia e conforme giurisprudenza sul punto, per brevità qui non richiamata - di valore in termini di
competenza; del resto, ove si facesse valere tale criterio, sarebbe agevole replicare che, allora, tali cause dovrebbero essere devolute alla Corte d’appello, quale giudice del lavoro di secondo grado: ma è evidente che, in tal modo, si confonde la fisiologia del rapporto processuale con la patologia, nella quale si versa allorché il giudizio di primo grado sia introdotto innanzi al Giudice di pace).
La seconda ipotesi oblitera, insomma, che quello della materia è l’unico criterio tabellare di assegnazione, e produce l’effetto di derogare a quel criterio in
virtù dell’iniziativa erronea della parte che, in primo grado, ha agito innanzi al
Giudice di pace, anziché al Tribunale: poiché, poi, cause similari pendono, correttamente introdotte, in primo grado, innanzi al Tribunale, si giungerebbe alla contemporanea assegnazione di cause aventi la medesima natura, e da trattare con lo stesso rito, la prima volta ai magistrati addetti alle cause civili ordinarie, e, la seconda, a quelli addetti alle cause di lavoro, assistenza e previdenza, in
mancanza di un criterio, normativo o tabellare, imperniato sul grado.
Tabellarmente, ancora, va considerato che tali cause vengono assegnate
ai magistrati del secondo collegio (salvo cause di incompatibilità, attinenti a singoli giudizi), sol perché sono iscritte nel ruolo (inesattamemte) come aventi natura amministrativa: una volta assodato, tuttavia, che trattasi
di controversie assistenziali, tale criterio di assegnazione cede, senza che se
ne rinvenga alcun altro nella tabella, che permetta di individuare i magistrati del secondo o quelli del terzo collegio.
La medesima seconda ipotesi, insomma, comporta di aggiungere patologia a patologia: non soltanto la controversia è stata mal introdotta, nel
grado precedente, avanti a Giudice incompetente, ma viene trattata, in secondo grado, da magistrati che non si occupano della materia del lavoro,
dell’assistenza e previdenza.
III. Il rito applicabile.
La S.C. ha chiaramente definito le controversie de quibus agitur come appartenenti alla materia assistenziale (§ 5.1. della motivazione), affermandone la
soggezione alla disciplina di cui agli artt. 442 ss. c.p.c.: nel ritenere, poi, come
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visto, che, quantunque il Tribunale non avesse disposto il mutamento del rito,
nessuna concreta lesione delle parti, riguardo al regime delle prove ed all’esercizio del diritto di difesa, si fosse verificata, ha evidentemente ritenuto che debba mutarsi il rito (salva la verifica delle conseguenze, ove ciò non accada).
Il mutamento del rito è, in effetti, previsto anche per il grado di appello (art. 439 c.p.c.; l’unica conseguenza pratica è che occorrerà leggere
il dispositivo, ai sensi dell’art. 437, co. 1, c.p.c.)
IV. Schema delle decisioni da adottare in appello, in correlazione al contenuto delle decisioni del Giudice di pace.
A) Il Gdp declina la giurisdizione.
La sentenza di primo grado è nulla (cfr., ad es., Cass. civ., Sezz. UU.,
25.6.2009, ord. n. 14889).
Ai sensi dell’art. 353, co. 1, c.p.c., il Tribunale, previo mutamento
del rito, e dichiarata la nullità della sentenza del Gdp, dovrà rimettere le
parti innanzi a tale Giudice: il dato normativo è testuale (in ogni caso, cfr.
Cass. civ., 2.3.2009, n. 5020), né è stato superato dalla normativa costituzionale (art. 111, co. 2, Cost.) sulla ragionevole durata del processo; non
ci si faccia fuorviare dai casi, nei quali la causa sia pervenuta in grado di
legittimità, giacché l’art. 353 c.p.c. regola esclusivamente il rapporto fra il
giudice del primo grado e quello dell’appello (cfr. Cass. civ., Sez. Lav.,
8.6.2009, n. 13165), sicché la S.C. non deve osservare quella norma.
Il Giudice di pace dovrà, poi, declinare la competenza: senza, tuttavia, che sia possibile vincolarlo (le parti potrebbero, però, non riassumere
ed introdurre il giudizio innanzi al Tribunale, in primo grado).
B) Il Gdp declina la competenza.
La sentenza di primo grado è corretta.
Seguendo i criteri, di cui a SS.UU. della S.C., n. 18480, del 9.8.2010, ed
al precedente ivi richiamato (Cass. civ., Sez. III, 22.9.2006, n. 20636, la quale, in motivazione, affermava: “In disparte il rilievo che sul punto la doglianza avrebbe dovuto farsi valere con ricorso incidentale, si osserva che, quando, come nella specie, di
fronte ad una declinatoria di competenza da parte del giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della sua giurisdizione equitativa, venga proposto - come necessario, non essendo le sentenze del giudice di pace mai assoggettabili a regolamento di competenza (art.
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46 c.p.c.) - appello con contestazione della fondatezza della pronuncia, il Tribunale, per
il caso che la censura sia infondata, è investito dell’esame del merito quale giudice dell’appello, in conseguenza del normale effetto devolutivo proprio dell’appello, restando escluso
sia che la pronuncia sul merito possa considerarsi come pronuncia resa dal Tribunale stesso in primo grado, sia che al rigetto dell’appello sul motivo afferente alla competenza debba seguire la rimessione delle parti avanti allo stesso Tribunale quale giudice competente
in primo grado, affinché la controversia venga decisa in primo grado”), tuttavia, e sempre previo mutamento del rito, occorre decidere la causa nel merito.
L’esattezza della decisione impugnata potrà però, ad avviso di chi scrive, riflettersi sul regime delle spese.
Potrà porre problemi la redazione del dispositivo, giacché può apparire contraddittorio rigettare l’appello, confermare la decisione di primo
grado (di mero rito) e, nel contempo, statuire nel merito (la mera conferma della sentenza impugnata dovrebbe condurre a mantenere la statuizione di incompetenza e di rimessione delle parti al Giudice del lavoro,
senza alcuna decisione del merito).
Potrebbe essere opportuno o scindere il dispositivo in una parte sul rito (“in rito, rigetta l’appello, confermando la sentenza impugnata”) ed una
sul merito (“nel merito, in accoglimento della domanda proposta da Tizio,
condanna ...”), oppure limitarsi alla sola parte sul merito.
C) Il Gdp ritiene la propria competenza.
1. La sentenza di primo grado è nulla, per incompetenza del Giudice (si
riportano talune massime che così classificano la sentenza affetta da tale vizio,
essendosi sollevata, tra i colleghi, qualche voce contraria: Cass. civ., Sez. I,
27.5.2008, n. 13829: “L’incompetenza del giudice che ha emesso il provvedimento,
anche nelle ipotesi nelle quali abbia carattere inderogabile, costituisce motivo di nullità,
e non di inesistenza dell’atto, con la conseguenza che esso è suscettibile di passare in giudicato.”; nello stesso senso, Cass. civ., Sez. I, 19.3.2007, n. 6520 – la cui massima è trascritta poco oltre -; Cass. civ., Sez. III, 22.9.2006, n. 20636).
Non è possibile rimettere le parti al primo Giudice, non versandosi
nelle ipotesi, di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.
Previo mutamento del rito, occorre, allora, decidere la causa nel merito: “L’erronea dichiarazione di incompetenza da parte del giudice di primo grado non
rientra fra le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, tassativamente previ-
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ste dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., poiché il terzo comma del menzionato articolo 353, che quella rimessione prevedeva nel solo caso in cui il pretore, in riforma
della sentenza del conciliatore, avesse dichiarato la competenza, è stato esplicitamente abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 1993, dall’art. 89 della legge 26 novembre
1990, n. 353. Pertanto, quando il giudice d’appello ritenga errata la pronunzia di
incompetenza emessa dal giudice di primo grado, deve decidere la causa nel merito e,
nel caso in cui la sentenza di secondo grado sia cassata, la Corte di cassazione deve
rinviare la causa al giudice di appello, restando esclusa la possibilità di rimettere la
causa al primo giudice.” (Cass. civ., Sez. III,21.5.2010, ord. n. 12455); “Impugnata
innanzi al tribunale una sentenza del giudice di pace affermativa della propria competenza, il giudice d’appello, qualora dichiari nulla la decisione affermando la competenza del tribunale, deve, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di rimessione al primo giudice, previste dagli artt. 353 e 354 cod. proc. e in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, decidere sul merito.” (Cass. civ., Sez. I, 19.3.2007, n. 6520).
2. È presente, nella giurisprudenza della S.C., peraltro, anche un orientamento, secondo cui si dovrebbe rimettere il giudizio al Giudice di secondo grado, che sarebbe il Giudice competente per l’appello, nelle ipotesi, nelle quali il primo grado si fosse svolto innanzi al Giudice competente (nella
caso in questione, si dovrebbero rimettere le parti alla Corte d’appello, in
funzione di Giudice del lavoro in grado d’appello: è vero che il Tribunale rimetterebbe alla Corte e non ad altro Tribunale, ma è anche vero che, in questo caso, ai due organi deve guardarsi come a due giudici d’appello, e, su tale piano, equiparati, e non ad uffici posti tra loro in rapporto di primo e secondo grado, rapporto nella specie non ricorrente).
La pronunzia in esame è una ordinanza della S.C. (Cass. civ., Sez. III,
25.2.2005, ord. n. 4056), assai articolata (esamina e disattende gli altri
orientamenti), la quale si pronunciava sul conflitto di competenza tra la
Sezione agraria della Corte d’appello di Genova e la stessa Corte, in composizione ordinaria, la quale ultima, adita in sede di impugnazione di una
sentenza di un Tribunale, che erroneamente decideva, in composizione
ordinaria, su una domanda attinente ad una causa agraria, aveva dichiarato la propria incompetenza, in favore della Sezione agraria.
La Sezione agraria sollevava il conflitto avanti alla S.C., che le dava torto, esprimendo, in motivazione, il seguente principio:
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“2.3. Come anticipato, ritiene la Corte preferibile questo secondo indirizzo
interpretativo e di dovere affermare, pertanto, il principio di diritto secondo cui qualora il giudice di primo grado abbia, erroneamente, ritenuto la propria competenza
per materia a conoscere della controversia, pronunziando nel merito, e le parti, anziché impugnare, con regolamento facoltativo di competenza una siffatta decisione,
abbiano preferito proporre appello, denunziando, in quella sede, la erronea affermazione di competenza compiuta dal giudice a quo (o, con riferimento a controversie instaurate in primo grado anteriormente al 30 aprile 1995, cui, come nella
specie, per effetto dell’art. 90, l. n. 353 del 1990, non trovi applicazione l’art.
38 c.p.c. nella sua nuova formulazione detta incompetenza sia rilevata ex officio
dal giudice di appello) il giudice di secondo grado, dichiarata la incompetenza del
primo giudice, non può rimettere la causa il giudice di primo grado ma al giudice,
di appello che sarebbe stato competente ove il giudizio di primo grado si fosse svolto innanzi al giudice competente.”
Seguire tale orientamento consentirebbe di evitare che la decisione,
nel merito, di una causa di assistenza e previdenza obbligatorie, sia assunta dal Tribunale come giudice d’appello del Giudice di pace, composto
quindi dai magistrati della sezione ordinaria, e non da quelli del lavoro (se
si dovesse, invece, pensare di far decidere la causa dai magistrati addetti nel
Tribunale alla materia del lavoro, la soluzione indicata, invece, permetterebbe di evitare che il Tribunale, come giudice del lavoro di primo grado, decida su un appello); garantirebbe, poi, lo svolgimento di almeno un
grado innanzi a Giudice competente per grado e materia.
3. Deve reputarsi preferibile l’orientamento seguito sub 1, nonostante la (almeno apparente) logicità del ragionamento della da ultimo menzionata ordinanza della S.C., sia perché la prima tesi è più aderente alla disciplina delle impugnazioni, sia perché si conforma ad un orientamento
consolidato, sia, infine, perché risponde meglio al criterio della ragionevole durata del processo (la seconda tesi comporterebbe, infatti, di dover
riassumere il giudizio innanzi ad altro Giudice d’appello, il quale potrebbe, peraltro, ritenersi, a propria volta, incompetente, sollevando conflitto
innanzi alla S.C., con ulteriore protrazione della causa).
Dott. Luigi Galasso
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili
9 settembre 2010 n. 19246
Presidente: V. CARBONE - Relatore: G. SALMÉ
Non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che
l’opposizione sia sfata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di
opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la
facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3.D’altra parte, se effettivamente
il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di
assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulati il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che
può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto
ai sensi dell’art. 163 bis, 3 comma.Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la
costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che
il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l’opposto non è chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di
condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall’opponente per formulare la propria risposta.
FATTO
Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 15 giugno 2000, ha dichiarato
improcedibile l’opposizione proposta da C.G. avverso un decreto ingiuntivo emesso in favore di Bancapulia s.p.a., in quanto l’opponente, pur avendo assegnato all’opposto un termine a comparire inferiore ai 60 giorni, si è
costituito oltre il termine di cinque giorni dalla notifica della citazione.
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La Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 1 luglio 2003, ha confermato la decisione di primo grado richiamando l’orientamento espresso da questa corte, tra l’altro, con sentenza n. 37521 del 2001, secondo il quale l’abbreviazione dei termini di costituzione per l’opponente consegue automaticamente
al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione
inferiore a sessanta giorni, risultando del tutto irrilevante che la concessione
dello stesso sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo.
Il C. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati
con memoria, al quale ha resistito, con controricorso, la Bancapulia s.p.a..
Con ordinanza del 12 novembre 2008, la prima sezione ritenendo che il
consolidato orientamento della corte presenti aspetti problematici ha rimesso
gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione a queste sezioni unite.
La prima sezione ha invero ritenuto che non risponde alla sistematica
del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa
discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni
controllo da parte del giudice. Irrilevante sarebbe il richiamo all’art. 645
c.p.c., comma 2, nel quale manca un’espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione che, infatti, viene fatto discendere dall’applicazione degli artt. 165 e 166 c.p.c., i quali tuttavia prevedono
la riduzione dei termini di costituzione quale conseguenza della riduzione dei termini di comparizione operata dal giudice a richiesta dell’attore
nella ricorrenza dei presupposti indicati nell’art. 163 bis c.p.c..
Peraltro, se fosse vero l’assunto della esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione la riduzione dei termini di costituzione dovrebbe operare sempre e comunque nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, perchè la formulazione del dell’art. 645 c.p.c.,
comma 2, non consentirebbe alcuna discrezionalità. In realtà se la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del
giudizio di opposizione, la riduzione alla meta dei termini di costituzione non
è coerente con tale finalità, posto che il termine di costituzione del creditore
opposto decorre non già dalla costituzione dell’opponente, ma dalla data
dell’udienza di comparizione, che, tra l’altro, per effetto della modifica dell’art.
163 bis c.p.c., introdotta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2 è ampliato da sessanta
a novanta giorni per l’Italia e da centoventi a centocinquanta giorni se il luogo
della notificazione si trova all’estero. Pertanto, senza un’apprezzabile utilità per
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la sollecita definizione del giudizio di opposizione, si finisce per introdurre un
onere particolarmente gravoso a carico dell’opponente, che solo formalmente
verrebbe bilanciato da analogo onere imposto al creditore opposto, il quale non
può in alcun modo essere equiparato al convenuto in un giudizio ordinario,
avendo egli, anzi, la qualità di attore in senso sostanziale. In tale situazione, ove
si ritenga operante la riduzione del termine di costituzione per effetto automatico dell’attribuzione al creditore opposto di un termine inferiore a quarantacinque giorni sarebbe evidente l’irragionevolezza giacchè, a fronte di un termine di costituzione per l’opponente di soli cinque giorni, l’opposto dovrebbe costituirsi nel termine di dieci giorni prima dell’udienza di comparizione,
venendo così a godere di ben 35 giorni per provvedere alla propria difesa. La
pressione che in tal modo grava sull’opponente, mentre non vale ad abbreviare i termini di durata del processo di opposizione risulterebbe ingiustificata tenendo conto che l’opponente è attore solo in senso formale, ma sostanzialmente
è convenuto, e che la necessità di intraprendere la causa non è frutto di una meditata scelta in un lasso di tempo discrezionale, ma necessitata dalla notifica
dell’ingiunzione, laddove l’opposto dispone di tempi ben più ampi per la costituzione, anche se, attore in senso sostanziale, ha fruito di ampia disponibilità
temporale nella decisione di presentare ricorso per decreto ingiuntivo.
DIRITTO
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’omessa e/o insufficiente
motivazione circa punti decisivi, in riferimento agli art. 645 c.p.c., comma 2 e
art. 647 c.p.c., sostenendo che la corte d’appello si sarebbe acriticamente adagiata sull’orientamento della giurisprudenza di legittimità, senza considerare il
rilievo, formulato nell’atto di gravame, secondo cui perchè possa operare l’abbreviazione dei termini di comparizione assegnati al creditore opposto è necessaria una consapevole manifestazione di volontà dell’opponente di avvalersi della facoltà prevista dalla legge, formulata in modo esplicito o desunta da
elementi concludenti. Nella specie non sarebbero state adeguatamente valutate le circostanze che il termine di comparizione assegnato era di soli sette giorni inferiore a quello minimo e che la costituzione era avvenuta il nono giorno, il che doveva far propendere per un mero errore materiale nel calcolo del
termine di comparizione. A ritenere irrilevante l’errore si introdurrebbe una
presunzione assoluta di esercizio della facoltà di abbreviazione dei termini da
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parte dell’opponente non prevista dalla legge, trasformando la facoltà in un obbligo. Inoltre, il ricorrente afferma che la previsione della rinnovazione della
citazione (art. 164 c.p.c.) nel caso di assegnazione di un termine inferiore a
quello di legge dovrebbe trovare applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione,
essendo insufficiente il riferimento alla specialità del rito per giustificare l’applicazione di una sanzione, quale quella della improcedibilità.
Con il secondo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione
dell’art. 645 c.p.c., comma 2, con riferimento all’art. 647 c.p.c., si sostiene
che al giudizio di opposizione, come previsto dall’art. 645 c.p.c., deve applicarsi la disciplina del procedimento ordinario e pertanto in caso di costituzione in giudizio, non omessa, ma semplicemente ritardata, non sarebbe giustificata la sanzione processuale dell’improcedibilità, prevista soltanto per il giudizio di appello dall’art. 348 c.p.c., come modificato dalla
L. n. 353 del 1990. Viene anche denunciata l’incoerenza consistente nel
ritenere inapplicabile, per la specialità del rito, l’art. 164 c.p.c. facendo allo stesso tempo applicazione del disposto degli artt. 165 e 163 bis c.p.c..
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce errata o falsa applicazione
dell’art. 645 c.p.c., comma 2, in quanto non sarebbe corretta l’estensione
della riduzione del termine di costituzione previsto dall’art. 165, per il caso in cui il giudice abbia autorizzato la riduzione del termine minimo a
comparire, all’ipotesi in cui la riduzione del termine di comparizione sia
conseguenza di una mera scelta di parte.
2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come
sarà in seguito precisato, è opportuno procedere a una puntualizzazione. A
parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte è stata costante
nell’affermare che quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per
la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di
costituzione ordinario (principio affermato, nei vigore dell’art. 645, come
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modificato con il D.P.R. n. 597 del 1950, art. 13 a cominciare da Cass. 12
ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n.
3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006).
Più recentemente, nell’ambito di tale orientamento, si è ulteriormente precisato che l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la
fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore
di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009).
Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l’orientamento ora richiamato non è privo della necessaria base normativa.
Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del ‘42, l’art.
645, comma 2 prevedeva la riduzione a metà dei termini di “costituzione”,
mentre nell’attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di “comparizione”, dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa.
Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta
opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei
termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra
termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione.
Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità
e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua.
Nè appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all’art. 163 bis c.p.c., comma 2, nella quale l’abbreviazione dei termini è conseguenza dell’accertamento da parte del giudice
della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall’at-
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tore, e di quella di cui all’art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento è compiuto (non dalla parte, come sostiene l’ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie
identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e
dall’altro, nell’opportunità di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell’attore.
Essendo pacifica la sussistenza dell’esigenza di sollecita trattazione dell’opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che
sussiste anche l’esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarità del giudizio di opposizione che, come è noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della
opposizione il completo esame de rapporto giuridico controverso, e non il
semplice controllo della legittimità della pronuncia del decreto d’ingiunzione. E’ anche pacifico che, a differenza dalle qualità formali, le posizioni
dell’opponente e dell’opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e
di attore in senso sostanziale. Ora, se è vero che l’opposto ha avuto tutto il
tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove,
prodotte o richieste, dall’opponente, l’opposto ha necessità di valutarle per
apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l’esigenza di avere a disposizione
i documenti sui quali si fonda l’opposizione nel più breve tempo possibile,
per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali
prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio.
Ciò che è indubbio è che certamente la necessità di sollecita trattazione
dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla
riduzione a metà dei termini di costituzione dell’opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell’opposto, che
invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell’opposizione e cioè dieci giorni prima dell’udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell’art. 166 c.p.c.),
ma tale opportunità di assecondare “l’euritmia del sistema” (corte cost. n.
18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei ter-
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mini di costituzione dell’opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento.
3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall’ordinanza della prima sezione civile, ha osservato che la lettera dell’art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il
dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell’opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell’opponente che
intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c..
In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilità dell’opposizione, ha già portato a introdurre nell’orientamento tradizionale, basato
sulla facoltatività della concessione da parte dell’opponente di un termine
a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall’affermazione dell’irrilevanza della volontà dell’opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore.
Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre
che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà
in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del
solo fatto che l’opposizione sia sfata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c.
prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di
comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione
dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3.
D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che
deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che può
discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008).
Nè potrebbe indurre a diverse conclusioni l’osservazione che, se si ritiene irrilevante la volontà dell’opponente di assegnare un termine di compari-
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zione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del
suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell’art. 24
Cost., come potrebbe desumersi da corte cost. n. 38/2008. Infatti, l’effetto
legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, dipendente sia solo fatto della proposizione dell’opposizione, è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non può non conoscere quali
sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa.
Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente
rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che
si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in
giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l’opposto non è chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per
decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove
prodotte dall’opponente per formulare la propria risposta.
4. E’ consolidato orientamento di questa Corte che nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell’opponente
va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l’improcedibilità
dell’opposizione (Cass. n. 9684/1992, 2707/1990, 1375/1980; 652/1978,
3286/1971, 3030/1969, 3231/1963, 3417/1962, 2636/1962, 761/1960,
2862/1958, 2488/1957, 3128/1956). E’ innegabile infatti, da una parte,
che la specialità della norma di cui all’art. 647 c.p.c. impedisce l’applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall’altra, che
la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge. Il ricorrente non ha prospettato ragioni decisive che possano indurre la Corte a discostarsi da tale orientamento. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi, in relazione al dibattito esistente sulle questioni oggetto del presente giudizio, per compensare le spese.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese.
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Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali
30 marzo 2010 n. 12433
Presidente: GEMELLI – Estensore: LATTANZI
RITENUTO IN FATTO
1. Mario Nucera, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del 20 settembre 2006 con la quale la Corte di
appello di Torino, riformando parzialmente la decisione di primo grado,
gli ha riconosciuto le attenuanti degli artt. 62, n, 6, e 62 bis c.p. e ha rideterminato in tre mesi di reclusione e cento euro di multa la pena inflitta al ricorrente per i reati previsti dall’art. 648 c.p. e dall’art. 12 d.l. 3 maggio 1991, n. 143. Risulta dalla sentenza impugnata che Nocera, a bordo
dell’autovettura tg. BG882JV, aveva utilizzato per il pagamento del pedaggio autostradale al casello di Cigliano (VC) una tessera Viacard del valore nominale di lire 50.000, che era stata ritirata dall’operatore perché,
dopo essere stata usata per l’ultima volta lecitamente il 14 aprile 1999, era
stata rigenerata e poi utilizzata indebitamente il 7 giugno 2000 e successivamente altre sei volte. Nocera si era giustificato affermando di avere acquistato la tessera da uno sconosciuto, che all’interno di un’area di servizio gliela aveva venduta dicendo di essere rimasto senza benzina e con poco denaro. Per questo fatto, in seguito a un giudizio abbreviato, il ricorrente era stato ritenuto responsabile dei reati di ricettazione e di uso indebito della tessera Viacard.
La corte di appello aveva confermato la condanna ritenendo che le
circostanze dell’acquisto dimostrassero quanto meno l’esistenza di un dolo eventuale, in presenza del quale doveva ravvisarsi il reato di ricettazione e non quello di incauto acquisto. Inoltre, dopo avere aggiunto che l’imputato non aveva dato una giustificazione del proprio acquisto, perché aveva riferito circostanze incontrollabili, la Corte aveva rilevato che secondo
una giurisprudenza consolidata “la mancata giustificazione del possesso di
una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della sua
illecita provenienza”.
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Il ricorrente, denunciando erronea applicazione della legge e vizi di
motivazione, ha innanzi tutto contestato che la responsabilità per il reato
di ricettazione e per quello previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 possa essere affermata sulla base di un mero dolo eventuale, poi ha sostenuto
che le circostanze in cui era avvenuto l’acquisto della tessera Viacard non
erano tali da farne ritenere la probabile provenienza illecita. Secondo il ricorrente l’addebitargli l’impossibilità di controllare giudiziariamente la giustificazione offerta nascondeva “una presunzione di colpevolezza e una sostanziale inversione dell’onere della prova”; comunque la mancanza di giustificazione non avrebbe potuto, di per sé sola, essere considerata indicativa della conoscenza da parte sua della provenienza delittuosa della cosa.
Infine, con riferimento al delitto dell’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 il ricorrente ha dedotto che la tessera Viacard non rientra tra i documenti previsti da tale disposizione e che nel caso in questione mancava sia il fine di
profitto sia l’uso indebito della carta.
2. La seconda sezione di questa Corte con ordinanza del 19 giugno
2009 ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.,
avendo rilevato l’esistenza di un contrasto sulla configurabilità del reato di
ricettazione quando l’agente non conosce la provenienza delittuosa della
cosa ma se ne rappresenta la probabilità o la possibilità.
Come ha ricordato la sezione rimettente, secondo un primo orientamento nel delitto ex art. 648 c. p. è ravvisabile il dolo eventuale quando la
situazione fattuale – nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e dell’esperienza – sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza nel
verificare la provenienza della res, ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza.
Secondo un altro orientamento invece il dolo eventuale non sarebbe
compatibile con il reato di ricettazione perché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa che si acquista o comunque si riceve provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del bene, non essendo sufficiente che l’agente si sia rappresentata la possibilità di tale origine per circostanze idonee a suscitare perplessità; quest’ultima ipotesi, ri-
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cadrebbe, invece, nell’ambito dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa, ovvero anche solo contravvenzionale, ed impongano all’acquirente, indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza. A questo indirizzo, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, possono essere ascritte anche le decisioni che ritengono necessaria la certezza della provenienza illecita della res aggiungendo però che tale certezza si può desumere anche dalla qualità delle cose e
dagli altri elementi sintomatici considerati dall’art. 712 c. p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da generare in qualsiasi persona di media
levatura intellettuale e secondo la comune esperienza la convinzione che
non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre.
Peraltro, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, in varie decisioni
della Suprema Corte l’adesione a uno degli orientamenti indicati deriva
da scelte non argomentate, che prescindono dal dibattito, anche dottrinale, sulle caratteristiche del dolo eventuale: con riguardo alla ricettazione,
in particolare, non si tiene conto delle problematiche connesse ai limiti di
applicabilità della categoria del dolo eventuale, elaborata principalmente
nella materia dei reati di evento, ai reati non causalmente orientati e connotati dal riferimento strutturale ad un reato presupposto, ossia a un fatto
già accaduto. Inoltre, non vengono approfonditi i rapporti tra le fattispecie criminose di cui agli artt. 648 e 712 c. p. né si chiarisce se e per quali aspetti il dubbio sul reato presupposto, che dovrebbe bastare per ritenere sussistente l’elemento soggettivo della ricettazione, si distingua dal “sospetto” che integra il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza, essendo difficile affermare che solo in un caso e non nell’altro l’autore del
reato abbia accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, adottando una formula (quella dell’accettazione del rischio) elaborata con specifico riferimento ai reati di evento, mentre la provenienza illecita nel delitto di ricettazione costituisce un presupposto del
fatto, che può essere oggetto di vari gradi di rappresentazione, ma che non
è prevedibile né evitabile.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione rimessa alle Sezioni unite riguarda, come si è visto, la
compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, e la sezione rimettente, dopo aver ricordato gli argomenti addotti a sostegno dei
due orientamenti giurisprudenziali contrastanti, ha indicato un’ulteriore
ragione, di carattere preliminare, che a suo avviso potrebbe imporre una
soluzione negativa, perché ha osservato che la provenienza illecita nella ricettazione costituisce un presupposto del fatto, rispetto al quale può dubitarsi che assuma rilevanza l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale.
Si tratta però di un dubbio agevolmente superabile perché il dolo eventuale è una figura di costruzione giurisprudenziale e dottrinale e non c’è
ragione di ritenere che essa possa riferirsi al solo evento del reato e che
l’atteggiamento psicologico nel quale la si fa consistere non possa riguardare anche i presupposti. L’elemento psicologico del reato è costituito, prima che da una componente volitiva, da una componente rappresentativa,
che investe il fatto nel suo complesso, e dunque non solo gli effetti della
condotta ma anche gli altri elementi della fattispecie, e dà piena ragione
della colpevolezza dell’agente. Perciò se si ritiene che il dolo sia costituito dalla rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico o anche, nel
caso di dubbio, dalla sua accettazione, alla quale si collega secondo la giurisprudenza il dolo eventuale, non c’è ragione di distinguere il caso in cui
il dubbio cade sulla verificazione dell’evento, che viene accettato, da quello in cui cade su un presupposto. In un caso e nell’altro l’agente si rappresenta la possibilità di commettere un delitto e ne accetta la realizzazione: egli non si astiene dal tenere una condotta ben sapendo che può dar
luogo a un illecito, anche se questo non viene direttamente voluto.
L’agente, come è stato affermato in dottrina, deve rappresentarsi l’esistenza dei presupposti “come certa o come possibile, accettando l’eventualità della loro esistenza”, sicché può dirsi che ci si trova in presenza di
un dolo eventuale quando chi agisce “si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il
verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto pos-
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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sa verificarsi: il soggetto decide di agire “costi quel che costi”, mettendo
cioè in conto la realizzazione del fatto”.
Deve quindi convenirsi che l’atteggiamento psicologico nel quale si fa
consistere il dolo eventuale ben può riguardare i presupposti del reato, anche se si tratta di un atteggiamento che in questo caso si riferisce a una situazione già esistente al momento dell’azione mentre quando ha ad oggetto l’evento si riferisce a una situazione futura, che potrà derivare dalla
condotta dell’agente.
Del resto il contrasto di giurisprudenza sulla configurabilità del dolo
eventuale nella ricettazione, nel caso in cui l’agente si rappresenti la possibilità della provenienza delittuosa della cosa, non concerne la configurabilità di un atteggiamento psicologico del genere rispetto ai presupposti
del reato ma il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto,
perché una parte della giurisprudenza è dell’opinione che l’ipotesi in questione rientri specificamente nella previsione dell’art. 712 c.p., che insomma per espressa previsione della legge il dolo eventuale valga a costituire la fattispecie dell’incauto acquisto, rimanendo così sottratto alla sfera applicativa dell’art. 648 c.p.
Il contrasto concerne quindi il rapporto tra i due reati, ma nel caso sottoposto alle Sezioni unite entra in gioco anche il delitto previsto dall’art.
12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n.
231), che tra l’altro punisce l’acquisto di carte di credito o di pagamento
di provenienza illecita. Con la sentenza 28 marzo 2001, n. 22902, Tiezzi,
rv. 218872 le Sezioni unite hanno ritenuto che l’acquisto di carte di provenienza delittuosa costituisca ricettazione, “dovendosi viceversa ricondurre alla previsione incriminatrice di cui all’art. 12, seconda parte, d.l. 3
maggio 1991, n. 143, convertito nella l. 5 luglio 1991, n. 197 (che sanziona, con formula generica, la ricezione dei predetti documenti “di provenienza illecita”), le condotte acquisitive degli stessi, nelle ipotesi in cui
la loro provenienza non sia ricollegabile a un delitto, bensì a un illecito civile, amministrativo o anche penale, ma di natura contravvenzionale”. Ciò
posto, se si dovesse ritenere che l’acquisto con dolo eventuale di una carta di credito o di pagamento di origine delittuosa non costituisca ricettazione ci si dovrebbe chiedere quale delle due altre fattispecie, quella dell’art.
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12 l. n. 143 cit. o quella dell’art. 712 c.p. sia integrata, e verosimilmente
si dovrebbe optare per la prima soluzione. È da aggiungere che nel caso in
esame, se questa dovesse essere la conclusione, ci si troverebbe di fronte
all’alternativa sull’applicabilità dell’art. 648 c.p. o dell’art. 12 l. n. 143 cit.,
ma la questione dei rapporti tra l’art. 648 c.p. e l’art. 712 c.p. resterebbe
rilevante per stabilire se il dolo eventuale possa o meno integrare il delitto di ricettazione, perché un’eventuale conclusione negativa, rendendo
inapplicabile l’art. 648 c.p., lascerebbe il campo all’art. 12 d.l. n. 143 cit.
2. L’orientamento contrario alla tesi della compatibilità tra ricettazione e dolo eventuale è stato ben delineato da Sez. II, 2 luglio 1982, n.
1180/83, Blanc con l’affermazione che il delitto di ricettazione, sia per la
sua strutturazione giuridica sia per la sua correlazione logica con la contravvenzione di incauto acquisto, non prevede la punibilità a titolo di dolo eventuale o alternativo, ma solo a titolo di dolo diretto. Secondo questa decisione, ad integrare gli elementi costitutivi della ricettazione “occorre, oltre al presupposto di fatto dell’effettiva esistenza di un delitto da
cui il denaro o le altre cose provengano, che l’agente, al momento dell’acquisto o della ricezione, pienamente consapevole dell’origine delittuosa
delle cose, volontariamente e coscientemente le abbia trasferite nella propria disponibilità, non essendo sufficiente che egli si sia rappresentata la
possibilità di tale origine delittuosa per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza delle cose stesse”. Quest’ultima ipotesi, osserva la sentenza Blanc, “ricade invece nell’ambito della specifica previsione dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa ovvero anche solo contravvenzionale e impongano all’acquirente,
indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza”. Nello stesso ordine di idee si sono espresse successivamente numerose sentenze tra le quali merita una segnalazione Sez. II, 14 maggio
1991, n. 9271, Castelli, per la chiarezza dell’affermazione del principio di
diritto, così massimato: “Il dolo eventuale non è compatibile con il delitto di ricettazione poiché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa
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che si acquista, o comunque si riceve, provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto. Per contro il dubbio
motivato dalla rappresentazione della possibilità dell’origine delittuosa
dell’oggetto per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza dello stesso, integra la specifica ipotesi di reato prevista dall’art.
712 c. p., che punisce l’acquisto di cose di sospetta provenienza”. Una parte di questa giurisprudenza aggiunge però che la certezza nell’agente della provenienza delittuosa della cosa può desumersi anche dagli elementi
delineati dall’art. 712 c.p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da
ingenerare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la
più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre (Sez. II, 3 aprile 1992, n. 2/93, Nicoletti;
Sez. II, 21 febbraio 1995, n. 3237, Quasdallah), e analoghe affermazioni
sono contenute in numerose decisioni che per riconoscere l’esistenza del
dolo diretto utilizzano dati probatori che nella maggior parte dei casi avrebbero potuto più correttamente essere dimostrativi di un dolo eventuale
(Sez. II, 20 giugno 1996, n. 8072, Coletto; Sez. VI, 4 giugno 1997, n.
6753/98, Finocchi; Sez. IV, 12 dicembre 2006, n. 4170/07, Azzaouzi).
Opposto a quello che riconduce alla contravvenzione prevista dall’art.
712 c.p. i fatti di acquisto o ricezione con dolo eventuale delle cose di
provenienza delittuosa è l’orientamento giurisprudenziale che, ritenendo
la contravvenzione di natura esclusivamente colposa, ravvisa un’ipotesi di
ricettazione in tutti i casi in cui la condotta dell’agente è sorretta da un
dolo, anche solo eventuale. Chiara in questo senso è Sez. II, 12 febbraio
1998, n. 3783, Conti, che, dopo aver ricordato l’orientamento contrario,
obietta che in realtà, confrontando il tenore testuale delle due norme incriminatrici, non emerge affatto che il dolo di ricettazione non possa sussistere se non quando vi sia la soggettiva certezza dell’illecita provenienza
della res, sicché mancando questa si verterebbe automaticamente nella minore e diversa ipotesi di cui all’art. 712 c. p. Illuminante al riguardo, secondo la pronuncia in esame, appare in particolare l’esegesi di quest’ultima disposizione, che punisce non chi ha acquistato o ricevuto cose di cui
“sospetti” la provenienza da reato ma chi quelle cose ha acquistato o ri-
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cevuto quando “si abbia motivo di sospettare” tale provenienza. Di qui la
configurazione della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza in termini di reato colposo, perché, si dice: “emerge chiaramente
da tale formulazione della norma che il legislatore con l’art. 712 c.p. ha
inteso punire la mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della
res quando vi sia una oggettiva ragione di sospetto in ordine a detta provenienza. Ciò vale a dire che del reato di cui all’art. 712 c.p. si risponde
essenzialmente per colpa consistente appunto nella suddetta mancanza di
diligenza”. Perciò, “quando invece la situazione fattuale, nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e
dell’esperienza, sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza ma una consapevole accettazione
del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza,
del tutto corretta risulta la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di ricettazione. Quest’ultimo infatti come ogni delitto, è punibile a
titolo di dolo, e il dolo di regola può assumere anche la forma del c.d. dolo indiretto o eventuale, salvo che ciò sia escluso dalla particolare struttura della fattispecie incriminatrice”.
Un ulteriore approfondimento a sostegno dell’orientamento in esame
lo si deve a Sez. II, 15 gennaio 2001, n. 14170, Macchia, che opta per la
configurabilità del dolo eventuale in relazione al delitto di ricettazione, osservando che due sono le possibilità che si presentano in concreto: 1)
l’agente si è posto il quesito circa la legittima provenienza della res, risolvendolo nel senso dell’indifferenza alla soluzione; 2) l’agente è stato negligente, perché, pur sussistendo oggettivamente il dovere di sospettare circa l’illecita provenienza dell’oggetto – a causa della qualità di quest’ultimo
o per la condizione di chi lo offre ovvero per la sproporzionata entità del
prezzo – non si è posto il problema. Nel primo caso, rileva la sentenza
Macchia, “sussiste il dolo eventuale, poiché il soggetto ha affrontato consapevolmente il rischio di violare il codice penale, ricevendo una cosa che
può provenire da delitto e d’incorrere nelle conseguenti sanzioni”; nel secondo caso, invece, la condotta tenuta dall’agente è meramente colposa,
perché egli non si è avvalso degli ordinari criteri di prudenza e diligenza
per svolgere l’accertamento che la situazione concreta gli imponeva. L’orien-
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tamento è stato poi ribadito da varie decisioni; tra le più recenti, favorevoli alla configurabilità del dolo eventuale nel reato di ricettazione, si possono ricordare Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, Lapertosa; Sez. II,
28 novembre 2008, n. 46966, Gorgoni; Sez. II, 17 dicembre 2008, n.
2807/09, Dragna; Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 13358, Rubes; Sez. II, 2
aprile 2009, n. 17813, Ricciardi.
3. Le Sezioni unite ritengono che nessuno dei due orientamenti possa essere interamente condiviso; non il secondo, che arriva all’eccesso di
espungere dalla fattispecie dell’art. 712 c.p. anche i casi in cui l’agente abbia un mero sospetto sulla provenienza della cosa. È vero infatti che l’art.
712 c.p. fa riferimento, come ha osservato la sentenza Conti, a “una oggettiva situazione di sospetto”, e non a una situazione soggettiva, ma è anche vero che nulla fa ritenere che la disposizione sia inapplicabile nell’ipotesi in cui i dati oggettivi in essa indicati abbiano determinato un sospetto nell’agente. Una interpretazione siffatta finirebbe con il limitare oltre il
ragionevole e senza una sicura base testuale il campo di applicazione dell’incauto acquisto.
Neppure il primo orientamento però può essere condiviso perché dal
riconoscimento che nel caso di sospetto è ravvisabile un incauto acquisto
trae la conclusione ingiustificata che sia di pertinenza di questa fattispecie
tutta l’area che il dolo eventuale potrebbe occupare nel reato di ricettazione, sicché il delitto previsto dall’art. 648 c.p. sarebbe configurabile solo nei casi in cui l’agente abbia la certezza della provenienza della cosa da
delitto, mentre sarebbe configurabile solo la contravvenzione prevista dall’art.
712 c.p. in tutti i casi in cui, pur non essendoci elementi dai quali trarre
tale certezza, l’agente sia ben consapevole della concreta possibilità che la
cosa provenga da delitto e ne accetti il rischio.
Questo orientamento non considera da un lato che il dolo eventuale
può riferirsi a situazioni soggettive che investono la provenienza della cosa in forme ben più impegnative di quella del mero sospetto, pur non arrivando a costituire una forma di dolo diretto, e dall’altro che l’art. 712
c.p., a differenza dell’art. 648 c.p., non intende punire l’acquisto o la ricezione di cose con tale provenienza ma più semplicemente l’acquisto o
la ricezione di cose rispetto alle quali si abbiano motivi di sospetto, senza
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aver prima compiuto gli opportuni accertamenti. Correlativamente l’elemento soggettivo della contravvenzione non concerne la provenienza illecita della cosa ma i relativi accertamenti, che non avrebbero potuto essere omessi, e i motivi di sospetto che li rendevano necessari.
L’art. 712 c.p. non richiede espressamente l’effettiva provenienza della cosa, e una parte consistente della giurisprudenza (in questo senso Sez.
III, 15 aprile 1994, n. 5361, La Grutta; Sez. II, 2 luglio 1982, n. 1180/83,
Blanc; Sez. II, 1 ottobre 1980, n. 2232/81, Acquafredda; Sez. VI, 9 febbraio 1971, n. 162, Langella; in senso contrario, ma immotivatamente,
Sez. II, 7 luglio 1994, Manduano) e della dottrina è dell’opinione che tale provenienza non debba essere accertata: la norma non lo esigerebbe.
Se si conviene che la contravvenzione sussiste anche quando, in presenza di motivi di sospetto, la provenienza illecita della cosa non viene
accertata e comunque che tale provenienza esula dalla fattispecie descritta dall’art. 712 c.p. è ragionevole concludere che essa non fa parte
del relativo elemento soggettivo e che quindi non è sostenibile la tesi
dell’assorbimento nell’incauto acquisto dei fatti di ricettazione sorretti
da dolo eventuale. Sono i motivi di sospetto tipizzati, e non il sospetto, che caratterizzano l’incauto acquisto, e sotto questo aspetto può dirsi che la differenza dalla ricettazione è strutturale. È possibile che
nell’agente venga ingenerato un sospetto, ma questo, quando ciò avviene, costituisce un fatto accidentale, che rimane estraneo alla struttura della contravvenzione. In conclusione non ci sono argomenti convincenti per ritenere che in ogni ipotizzabile caso di dolo eventuale
l’agente dovrebbe rispondere della contravvenzione dell’art. 712 c.p.,
anziché di ricettazione, sia perché si tratta di una forma di dolo di per
sé compatibile con il delitto previsto dall’art. 648 c.p., sia perché non
può ritenersi che tale forma integri tipicamente la fattispecie contravvenzionale. Si pensi al caso del collezionista che di fronte all’offerta di
un pezzo di pregio sia in dubbio sulla sua provenienza e, considerate le
circostanze e le spiegazioni di chi glielo offre, si rappresenti la probabilità che sia di origine delittuosa, anche se non ne ha la certezza, e tuttavia non rinunci all’acquisto perché il suo interesse per il pezzo è tale
che lo acquisterebbe anche se gli risultasse che per venirne in possesso
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chi glielo offre ha commesso un delitto. In un comportamento del genere non c’è nulla di incauto; c’è la lucida volontà di dare soddisfazione al proprio interesse nella consapevolezza che molto probabilmente
l’acquisto si risolve in una ricettazione.
È vero però che rispetto alla ricettazione il dolo eventuale, a meno che
non emerga dalle stesse dichiarazioni dell’agente, viene desunto dalle circostanze del caso, indicative della possibilità che la cosa provenga da delitto, e che queste circostanze ben possono coincidere, e normalmente
coincidono, con quelle che l’art. 712 c.p. individua come motivi di sospetto, ed è anche vero che dai semplici e soli motivi di sospetto indicati
dall’art. 712 c.p. il giudice non può desumere l’esistenza di un dolo eventuale, perché altrimenti, per le cose provenienti da delitto (e non da contravvenzione), l’incauto acquisto verrebbe nella maggior parte dei casi trasformato in una ricettazione.
Fermo rimanendo quindi che la ricettazione può essere sorretta anche da un dolo eventuale resta da stabilire come debba avvenire il suo accertamento e quali debbano essere le sue caratteristiche, posto che lo stesso non può desumersi da semplici motivi di sospetto e non può consistere in un mero sospetto, se è vero che questo non è incompatibile con l’incauto acquisto. Del resto, come già si è avuto occasione di osservare, il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa: la sua
costruzione è rimessa all’interprete ed è ben possibile che per particolari
reati assuma caratteristiche specifiche.
Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che
danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità
di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo
eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che,
pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto.
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Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un
semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un
atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco,
che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può
ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.
4. La sentenza impugnata ha confermato la condanna del ricorrente
per il reato ricettazione sulla base di due diverse rationes decidendi: il dolo eventuale del ricorrente e la mancanza di giustificazione da parte sua
del possesso della carta Viacard, che secondo un orientamento giurisprudenziale sarebbe “sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede”.
È evidente che la seconda ratio decidendi si risolve in un’affermazione apodittica e ingiustificata, dato che la stessa sentenza impugnata,
come quella di primo grado, ha mostrato di dar credito alle dichiarazioni del ricorrente sulle circostanze dell’acquisto della carta Viacard e
da queste ha dedotto l’esistenza del dolo eventuale. Perciò è solo sul solo dolo eventuale che può basarsi l’affermazione di responsabilità per la
ricettazione ma sul punto la sentenza non è conforme ai principi affermati da queste Sezioni unite, perché si è limitata ad affermare “che
quanto meno il dubbio circa la illecita provenienza della tessera” doveva essersi “affacciato alla mente del Nocera il quale senza procedere ad
alcuna forma di benché minimo accertamento aveva ricevuto e varie
volte utilizzato la carta in questione”.
Come si è visto non basta un sospetto e non basta un semplice dubbio per integrare il dolo eventuale della ricettazione e di conseguenza si
impone l’annullamento della sentenza impugnata, demandando al giudice di rinvio un nuovo giudizio sul punto relativo all’elemento psicologico, da compiere facendo applicazione dei principi sopra specificati.
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L’altro delitto per il quale il ricorrente ha riportato condanna, quello
previsto dagli artt. 81 c.p. e 12 d.l. n. 143 del 1991 invece è prescritto,
perché in seguito all’applicazione delle attenuanti degli artt. 62, n. 4 e 6
e 62 bis c.p. risulta punito con una pena inferiore a cinque anni di reclusione e il termine di sette anni e sei mesi, determinato in base alle disposizioni previgenti degli artt. 157 e 160 c.p., e decorrente dall’8 luglio 2000
ormai è ampiamente decorso.
Poiché secondo una giurisprudenza di questa Corte, alla quale la sentenza impugnata ha fatto riferimento (per un caso analogo a quello in esame v. Sez. I, 8 marzo, 2006, n. 11937, Elies) e nei cui confronti il ricorrente non svolto critiche argomentate, l’utilizzazione indebita di una tessera Viacard integra il reato previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231) e non risultano elementi che possano giustificare un’assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, c.p.p., relativamente al reato del capo B) la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché lo stesso è estinto per prescrizione.
Il giudice di rinvio dovrà provvedere all’eventuale rideterminazione della
pena e al regolamento delle spese tra le parti per questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato sub B) perché estinto per prescrizione; annulla la sentenza impugnata relativamente al reato sub A) e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Torino, cui demanda anche
il regolamento delle spese tra le parti per questo giudizio.
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Il dolo eventuale a metà
tra ricettazione ed incauto acquisto
Il caso in esame trattava dell’utilizzo indebito di una tessera Viacard
rigenerata, venduta all’imputato da uno sconosciuto, che aveva adottato,
per poterne lucrare la vendita, la motivazione di essere rimasto senza benzina e con pochi soldi.
Il tribunale di merito prima e la Suprema Corte, qui nella sua composizione nomofilattica, si erano chiesti se il contegno dell’incauto acquirente potesse integrare gli estremi di un comportamento criminoso, ovvero del tipo di reato, delittuoso o contravvenzionale di costui.
In termini dogmatici: se il dolo eventuale sia compatibile con il
delitto di ricettazione, rectius se la ricettazione possa essere sorretta
anche dal dolo eventuale, se quest’ultimo possa desumersi da semplici motivi di sospetto o possa consistere in un mero sospetto o se abbia a configurarsi piuttosto in termini di rappresentazione da parte
dell’agente della concreta possibilità della provenienza delittuosa della cosa.
I giudici di Piazza Cavour, nella loro più alta composizione, enunciano un innovativo principio di diritto che consente di superare il dissidio
interpretativo tra due opposti orientamenti, che involgeva il delitto punito dall’art. 648 del c.p., nei suoi rapporti con la contravvenzione dell’incauto acquisto1.
I due orientamenti preesistenti che avevano dato origine all’intervento delle Sezioni Unite sono sunteggiati, tra le altre, nelle sentenze del 22
gennaio–6 febbraio 2008 n. 5996 e nella sentenza del 13 novembre–2 dicembre 2000 n. 12566, entrambe provenienti dalla seconda sezione della
Cassazione.
In base al primo la ricettazione si configurerebbe anche allorché l’agente si sia posto il quesito circa la provenienza della res delittuosa risolvendo
la questione nel senso dell’indifferenza della soluzione; invece, si configura la fattispecie contravvenzionale allorché il soggetto ha agito con negligenza, nel senso che, pur sussistendo oggettivamente il dovere di sospet-
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tare circa la provenienza delittuosa dell’oggetto, egli non si è posto il problema ed ha quindi colposamente realizzato la condotta violata.
Secondo l’altra interpretazione in campo, la ricettazione sarebbe punibile solo a titolo di dolo diretto, occorrendo che l’agente, al momento
dell’acquisto o della ricezione fosse pienamente consapevole dell’origine
delittuosa delle cose, cosicché la situazione qualificata come di mero sospetto della provenienza illecita finirebbe per integrare l’incauto acquisto2.
Ai fini di una piena intelligenza della pronuncia in esame ci sembra non inopportuna una trattazione sia pure in forme sintetiche delle principali questioni che la teoria e la prassi giurisprudenziale hanno
enucleato e che concernono il reato cd. contratto incriminato dall’art.
648 c.p.3.
L’interesse sotteso a codesta previsione è l’incriminazione dei traffici
delittuosi, cioè che hanno ad oggetto cose provenienti da delitti. Ne segue che costituisce un presupposto dell’incriminazione in esame l’esistenza di un delitto anteriore anche se non è necessario che esso venga accertato nei confronti dell’autore del reato. Anzi per ciò che concerne il soggetto attivo si ritiene, dall’incipit della norma, che debba escludersi che
possa essere autore della ricettazione colui che ha commesso il reato dal
quale i beni provengono4.
Secondo l’opinione unanime di dottrina e giurisprudenza l’elemento
psicologico è dato dal dolo specifico, come si desume dall’impiego
dell’espressione: “… al fine di procurare a sé o ad altri un profitto”, per
cui oltre alla coscienza ed alla volontà del fatto tipico, vi è l’ulteriore scopo di procurare a sé od ad altri profitto; è chiaro poi che, come si suole
dire: il fuoco del dolo deve investire tutti gli elementi della fattispecie, dunque, ci sia consentito, anche il reato presupposto5.
Veniamo alla pronuncia del supremo collegio nomofilattico. In sostanza
la Cassazione sceglie una “terza via” ricusando entrambi gli orientamenti sunteggiati6.
Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che
danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla pre-
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senza di dati di fatto inequivoci7, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza.
Perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità
di commettere una ricettazione, e il non agire; perciò, richiamando un
criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile
quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza.
In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un elemento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto.
La costruzione della Suprema Corte consente di salvare uno spazio di
operatività parimenti significante anche per il dolo eventuale nella contravvenzione dell’incauto acquisto di cui all’art. 712 del c.p., che viene inteso nel senso che con la contravvenzione si punisce non l’acquisto o la
ricezione di cosa di provenienza illecita, quanto piuttosto l’acquisto o la
ricezione di cose rispetto alle quali si doveva avere il sospetto di una provenienza illecita, senza aver prima compiuto gli opportuni accertamenti.
In termini soggettivi ciò vuole significare che l’addebito di cui all’art.
712 del c.p. si fonda sulla negligenza dell’agente che, pur in presenza di
motivi di sospetto, omette di svolgere i dovuti accertamenti sulla provenienza della cosa.
Se si conviene che la contravvenzione sussiste anche quando, in presenza di
motivi di sospetto, la provenienza illecita della cosa non viene accertata e comunque che tale provenienza esula dalla fattispecie descritta dall’art. 712 c.p. è ragionevole concludere che essa non fa parte del relativo elemento soggettivo e che quin-
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di non è sostenibile la tesi dell’assorbimento nell’incauto acquisto dei fatti di ricettazione sorretti da dolo eventuale. Sono i motivi di sospetto tipizzati, e non il sospetto, che caratterizzano l’incauto acquisto, e sotto questo aspetto può dirsi che la
differenza dalla ricettazione è strutturale. È possibile che nell’agente venga ingenerato un sospetto, ma questo, quando ciò avviene, costituisce un fatto accidentale,
che rimane estraneo alla struttura della contravvenzione. In conclusione non ci sono argomenti convincenti per ritenere che in ogni ipotizzabile caso di dolo eventuale l’agente dovrebbe rispondere della contravvenzione dell’art. 712 c.p., anziché di ricettazione, sia perché si tratta di una forma di dolo di per sé compatibile
con il delitto previsto dall’art. 648 c.p., sia perché non può ritenersi che tale forma integri tipicamente la fattispecie contravvenzionale. Si pensi al caso del collezionista che di fronte all’offerta di un pezzo di pregio sia in dubbio sulla sua provenienza e, considerate le circostanze e le spiegazioni di chi glielo offre, si rappresenti la probabilità che sia di origine delittuosa, anche se non ne ha la certezza, e
tuttavia non rinunci all’acquisto perché il suo interesse per il pezzo è tale che lo
acquisterebbe anche se gli risultasse che per venirne in possesso chi glielo offre ha
commesso un delitto. In un comportamento del genere non c’è nulla di incauto; c’è
la lucida volontà di dare soddisfazione al proprio interesse nella consapevolezza che
molto probabilmente l’acquisto si risolve in una ricettazione.
In questo modo la Suprema Corte decodifica in maniera netta i contorni delle due fattispecie criminose rinvenendone il criterio discretivo
proprio nell’atteggiarsi dell’elemento fattuale di significato inequivoco, che
importa una scelta consapevole perché si abbia una ricettazione, posto che
lo stesso elemento psicologico della ricettazione non può desumersi da
semplici motivi di sospetto.
In conseguenza di ciò i Giudici di piazza Cavour impongono l’annullamento della sentenza di condanna impugnata, perché non risulta provato il dolo eventuale dell’imputato, secondo i principi di diritto affermati,
e senza dubbio al di là di apparenti complicazioni, che sono connesse alla scelta di una terza via, il merito della Corte sta proprio nel richiamo al
rigore ed alla verosimiglianza degli indici probatori dell’elemento soggettivo da essa sottolineati.
Ancora, vi è un altro punto che deve ritenersi rilevante nella pronuncia a Sezioni Unite in esame e cioè che gli Ermellini sottolineano come
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con riferimento ai reati non casualmente orientati e connotati dal riferimento strutturale ad un reato presupposto, l’atteggiamento psicologico nel
quale si fa consistere il dolo eventuale può ben riguardare i presupposti del
reato anche qualora questi si sostanziano in una situazione precedente alla condotta del soggetto attivo, non essendovi ragione per ritenere che essa si sostanzi, che essa possa riferirsi al solo evento del reato derivante dalla condotta dell’agente8.
Di recente, la Cassazione ha mostrato di fare applicazione delle direttive delle Sezioni Unite; infatti con la Cass. Pen., Sez. II, - Sentenza 20
aprile 2010, n. 15119, essa ha mostrato di conformarsi al dictum delle
Sezioni Unite 12433/2010: per la ricettazione non è necessario il dolo diretto, ma è sufficiente il dolo eventuale.
Avv. Gianluca Zarro
NOTE
1) G. AMATO, L’accettazione del rischio di commettere un reato crea la differenza con l’incauto acquisto, in Guida al diritto 20 (2010) 87 ss.
Per una esauriente e non troppo risalente trattazione anche a livello monografico della tematica cfr. DA BORMIDA, Compatibilità del dolo eventuale con la ricettazione: riflessi in caso di “incauto acquisto”, in Dir. pen. e proc. (2002) 325 ss. cui si fa rinvio anche per i riferimenti ivi contenuti.
2) Ai fini di una ampia elencazione delle sentenze che si occupano della materia si fa rinvio
alla nota alla sentenza in epigrafe contenuta in Foro it. 6 (2010) col. 326.
Per quanto ci riguarda in questa sede ci preme sunteggiare l’orientamento che sostiene che
ai fini della punibilità della ricettazione occorra solo il dolo diretto, in quanto per integrare gli
elementi costitutivi di cui all’art. 648 c.p. oltre al reato presupposto, occorre che l’agente, al
momento dell’acquisto o della ricezione, sia pienamente consapevole dell’origine delittuosa delle cose, e che volontariamente le abbia trasferite nella propria disponibilità, non essendo sufficiente che egli si sia rappresentato tale origine delittuosa, ipotesi che, invece, secondo l’orientamento che si sta descrivendo, rientrerebbe nell’incauto acquisto, cioè nell’art. 712 c.p. La quale norma punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che denuncino di per sé il sospetto di un’origine delittuosa ed impongono all’acquirente l’obbligo di ragionevoli accertamenti
sulla liceità o meno della provenienza, dunque finendo in questa prospettiva per racchiudere il
dolo eventuale nel fascio applicativo della contravvenzione dell’incauto acquisto. Cfr. Cass., Sez
II, sentenza 15 ottobre 2002–3 febbraio 2003 n. 5123.
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Contra si era sostenuta in giurisprudenza la tesi per la quale non è indispensabile che la consapevolezza della provenienza delittuosa del bene ricevuto si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendosi desumere anche dagli elementi elencati dall’art. 712 c.p., purché i sospetti siano così gravi ed univoci da ingenerare nell’uomo di media diligenza e secondo la comune esperienza la convinzione che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute. Variante di questa tesi è quella che
sostiene che non richiedendosi per l’integrazione del reato di ricettazione la conoscenza precisa del delitto presupposto sarebbe sufficiente ad integrarne l’elemento soggettivo qualunque forma di dolo, anche declinato come dolo eventuale, sussistente in caso di consapevolezza, anche
non assoluta da parte dell’agente, di acquistare cose di provenienza illecita.
3) Art. 648 c.p. Ricettazione: “Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque s’intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la
reclusione da due a otto anni e con la multa da euro 516 ad euro 10.329.
l La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516, se il fatto è di particolare tenuità.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile, ovvero quando manchi una
condizione di procedibilità riferita a tale delitto (1)”.
(1) Articolo così sostituito dalla L. 22 maggio 1975, n. 152.
4) M. C. SABATINI, La compatibilità tra dolo eventuale e delitto di ricettazione al vaglio delle sezioni unite, in AA. VV. Giurisprudenza penale 2010, a cura di S. TORDELLI (Milano 2010) 247
ss.: “In base ad una interpretazione letterale del dettato normativo è considerato reato presupposto del delitto di ricettazione solamente quel contegno criminoso che sia in grado di integrare gli estremi di un delitto. La fattispecie di cui all’art 648 c.p. esclude infatti che si possano ricettare beni provenienti da reati contravvenzionali od illeciti amministrativi o civili”.
Se ne desume una prima importante differenza tra la fattispecie di reato punita dall’art. 648
c.p. e la contravvenzione di cui all’art. 712 c.p. infatti il danaro od i beni oggetto di ricettazione devono provenire esclusivamente da delitto, mentre la fattispecie di incauto acquisto può
avere ad oggetto beni che si sospetti provenire genericamente da un reato, sia esso delitto o contravvenzione.
5) Tra l’altro ci preme ribadire l’ontologica distanza del dolo specifico rispetto al dolo intenzionale (espresso con le espressioni: “con l’intenzione di” et similia) coniato dal legislatore,
come è noto, proprio nell’intento di eccettuare dall’ambito applicativo della norma il dolo eventuale, ergo ne segue che il legislatore non avrebbe voluto espungere dall’art. 648 c.p. il dolo
eventuale.
6) Scrivono i giudici nel testo della sentenza: “Le Sezioni unite ritengono che nessuno dei due
orientamenti possa essere interamente condiviso; non il secondo, che arriva all’eccesso di espungere dalla fattispecie dell’art. 712 c.p. anche i casi in cui l’agente abbia un mero sospetto sulla provenienza della cosa.
È vero infatti che l’art. 712 c.p. fa riferimento, come ha osservato la sentenza Conti, a “una oggettiva situazione di sospetto”, e non a una situazione soggettiva, ma è anche vero che nulla fa ritenere che la di-
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sposizione sia inapplicabile nell’ipotesi in cui i dati oggettivi in essa indicati abbiano determinato un sospetto nell’agente. Una interpretazione siffatta finirebbe con il limitare oltre il ragionevole e senza una sicura base testuale il campo di applicazione dell’incauto acquisto.
Neppure il primo orientamento però può essere condiviso perché dal riconoscimento che nel caso di sospetto è ravvisabile un incauto acquisto trae la conclusione ingiustificata che sia di pertinenza di questa fattispecie tutta l’area che il dolo eventuale potrebbe occupare nel reato di ricettazione, sicché il delitto previsto
dall’art. 648 c.p. sarebbe configurabile solo nei casi in cui l’agente abbia la certezza della provenienza della cosa da delitto, mentre sarebbe configurabile solo la contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. in tutti i
casi in cui, pur non essendoci elementi dai quali trarre tale certezza, l’agente sia ben consapevole della concreta possibilità che la cosa provenga da delitto e ne accetti il rischio.
Questo orientamento non considera da un lato che il dolo eventuale può riferirsi a situazioni soggettive che investono la provenienza della cosa in forme ben più impegnative di quella del mero sospetto, pur
non arrivando a costituire una forma di dolo diretto, e dall’altro che l’art. 712 c.p., a differenza dell’art.
648 c.p., non intende punire l’acquisto o la ricezione di cose con tale provenienza ma più semplicemente
l’acquisto o la ricezione di cose rispetto alle quali si abbiano motivi di sospetto, senza aver prima compiuto gli opportuni accertamenti. Correlativamente l’elemento soggettivo della contravvenzione non concerne la
provenienza illecita della cosa ma i relativi accertamenti, che non avrebbero potuto essere omessi, e i motivi
di sospetto che li rendevano necessari.”.
7) HASSEMER, Caratteristiche del dolo, in Indice penale (1991) 481 ss. il quale sostiene la necessità di inferire il dolo da una quantità ordinata di indicatori e controindicatori dell’avvenimento esteriore. Sul punto Cfr. anche I. M. GALLO, Dolo (dir. pen. ), in Dvd. Ed. 13 (1964)
part. § 9.
8) Così nella parte motiva: “Si tratta però di un dubbio agevolmente superabile perché il dolo eventuale è una figura di costruzione giurisprudenziale e dottrinale e non c’è ragione di ritenere che essa possa
riferirsi al solo evento del reato e che l’atteggiamento psicologico nel quale la si fa consistere non possa riguardare anche i presupposti. L’elemento psicologico del reato è costituito, prima che da una componente volitiva, da una componente rappresentativa, che investe il fatto nel suo complesso, e dunque non solo gli effetti della condotta ma anche gli altri elementi della fattispecie, e dà piena ragione della colpevolezza dell’agente. Perciò se si ritiene che il dolo sia costituito dalla rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico o
anche, nel caso di dubbio, dalla sua accettazione, alla quale si collega secondo la giurisprudenza il dolo eventuale, non c’è ragione di distinguere il caso in cui il dubbio cade sulla verificazione dell’evento, che viene
accettato, da quello in cui cade su un presupposto. In un caso e nell’altro l’agente si rappresenta la possibilità di commettere un delitto e ne accetta la realizzazione: egli non si astiene dal tenere una condotta ben
sapendo che può dar luogo a un illecito, anche se questo non viene direttamente voluto”.
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Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali
22 aprile - 27 maggio 2010, n. 20300
L’ingiustificato rifiuto da parete del P.M. di consegnare al difensore la trasposizione su supporto informatico delle registrazioni poste a base della misura cautelare, non inficia l’attività di ricerca della prova ed il risultato probatorio, in sé considerati, ma determina – a causa della illegittima compressione del diritto di difesa
– una nullità di ordine generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, lett.
c), cod. proc. pen., pertanto soggetta alla deducibilità ed alle sanatorie di cui agli
artt. 180, 182 e 183 cod. proc. pen.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.0. Il 24 agosto 2009 il Tribunale del riesame di Bari confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. del Tribunale di
Trani il 5 agosto 2009 nei confronti di L.C. D., per imputazioni di associazione per delinquere (capo a) della rubrica), di sette rapine in danno di
istituti bancari (capi b), b1), b2), b3), b4), e), d2) della rubrica medesima),
di detenzione e porto illegale di una pistola (capo N) della stessa rubrica).
Rilevavano i giudici del merito che “le fonti indiziarie sono essenzialmente costituite:
a) dalle dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese dal minore F.F., il
quale si è autoincolpato di ben 17 rapine, precisando di essere stato “iniziato” al crimine da Lo.Lu.
... ed indicando il loro tramite in L.C.D., che li poneva in contatto al
fine di programmare le rapine da mettere a segno ...;
b) dagli esiti delle acquisizioni dei tabulati delle utenze appartenenti al
L. e agli altri associati ...;
c) dai risultati delle numerose conversazioni telefoniche e fra presenti
intercettate dagli investigatori;
d) dagli atti di p.g. concernenti gli arresti dei coindagati, giudicati in
procedimenti collegati; e) dai servizi di osservazione, pedinamento e controllo espletati dai verbalizzanti;
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f) infine dalle dichiarazioni auto ed etero accusatorie rilasciate da G.R.”.
Da tutti tali elementi i giudici del merito traevano la sussistenza del
grave quadro indiziario, “la persistenza di rimarchevoli esigenze di cautela sociale connesse ad un vivo pericolo di reiterazione criminosa”, “l’assoluta inadeguatezza ai fini preventivi della misura gradualmente meno afflittiva degli arresti domiciliari”. 1.1. Nel pervenire alla resa statuizione, il
Tribunale del riesame rigettava alcune eccezioni difensive.
In particolare, quanto ad una dedotta eccezione di “perdita di efficacia della misura per avere il P.M. omesso di rilasciare copia su supporto
magnetico delle conversazioni intercettate”, riteneva la infondatezza di tale rilievo “al di là del fatto che risulta solo affermata ma non documentalmente provata la circostanza che il difensore di L. ... abbia avanzato la
richiesta di duplicazione delle intercettazioni su nastro magnetico”.
Considerava che, “in ogni caso”, su tale “asserita richiesta ... non è intervenuto alcun provvedimento di diniego esplicito o tacito;
anzi, come si desume dai motivi aggiunti depositati in udienza dal difensore dell’interessato, il P.M. procedente, con nota a margine della richiesta difensiva, ha formulato in ordine ad essa parere favorevole, inviando la stessa per competenza al G.I.P.; dunque su tale richiesta sarà tale organo giusdicente a doversi pronunciare in prosieguo”.
Rilevava, inoltre, che con la sentenza della Corte Costituzionale n.
336/2008, “il giudice delle leggi ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura personale
cautelare, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico
delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate, senza però stabilire alcun termine entro il quale tale adempimento
debba essere assolto”.
Riteneva, inoltre, di non condividere quanto al riguardo era stato ritenuto dalla sentenza di questa Suprema Corte, Sez. 6ª, del 26 marzo 2009,
n. 1950, e di condividere, invece, quanto affermato da altra sentenza, Sez.
6ª, del 6 novembre 2008, n. 44127, “secondo cui la richiesta intesa ad ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conver-
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sazioni o comunicazioni utilizzate ai fini dell’adozione di un provvedimento cautelare personale dev’essere presentata al giudice che ha applicato la misura coercitiva...”. 2.0. Avverso tale provvedimento ha personalmente proposto ricorso l’indagato, denunciando:
a) vizi di violazione di legge e di motivazione.
Premesso che “il collegio aveva rilevato ex officio e su indicazione difensiva una trasposizione del contenuto delle informative dei Carabinieri,
da prima tramutata come richiesta di emissione di ordinanza di custodia
cautelare da parte del P.M. e successivamente trasformata dal G.I.P. come
ordinanza di custodia cautelare”, deduce che il Tribunale del riesame avrebbe sorvolato sulla “nullità dell’ordinanza citando la sentenza delle S.U. del
21.6-21.9.2000, n. 17, Primavera ... richiamando per relationem un provvedimento restrittivo della libertà personale ...”; quel principio troverebbe “applicazione quando il G.I.P. autorizzi per relationem per esempio i
decreti autorizzativi e non un provvedimento cautelare privando della libertà personale un soggetto senza che sia presa cognizione del contenuto
delle indagini svolte dalla p.g. e valutando gli elementi favorevoli e/o sfavorevoli a carico dell’indagato ...”;
b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’art. 268
c.p.p. e art. 309 c.p.p., comma 5.
Premette il ricorrente che il proprio difensore, dopo l’esecuzione della misura cautelare, aveva estratto copie integrali degli atti processuali, non
rinvenendo i supporti magnetici ed i “brogliacci”.
Deduce, quindi, che “il mancato deposito presso il Tribunale del riesame dei supporti informatici e i brogliacci delle conversazioni telefoniche è causa di nullità e perdita di efficacia della misura cautelare atteso che
l’ordinanza è basata sulle intercettazioni telefoniche ...”.
Soggiunge che lo stesso difensore aveva poi, il 14 agosto 2009, richiesto
all’ufficio di Procura il “rilascio delle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e brogliacci”, ed il P.M. aveva annotato in calce alla richiesta “visto al G.I.P. con parere favorevole ed esecuzione alla p.g. operantè ....”.
Recatosi il 19 agosto successivo presso il Comando Compagnia
Carabinieri di Barletta al fine di ottenere copia dei dati informatici relativi alle intercettazioni telefoniche e dei brogliacci, il difensore aveva ap-
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preso che i supporti informatici si trovavano in Procura sin dal 12 giugno
2008, e “non venivano messe a disposizione della difesa ...”.
Richiama, al riguardo, la già citata sentenza della Corte Costituzionale,
n. 336/2008 e deduce, quindi, che anche in tal caso “il tribunale del riesame ... aggira l’ostacolo sanando quella violazione del diritto di difesa ...
Non necessita alcuna autorizzazione da parte del G.I.P. al rilascio delle intercettazioni telefoniche in quanto depositate e facenti parte del fascicolo delle indagini preliminari, è il P.M. che autorizza e non il G.I.P....”;
c) vizi di violazione di legge e di motivazione.
Il P.M. - assume il ricorrente - aveva emesso il decreto di intercettazioni telefoniche sulla sua utenza cellulare solo “sulla base di due elementi di scarsa rilevanza indiziaria”:
l’interrogatorio di F.F., che “mi esclude da qualsiasi partecipazione alle rapine ...”, ed il rinvenimento, nel corso di una perquisizione nell’abitazione dello stesso, di un pezzo di carta che recava annotato il numero
della sua utenza cellulare.
Soggiunge che, essendo emersa dalle dichiarazioni del F. una sua chiamata in reità, al riguardo “non vi era un solo riscontro esterno che potesse dimostrare l’attendibilità” di tale chiamante in correità: illegittimamente, quindi - deduce il ricorrente -, “il P.M.... ha disposto con decreto d’urgenza le intercettazioni telefoniche convalidate dal G.I.P., senza alcun riscontro esterno delle dichiarazioni rese dal F. ...”, ed aveva richiesto
ed ottenuto anche una proroga;
d) il vizio di motivazione, in relazione all’art. 273 c.p.p., quanto al reato sub a) della imputazione (art. 416 c.p.).
Deduce che illegittimamente il Tribunale del riesame aveva ritenuto
la sussistenza del reato associativo: esso aveva annullato l’ordinanza coercitiva nei confronti del Lo., del quale egli, “dalla lettura della ordinanza
custodiale”, era stato indicato come “il braccio destro”, che “prendeva ordini dal Lo.”.
Soggiunge che “il mero contatto telefonico tra il ricorrente e alcuni
indagati” non sarebbe idoneo a dare “alcun risvolto sulla loro organizzazione e i facenti parte alla presunta associazione, sono solo contatti telefonici sporadici ...”.
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In sostanza, dagli elementi di giudizio assunti e dagli esiti delle disposte intercettazioni, non sarebbe affatto ravvisabile il grave quadro indiziario in riferimento a tale reato, dovendosi semmai ravvisare l’ipotesi “del
reato del concorso in rapina e non ... del reato associativo ...”;
e) il vizio di motivazione, in relazione all’art. 267 c.p.p., commi 1 e 1
bis, quanto alle imputazioni sub b), b1), b2), b3), b4, e) e d2) (vari episodi di rapina).
Assume che illegittimamente gli erano stati attribuiti quei reati di rapina “sulla base del rilevamento delle celle telefoniche, senza avere alcuna certezza della presenza fisica del ricorrente sui luoghi delle avvenute rapine ...; la disponibilità del telefonino cellulare ben poteva averla altra persona ...”.
Richiama le risultanze degli interrogatori di F.F. e si sofferma su quelle relative alla individuazione dei siti localizzati.
Soggiunge che, essendo stato “installato sulla vettura Alfa 147 il GPS
...”, nessun elemento di riscontro esterno aveva dato la certezza che quel
veicolo fosse da lui condotto.
Conclude, sul punto, rilevando che egli non poteva far parte dell’associazione contestata dal 28 aprile 2008 al 30 gennaio 2009, poichè era
detenuto per altro titolo sin dal 24 novembre 2008 e posto, poi, agli arresti domiciliari il 26 maggio 2009 ininterrottamente e scarcerato l’8 luglio
2009;
f) il vizio di motivazione, in relazione all’art. 273, quanto al reato di
cui al capo n) della imputazione (detenzione e porto illegale di una pistola).
Assume che il Tribunale gli aveva attribuito tale reato, illegittimamente
traendo gravi elementi indiziali da una conversazione intercorsa tra S.G. e
M.F., il cui contenuto critica nella ritenuta inducenza alla sussistenza del
grave quadro indiziario;
g) vizi di violazione di legge e di motivazione, “in relazione al montaggio del GPS senza l’autorizzazione e/o tardiva ... in violazione dell’art.
191 c.p.p. dei risultati di tutte le mappe acquisite dal rilevamento GPS
montato sull’autovettura Alfa 147 ... in uso al L.”.
Al riguardo il Tribunale del riesame avrebbe reso una motivazione
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“a dir poco scioccante”, illegittimamente ritenendo che “il montaggio
del GPS sull’autovettura del ricorrente è servito per la ricerca della prova”, mentre “la figura del ricorrente emerge solo il 29 luglio 2008 con
le dichiarazioni del F. ...” e “le autorizzazioni documentate alle intercettazioni telefoniche sono dell’1.8.2008 e l’autorizzazione del montaggio del GPS è dell’8.8.2008 e autorizzata il 4.12.2008 ...: quattro
mesi dopo aver installato sulle autovetture il GPS veniva autorizzata l’installazione del GPS”, il che “rende illegittimi tutti gli atti acquisiti, quali le mappe ritraenti la localizzazione del veicolo ... per violazione dell’art.
191 c.p.p.”;
h) il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 274 c.p.p.:
assume che illegittimamente i giudici del merito avevano ritenuto la
inadeguatezza della meno afflittiva misura degli arresti domiciliari.
2.1. Il difensore del ricorrente ha prodotto “note d’udienza e motivi
nuovi”.
Ribadisce, in sostanza, le ragioni del ricorso, quanto alla mancanza di
motivazione del provvedimento custodiale, alla “inutilizzabilità del materiale intercettato”, alla insussistenza del reato associativo.
3.0. La Seconda Sezione penale di questa Suprema Corte, cui il processo era stato assegnato, con ordinanza resa all’udienza del 15 gennaio
2010, ha disposto la rimessione del ricorso a queste Sezioni Unite.
Premesso che “tra le numerose questioni proposte all’esame della Corte
si pone come preliminare ... quella concernente l’asserita inutilizzabilità
delle intercettazioni di conversazioni telefoniche che hanno fornito agli
inquirenti gli elementi sui quali è fondata la proposizione accusatoria ...”,
ricorda che “la ragione della denunciata inutilizzabilità è ravvisata, dal difensore ricorrente, nel fatto che non furono posti a sua disposizione, prima dell’udienza di riesame, i supporti contenenti le registrazioni e non
venne, pertanto, consentita allo stesso difensore la verifica della corrispondenza delle trascrizioni di queste registrazioni con quanto desumibile dall’ascolto diretto dei dialoghi intercettati...”.
Richiama, quindi, la sentenza della Corte Costituzionale del 10 ottobre 2008, n. 336, rilevando che il contenuto di tale decisione “si è esaurito ... nella affermazione della sussistenza del diritto difensivo ad ottene-
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re una copia della traccia fonica ... Senza che per quanto concerne la pratica attuazione di questo diritto siano state fornite indicazioni”.
Avendo dovuto “l’interprete ... calare la solenne affermazione del principio nella concreta realtà processuale”, al riguardo sono intervenute sentenze di legittimità approdate ad esiti diversi e contrastanti: Sez. 6ª, 6 novembre 2008, n. 44127; Sez. 6ª, 26 maggio 2009, n. 19150; Sez. 2ª, 18
dicembre 2009, n. 4021/2010. 3.1. Il Presidente aggiunto, con provvedimento del 22 febbraio 2010, ha fissato l’odierna udienza per la discussione del gravame.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3.0 Deve, innanzitutto, rilevarsi la ritualità del ricorso (tempestivamente proposto).
Esso è stato sottoscritto personalmente dall’indagato, con firma autenticata dall’avv. Sasso Maria Teresa, non iscritta all’albo speciale di cui
all’art. 613 c.p.p., e dalla stessa poi depositato presso il Tribunale del riesame; il ricorrente era a quel momento detenuto.
Al riguardo, hanno chiarito queste Sezioni Unite (sentenza 29 maggio 1992, n. 8141) che, nel caso in cui l’atto di impugnazione di una parte privata sia presentato in cancelleria da un incaricato, non occorre l’autentica della sottoscrizione dell’impugnante, giacchè l’art. 582 c.p.p., che
gli attribuisce la facoltà di avvalersi di un incaricato per la presentazione
del relativo atto, non richiede siffatta formalità (cfr. anche, da ultimo, ex
ceteris, Sez. 6ª, 12 febbraio 2009, n. 7514).
E, sulla scorta e nell’ambito di tale principio, s’è anche ulteriormente
chiarito che l’incarico alla presentazione del gravame non deve necessariamente sostanziarsi in un formale atto di delega, potendo esso essere anche
orale, l’incarico, in sostanza, potendosi ritenere e presumere ogni qualvolta,
in ragione del rapporto dell’incaricato con il titolare del potere di impugnazione, si abbia la piena garanzia circa l’autenticità della sottoscrizione (ex
plurimis, Sez. 5ª, 4 febbraio 2002, n. 12162; Sez. 2ª, 12 giugno 2002, n.
35345; Sez. 6ª, 29 ottobre 2003, n. 8/2004; Sez. 2ª, 7 luglio 2006, n. 29608;
Sez. 5ª, 25 settembre 2006, n. 506/2007; Sez. 5ª, 11 gennaio 2007, n. 8096;
Sez. 6ª, 26 febbraio 2007, n. 4947; Sez. 1ª, 23 aprile 2007, n. 5045).
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Alla luce di tali principi, che vanno qui ribaditi, nella specie, il rapporto difensivo fiduciario, nella sede di merito, tra l’impugnante e la presentatrice dell’atto di gravame, da contezza della autenticità della sottoscrizione dell’atto medesimo e del conseguente incarico a presentarlo.
3.1. Il contraddittorio si è ritualmente instaurato in questa sede.
L’avviso per l’odierna udienza camerale è stato, difatti, ritualmente e
tempestivamente notificato al difensore di fiducia nominato ed a quel momento investito del mandato difensivo.
Solo tre giorni prima dell’udienza, il 19 aprile 2010, il ricorrente ha
nominato altro difensore di fiducia, “revocando tutte le precedenti nomine”.
Ma, essendo stati già espletati tutti gli incombenti di cui all’art. 610
c.p.p., comma 5, era onere del sopravvenuto difensore, notiziato dalla parte, di comparire in udienza senza alcun avviso.
4.0. Tanto premesso, il primo profilo di censura (sub a), supra) è destituito di fondamento.
Il provvedimento impositivo della misura custodiale, infatti, ha richiamato “il quadro indiziario esposto dal P.M. (che) riporta in sintesi l’informativa finale dei CC. di Barletta in data 5.6.09”, ed ha diffusamente e
compiutamente evidenziato le circostanze fattuali alla stregua delle quali
il giudice ha ritenuto la sussistenza del grave quadro indiziario.
Correttamente l’ordinanza impugnata ha richiamato i principi reiteratamente affermati da questa Suprema Corte, in tema di legittima motivazione per relationem (Sez. Un., 21 giugno 2000, n. 17; e, ex ceteris,
Sez. 4ª, 14 novembre 2007, n. 4181/2008; Sez. 5ª, 29 settembre 2003, n.
39219; Sez. 3ª, 27 novembre 2002, n. 2125/2003;; Sez. 4ª, 25 giugno
2002, n. 34913): il provvedimento impositivo della misura cautelare, difatti, ha fatto riferimento ad un legittimo atto del procedimento, la cui
motivazione si è logicamente ritenuta congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; il giudice ha mostrato di aver preso cognizione del contenuto sostanziale dell’atto di riferimento e di averlo meditato, valutandolo coerente con la decisione da lui
assunta; l’atto di riferimento è stato riportato nel suo contenuto ritenuto
rilevante ai fini della decisione assunta ed è, in tali contenuti, conosciuto
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dall’interessato, a lui ostensibile al momento in cui se ne è reso attuale
l’esercizio della facoltà di valutazione.
E, ciò posto, è del tutto infondato l’assunto, secondo cui la motivazione per relationem sarebbe consentita in tema di motivazione dei decreti autorizzativi alle intercettazioni, ma non di un provvedimento cautelare: nè spiega il ricorrente perchè mai quel principio, che ha invece valenza generale, dovrebbe avere tale ridotta efficacia esplicativa.
D’altra parte, i giudici del merito hanno anche, del tutto correttamente, richiamato il principio, pur esso reiteratamente affermato da questa Suprema Corte, secondo cui l’ordinanza del tribunale del riesame si
integra con quella applicativa della misura cautelare, dando vita ad un provvedimento unitario sotto il profilo motivazionale, sicchè il giudice del riesame può integrare (e anche correggere) la motivazione del provvedimento
impugnato (tra altre, Sez. Un., 17 aprile 1996, n. 7; Sez. 2ª, 18 dicembre
2007, n. 3103;
Sez. 1ª, 6 dicembre 2007, n. 266/2008; Sez. 2ª, 23 gennaio 1998, n.
672; Sez. 2ª, 28 novembre 2007, n. 774/2008; Sez. 2ª, 21 novembre 2006,
n. 6322/2007; Sez. 5ª, 7 dicembre 2006, n. 3255/2007; Sez. 6ª, 16 gennaio 2006, n. 8590; Sez. 2ª, 4 dicembre 2006, n. 1102/2007; Sez. 5ª, 8
ottobre 2003, n. 40608; Sez. 6ª, 6 maggio 2003, n. 32359):
ed il provvedimento qui gravato ha dato ampia, diffusa, puntuale e
coerente contezza delle ragioni apprezzate nel pervenire al divisamento
espresso.
5.0. Quanto al secondo motivo di doglianza (sub b), supra), il ricorrente assume, come si è sopra ricordato, che “il mancato deposito presso
il Tribunale del riesame dei supporti informatici e (de)i brogliacci delle
conversazioni telefoniche è causa di nullità e (di) perdita di efficacia della
misura cautelare, atteso che l’ordinanza è basata sulle intercettazioni telefoniche ...”.
Per quanto riguarda i “brogliacci”, il rilievo è infondato.
Invero, deve innanzitutto rilevarsi che il G.I.P. ben può porre a fondamento del provvedimento di applicazione della misura cautelare il contenuto delle intercettazioni telefoniche, anche se compendiate in “brogliacci”, ovvero riportate in forma riassuntiva, pur se non trascritte o som-
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mariamente trascritte con semplici riferimenti riassuntivi (cfr. Sez. 4ª, 26
maggio 2004, n. 39469; Sez. 6ª, 28 marzo 2002, n. 20715/2003; Sez. 6ª,
3 marzo 2000, n. 1106; Sez. 1ª, 28 aprile 1999, n. 3289; Sez. 6ª, 18 marzo 1998, n. 985; Sez. 6ª, 16 maggio 1997, n. 1972); e l’omesso deposito
del “brogliaccio” non è sanzionato da alcuna nullità, o inutilizzabilità, delle intercettazioni (Sez. 6ª, 26 novembre 2009, n. 49541; Sez. 4ª, 21 gennaio 2004, n. 16890): nella specie, sono stati puntualmente richiamati i
contenuti delle intercettazioni, ritenuti rilevanti ai fini che occupano, altrettanto puntualmente esaminati e delibati nella loro valenza indiziante ai
fini della emissione del provvedimento cautelare.
6.0. Quanto all’altro profilo della doglianza, concernente il mancato accesso ai supporti magnetici relativi alle conversazioni captate, che
sono state poste a fondamento del provvedimento impositivo della misura custodiale e del provvedimento impugnato, esso rimanda alla questione per la quale il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite: quali effetti, cioè, sulla procedura di riesame abbiano il diniego ingiustificato o il mancato esame da parte del pubblico ministero della richiesta
difensiva di ottenere copia delle registrazioni delle comunicazioni intercettate, le cui trascrizioni sintetiche (i c.d. “brogliacci di ascolto”)
siano state poste a fondamento dell’ordinanza applicativa della misura
cautelare personale.
Com’è noto, la Corte Costituzionale, con sentenza dell’8-10 ottobre
2008, n. 336, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p.,
nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione
dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del
provvedimento cautelare, anche se non depositate.
Il Giudice delle leggi ha ricordato che, alla stregua del diritto vivente, in tal senso essendo orientata la costante ed uniforme giurisprudenza
di legittimità, “in caso di incidente cautelare, se il pubblico ministero presenta al giudice per le indagini preliminari richiesta di misura restrittiva
della libertà personale, può depositare, a supporto della richiesta stessa, solo i “brogliacci” e non le registrazioni delle comunicazioni intercettate”;
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e che “la trascrizione (anche quella peritale) non costituisce la prova diretta di una conversazione, ma va considerata solo come un’operazione
rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica”.
Ha, quindi, considerato come “l’ascolto diretto delle conversazioni o
comunicazioni intercettate non possa essere surrogato dalle trascrizioni effettuate, senza contraddittorio, dalla polizia giudiziaria, le quali possono
essere, per esplicito dettato legislativo (art. 268 c.p.p., comma 2), anche
sommarie”, rilevando che “la possibilità per il pubblico ministero di depositare solo i “brogliacci” a supporto di una richiesta di custodia cautelare dell’indagato, se giustificata dall’esigenza di procedere senza indugio
alla salvaguardia delle finalità che il codice di rito assegna a tale misura,
non può limitare il diritto della difesa di accedere alla prova diretta, allo
scopo di verificare la valenza probatoria degli elementi che hanno indotto il pubblico ministero a richiedere ed il giudice ad emanare un provvedimento restrittivo della libertà personale”.
Ha, altresì, considerato che, “in caso di richiesta ed applicazione di
misura cautelare personale ..., le esigenze di segretezza per il proseguimento delle indagini e le eventuali ragioni di riservatezza sono del tutto
venute meno in riferimento alle comunicazioni poste a base del provvedimento restrittivo, il cui contenuto è stato rivelato a seguito della presentazione da parte del pubblico ministero, a corredo della richiesta, delle trascrizioni effettuate dalla polizia giudiziaria”: e dunque, “la lesione del
diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., comma 2, si presenta quindi
nella sua interezza, giacchè la limitazione all’accesso alle registrazioni non
è bilanciata da alcun altro interesse processuale riconosciuto dalla legge”.
Ha, quindi, sottolineato che “l’interesse costituzionalmente protetto
della difesa è quello di conoscere le registrazioni poste alla base del provvedimento eseguito, allo scopo di esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”; ne consegue, conclusivamente, che “i difensori devono avere il diritto incondizionato ad accedere, su loro istanza, alle registrazioni poste a base della richiesta del pubblico ministero e
non presentate a corredo di quest’ultima, in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla polizia giudiziaria”; ed “il di-
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ritto all’accesso implica, come naturale conseguenza, quello di ottenere la
trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni medesime”.
Il conseguimento di tale diritto - ha ulteriormente rilevato la Corte non può essere assicurato con il ricorso all’art. 116 c.p.p., giacchè “la suddetta norma ..., vista congiuntamente all’art. 43 disp. att. c.p.p., non attribuisce - secondo la giurisprudenza di legittimità - un diritto incondizionato alla parte interessata ad ottenere copia degli atti, ma solo una mera possibilità ...”. 6.1. Mette conto, quindi, di osservare da subito che il
diritto “costituzionalmente protetto della difesa ... di conoscere le registrazioni poste a base del provvedimento eseguito”, con conseguente possibilità di ottenere copia della traccia fonica, è “diritto incondizionato”, il
cui esercizio è preordinato “allo scopo di esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”.
L’intervento della Corte Costituzionale (che ha richiamato anche il
principio dalla stessa espresso nella propria sentenza del 17-24 giugno 1997,
n. 192, che ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 293
c.p.p., comma 3, nella parte in cui non prevedeva la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la
stessa) ha riguardato, come s’è detto, solo l’art. 268 c.p.p., in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione; integro, perciò, rimane (tra gli
altri, e per quel che nella specie più direttamente interessa) l’assetto normativo delineato dall’art. 309 dello stesso codice di rito, in tema di riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva, ma è di tutta
evidenza come quella regola affermata dal Giudice delle leggi incida, poi,
(anche) sulla procedura di riesame, segnatamente sotto il versante dell’esercizio del diritto di difesa, delle prospettazioni di merito in quella sede proponibili, del controllo attuale del giudice sulla sussistenza degli elementi
giustificativi della imposta misura cautelare, alla stregua della evidenza procedimentale delineata e concretizzata dagli atti tutti al riguardo presentati
dal pubblico ministero a supporto della richiesta di emissione del provvedimento coercitivo:
inequivoco, d’altronde, è il riferimento della Corte Costituzionale a
“tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”.
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L’intervento della Corte si è verificato nell’ambito di una domanda de
libertate di sostituzione o revoca della misura della custodia cautelare, ma
non può sorger dubbio che quell’affermato dictum decisivamente rilevi
anche nel contesto della procedura di riesame, nella quale si tratta di valutare la sussistenza o meno dei presupposti geneticamente legittimanti la
imposta misura cautelare.
6.2. La decisione della Corte Costituzionale è intervenuta in un quadro normativo costantemente ed uniformemente valutato ed interpretato
dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte.
In particolare, come ha richiamato il Giudice delle leggi, questa è stata continuativamente orientata nel senso di ritenere legittimo che, a supporto della richiesta di misura cautelare, il pubblico ministero possa presentare al giudice per le indagini preliminari solo i “brogliacci” relativi alle conversazioni captate e non anche le relative trascrizioni, in un contesto in cui si è pacificamente ritenuto che la trascrizione delle intercettazioni telefoniche non costituisce prova o fonte di prova, ma solo un’operazione meramente rappresentativa in forma grafica del contenuto della
prova acquisita con la registrazione fonica, della quale il difensore può far
eseguire la trasposizione su nastro magnetico, ai sensi dell’art. 268 c.p.p.,
comma 8.
Si è costantemente affermato, quindi, che il giudice per le indagini
preliminari ben può porre a fondamento dell’ordinanza cautelare il contenuto delle intercettazioni telefoniche, anche se contenute in “brogliacci” o riportate in forma riassuntiva, pur se non trascritte, altrettanto costantemente rilevandosi che la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art.
271 c.p.p. consegue solo nelle ipotesi ivi tassativamente indicate, riguardanti l’inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268
c.p.p., commi 1 e 3 (cfr., tra molteplici altre, Sez. 4ª, 26 maggio 2004, n.
39469; Sez. 5ª, 9 luglio 2003, n. 34680; Sez. 6ª, 28 marzo 2002, n.
20715/2003; Sez. 1ª, 23 gennaio 2002, n. 7406; Sez. 6ª, 3 marzo 2000,
n. 1106; Sez. 1ª, 26 novembre 1998, n. 5903/1999; il principio è stato da
ultimo ribadito da Sez. 6ª, 23 ottobre 2009, n. 2930/2010).
In tale contesto, pure si è rilevato e chiarito che “il deposito di cui
all’art. 268 c.p.p., comma 4 rientra nella procedura finalizzata alle succes-
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sive operazioni di stralcio eventuale e di trascrizione da effettuarsi in contraddittorio delle parti, ai fini dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento, come tale del tutto distinta dalla procedura incidentale de libertate, ove non di deposito ... è a parlarsi, ma di allegazione agli atti posti a
fondamento della misura.
Trattasi, perciò, di incombenti a finalità diverse, con scansioni temporali non coincidenti (l’epoca del deposito, invero, prescinde del tutto da
quella di celebrazione del procedimento cautelare di regola anteriore) e
con oggetti non necessariamente coincidenti (il deposito riflette tutto il
materiale relativo alle operazioni..., nel mentre la allegazione ai fini cautelari può riguardare solamente le trascrizioni sommarie del contenuto delle comunicazioni o gli appunti raccolti durante le intercettazioni)” (Sez.
Un., 27 marzo 1996, n. 3; Sez. Un., 20 novembre 1996, n. 21/1997; Sez.
6ª, 8 ottobre 1998, n. 2911; Sez. 6ª, 3 giugno 2003, n. 35090).
E’ stato anche puntualizzato che non solo è da escludere la necessità
del deposito, ex art. 268 c.p.p., in vista della utilizzazione a fini cautelari,
dei risultati delle registrazioni, ma anche la necessità che il pubblico ministero alleghi alla richiesta di emissione del provvedimento cautelare il
verbale e la registrazione relativi alle operazioni di intercettazione, ravvisandosi, in sostanza, una sorta di “presunzione d’esistenza e di conformità”,
senza la necessità di un controllo giurisdizionale sulla effettiva sussistenza
di tale documentazione, dalla quale discende la validità della prova; ciò sul
rilievo che l’art. 271 c.p.p. non menziona l’art. 89 disp. att. c.p.p., essendo, perciò, consentito di utilizzare a fini cautelari i dati conoscitivi tratti
dalle captazioni effettuate, senza che il pubblico ministero sia tenuto a produrre, nè al giudice per le indagini preliminari, nè, eventualmente, al tribunale del riesame, la relativa documentazione (id est, i verbali contenenti le trascrizioni sommarie e le bobine registrate) (Sez. 6ª, n. 2911/1998,
cit.; Sez. 6ª, 21 gennaio 1999, n. 208; sulla esclusione della sanzione di
inutilizzabilità per l’inosservanza del precitato art. 89 disp. att. c.p.p. v., da
ultimo, Sez. Un., 26 giugno 2008, n. 36539).
In definitiva, si è ritenuto che il pubblico ministero non sia tenuto a
trasmettere al tribunale del riesame anche le registrazioni delle conversazioni intercettate, posto che, ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 5, egli è
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tenuto a trasmettere solo gli atti da lui prodotti con la richiesta di applicazione della misura cautelare; la difesa poteva accedere a tale documentazione, ma non anche alle registrazioni delle comunicazioni intercettate,
giacchè il deposito di queste è disciplinato dall’art. 268 c.p.p., comma 4,
con la predeterminazione delle sequenze temporali ivi indicate e la possibilità di proroga.
6.3. Su tale assetto normativo, come univocamente interpretato dalla
costante giurisprudenza di legittimità, è, dunque, intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale; la quale, dichiarando la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p., nei termini sopra ricordati, ha stabilito ora il diritto della parte ad accedere alle registrazioni effettuate, utilizzate ai fini cautelari, anche prima del loro deposito ai sensi del quarto
comma della stessa norma; così stabilendo, in sostanza, un obbligo per il
pubblico ministero, a richiesta della parte, di completa discovery del mezzo di prova utilizzato ai fini della imposizione della misura cautelare, con
l’effetto, tra l’altro, di configurare, sia pure limitatamente alla sola materia
delle intercettazioni, il diritto previsto dall’art. 293 c.p.p., comma 3, non
più solo come strumento di conoscenza degli elementi su cui è fondata
l’ordinanza cautelare, ma come diritto alla piena conoscenza degli elementi
che il giudice ha utilizzato nell’emettere il provvedimento restrittivo della libertà personale.
L’ordinanza di rimessione, nel procedimento che occupa, ha pertinentemente rilevato, come si è sopra ricordato, che la pronuncia della
Corte “non ha potuto estendersi agli aspetti, problematici, di concretezza che la sua attuazione ha immediatamente posto all’attenzione degli operatori e degli interpreti”, ed “il contenuto della decisione della Corte si è,
pertanto, esaurito nella affermazione della sussistenza del diritto difensivo
ad ottenere copia della traccia fonica ... Senza che per quanto concerne la
pratica attuazione di questo diritto siano state fornite indicazioni”.
Tanto, in effetti, appare anche sollecitare il legislatore a rimeditare, con
espressa previsione normativa, l’assetto dell’istituto in questione, sulla scia
di quanto talora suggerito in dottrina e di quanto inizialmente prefigurato al riguardo nel progetto preliminare del codice di procedura penale,
ove, in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione, nell’origi-
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nario art. 268, comma 5 a proposito del deposito dei verbali e delle registrazioni, era previsto che, “tuttavia, se le intercettazioni vengono utilizzate per il compimento di singoli atti delle indagini preliminari, il deposito deve avvenire entro cinque giorni dal compimento dell’atto”.
La illegittimità costituzionale della norma in questione è stata dichiarata sul presupposto che le “registrazioni poste a base della richiesta del
pubblico ministero” non siano state “presentate a corredo di quest’ultima,
in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla polizia giudiziaria”.
Su tali indotti aspetti problematici sono intervenute pronunce contrastanti dalle sezioni semplici di questa Suprema Corte, soprattutto per quanto riguarda gli effetti della violazione del diritto di accesso in sede di riesame.
Con sentenza della Sez. 6ª, 6 novembre 2008, n. 44127, si è ritenuto
che l’inadempimento della richiesta di accesso, in quanto atto sopravvenuto, può esser fatto valere solo innanzi al giudice che ha emesso il provvedimento. Si è rilevato che “una corretta lettura dei termini della sentenza ... della Corte Costituzionale ..., impone di considerare che, trattandosi di un diritto riconosciuto dalla Consulta alla difesa, attinente ad
una fase successiva all’emissione del provvedimento di cautela, non sembra che l’inadempimento della richiesta comporti ex tunc la caducazione
della misura”.
Si è, quindi, affermato che “l’atto non può che essere richiesto al G.I.P.,
dovendo il giudice del riesame operare solo in fase di controllo sul provvedimento impositivo al momento del deposito degli atti ex art. 293 c.p.p.,
trattandosi degli stessi atti posti a base della misura, ancorchè “deprivati”
della sintesi conseguente all’utilizzazione dei brogliacci che restano, in ogni
caso, utilizzabili in competente sede”.
Altra sentenza della Sez. 6ª, 7 maggio 2009, n. 29386, ha ricordato il
principio sopra affermato, secondo cui “la richiesta volta ad ottenere la
trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni utilizzate ai fini dell’adozione di un provvedimento cautelare deve essere presentata al giudice che ha adottato la relativa misura coercitiva e non al tribunale del riesame”, ed ha ritenuto che “tale principio
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non può che essere riaffermato nel suo significato complessivo con la precisazione che la richiesta deve essere rivolta al pubblico ministero, nella
cui disponibilità materiale e giuridica sono i documenti in questione nella fase delle indagini”.
Ha rilevato che “il pubblico ministero, dominus della fase investigativa, è l’unico abilitato, nell’ambito della proceduta atipica configurata dalla sentenza costituzionale, a verificare eventuali limiti, collegati essenzialmente alla tutela della riservatezza di altri soggetti coinvolti nelle registrazioni delle conversazioni ed estranei ai fatti e alla segretezza delle indagini per registrazioni di conversazioni non ancora ostensibili: situazioni che
possono incidere ... sulle modalità e tempi per provvedere al materiale rilascio delle copie”.
Ha ulteriormente osservato che il decisum della Corte Costituzionale
“non incide anzitutto sulla validità dell’ordinanza cautelare e, poi, sulla
procedura di riesame e sui tempi in cui deve essere conclusa e non può
essere oggetto di richiesta al giudice della procedura incidentale, il quale
non ha la disponibilità del nastro magnetico, e deve decidere su quanto
posto a fondamento dell’ordinanza e su eventuali produzioni della difesa,
tra i quali rientra anche il nastro magnetico ottenuto dalla difesa”.
Ha altresì osservato che l’interesse della difesa a “conoscere le registrazioni poste a base del provvedimento eseguito, allo scopo di esperire
efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”, non è “tale, però, da integrare una regola che possa invalidare l’epilogo della richiesta cautelare e, in ogni caso, ritardare i tempi di definizione della procedura di riesame.
La difesa, una volta ottenuta la copia del supporto magnetico e verificate le asserite incongruenze con i contenuti del c.d. “brogliaccio” è abilitata, in relazione al novum, a proporre ogni ulteriore rimedio incidentale previsto dalla legge processuale”.
La sentenza della Sez. 3ª, 30 settembre 2009, n. 41256, ha esaminato
una fattispecie in cui, sulla richiesta di ottenere copia su supporto magnetico delle registrazioni, il pubblico ministero aveva provveduto “dopo
ben 76 giorni”, rigettando la richiesta sulla “semplice motivazione” che
“l’art. 268 c.p.p. non prevede la facoltà di avere copia delle tracce audio”.
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La Corte ha escluso che il tribunale “avesse la facoltà di sospendere o
rinviare il procedimento ...”.
Ha osservato che la decisione della Corte Costituzionale “stabilisce un
principio generale a tutela del diritto di difesa, ma non è entrata in merito alle discrasie con altre contrarie disposizioni di carattere normativo ...;
la legge impone al tribunale per il riesame di decidere entro dieci giorni
dalla ricezione della richiesta e degli atti del P.M., ma non prevede la possibilità, in caso di richiesta di ulteriori atti da parte del difensore, di sospendere il procedimento o di rinviarlo oltre il decimo giorno ...; l’alternativa è quella di annullare la misura per la mancata trasmissione degli atti entro i termini prescritti, ovvero decidere in base agli atti in suo possesso”.
Ha ritenuto che “va esclusa la prima ipotesi”, rilevando, tra l’altro, che
“nella specie non trattavasi di elementi sopravvenuti:
egli (il P.M.) aveva trasmesso i brogliacci e le trascrizioni delle conversazioni” e “quindi la richiesta di copia dei nastri magnetici esulava da
tali atti, non trattandosi di nuovi elementi di prova;
il mancato rilascio delle copie non atteneva all’inefficacia del provvedimento cautelare, ma, teoricamente, alla regolarità della procedura di riesame, causata dalla discrasia sopra evidenziata attribuibile al P.M.”.
Ha ritenuto, quindi, che “correttamente il tribunale decise allo stato
degli atti”, soggiungendo che “ciò non pregiudica i diritti della difesa, che
potrà azionare i rimedi consentiti per ottenere le copie delle bobine, ed
in base ad esse presentare eventuale domanda di revoca della misura”.
Altra sentenza della Sez. Feriale, 10 settembre 2009, n. 37151, ha
osservato che, in quella fattispecie, la richiesta di trasposizione su nastro
magnetico delle conversazioni intercettate era stata effettuata ad “immediato ridosso ... dell’udienza camerale per il riesame”, e “le rigide
cadenze previste per l’udienza di riesame non consentivano di ritenere
che la presentazione dell’istanza fosse avvenuta in tempo utile perchè il
P.M. fosse in grado di soddisfare la richiesta del difensore e questi, a sua
volta, potesse porre tempestivamente a disposizione del tribunale del
riesame - ove necessario - le registrazioni stesse che il P.M. non è obbligato a trasmettere al giudice”.
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Ha rilevato che la intervenuta pronuncia della Corte Costituzionale
non può condurre a ritenere la inutilizzabilità delle intercettazioni, giacchè “non è stato ... intaccato in alcun modo ... il preciso disposto dell’art.
271 c.p.p.”.
Il tema del diniego opposto alla richiesta difensiva di accesso alle registrazioni, e dei conseguenti effetti, è stato ripreso, poi, nella sentenza
Sez. 1ª, 14 gennaio 2010, n. 46414.
Si è, ivi, ritenuto che “non vi è dubbio che il diniego della richiesta
... di autorizzazione ad estrarre il supporto audio delle tre intercettazioni
ambientali integra una nullità di ordine generale ...
Ma tale nullità va inquadrata in quelle generali a regime intermedio
previste dall’art. 178 c.p.p., di guisa che, non risultando dal verbale di
udienza che tale nullità sia stata tempestivamente eccepita, la stessa non
può essere rilevata o dedotta ai sensi dell’art. 180 c.p.p.”.
Tanto era stato affermato da altra sentenza della Sez. 1ª, 10 novembre 2009, n. 44226, la quale ha confermato che dalla lesione del
diritto di accesso “consegue, indiscutibilmente, in linea di principio la
nullità generale del procedimento ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma
1, lett. c)”.
Sulla scorta di tale principio altre pronunce sono pervenute a statuizioni di annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
Così Sez. 3ª, 9 novembre 2009, n. 46704, ha rilevato che “il diritto
di accesso del difensore alle trascrizioni può essere compromesso momentaneamente nel caso in cui le stesse non possano essere rilasciate entro il termine fissato per espletare il procedimento sulla libertà.
La violazione del diritto di difesa non trova, invece, giustificazione
quando l’interessato ha chiesto tempestivamente i supporti ed il pubblico
ministero, in tempo utile, ha preso in considerazione la istanza e l’ha respinta con incongrua motivazione”.
Ad identiche conclusioni sono pervenute Sez. 6ª, 26 marzo 2009, n.
19150; Sez. 5ª, 24 giugno 2009, n. 39930; Sez. 2ª, 18 dicembre 2009, n.
4021/2010, in questa, tra l’altro, rilevandosi che gli atti di intercettazione
conservano la loro validità, ma possono essere “considerati come elementi probatori solo quando la difesa avrà la concreta possibilità di prenderne
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cognizione diretta e non limitata agli schemi riassuntivi e alle trascrizioni
effettuate dalla p.g.”.
In tali decisioni, tuttavia, non si è specificamente indicato quale debba essere poi l’attività espletanda dal giudice del rinvio e le statuizioni che
allo stesso competono.
7.0. In tale rappresentato panorama giurisprudenziale, è, dunque, necessario che, nel mutato quadro normativo in parte qua determinato dalla intervenuta pronuncia della Corte Costituzionale, vengano esaminati i
singoli profili, contenuti e momenti nei quali si inserisce e va salvaguardato l’effettivo esercizio del diritto di accesso riconosciuto dal Giudice delle leggi e le conseguenze che il suo mancato riconoscimento determina
nei procedimenti de libertate.
7.1. Innanzitutto, deve rilevarsi che il diritto di accesso, così come configurato dalla Corte Costituzionale, è riconosciuto solo al difensore: soltanto a questo, difatti, l’art. 268 c.p.p., comma 6, riconosce “la facoltà di
esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche”; e, quanto al
procedimento di riesame, l’art. 309 c.p.p., comma 8, ancora una volta riconosce solo al difensore la facoltà di esaminare gli atti e di estrarne copia; solo al diritto di accesso del difensore ha fatto riferimento la sentenza della Corte Costituzionale.
7.2. Quanto all’autorità giudiziaria cui spetta il rilascio della copia,
non può sorger dubbio che questa vada identificata nel pubblico ministero che procede.
Nella sua disponibilità materiale e giuridica, difatti, si trovano i documenti in questione nella fase delle indagini, come puntualmente rilevato
da Sez. 6ª, 7 maggio 2009, n. 28386, cit; e solo il pubblico ministero è in
grado di procedere alla selezione delle registrazioni all’uopo rilevanti,
nell’intero contesto di tutte quelle effettuate, ad individuare solo quelle
poste a fondamento della richiesta della misura cautelare ed a verificare,
quindi, gli eventuali limiti al rilascio delle copie richieste, in relazione alla tutela della riservatezza di altri soggetti estranei ai fatti, le cui conversazioni siano state captate, o a contenuti delle registrazioni che non siano
rilevanti ai fini che occupano.
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In tal senso anche Sez. 3ª, 30 settembre 2009, n. 41256, cit; sostanzialmente Sez. 5ª, 24 giugno 2009, n. 39930, cit.; Sez. 6ª, 26 marzo 2009,
n. 19150, cit..
E’ erroneo, quindi, l’assunto del provvedimento impugnato, secondo
cui (richiamandosi la sentenza della Sez. 6ª, 6 novembre 2008, n. 44127,
cit.) “la richiesta intesa ad ottenere la trasposizione su nastro magnetico
delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni utilizzate ai fini dell’adozione di un provvedimento cautelare personale dev’essere presentata al giudice che ha applicato la misura coercitiva”. 7.3. Il diritto alla acquisizione
della copia può concernere solo le intercettazioni i cui esiti captativi siano stati posti a fondamento della richiesta della emissione del provvedimento cautelare; non altri, nè tampoco diversi esiti captativi che concernono persone diverse dall’indagato e che non rilevano al fine di valutare
la posizione indiziaria di quest’ultimo.
7.4. Tale diritto è esercitarle dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, come espressamente
specificato dalla Corte Costituzionale.
Essendo esso finalizzato ad “esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”, non è dato individuare un termine ad quem
nella proposizione dell’atto che quel rimedio sollecita, in particolare nella proposizione della richiesta di riesame, nel senso, cioè, che quella istanza debba necessariamente intervenire prima della richiesta di riesame: nessun termine perentorio al riguardo è ravvisabile ai sensi dell’art. 173 c.p.p.;
la richiesta di riesame può non enunciare i motivi della sua proposizione
(art. 309 c.p.p., comma 6) e può riguardare anche profili ulteriori e diversi da quello in questione.
7.5. Assumendosi, poi, nella ordinanza impugnata, che la Corte
Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p.,
“senza però stabilire alcun termine entro il quale tale adempimento debba essere assolto”, deve innanzitutto rilevarsi che al diritto del difensore di
accedere alle registrazioni corrisponde un obbligo del pubblico ministero
di assicurarlo.
La Corte, difatti, ha configurato tale diritto come “incondizionato”,
rilevando che, come si è già ricordato, “le esigenze di segretezza per il
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proseguimento delle indagini e le eventuali ragioni di riservatezza sono
del tutto venute meno in riferimento alle comunicazioni poste a base del
provvedimento restrittivo, il cui contenuto è stato rivelato a seguito della
presentazione da parte del pubblico ministero, a corredo della richiesta,
delle trascrizioni effettuate dalla polizia giudiziaria”.
E proprio da tanto ha tratto la conclusione che la pregressa normativa, che tale accesso in quella fase e stato del procedimento non assicurava, ledeva il diritto di difesa costituzionalmente presidiato dall’art. 24 Cost.,
comma 2, ed il principio di parità delle parti nel processo sancito dall’art.
111 Cost., comma 2.
L’inottemperanza a tale obbligo può comportare responsabilità disciplinari, stante il dovere di osservanza delle norme processuali richiamato
dall’art. 124 c.p.p., e, ove ne sussistano le condizioni di legge, anche penali (si veda il principio affermato da Sez. Un., 24 settembre 2009, n.
40538, a proposito della tardiva iscrizione nel registro di cui all’art. 335
c.p.p., ivi statuendosi che “gli eventuali ritardi ... sono privi di conseguenze” in quel caso, “fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale”).
7.6. Ciò posto, è vero che manca la espressa indicazione di un termine entro il quale quella richiesta debba essere esaudita (e, deve ritenersi, a
tanto non poteva procedere la Corte Costituzionale).
Nè è condivisibile l’opinione espressa da una voce della dottrina, secondo cui, dovrebbe trovare applicazione il termine di cinque giorni indicato dall’art. 268 c.p.p., comma 4: questo, infatti, attiene al termine (con
possibilità di proroga) in cui devono essere depositati in segreteria i verbali e le registrazioni in riferimento alla conclusione delle operazioni, ed
afferisce, quindi, ad aspetti, momenti e materia non sovrapponibili a quelli che rilevano nel tema che qui occupa.
Tuttavia, non bisogna dimenticare che la Corte ha esaminato la questione “in caso di incidente cautelare”, riconoscendo il diritto dell’istante ad ottenere le copie richieste “allo scopo di verificare la valenza probatoria degli elementi che hanno indotto il pubblico ministero a richiedere
ed il giudice ad emanare un provvedimento restrittivo della libertà personale”: e la acquisizione delle “registrazioni poste alla base del provvedi-
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mento eseguito” è finalizzata “allo scopo di esperire efficacemente tutti i
rimedi previsti dalle norme processuali”.
Essendo, dunque, la richiesta della copia finalizzata ad esperire il diritto di difesa nel procedimento incidentale de libertate, ne consegue che
essa deve essere rilasciata, comunque, in tempo utile perchè quel diritto
di difesa possa essere in quella sede esercitato.
Del tutto condivisibilmente ha rilevato la sentenza della Sez. 5ª, 24
giugno 2009, n. 39930, che “è di tutta evidenza che, essendo la messa a
disposizione di quegli elementi finalizzata al pieno dispiegarsi dell’attività
difensiva, implicito è l’obbligo per l’autorità procedente di soddisfare la richiesta in tempo utile, per consentirne la disamina in vista del riesame”.
Tali termini, d’altronde, sono ben noti al pubblico ministero, perchè
normativamente scaturiscono dal disposto dell’art. 309 c.p.p., comma 1,
che indica in dieci giorni il termine per proporre la richiesta di riesame,
e dalle prescrizioni dei commi 5 e 9 della stessa disposizione normativa,
che regolano le susseguenti cadenze temporali.
Ed altrettanto noti, perchè pur essi normativamente prefigurati, sono gli
ancor più ristretti termini per l’interrogatorio di garanzia (art. 294 c.p.p.).
Tanto appare comportare, sotto il profilo organizzativo, la opportunità
che il pubblico ministero, al momento di formulare la richiesta del provvedimento cautelare, si attrezzi anche preventivamente e per tempo per
essere in grado di ottemperare tempestivamente al nuovo obbligo imposto dalla sentenza della Corte Costituzionale.
7.7. Al fine di porre il pubblico ministero nella possibilità di adempiere il proprio obbligo, è del pari necessario che la richiesta venga proposta in tempo utile rispetto alle cadenze temporali indicate dalle norme
processuali, segnatamente, per quanto nella specie rileva, dall’art. 309 c.p.p.,
comma 9, (cfr., tra altre, Cass., Sez. Feriale, 10 settembre 2009, n. 37151;
Sez. 3ª, 3 novembre 2009, n. 46704, che ha richiamato quanto al riguardo rilevato dalla pregressa sentenza della Corte Costituzionale del 17-24
giugno 1997, n. 192; Cass. Sez. 6ª, 26 marzo 2009, n. 19150).
E tanto va considerato tenuto conto della complessità o meno delle
operazioni di duplicazione delle intercettazioni (poche o moltissime; facilmente estrapolabili o meno; ecc).
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Ove il pubblico ministero ritenga che le copie richieste non possano,
per tali o altri similari motivi, essere rilasciate tempestivamente, si prospetta al riguardo un suo onere di congrua motivazione che dia conto di
tale impossibilità, sulla stessa, poi, dovendosi esercitare il controllo del giudice della cautela, solo alla stregua di tali rappresentate prospettazioni, non
avendo quest’ultimo la disponibilità dell’intero compendio delle attività
captative.
Se quella cadenza temporale non è possibile ragionevolmente osservare, per essere stata la richiesta proposta in tempo non utile ad essere assolta, o a motivatamente giustificare la impossibilità di adempiere alla stessa, prima della relativa udienza camerale, anche alla stregua delle ragioni
prospettate dal pubblico ministero, il tribunale del riesame deve comunque decidere alla stregua degli atti trasmessigli nel termine impostogli dalla legge: nella precitata sentenza della Corte Costituzionale n. 192/1997,
in riferimento ai “termini rapidi e vincolanti previsti per l’interrogatorio”,
si è osservato che “nè il difensore potrà pretendere, nè l’autorità giudiziaria potrà concedere dilazioni di tali termini ove risulti materialmente impossibile procedere alla copia di tutti gli atti richiesti entro le rigide cadenze previste per l’interrogatorio e per l’udienza del riesame”.
D’altronde, il diritto a far valere eventuali rilievi e ragioni difensive, in
termini di rilevanza probatoria o indiziaria, scaturenti dall’ascolto delle registrazioni, non rimane, in tal caso, affatto precluso all’indagato, giacchè
quei rilievi e quelle ragioni possono comunque essere dallo stesso fatti valere successivamente, una volta ottenuta la copia della traccia fonica richiesta.
7.8. Quanto all’autorità giudiziaria davanti alla quale può esser fatto
valere il mancato rilascio della copia degli atti richiesti, la sentenza della
Sez. 6ª 6.11.2008, n. 44127 ha ritenuto che “l’inadempimento della richiesta di accesso, in quanto atto sopravvenuto, può essere fatto valere solo innanzi al giudice che ha emesso il provvedimento, giacchè il controllo effettuato dal riesame attiene solo al provvedimento impositivo “di base” al momento del deposito degli atti ex art. 293 c.p.p.”.
Tale assunto non può essere condiviso.
Appare, difatti, in tal guisa prospettarsi che il vaglio demandato al giu-
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dice del riesame debba essere cristallizzato solo alla situazione sussistente
al momento impositivo della misura, nessun rilievo assumendo altre circostanze intervenute medio tempore e pure prospettabili al medesimo giudice.
Ma, innanzitutto, ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 5, il P.M. ha l’obbligo di trasmettere, nel termine indicato, anche “tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini”, ed analogo diritto deve, simmetricamente, essere riconosciuto alla parte.
In ogni caso, ai sensi del nono comma della stessa disposizione normativa, il tribunale decide “anche sulla base degli elementi addotti dalle
parti nel corso dell’udienza”.
Il tribunale del riesame, quindi, deve verificare, alla stregua degli artt.
273, 274, 275 e 280 c.p.p., la legittimità della adozione della misura cautelare, avendo anzitutto riguardo alla situazione processuale coeva al provvedimento impugnato, senza, tuttavia, omettere di valutare anche gli elementi sopravvenuti purchè addotti nell’udienza camerale (ex ceteris, Sez.
Un. 8 luglio 1994, n. 11;
Sez. Un. 8 luglio 1994, n. 12): l’eventuale accertamento della difformità tra le indicazioni contenutistiche indicate nei “brogliacci” e l’effettivo tenore delle conversazioni captate è elemento di valutazione sopravvenuto alla situazione rappresentata e, in quanto tale, esaminata dal giudice
che impose la misura, deducibile davanti al giudice del riesame che deve,
a quel momento, delibare la sussistenza, tra l’altro, delle condizioni di cui
al precitato art. 273 c.p.p..
Può soggiungersi che la regola della deducibilità del novum nel procedimento incidentale de libertate trova applicazione anche nel procedimento di appello, ex art. 310 c.p.p., improntato al principio devolutivo,
in relazione ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, pur
sempre nell’ambito dei confini segnati dal devolutimi; in particolare, non
si è revocata in dubbio alcuno la possibilità che al difensore, nel giudizio
di appello de libertate, “sia consentito, dopo aver esaminato gli atti su cui
si fonda l’ordinanza appellata e nel contraddittorio camerale, produrre a
favore del proprio assistito la documentazione relativa a materiale informativo, sia preesistente che sopravvenuto, acquisito anche all’esito di in-
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vestigazioni difensive ...” (Sez. Un., 31 marzo 2004, n. 18339; v. anche
Sez. Un., 21 giugno 1997, n. 8).
Poichè il difensore ha la facoltà di prospettare, in sede di riesame, anche elementi nuovi, incidenti sul tema della legittimità del provvedimento che ha imposto la misura cautelare, gli deve essere assicurato, in quella
sede, anche il diritto di aver piena cognizione degli atti sui quali la misura si fonda, per consentirgli ogni attività difensiva al riguardo, compresa le
eventuale prospettazione del novum rispetto agli elementi posti a base della originaria misura impositiva, dato dalla non corrispondenza o non esatta interpretazione tra quanto riportato nei “brogliacci” e quanto, invece,
realmente risulta dalla intercettazioni.
In definitiva, l’accesso alle registrazioni delle conversazioni captate serve a rendere effettivo e completo l’esercizio del diritto di difesa della parte, come chiarito nella suindicata sentenza del Giudice delle leggi, giacchè “l’interesse costituzionalmente protetto della difesa è quello di conoscere le registrazioni poste alla base del provvedimento eseguito, allo scopo di esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali”; e “l’interesse in questione può essere assicurato con la previsione ...
del diritto dei difensori ad accedere alle registrazioni in possesso del pubblico ministero”.
L’acquisizione di quei dati, dunque, è finalizzato proprio al controllo
della legittimità della misura genetica emessa nei confronti dell’indagato:
e proprio tale scrutinio è demandato al giudice del riesame.
7.9. Ove il pubblico ministero non ottemperi tempestivamente alla richiesta di accesso alle registrazioni e di trasposizione su nastro magnetico
delle conversazioni o comunicazioni captate, perchè la circostanza possa
rilevare nel procedimento incidentale de libertate la parte ha l’onere di
specifica allegazione e documentazione al riguardo, in quella sede.
Se tanto non venga specificamente dedotto, il difensore rinuncia del
tutto alla possibilità di contestare la “presunzione d’esistenza e di conformità” del contenuto dei “brogliacci” a quello delle conversazioni o comunicazioni captate; ed il tribunale del riesame nessun accertamento è tenuto ad eseguire al riguardo, neppure risultandogli che una richiesta di accesso sia stata proposta.
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Ne consegue che il rilievo non può essere formulato per la prima volta in Cassazione.
7.10. Ove il rilievo sia stato, invece, specificamente e documentalmente
proposto al giudice del riesame, v’è innanzitutto da chiedersi se, nel riscontrato inadempimento dell’obbligo da parte del pubblico ministero e
nella sua, a quel momento, persistente inerzia, il tribunale abbia poteri officiosi al riguardo.
A tale quesito si ritiene di dover dare risposta positiva.
Deve, infatti, premettersi che queste Sezioni Unite hanno già avuto
modo di rilevare che, a seguito delle novelle normative intervenute sull’originario assetto del codice di rito, “il riesame ha assunto ... la funzione di
strumento di controllo a garanzia della libertà personale nella dialettica tra
le parti attraverso un’effettiva e tempestiva verifica giudiziale, con l’attuata discovery degli elementi a sostegno della richiesta cautelare ...
Da mezzo di difesa per “costringere” il P.M. a scoprire la sua strategia accusatoria, il riesame si è connotato, secondo l’evoluzione giurisprudenziale, di una logica di tipo sostanziale che consentisse la polarizzazione del controllo del tribunale sulla valutazione degli indizi, operata dal
giudice cautelare, attraverso la trasmissione dei dati dai quali potessero desumersi gli elementi di colpevolezza, le esigenze cautelari e l’adeguatezza
della misura prescelta” (Sez. Un., 27 marzo 2002, n. 19853).
Trattandosi di valutare le conseguenze derivanti dalla mancata allegazione e trasmissione di atti concernenti le intercettazioni utilizzate ai fini
cautelari, non sottoposti al G.I.P. ai sensi dell’art. 291 c.p.p. (si trattava,
specificamente, dei decreti autorizzativi delle operazioni di intercettazione), s’è distinto il caso in cui tali atti siano stati regolarmente allegati alla
richiesta di misura cautelare e poi non trasmessi al tribunale del riesame,
ed il caso in cui la mancata trasmissione degli atti consegua alla non integrale presentazione degli stessi già al giudice per le indagini preliminari.
Solo nel primo caso - s’è chiarito - consegue la caducazione automatica
della misura; nel secondo caso, invece, “non opera una siffatta sanzione”
e “il comportamento omissivo del P.M., circa il mancato inoltro di alcuni atti ... che, pertanto, il G.I.P. non ha potuto valutare e il corrispondente
mancato esame degli stessi da parte del tribunale del riesame non deter-
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mina la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare ... ma solo la inutilizzabilità” di quegli atti.
La pecularità della situazione che qui si esamina scaturisce dalla considerazione che, a ben vedere, non si versa in ipotesi in cui non siano stati prodotti al G.I.P. atti che egli, quindi, non ha potuto valutare; gli esiti
delle operazioni captative gli sono stati rappresentati attraverso la trascrizione che di essi sia stata effettuata dalla p.g., con i “brogliacci” o forme
consimili, e legittimamente alla stregua di essi è stata emessa la misura cautelare.
Si tratta, invece, solo di consentire di verificare, a richiesta ed eventuale contestazione di parte, la effettiva corrispondenza del contenuto cartaceo a quello auditivo, il che, ovviamente, presuppone che la parte sia posta in condizione di eventualmente proporre quella richiesta e quelle contestazioni, mercè il concreto esercizio del diritto di difesa nei termini riconosciutile dalla sentenza della Corte Costituzionale.
La questione, quindi, investe non la produzione, ab imis, della prova,
che è stata a suo tempo prodotta in forma idonea ad essere a quel momento valutata ai fini della emissione del provvedimento cautelare, ma la
possibilità della sua ulteriore valutazione, della sua verifica, in sede di riesame, ove ivi richiamata, e quindi riproposta, in violazione di tale diritto
di difesa.
Pur nel quadro di quei principi affermati dalle Sezioni Unite, la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di affrontare ed esaminare lo
specifico tema che qui si è proposto. Con sentenza della 1ª Sez. 28 aprile
1998, n. 2383, si è ritenuto che, in caso di mancata allegazione da parte
del P.M. di atti nella richiesta del provvedimento cautelare (si trattava anche in quel caso di decreti autorizzativi di intercettazioni), non soltanto
“nulla vieta al G.I.P. di disporne preventivamente la acquisizione prima di
emettere il provvedimento custodiale”, ma, in ogni caso, la relativa verifica “potrà essere fatta anche a posteriori ... dal tribunale del riesame ...”.
Ed il principio è stato più volte ribadito (Sez. 1ª, 30 giugno 1999, n.
4582; Sez. 4ª, 28 gennaio 2000, n. 2068; Sez. 4ª, 1 giugno 2001, n. 27961;
Sez. 6ª, 13 dicembre 2002, n. 1304/2003; Sez. 4ª, 1 dicembre 2004, n.
4631; Sez. 4ª, 8 novembre 2005, n. 4207; Sez. 4ª, 1 marzo 2005, n. 15426;
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Sez. 3ª, 12 ottobre 2007, n. 42371); esso è stato affermato in relazione alla acquisizione dei decreti autorizzativi delle operazioni di intercettazione, ma non v’è ragione alcuna per non ritenerlo operante anche per altri
atti; e tale potere officioso si appalesa del tutto consono e funzionale a
quella “logica di tipo sostanziale” che caratterizza l’attività del tribunale
del riesame nel controllo e nella valutazione del quadro indiziario che ha
indotto alla emanazione della misura cautelare.
Tale attività officiosa può, peraltro, essere compiuta solo in tempi utili per l’espletamento delle conseguenti incombenze e la valutazione dei
relativi esiti entro l’improcrastinabile termine nel quale il tribunale deve
rendere la sua decisione, ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 9.
In particolare, la sentenza delle Sezioni Unite n. 19853/2002 cit. ha
chiarito che anche la “produzione vicaria” cui è abilitata la difesa è “sganciata dal termine perentorio di cui al citato quinto comma (dello stesso
art. 309 c.p.p.) e quelle prospettazioni possono essere rappresentate “fino
all’udienza camerale e nel corso della stessa”. 7.11. Ove al difensore sia
stato ingiustificatamente impedito il diritto di accesso alle registrazioni poste a base della richiesta del pubblico ministero, tanto non determina la
nullità del genetico provvedimento impositivo, legittimamente fondato sugli atti a suo tempo prodotti a sostegno della sua richiesta dal P.M.; non
comporta la inutilizzabilità degli esiti delle captazioni effettuate, perchè
questa scaturisce solo nelle ipotesi indicate dall’art. 271 c.p.p., comma 1;
non comporta la perdita di efficacia della misura, giacchè la revoca e la
perdita di efficacia della misura cautelare conseguono solo nelle ipotesi
espressamente previste dalla legge (artt. 299, 300, 301, 302 e 303 c.p.p.,
art. 309 c.p.p., comma 10).
Determina, invece, un vizio nel procedimento di acquisizione della
prova per la illegittima compressione del diritto di difesa e non inficia l’attività di ricerca della stessa ed il risultato probatorio, in sè considerati.
Esso comporta, quindi, una nullità di ordine generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178 c.p.p., lett. c), soggetta al regime, alla deducibilità ed alle sanatorie di cui agli artt. 180, 182 e 183 c.p.p..
Ove tale vizio sia stato ritualmente dedotto in sede di riesame ed il
giudice definitivamente lo ritenga, egli non potrà fondare la sua decisio-
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ne sul dato di giudizio scaturente dal contenuto delle intercettazioni riportato in forma cartacea, in mancanza della denegata possibilità di riscontrarne la sua effettiva conformità alla traccia fonica.
Esso, difatti, è stato, bensì, legittimamente considerato, nella sua forma cartacea, al momento della emissione del provvedimento cautelare; ma,
dovendo, poi, il tribunale distrettuale (ri)esaminare la sussistenza delle condizioni legittimanti quel provvedimento, la difensiva richiesta di accesso
depriva quel dato di definitiva valenza probatoria, nella sua presunzione
assoluta di conformità, che rimane non verificata prima che si dia ingresso e concreta attuazione alla espressa richiesta della parte in tal senso formulata.
In sede di riesame il dato assume tale connotazione di definitività probatoria solo quando la parte sia stata posta in condizione di verificare quella conformità, esercitando il richiesto diritto di accesso. Deve condividersi, perciò, l’approdo cui è pervenuta la sentenza della 2ª Sez., 18 dicembre 2009, n. 4021/2010, cit., secondo cui “gli atti di intercettazione sono in sè pienamente validi e potranno essere considerati elementi probatori non appena le difese avranno la concreta possibilità di prenderne cognizione diretta e non limitata agli schemi riassuntivi ed alle trascrizioni
effettuate dalla p.g.”.
Il giudice del riesame, quindi, in presenza di tale accertata patologia,
non potrà utilizzare quel dato nel procedere alla valutazione della prova:
in tal senso ed a tali fini quel dato, perciò, rimane in quella sede inutilizzabile.
Del resto, ed in diverso ambito, tale regola è rinvenibile nel sistema:
difatti, ai sensi dell’art. 195 c.p.p., comma 3, in tema di testimonianza indiretta, nel caso di mancato esame della fonte di riferimento nonostante
la richiesta di parte, le dichiarazioni de relato sono espressamente dichiarate inutilizzabili.
Egli dovrà, semmai, procedere alla ed. prova di resistenza e valutare,
cioè, se quel dato non assuma rilevanza decisiva nel contesto della intera
evidenza procedimentale rinvenibile, che gli consenta di egualmente esprimere il suo conclusivo divisamento riguardo alla sussistenza del richiesto
grave quadro indiziario.
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Se, invece, il provvedimento cautelare si fondi decisivamente su quel
dato, quella nullità tempestivamente e ritualmente dedotta comporta l’annullamento della ordinanza cautelare, proprio perchè la verifica effettuata
nel giudizio di riesame induce ad una valutazione di insussistenza del richiesto grave quadro indiziario.
E lo stesso è da dirsi, mutatis mutandis, nel caso di appello cautelare,
ex art. 310 c.p.p..
7.12. L’eventuale annullamento del provvedimento cautelare, per le ragioni testè indicate, non preclude al pubblico ministero la possibilità di reiterare la richiesta ed al G.I.P. di accoglierla, se la nuova richiesta sia, questa
volta, corredata dal relativo supporto fonico, e non più solo cartaceo.
Questa Suprema Corte ha più volte avuto modo di esaminare il tema
del giudicato cautelare.
Si è, quindi, tra l’altro, chiarito che il principio di cui all’art. 649 c.p.p.
trova applicazione, in subiecta materia, “quando il giudice deve prendere
in esame quegli stessi presupposti che siano stati sottomessi a valutazione
in sede di gravame e ritenuti insussistenti, insufficienti o invalidi e non
quando l’inefficacia del provvedimento sia derivata da sopravvenute condizioni estrinseche, come da irregolarità della procedura di riesame” (Sez.
Un., 1 luglio 1992, n. 11; Sez. Feriale, 6 settembre 1990, n. 2668; Sez.
6ª, 2 aprile 1992, n. 1145); la preclusione da giudicato non sussiste quando vi sia stato “un successivo, apprezzabile mutamento del fatto” (Sez. Un.,
12 ottobre 1993, n. 20).
In tema di appello cautelare, in ottemperanza al principio che si stabilisce “una situazione di relativa stabilità del decisum, nel senso che esso
spiega una limitata efficacia preclusiva endoprocendimentale, “allo stato
degli atti”, in ordine alle questioni di fatto e di diritto esplicitamente o
implicitamente dedotte”, s’è rilevato che tali questioni “restano precluse
in sede di adozione da parte del G.I.P. di un successivo provvedimento
cautelare richiesto dal P.M. nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso fatto” solo “nella carenza di deduzione da parte del pubblico ministero di nuove e significative acquisizioni che implichino un mutamento della situazione di riferimento, sulla quale la decisione di appello era fondata” (Sez. Un., 31 marzo 2004, n. 18339, cit.).
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In materia cautelare, all’esito del procedimento di impugnazione, “si
forma una preclusione processuale, anche se di portata più modesta di quella relativa alla cosa giudicata, ... limitata allo stato degli atti e copre solo le
questioni esplicitamente o implicitamente dedotte” (Sez. Un., 19 dicembre 2006, n. 14453/2007); l’effetto preclusivo si determina ove si registri
la “assenza di un mutamento del quadro processuale di riferimento” (Sez.
Un., 24 maggio 2004, n. 29952); “non vi è preclusione ... nell’ipotesi in
cui la nuova richiesta contenga una diversità di allegazioni e deduzioni”
(Sez. 5ª, n,13 ottobre 2009, n. 43069; Sez. 6ª, 25 ottobre 2002, n.
5374/2003).
In definitiva, l’effetto preclusivo endoprocedimentale dispiega i suoi
effetti quando la nuova misura cautelare venga richiesta sugli stessi presupposti ed elementi già esaminati e decisi, quando il quadro processuale
e probatorio rimanga integro ed immutato ed immutata rimanga, perciò,
la già esaminata situazione processuale e probatoria di riferimento.
Tale effetto, invece, non si verifica ove, a seguito di nuovi e diversi elementi, venga a mutare il quadro probatorio di riferimento in relazione al
quale è stata esaminata la sussistenza o meno delle condizioni legittimanti la imposta misura cautelare, perchè in tal caso, la nuova richiesta si fonda su dati probatori che non hanno costituito oggetto di valutazione da
parte del precedente giudice della cautela ed alla stregua di questi la richiesta e la misura possono essere rispettivamente nuovamente formulata
e disposta.
Se, quindi, il tribunale del riesame non abbia valutato la situazione
probatoria in riferimento agli esiti delle intercettazioni, a causa della suindicata nullità, ove questi vengano, poi, legittimamente acquisiti con la produzione della traccia fonica, muta il quadro di riferimento probatorio, ed
alla stregua di quello così diversamente delineatosi il giudice della cautela
è pienamente integrato nel suo potere-dovere di valutare, a quel momento, la sussistenza o meno delle condizioni legittimanti la nuova richiesta di
misura cautelare (per una ipotesi analoga a quella che nel caso che occupa rileva, concernente la successiva acquisizione dei decreti autorizzativi
delle operazioni di intercettazione, v. Sez. 5ª, 9 giugno 1998, n. 2169).
7.13. Ove la predetta nullità venga riscontrata e dichiarata solo in se-
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de di legittimità, il provvedimento impugnato, affetto da tale vizio, va annullato con rinvio, comportando la dichiarazione di nullità la regressione
del procedimento allo stato in cui è stato compiuto l’atto nullo e la necessità della rinnovazione di quest’ultimo, con emenda dei vizi riscontrati (art. 185 c.p.p.).
In sede di rinvio, non più soggetto ai termini perentori indicati dall’art.
309 c.p.p., comma 10, (in tal senso la uniforme giurisprudenza di questa
Suprema Corte: cfr., ex ceteris, Sez. Un., 17 aprile 1996, n. 5; Sez. 5ª, 2
dicembre 1997, n. 5473/1998; Sez. 5ª, 23 novembre 1999, n. 5652/2000;
Sez. 6ª, 16 giugno 2003, n. 35651), il tribunale del riesame è reintegrato
nei poteri-doveri dei quali sopra si è già detto.
8.0. Nel caso di specie, dalla documentazione prodotta dal difensore
dell’indagato (che il Tribunale del riesame ha esaminato) è dato evincere
che, con istanza in data 14 agosto 2009, indirizzata al Sostituto Procuratore
della Repubblica di Trani, il difensore richiese il “rilascio di tutte le intercettazioni telefoniche e ambientali e/o brogliacci delle intercettazioni
telefoniche trascritte e/o registrate su CD”.
In calce alla stessa, in data non intellegibile (sembra 17 agosto), è dato leggere: “V. al G.I.P. con parere favorevole ed esecuzione alla P.G. operante”; più sopra vi è annotazione manoscritta “CC. Barletta”.
Il ricorrente assume: “il mio difensore recatosi in data 19.8.2009
(l’udienza del riesame era fissata per il 24 agosto) presso il Comando
Compagnia Carabinieri di Barletta al fine di ottenere copia dei dati informatici relativi alle intercettazioni telefoniche nonchè dei brogliacci come
da nota del P.M., accertava con prova documentale che i supporti informatici contenenti le intercettazioni erano stati in Procura sin dal lontano
12 giugno 2008, e non venivano messi a disposizione della difesa ...”.
Tale “prova documentale” è rappresentata dalla copia di una missiva
del Nucleo Operativo e Radiomobile dei CC. di Barletta in data 10 giugno 2009, indirizzata alla “Procura della Repubblica presso il Tribunale
per i Minorenni di Trani” e (solo) “per conoscenza “alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Trani (c.a. Sost. Proc. dr. C.E.)”.
Ivi si dice: “debitamente repertati si depositano copia dei supporti
informatici contenenti i dati e le fonie delle attività tecniche connesse al
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Proc. Pen. 4660/08 mod. 21 della Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Trani, RIT nr. 109/08 del 31.7.2008, RIT nr. 110/08 del
14.8.2008 e RIT nr. 116/08 del 04.09.2008 come da elenco allegato” (secondo quanto indicato nella intestazione del provvedimento impugnato e
nella richiesta di copia è il procedimento che qui interessa).
Tale documento, quindi, fa riferimento solo a “copia” di atti rimessi
alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, in riferimento al procedimento di competenza dello stesso Tribunale per i
Minorenni ivi indicato, evidentemente connesso al procedimento che qui
interessa.
Gli atti indicati in quella annotazione dei CC. non rilevavano, perciò,
nel procedimento che qui interessa: riguardavano, evidentemente, solo la
posizione di imputato o imputati minorenni;
gli atti riguardanti il presente procedimento dovevano, invece, essere
stati depositati presso la Procura della Repubblica (art. 268 c.p.p., comma
4; art. 89 disp. att. c.p.p.).
Alla stregua di tanto, già il rimettere, “con parere favorevole”, la decisione sulla proposta istanza al G.I.P., che non aveva la disponibilità degli atti
e che non poteva effettuare alcuna operazione di selezione e di estrapolazione di quelli richiesti (secondo quanto si è sopra già osservato), comportava
la disattenzione della istanza e la impossibilità di darvi concreto seguito.
A quella richiesta, difatti, avrebbe dovuto ottemperare il pubblico ministero. Rimane che la richiesta difensiva non è stata affatto adempiuta da
quest’ultimo (nè, ovviamente, da altri); essa era stata proposta, come s’è
detto, il 14 agosto e l’udienza camerale venne tenuta il successivo 24 agosto, sicchè la richiesta medesima era intervenuta in tempo utile per essere
assolta in tale lasso temporale; ed il “parere favorevole” espresso dal P.M.
lascia intendere che non vi fossero particolari ragioni di difficoltà tecnica
per prontamente ottemperarvi.
Deve ritenersi, perciò, realizzata la nullità generale di cui sopra s’è detto, tempestivamente dedotta nel corso della udienza camerale ed illegittimamente disattesa dal tribunale del riesame.
Tanto comporta l’annullamento della ordinanza impugnata, con rinvio al giudice a quo per nuovo esame.
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9.0. Gli altri motivi di ricorso assumono, a tal punto, rilievo subordinato, rilevando essi nel caso in cui il giudice del rinvio positivamente risolva la questione sopra indicata, in relazione alla sussistenza del grave quadro indiziario anche alla stregua degli esiti delle eseguite operazioni captative, e, comunque, conseguentemente, compiutamente esamini il quadro indiziario che ne risulterà.
Ed in tale ottica vanno esaminati.
10.0. Il terzo motivo di gravame (sub e), suprà) è infondato.
Hanno, invero, ben chiarito i giudici del merito, dopo aver richiamato il contenuto delle conversazioni intercettate, che “l’attivazione del mezzo di ricerca della prova nei confronti del L. ... è stata ampiamente giustificata dall’emersione di seri e corposi elementi di reità circa il suo coinvolgimento nelle rapine eseguite dal gruppo malavitoso ...”.
La regola di cui all’art. 192 c.p.p., comm1 3 e 4, è richiamata dall’art.
273 c.p.p., comma 1 bis, in tema di condizioni generali di applicabilità di
una misura cautelare personale, ai fini della valutazione dei gravi indizi di
colpevolezza che la legittimano;
essa, invece, non è evocata dall’art. 267 c.p.p., comma 1, che, nel suo
comma 1 bis, richiama solo l’applicazione dell’art. 203, a proposito degli
informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Quale presupposto del provvedimento autorizzativo alle captazioni, i gravi indizi di
reato possono, quindi, essere rappresentati anche da una chiamata in correità, non ancora a quel momento definitivamente scrutinata nella sua rilevanza ai fini delle condizioni generali di applicabilità di una misura cautelare personale, o in termini di prova ai sensi del precitato art. 192 c.p.p.,
comma 3.
Peraltro, ed in ogni caso, il ricorrente mostra di ritenere che per la attivazione di operazioni captative sia necessaria la sussistenza di elementi
indiziari di colpevolezza riguardo al soggetto nei confronti del quale quelle attività siano poste in essere; ma la norma (art. 267 c.p.p., comma 1) richiede la sussistenza di indizi di reato, non di reità: essi attengono alla esistenza dell’illecito penale, non alla colpevolezza di un determinato soggetto (Sez. 4ª, 17 ottobre 2006, n. 42017; Sez. 4ª, 16 novembre 2005, n.
1848/2006; Sez. 1ª, 3 dicembre 2003, n. 16779/2004).
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11.0. Egualmente infondato è il quarto motivo di doglianza (sub
d), supra).
Il provvedimento impugnato, difatti, ha correttamente richiamato i
parametri di riferimento valutativi del reato associativo ed in riferimento
a questi ha coerentemente ritenuto la sussistenza del grave quadro indiziario, evidenziando le “emergenze investigative” che “pongono in luce
l’esistenza di un accordo tra più soggetti (fra cui anche L.C.D.) diretto
all’attuazione di un continuativo programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti e, dunque, lo svolgimento di
una continuativa attività illecita perpetrata su basi organizzate”.
Assumendo il ricorrente che l’ordinanza coercitiva sarebbe stata annullata nei confronti del Lo., è dirimente considerare che tanto costituisce solo labiale assunto, non essendo stato prodotto alcun atto dal quale
evincersi la effettiva sussistenza della circostanza allegata e, con essa, i termini della addotta effettuata delibazione e la loro possibile incidenza riguardo alla complessiva situazione processuale dell’attuale ricorrente, come compiutamente rappresentata e delineata nel provvedimento impugnato, atteso che gli elementi apprezzati vanno anche oltre la mera contestazione della circostanza che egli prendeva ordini dal Lo..
La gravata ordinanza, in definitiva, si sottrae allo stato, anche in parte
qua, a rinvenibili vizi di illogicità, che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioè coglibile immediatamente, ictu oculi.
12.0. Privo di consistenza è anche il quinto motivo di censura (sub e),
supra).
L’assunto che “la disponibilità del telefonino cellulare ben poteva averla altra persona ...” è, ancora una volta, mera labiale deduzione espressa
solo in termini di astratta, ipotetica possibilità, non certo di congrua, effettiva probabilità, per la quale il ricorrente omette qualsivoglia allegazione specifica.
E lo stesso è da dirsi sulla circostanza relativa alla certezza che il veicolo del ricorrente venisse da lui condotto.
Il fatto, poi, che egli fosse detenuto nel periodo indicato, secondo la
allegazione al riguardo prospettata, non esclude affatto, di per sè, la contestata partecipazione all’associazione criminosa.
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13.0. Anche il sesto motivo di ricorso (sub f), supra) è infondato.
Il provvedimento impugnato, difatti, ha riportato il contenuto di una
conversazione intervenuta tra S.G. e M.F. e, con giudizio che si sottrae a
rinvenibile vizio di illogicità, ha coerentemente ritenuto che indiziariamente emerge dal predetto dialogo che L.C.D. (detto “(OMISSIS)) concorse con S.G. (quanto meno sul piano della compartecipazione morale)
all’uccisione di un cane attraverso l’utilizzazione di un’arma da fuoco.
14.0. Il settimo motivo di gravame (sub g), supra) è, ancora una volta, pur esso infondato.
Correttamente, difatti, i giudici del merito hanno rilevato che “la localizzazione mediante il sistema di rilevamento satellitare (ed. GPS) degli
spostamenti di una persona nei cui confronti siano in corso indagini costituisce una forma di pedinamento non assimilabile all’attività d’intercettazione di conversazioni o comunicazioni, per la quale non è necessaria
alcuna autorizzazione preventiva”.
Tale affermazione non è affatto “a dir poco scioccante”, come vuole
il ricorrente, ma del tutto corretta e tale principio è stato reiteratamente
affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 6ª, 11 dicembre 2007, n. 15396/2008; Sez. 4ª, 28 novembre 2007, n. 3017/2008;
Sez. 4ª, 29 gennaio 2007, n. 8871; Sez. 5ª, 7 maggio 2004, n. 24715; Sez.
5ª, 27 febbraio 2002, n. 16130).
15.0. Palesemente infondato, infine, è l’ottavo profilo di doglianza (sub
h), supra).
Quanto, difatti, alla sussistenza delle ravvisate esigenze cautelari ed alla adeguatezza della misura imposta, i giudici del merito hanno puntualmente e del tutto coerentemente motivato, evocando le “modalità e circostanze dei fatti”, concretizzatesi nella “perpetrazione di una serie di rapine presso istituti bancari od uffici postali”, a conferma della “sua propensione al crimine, dai cui proventi trae, in via esclusiva, i mezzi per vivere”; il “contesto associativo in cui sono stati commessi i delitti”; la “sua
pessima indole”; l’applicazione nei suoi confronti (e di altro coindagato)
di altra misura della custodia cautelare in carcere “per i delitti di concorso in furto aggravato di un’autovettura, in rapina aggravata e in detenzione e porto illegale di un’arma da sparo”; la circostanza che egli “è pre-
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giudicato per analoghi delitti (rapina a mano armata e furto commessi ...
nel 2004) e che, ad onta del beneficio indulgenziale ex art. 163 c.p. concessogli in occasione di quella condanna, ha ostinatamente proseguito
nell’attività delinquenziale”: del tutto logicamente consequenziale è l’espresso divisamento, che “la sua indole incoercibilmente refrattaria al rispetto
della legge si pone in termini antitetici al contenuto tipico di misure meno afflittive”, donde “l’assoluta inadeguatezza ai fini preventivi della misura gradualmente meno afflittiva degli arresti domiciliari”. 16.0. Il provvedimento impugnato va, dunque, annullato, per i motivi suesposti, con
rinvio al Tribunale di Bari, per nuovo esame.
Deve, altresì, disporsi che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’istituto penitenziario competente perchè provveda a quanto stabilito dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al
Tribunale di Bari.
Si comunichi ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
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Corte di Cassazione - Sezione IV Penale
11-26 maggio 2010 n. 20064
Presidente: F. MARZANO - Relatore: R.M. BLAIOTTA
Se le due misurazioni con l’etilometro non sono concordanti in quanto ricadono in due fasce di alcolemie diverse, si deve procedere per il reato meno grave
FATTO - DIRITTO
1. Il Tribunale di Urbino ha affermato la responsabilità di R. O. in ordine al reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2 e, concesse attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di venti giorni di arresto e 700 Euro
di ammenda. Ha altresì disposto la sospensione della patente di guida per
due mesi.
2. Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo
diverse censure.
- Mancato bilanciamento delle attenuanti generiche con l’aggravante
di aver dato causa ad un incidente stradale.
- Individuazione della pena pecuniaria base in 1.000, inferiore al minimo legale.
- Determinazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida nella misura di due mesi, inferiore al minimo legale (un anno) previsto per il caso di guida con tasso alcolemico
superiore a 1,5 dal D.L. n. 117 del 2007, convertito nella L. n. 160 del
2007.
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
Il ricorrente parte dall’implicito presupposto che nel fatto in esame sia
configurabile il reato di cui al novellato art. 186 C.d.S., lett. c), essendo
stato rilevato un tasso alcolemico di 1,49 e 1,69. In realtà la disciplina legale (art. 379 reg. C.d.S.) prevede due misure “concordanti” del tasso alcolemico in un breve periodo, al fine di assicurare che l’esito della rilevazione risulti affidabile, considerato anche che l’indagine viene compiuta
attraverso uno strumento tecnico. La stessa disciplina, dunque, svolge un
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ruolo di garanzia, essendo intesa ad evitare che errori dell’apparato o comunque fisiologiche oscillazioni nell’esito nella procedura di misurazione
possano erroneamente condurre all’affermazione di responsabilità, o comunque risolversi in senso deteriore per l’imputato, in conseguenza di tale funzione della normativa, nel caso in cui le due rilevazioni indichino
tassi alcolemici diversi, dovrà prendersi a base del giudizio quella che mostra il tasso più basso;
in ossequio al principio del favor rei. Alla luce di tale principio, nel caso in esame occorre ritenere che il tasso alcolemico sia di 1,4 9 e che esso
riconduca, quindi, alla fattispecie di cui al richiamato art. 186, lett. b).
La disciplina legale vigente all’epoca del fatto è quella di cui alla normativa del 2007 richiamata dal ricorrente.
Su tali basi possono essere valutate la censure.
- La prima deduzione è fondata, poichè il giudice ha omesso di valutare e ponderare ex art. 69 c.p. la circostanza aggravante prevista dal novellato art. 186, comma 2 bis; contestata nel capo d’imputazione ed implicitamente ritenuta in motivazione.
- La seconda doglianza è infondata: per la fattispecie di cui al ridetto
art. 186, lett. b) la disciplina legale vigente all’epoca del fatto prevede l’ammenda da 800 a 3.200 Euro.
- La terza deduzione è parzialmente fondata: la sospensione della patente prevista dalla fattispecie di cui alla lett. b) è prevista per un periodo
da sei mesi ad un anno; mentre il giudice ha determinato la sanzione in
due mesi.
La pronunzia deve essere conseguentemente annullata con rinvio davanti alla Corte d’appello di Ancona, trattandosi di sentenza appellabile,
per la riderminazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle sopra
indicate coordinate legali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio ed alla durata della sanzione amministrativa accessoria, con rinvio alla Corte d’appello di Ancona.
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Corte di Cassazione - Sezione II Penale
11 giugno - 20 luglio 2010 n. 28210
Presidente: F. MARZANO - Relatore: R.M. BLAIOTTA
L’art. 649 c.p., comma 3 esclude la punibilità del tentativo dei reati di
cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. ove sia commesso con minaccia, giacché la
suddetta fattispecie criminosa rientra nella locuzione “ogni altro delitto contro
il patrimonio commesso con violenza alle persone” che, dovendo essere interpretato restrittivamente, comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o violenza psichica.
FATTO
1. Con ordinanza del 14/01/2010, il Tribunale di (OMISSIS) confermava l’ordinanza emessa in data 16/12/2009 con la quale il g.i.p. del
Tribunale di (OMISSIS) aveva disposto nei confronti di B. A. la misura
della custodia cautelare in carcere per il reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni del padre (adottivo) B. L.
2. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato, in proprio, ha proposto
ricorso per Cassazione deducendo violazione dell’art. 649 c.p.
Sostiene, infatti, il ricorrente che la tesi fatta propria dal Tribunale, a
sostegno della decisione, (ossia che l’esimente di cui all’art. 649 c.p., non
si applica, ai sensi del comma 3 del citato articolo, nei casi di tentativo sebbene commesso con minaccia) sarebbe minoritaria rispetto ad altro indirizzo interpretativo di questa stessa Corte di legittimità, secondo il quale,
invece, il delitto tentato, in quanto reato autonomo rispetto a quello consumato, non rientrerebbe nell’ipotesi di esclusione dell’esimente di cui
all’art. 649 c.p. prevista nell’u.c.
DIRITTO
3. La questione giuridica che pone il presente procedimento consiste
nello stabilire se il tentativo di estorsione compiuto ai danni di un con-
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giunto (nella specie padre adottivo), sia o meno punibile ai sensi dell’art.
649 c.p., comma 3.
La questione è già stata affrontata da questa Corte di legittimità sebbene con esiti contrastanti.
3.1. Secondo una prima tesi, l’esclusione dell’esimente per i delitti
contro il patrimonio in danno di congiunti si riferisce, nel fare menzione
dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche al tentativo.
Secondo la suddetta tesi, nella categoria dei delitti nominativamente
indicati dall’art. 649 c.p., comma 3, non possono rientrare anche le forme tentate perchè:
a) il reato tentato costituisce una figura criminosa a sè stante e da luogo ad un autonomo titolo di reato (ragione sistematica);
b) la dizione letterale (“delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p.”),
non menzionando espressamente anche il tentativo, non può essere interpretata estensivamente, vertendosi in una materia in cui non può praticarsi
un esercizio ermeneutico in malam partem (ragione del favor rei). Inoltre,
si fa presente, a livello sistematico, che la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato, in tema di esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto e in tema di arresto in flagranza, che le relative norme operano solo
nelle ipotesi di reato consumato, quando solo queste siano indicate;
c) il delitto tentato costituisce comunque un’ipotesi più lieve rispetto
al delitto consumato (ragione logica: il legislatore ha inteso fare una graduazione di gravità, non menzionando il tentativo);
d) nell’ipotesi di esclusione per “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”, la gravità è connotata
dalla violenza alle persone, che ricomprende anche l’ipotesi del tentativo,
avendo il legislatore effettuato la valutazione di gravità “a monte”, attraverso un connotato oggettivo onnicomprensivo (appunto, la violenza alle
persone).
Dunque, la violenza va tenuta distinta dalla minaccia sicchè la locuzione “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”, non comprende le ipotesi di delitti commessi con minaccia: (Cass. 20110/2002 riv 221854 - Cass. 12403/2009 riv 244054 -
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Cass. 16023/2005 riv 231785 - Cass. 13694/2005 - Cass. 22628/2001 riv
219421 - Cass. 8470/1995).
3.2. Secondo un’altra tesi, invece, l’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p., in riferimento alle fattispecie criminose di
rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione è normativamente estesa anche alle corrispondenti fattispecie di tentativo che strutturalmente comportano l’uso della violenza alla persona, pur solo preordinata e non realizzata.
Inoltre, nella nozione di “violenza alle persone” di cui all’ultima parte dell’art. 649 c.p., comma 3, rientra anche la violenza morale e ciò perchè tutte le fattispecie criminose a cui si riferisce la causa di non punibilità si connotano per l’equiparazione della violenza alla minaccia: Cass.
19299/2007 riv 24055 - Cass. 35528/2008 riv 241512 (in ordine alla assimilabilità della violenza morale alla violenza fisica) - Cass. 24/1/1995,
C. - Cass. 9/6/1988, B. - Cass. 9/4/1965, P.. L’iter argomentativo, seguito
dalla suddetta tesi (enunciata nel modo più compiuto da Cass. 19299/2007
riv 24055), può essere riassunto nei termini di seguito indicati.
L’argomento letterale (cfr supra sub b) è stato ritenuto “agevolmente superabile solo raffrontando il richiamo contenuto nell’art. 649 c.p., comma
1 a “chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti in questo titolo”; costituente una relazione che, per i rilievi già anticipati, va riferita, e a fortiori,
anche alle ipotesi di delitto tentato: il detto richiamo viene poi a congiungersi direttamente con la clausola di esclusione, altrimenti non comprensibile sul piano ermeneutico. Non foss’altro perchè V’esimente” si collega al
fatto, alla esclusione della punibilità ed al particolare regime della “doppia
esclusione” soltanto sulla base di un rapporto di stato comunque rilevante
ma alla condizione che il fatto abbia raggiunto la soglia del tentativo”. In altri termini, secondo questa interpretazione, l’art. 649 c.p., comma 3 andrebbe così letto: “è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti
dagli artt. 628, 629 e 630 e ogni altro fatto contro il patrimonio che sia commesso con violenza”. Questa tesi, quindi, sostituisce, in virtù del richiamo
del comma 3 al comma 1 (“le disposizioni di questo articolo non si applicano (...)” la parola “delitto” con quella di “fatto”. E, siccome il fatto si riferisce al reato e nel reato è compreso sia il tentativo che la consumazione,
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ne consegue che, quando nel comma 3 si parla di “delitti”, in realtà si dovrebbe intendere reato e, quindi, non solo quello consumato ma anche quello tentato. E’ stato, poi, rilevato che il richiamo alle norme in tema di amnistia, indulto e di arresto in flagranza, non sarebbe dirimente e non potrebbe essere enfatizzato più di tanto sia perchè, una volta effettuata l’integrazione (nel senso di cui si è detto) fra il primo ed il comma 3, la questione sarebbe risolta a monte, sia alla “stregua della ratio della disposizione, tutta accentrata sullo stato delle persone entro il quale ogni discrimine non
espressamente previsto tra delitto consumato e delitto tentato risulterebbe
eccentrico rispetto all’assetto chiaramente enucleabile dal contenuto della
norma”.
Si è, ancora, evidenziato che la nozione di violenza alla persona non
può che riferirsi ad un concetto che comprenda in sè, non soltanto la violenza fisica ma pure la violenza morale, a norma dell’art. 610 c.p., sulla base dei seguenti argomenti:
- “il disvalore assegnato dal legislatore alle condotte indicate nell’art.
649 c.p., comma 1 vale a connotare un sistema in cui le fattispecie di reato sono tutte caratterizzate dalla equiparazione della violenza alla minaccia, secondo un canone intrinseco, si può dire, di necessità, alle previsioni esclusive, convergendo anche sul piano testuale, verso una significante
unicità descrittiva (si pensi alla disposizione dell’art. 628 c.p., comma 1,
che equipara proprio la violenza fisica alla minaccia)”;
- “la rubrica del capo 1 del titolo 13, che include nella nozione di violenza alle persone, non soltanto la violenza fisica, ma anche la minaccia, ed
è quindi comprensiva di ogni atto di coercizione diretta verso la persona; tanto da far emergere la conclusione che il legislatore si sia riferito ad una nozione categoriale e non ad uno specifico precetto normativo, nel senso che
tutti i reati indicati nominatim possono essere indifferentemente commessi
con la violenza o con la minaccia. Il che appare particolarmente rilevante
proprio nell’ipotesi prevista dall’art. 630 c.p., ove la privazione della libertà
personale prescinde addirittura dal mezzo utilizzato per incentrarsi in via
esclusiva sulla violenza cui è assoggettata la persona offesa. Proprio la previsione nell’elenco esclusivo del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione - ed è questo il secondo argomento - rende evidente l’intento del le-
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gislatore di precludere l’applicabilità dell’”esimente” in tutti i casi di coercizione diretta, correttamente trascurando la circostanza che tale reato venga
realizzato con violenza nei mezzi ovvero nel risultato, non potendo certo sostenersi che una persona privata della libertà personale non divenga oggetto
di una violenza fisica”. In altri termini, l’art. 630 c.p. sarebbe il paradigma
dal quale desumere che il legislatore ha voluto rendere punibili i reati che
comportino una coercizione diretta, essendo irrilevante le modalità con le
quali la medesima è stata realizzata (violenza fisica - psichica - minaccia).
Si è, infine, osservato che, seguendo la tesi opposta (non punibilità ove
la condotta criminosa sia consistita nella sola minaccia), si verificherebbe
una distonia normativa relativamente alle ipotesi delittuose di cui agli artt.
634 e 635 c.p., comma 2 in quanto per la stessa fattispecie, a seconda che
venga commessa con violenza o con minaccia, l’agente sarebbe perseguibile o no pur avendo il legislatore equiparato le due condotte.
3.3. Esposte le due tesi, è ora opportuno, a fini meramente riepilogativi, evidenziare i punti comuni e le differenze che, a livello pratico, discendono a seconda che si accolga l’una o l’altra tesi.
REATO CONSUMATO:
1. artt. 628, 629 e 630 c.p.: per entrambe le tesi, i delitti consumati di
cui alle suddette norme, sono punibili sia se commessi con violenza sia se
commessi con minaccia;
2. “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”, (es. art. 634 c.p. e art. 635 c.p., comma 2):
per la prima tesi è punibile solo se commesso, appunto, con violenza e
non con minaccia. A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la quale i suddetti delitti sono punibili anche se commessi con minaccia.
REATO TENTATO:
1. Artt. 628, 629 e 630 c.p.: secondo là prima tesi, i suddetti delitti sono punibili solo se commessi con violenza in quanto il delitto tentato rientra nell’ipotesi di cui all’art. 649 c.p., comma 3 seconda parte “ogni altro
delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”),
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A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la quale il tentativo per i suddetti delitti è punibile anche se commesso con minaccia;
2. “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con
violenza alle persone”: secondo la prima tesi, i suddetti delitti sono punibili, a titolo di tentativo, solo se commessi con violenza e non con
minaccia. A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la
quale il tentativo per i suddetti delitti è punibile anche se commesso
con minaccia.
3.4. Tanto premesso, questa Corte ritiene di ribadire la prima delle tesi esposte per le ragioni di seguito indicate.
3.4.1. L’imprescindibile dato giuridico dal quale partire è che il tentativo è una fattispecie autonoma rispetto al corrispondente reato consumato: questo è un dato pacifico acquisito nella giurisprudenza di questa
Corte che la stessa tesi qui non condivisa, non contesta. Se cosè è, allora,
proprio sul piano strettamente letterale, ne discende che, quando l’art. 649
c.p., comma 3 adopera la locuzione “delitti preveduti dagli artt. 628, 629
e 630 c.p.” (e, quindi ben determinati reati), non può che riferirsi al delitto consumato, mentre, nella più ampia locuzione “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”, deve farsi rientrare l’autonoma ipotesi delittuosa del tentativo.
L’argomento addotto dalla tesi avversa, a confutazione della suddetta
conclusione, non è convincente.
Invero, l’operazione ermeneutica diretta a sostituire la parola “delitto”
con quella di “fatto” di cui al comma 1, non appare condivisibile perchè,
se è vero che il comma 3 rinvia al comma 1, è anche vero che il rinvio va
inteso non nel senso auspicato dalla seconda delle tesi illustrata, ma nel
senso che, per i delitti di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. e, per ogni altro delitto commesso con violenza, la disposizione del comma 1 (che stabilisce la non punibilità) non si applica, sicchè, per le suddette fattispecie
criminose, è prevista (contrariamente al comma 1), la punibilità.
Nulla autorizza ad andare oltre e a sostituire il termine “delitto” con
quello di “fatto”. Di conseguenza, è inconferente, invocare, a livello sistematico, gli artt. 577 c.p., comma 2 - art. 585 c.p., comma 1 - art. 591
c.p., comma 3 (in cui si adopera la parola “fatto”), proprio perchè nell’art.
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649 c.p., comma 3, per quanto detto, deve continuarsi ad adoperare la parola “delitto” e non quella di “fatto”.
Una volta, quindi, ritenuto che nell’ambito dell’art. 649 c.p. le ipotesi di
delitto consumato sono tenute ben differenziate da quelle tentate, diventa intuitivo che il più severo regime sanzionatorio previsto per le ipotesi di reato
consumato, non può essere applicato anche alle più lievi ipotesi di reato tentato per l’ovvia ragione che si incorrerebbe nel divieto dell’applicazione analogica in malam partem. Diventa, pertanto, condivisibile l’osservazione sistematica tratta da quella giurisprudenza in tema di amnistia, indulto (SS.UU.
23/2/1980, I.) e arresto in flagranza (Cass. 16/1/1999, C.) secondo la quale
i suddetti istituti, proprio perchè la legge fa riferimento solo ai “delitti”, si applica alle sole ipotesi consumate e non anche a quelle tentate.
3.4.2. Chiarito, quindi, che va mantenuta, in relazione alle fattispecie
criminose di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p., la differenza di trattamento fra delitti tentati e delitti consumati, non resta, ora, che affrontare l’ultima questione ossia se la minaccia e la violenza possano o meno essere assimilate al fine di ricevere lo stesso trattamento sanzionatorie.
Due, come si è visto, sono sostanzialmente, gli argomenti addotti dalla tesi che tende ad assimilare le due nozioni:
a) un argomento di natura letterale tratto dalla rubrica del capo 1 del
titolo 13;
b) un argomento di natura sistematica tratto dagli artt. 630, 634 e 635
c.p. comma 2. Questa Corte, anche in ordine alla suddetta problematica,
ritiene condivisibile l’opposta tesi secondo la quale le due nozioni vanno
tenute ben distinte.
L’argomento di natura letterale è poco significativo non peraltro perchè, secondo i notori canoni ermeneutici, la rubrica di una legge non ha
una particolare valenza ai fini esegetici di una norma.
Anche l’argomento che si vuole trarre dall’art. 630 c.p. è poco convincente.
L’art. 649 c.p., comma 3, letto ed interpretato secondo il suo testuale
tenore, significa che:
- i delitti consumati di cui agli artt. 628 e 629 c.p. sono punibili solo
se commessi con violenza o con minaccia proprio perchè i suddetti elementi sono costitutivi della fattispecie criminosa;
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- il delitto consumato di cui all’art. 630 c.p. va, invece, sempre e comunque ritenuto punibile in quanto per esso la legge non ha previsto, fra
gli elementi costitutivi, nè la violenza nè la minaccia: non a caso è stato ritenuto che il sequestro di persona a scopo di estorsione si configura oltre
che con la coercizione fisica, che impedisce la libertà di movimento, anche
attraverso l’inganno e con motivi pretestuosi che attraggono la vittima e ne
inficiano la volontà di autodeterminazione (Cass. 19/6/1998, riv 211146).
Non è chiaro, pertanto, il motivo per cui il suddetto articolo dovrebbe
essere paradigmatico della volontà legislativa di punire “tutti i casi di coercizione diretta, correttamente trascurando la circostanza che tale reato venga realizzato con violenza nei mezzi ovvero nel risultato”. E’ questa, però,
un’operazione ermeneutica non condivisibile perchè gli artt. 628, 629 e 630
c.p. sono nominati espressamente e, quindi, vanno interpretati per quello
che ciascuno di essi esprime: una norma (art. 630 c.p.) che ha un elemento oggettivo diverso e non prevede fra i suoi elementi costituiti nè la violenza nè la minaccia, non può essere adoperata come paradigma per l’interpretazione di altre norme (artt. 628 e 629 c.p.) che hanno presupposti giuridici diversi e che fra i loro elementi costitutivi prevedono sia la coercizione diretta (violenza) che quella indiretta (minaccia).
Quanto all’argomento tratto dagli artt. 634 e 635 c.p. è vero che le
suddette norme prevedono sia la minaccia che la violenza e che, applicando letteralmente l’art. 649 c.p., comma 3, ultima parte, rimane senza
sanzione (non punibilità) il reato commesso con minaccia. Ma, è questa
ancora una volta la prova che il legislatore ha voluto colpire (ad eccezione della rapina e dell’estorsione espressamente indicate) solo i reati commessi con violenza e non anche quelli commessi con minaccia avendo ritenuto la suddetta condotta, proprio sotto il profilo naturalistico, meno
grave e, quindi, non punibile. In realtà, la violenza è un concetto che va
tenuto ben distinto dalla minaccia.
La violenza, da un punto di vista naturalistico, può essere intesa in due
modi:
- come violenza propria ossia come “dispiegamento di un’energia fisica sopraffattrice verso una persona o una cosa, tale da cagionare una coazione personale, assoluta o relativa, ovvero la modificazione di una cosa,
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sempre attraverso l’uso, appunto, di una forza fisica diretta” (Cass.
20110/2002 cit.);
- come violenza impropria, ossia come uso di mezzi anomali (ad es.
mediante narcosi - ipnosi - inebriamento) diretti ad esercitare pressioni
sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione: ex plurimis
Cass. 10075/1987 Rv. 176727 - Cass. 11907/2010 Rv. 246551.
Diversa è, invece, la minaccia (o violenza morale) che consiste nell’annuncio (che può essere fatto anche con gesti) di un male ingiusto futuro
(contrariamente alla violenza che concerne un male in atto) dato ad altra
persona, con scopo intimidatorio diretto a restringerne la libertà psichica
o a turbarne la tranquillità. E che le due nozioni - quantomeno ai fini
dell’art. 649 c.p. - devono essere tenute ben distinte si desume dal fatto
che, se davvero non vi fosse alcuna differenza, allora non si capirebbe il
motivo per cui il legislatore ha tenuto differenziate le due categorie di reati: da una parte, gli artt. 628, 629 e 630 c.p., dall’altra, “ogni altro delitto
contro il patrimonio commesso con violenza”. Ed infatti, se davvero il legislatore avesse voluto adoperare la locuzione “ogni altro delitto contro il
patrimonio commesso con violenza” in modo ellittico (e cioè comprensivo sia della violenza vera e propria che della minaccia), non avrebbe tenuto differenziate le due ipotesi in quanto nella seconda (“ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza”) sarebbero certamente rientrate anche le ipotesi criminose di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p.
La tesi qui accolta trova un riscontro anche a livello di ratto legis. Com’è
noto, il legislatore del 1930, ha introdotto la peculiare disciplina di cui
all’art. 649 c.p. perchè ha ritenuto che, in considerazione dell’esistenza degli stretti rapporti di parentela esistenti fra l’agente ed il soggetto passivo,
la dinamica dei rapporti familiari potesse condurre ad una sorta di autoregolamentazione degli interessi patrimoniali lesi tanto da far passare in secondo ordine la pretesa punitiva dello Stato.
La non punibilità, perè, è stata prevista solo per le ipotesi minori di
conflitto perchè, laddove l’agente, per conseguire un proprio interesse patrimoniale, perpetri, ai danni del familiare, reati particolarmente gravi (artt.
628, 629 e 630 c.p.) o comunque commessi con violenza, allora, la pretesa punitiva viene riaffermata prevedendosi la punibilità dell’agente.
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E’ chiaro, quindi, che il discrimine fra punibilità e non punibilità si
gioca su due livelli:
- la consumazione di delitti estremamente gravi: artt. 628, 629 e 630
c.p.: in tali ipotesi, il legislatore, stante la gravità dei reati, non ha ritenuto di distinguere fra azione commessa con minaccia e violenza;
- la commissione del delitto con modalità violente.
Orbene, se si tiene presente che la minaccia, proprio perchè è un male futuro, ed è, quindi, un qualcosa di meno grave della violenza (che è
un male in atto), allora appare chiaro che la non punibilità (ad eccezione
delle ipotesi di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p.) trova una sua logica spiegazione, dovendosi inquadrare quel comportamento fra quelle azioni criminose per le quali il legislatore non ha ritenuto intervenire lasciando che
si risolvano spontaneamente nell’ambito delle dinamiche familiari.
Stesso discorso, mutatis mutandis, può essere fatto per il tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. sempre che non siano commessi con violenza, proprio perchè, essendo il tentativo un qualcosa di meno grave del reato consumato, si può presumere che il conflitto patrimoniale fra agente e soggetto passivo possa essere ricomposto bonariamente all’interno della famiglia.
Va pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: “l’art. 649 c.p., comma
3 esclude la punibilità del tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p.
ove sia commesso con minaccia, posto che la suddetta fattispecie criminosa
rientra nella locuzione “ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con
violenza alle persone” che, dovendo essere interpretato restrittivamente, comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o violenza psichica”.
4. Il Tribunale, non si è adeguato al suddetto principio di diritto: di
conseguenza, l’ordinanza va annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e quella del g.i.p. presso
il Tribunale di (OMISSIS) in data 16/12/2009, impositiva della custodia
in carcere nei confronti di B. A., di cui ordina l’immediata scarcerazione
se non detenuto per altro.
Si comunichi al Procuratore Generale per gli adempimenti di cui all’art.
626 c.p.p..
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Tribunale di Milano - Sezione III Civile
14 giugno - 5 luglio 2010
Dott.ssa ELENA GRAZIOLI
FATTO E DIRITTO
Con ricorso depositato ex art. 619 c.p.c. M.L. S.r.l., S. F. e S. P. proponevano opposizione all’esecuzione promossa da S. S.p.a. nei confronti
dell’Associazione Giovanile L. con pignoramento eseguito in data 29 settembre 2006 assumendo di essere proprietari dei beni assoggettati a vincolo.
Facevano presente che i beni pignorati si trovavano all’interno di spazi e locali di esclusiva pertinenza di essa ricorrente società M.L. S.r.l. e che
la debitrice esecutata aveva la disponibilità di una sola stanza, solo saltuariamente per due giorni alla settimana.
Chiedevano, pertanto, che venisse dichiarato nullo o comunque inefficace il pignoramento mobiliare.
Si costituiva la creditrice S. s.p.a contestando le domande di controparte di cui chiedeva il rigetto.
Nessuno si costituiva per la debitrice.
Il giudice dell’esecuzione sospendeva l’esecuzione ed assegnava alla
parte interessata termine per l’introduzione del giudizio di merito.
Respinte le istanze istruttorie, all’udienza dell’11 marzo 2010 le parti
precisavano le conclusioni come in epigrafe richiamate e la causa veniva
trattenuta in decisione con i termini per il deposito di memorie conclusionali ed eventuali repliche.
Preliminarmente deve essere dichiarata la contumacia della debitrice
Associazione Giovanile L. per non essersi costituita in giudizio seppur regolarmente citata.
Nel merito l’opposizione è infondata e va pertanto rigettata.
Risulta agli atti che in data 29 settembre 2006 l’Ufficiale Giudiziario di
Milano procedeva a pignorare su istanza di S. s.p.a. i seguenti beni mobili:
- Una fotocopiatrice Toshiba 2060;
- Un computer Compaq Presario 1425;
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- Un computer 26 LG solo studio Work;
- Una stampante-fax Lexmark;
- Un fax orifax 5200 OKI;
- 1 computer Compaq Presario R 300;
- Un tavolo da disegno.
La signora S. F. gia in sede di pignoramento, rivendicava la proprietà
di tali beni in capo alla M.L. s.r.l. e a terzi.
In sede di ricorso ex art. 619 c.p.c. gli opponenti precisavano che i beni di cui ai n. 1,2,5,6 del verbale di pignoramento erano di proprietà della M.L. S.r.l. come comprovato dalle fatture in atti; il bene di cui al n. 7
della signora S. F. per averlo ricevuto in regalo dalla madre signora Romilde
A. e i beni di cui ai n. 3 e 4 del verbale di pignoramento del signor S. P.
come da fatture in atti.
Occorre innanzitutto evidenziare come la valutazione richiesta dal
giudice dell’esecuzione in ordine all’esistenza o meno dei gravi motivi
che possono giustificare la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art.
624 c.p.c. sia notoriamente collegata ad un giudizio di probabilità riguardo il possibile accoglimento dell’opposizione, nonché la possibile
difficoltà di restituzione o di risarcimento del danno da parte del creditore espropriante sempre nell’ipotesi di un probabile buon esito dell’opposizione.
Si tratta naturalmente di una valutazione prudenziale operata allo stato degli atti e quindi del tutto inidonea ad influire sulla decisione finale
che il giudice dovrà assumere con cognizione piena a conclusione del processo originato dall’opposizione.
Fatta questa premessa si osserva che nel caso di espropriazione mobiliare presso il debitore opera a norma degli articoli 621 e 513 c.p.c. una
presunzione di appartenenza a quest’ultimo dei beni che si trovino presso
I’abitazione dello stesso o presso altri luoghi a lui appartenenti a prescindere da chi li abbia acquistati o introdotti nella casa.
Valendo tale presunzione al terzo che intenda rivendicare la proprietà
dei beni incombe l’onere di provare di avere acquistato il relativo diritto
con atto di data certa anteriore al pignoramento, mentre tale onere viene
meno quando sia possibile escludere che il luogo ove il pignoramento è
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avvenuto costituisca la “casa” del debitore per esistenza di uno stabile e
persistente rapporto di abitazione nel senso precisato.
Nel caso in esame si tratta dunque di valutare, essendo la relativa circostanza oggetto di contestazione, se i locali di via Albricci n. 9, nel quale fu operato nell’interesse della S. S.p.a il pignoramento possa o meno
considerarsi casa o “luogo” della debitrice Associazione Giovanile L.
Dalla documentazione in atti si può ritenere che nei locali di via Albricci
n. 9, l’Associazione Giovanile L. avesse la propria sede (v. doc. 1 e 5).
Risulta, poi, che l’Associazione e per essa il suo Presidente, Sig. Aristide
F., abbia personalmente ritirato decreti ingiuntivi emessi nei confronti
dell’Associazione Giovanile L. (doc. 2). La stessa odierna opponente, Signora
S. F., nel ricevere due atti di precetto emessi nei confronti della Associazione
Giovanile L. si è qualificata dapprima come “socia” e poi come “incaricata a ricevere” (v. doc. 3 e doc. 4).
Dalla documentazione prodotta dagli opponenti risulta, peraltro, che
all’epoca del pignoramento i locali di via Albricci n. 9 fossero condotti in
locazione dalla societa M.L. S.r.l. (vedi fattura relativa ai canoni di locazione - doc. 2).
Da questi elementi si può allora ritenere che sia la terza opponente
M.L., sia l’Associazione Giovanile L. avessero al tempo del pignoramento
la disponibilità dei locali di via Albricci n. 9.
E’ rimasta, invece, indimostrata la circostanza dedotta dalla terza opponente secondo cui solo una stanza fosse in uso “saltuariamente” alla debitrice.
I capitoli di prova offerti erano genericamente formulati in quanto non
specificavano di quale stanza l’Associazione avesse la disponibilità, né era
indicato il periodo temporale. Va peraltro osservato come gli stessi capitoli fossero tra loro in contraddizione laddove la M.L. faceva riferimento
al cap. 1) di “una sola stanza” in uso alla Associazione, mentre al cap. 3)
“ai locali” occupati dalla stessa Associazione.
La terza opponente, inoltre non ha poi dimostrato, come era invece
suo onere, che i beni oggetto di pignoramento siano stati effettivamente
rinvenuti nei locali di sua esclusiva pertinenza.
In mancanza, quindi, di specifica prova sul punto, si deve allora ritene-
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re che tutti i locali di via Albricci n. 9 fossero, al momento del pignoramento, nella piena disponibilità sia della debitrice esecutata sia della terza
opponente M.L. S.r.l. e che quindi fossero tra di loro in “condivisione”.
Da questa considerazione discende allora che tutti i beni ivi esistenti
potevano essere pignorati per il debito della Associazione Giovanile L. salvo il diritto degli odierni opponenti non debitori di fornire la prova precisa e con le limitazioni stabilite dall’articolo 621 c.p.c. che quei beni specifici individuati nel verbale di pignoramento costituissero oggetto del diritto di proprietà acquistato in data anteriore al pignoramento.
Sul punto è pacifico che la prova relativa alla proprietà dei beni pignorati deve essere fornita dal terzo con atto avente data certa anteriore al
pignoramento.
Nessuno dei documenti prodotti risulta, tuttavia, essere fornito di tale caratteristica.
In ogni caso dall’esame delle fatture prodotte dagli opponenti sub. 3,
sub. 4, sub.5 e sub.6 non è possibile ricavare alcuna conferma dell’effettivo acquisto da parte della M.L. S.r.l. dei beni indicati ai n. 1,2,5,6 del verbale di pignoramento; né, del resto, l’opponente ha fornito nel corso del
giudizio elementi di valutazione ulteriori, rispetto alle fatture indicate, da
cui possa trarre conferma l’esistenza di un suo diritto di proprietà su tali
beni.
Stesso discorso per quanto riguarda i beni di cui ai n. 3 e 4 del verbale di pignoramento di cui il signor P. si ritiene proprietario. In particolare dalla documentazione in atti non vi è prova della coincidenza con i
beni oggetto di pignoramento.
Per quanto riguarda infine il “tavolo da disegno” di cui al n. 7 del verbale di pignoramento, la signora S. F. si afferma proprietaria del tavolo e
più in particolare del “tecnigrafo”. Si osserva, tuttavia, che oggetto di pignoramento è solo il tavolo del quale tuttavia non è stata fornita alcuna
prova della sua appartenenza in capo alla signora F. Non si può, infatti, ritenere tale la sola dichiarazione prodotta (sub. 7), che peraltro fa riferimento anche ad una radio portatile Panasonic, che non risulta fra i beni
pignorati.
Per i su esposti motivi l’opposizione deve essere rigettata.
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Per la sua soccombenza parte opponente deve essere condannata a
rifondere in favore di S. S.p.a le spese di lite come da liquidazione fattane
in dispositivo.
Nulla, invece, sulle spese nei confronti della debitrice Associazione
Giovanile L. non essendosi quest’ultima costituita in giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, nella persona del giudice unico Dott.ssa Elena
Grazioli, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, deduzione
disattesa, così provvede:
1) rigetta l’opposizione proposta da M.L. S.r.l., F. S. e S. P.;
2) condanna gli opponenti, in via tra loro solidale, a rifondere in favore di S. S.p.a le spese di lite che si liquidano in Euro 150,00 per spese,
Euro 1.500,00 per diritti ed Euro 2.000,00 per onorario di Avvocato, oltre rimborso spese generali, IVA e c.p.a.
3) Nulla sulle spese nei confronti della debitrice Associazione Giovanile L.
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Giudice di Pace di Bari
13 febbraio 2010 n. 1341
Giudice: dott.ssa N. MENOLASCINA
DANNO ESISTENZIALE DA STRESS
CONSEGUENTE AD INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
Costituisce fattispecie di danno esistenziale - ed è in quanto tale risarcibile - lo
stress psico-fisico patito dall’alienante di un autoveicolo che, a seguito di inadempimento contrattuale dell’acquirente, relativo alla mancata trascrizione dell’atto di vendita dell’autoveicolo oggetto di compravendita, veda recapitare presso il proprio domicilio numerosi verbali di contravvenzione relativi al veicolo alienato e sia pertanto costretto a porre in essere una successiva attività di riscontro di detti verbali presso le competenti sedi di Polizia, al fine di giustificarne la propria estraneità.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 16.04.’08, notificato in data 23.04.2008, il Sig.
D. V. conveniva in giudizio la Sig. F. A. innanzi a questo ufficio del G.d.P. di
Bari per l’udienza del 18.06.2008, onde sentire condannare la convenuta al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 1.000,00 oltre interessi legali dalla costituzione in mora e sino al soddisfo, con vittoria di spese di giudizio, da distrarre in favore del procuratore costituito, anticipatario.
All’uopo, l’attore riferiva di avere venduto la autovettura di sua proprietà
Volkswagen Sharan tg. ... alla convenuta in data 12.02.2007 ma che la acquirente non aveva mai provveduto alla trascrizione dell’atto di vendita, attività cui
invece aveva provveduto lo stesso attore in data 27.11.2007 presso la Agenzia
d’Affari “...” di L. D. corrente in Triggiano con l’esborso della somma di Euro
500,00, il tutto come da documentazione in atti. - Inoltre, l’attore riferiva che
il detto inadempimento della acquirente a gli aveva causato “notevoli inconvenienti e perdite di tempo” stante il recapito presso il suo domicilio, all’indomani della vendita, di numerosi verbali di contravvenzione riferiti al veicolo
alienato e la successiva attività di riscontro di detti verbali che l’attore era stato
costretto a fare presso i Comandi di Polizia interessati -. Pertanto, l’attore sti-
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mava in Euro 1.000,00 la somma dovutagli dalla convenuta di cui Euro 500,00
a titolo di rimborso del costo della trascrizione ed Euro 500,00 a titolo di risarcimento danni per lo stress subìto, per la attività effettuate, anche presso la F.
come solleciti all’adempimento.
Fissata l’udienza di prima comparizione per il giorno ...2008, si costituiva
in udienza la convenuta a mezzo di comparsa di risposta del ...2008, con fascicolo di parte e documenti, la quale in detto atto impugnava e contestava
quanto ex adverso dedotto, assumendo di non essersi mai sottratta “all’onere
di intestarsi il veicolo” ma di avere corrisposto a tale scopo la somma di Euro
100,00 alla agenzia - come in atti- mentre per converso era stato l’attore a trattenere illegittimamente il libretto di circolazione del veicolo, impedendone di
fatto l’utilizzo, e pretendendo dalla convenuta non solo il rimborso delle multe ma un risarcimento danni consistente nel raddoppio dell’importo corrisposto all’agenzia di pratiche auto. - Pertanto, la convenuta, eccependo la improponibilità della domanda attorea di regresso per la restituzione delle somme di
denaro corrispondenti alle sanzioni pecuniarie portate dai verbali di contravvenzione pertinenti ad essa ma che l’attore assumeva di avere pagato, spiegava
domanda riconvenzionale nei confronti dell’attore per avere egli omesso di consegnare il libretto di circolazione del veicolo alienato ex art. 1477 c.c. Concludeva domandando che il Giudice rigettasse la domanda attorea perché
improponibile e infondata e, in via riconvenzionale, condannasse l’attore alla
consegna del libretto di circolazione e al risarcimento del danno per la mancata consegna e per il mancato uso del veicolo alienato, da quantificarsi anche
equitativamente in Euro 500,00.- Vinti spese ed onorari di causa.
Nella successiva udienza del ...2009 per la precisazione delle conclusioni e
la discussione, l’attore si riportava ai precedenti scritti difensivi e verbali di udienza, da ultimo alla comparsa conclusionale del ...2009 ove reiterava le già rassegnate conclusioni. - Nessuno compariva per la convenuta. Il Giudice si riservava per la decisione su richiesta dell’attore nella stessa udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda attorea è fondata e va, pertanto, accolta, mentre è infondata
e va rigettata la domanda riconvenzionale siccome non provata, salvo il capo
di domanda relativo alla restituzione del libretto di circolazione, il tutto come
da dispositivo. - Sono rimaste assolutamente pacifiche tra le parti la circostan-
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za di fatto della compravendita tra le medesime intervenuta dall’attore alla convenuta, in data 12.02.2007, dell’autovettura Volkswagen Sharan tg. ...; la circostanza della richiesta della trascrizione dell’atto di compravendita effettuata
da parte dell’attore in data 27.11.2007 con il contestuale pagamento della somma di Euro 500,00 alla agenzia prescelta dalle stesse parti per l’atto di compravendita; la circostanza della mancata trascrizione dell’atto di compravendita da
parte della convenuta sino alla data in cui vi provvide l’attore a sue spese; la circostanza del mancato pagamento/rimborso da parte della convenuta all’attore
della somma di Euro 500,00 per la trascrizione dell’atto di compravendita; la
circostanza per cui, malgrado le affermazioni di segno contrario della convenuta e piuttosto sulla scorta dei verbali di contravvenzione prodotti dall’attore
e pertinenti al periodo successivo alla compravendita, il veicolo ad ella alienato venne posto in circolazione malgrado il mancato possesso del libretto di circolazione. - Dal canto suo, la convenuta eccepiva di avere corrisposto alla agenzia di pratiche automobilistiche prescelta dalle parti la somma di Euro 100,00
per la trascrizione, ma non ne forniva alcuna prova, né tampoco alcuna prova
ella forniva in ordine alle ragioni del mancato adempimento dell’onere della
trascrizione del menzionato atto di compravendita di autoveicolo posto dalla
legge a suo carico -. A parere di questo Giudice, tanto premesso, deve pertanto ritenersi, giusta le affermazioni dell’attore - non smentite dalla convenuta in ordine ad accordi contrattuali, intercorsi tra le parti al momento della compravendita, per cui egli avrebbe legittimamente trattenuto presso di sé il libretto di circolazione sino alla effettiva trascrizione dell’atto di vendita, che in alcun inadempimento contrattuale sia incorso l’attore, ma che, viceversa, abbia
sicuramente perpetrato un inadempimento contrattuale la convenuta, a carico
della quale, giusta la previsione del novellato art. 94 del Codice della Strada,
sussisteva comunque l’obbligo di provvedere alla richiesta della trascrizione entro il termine di 60 gg. dalla data di autentica della sottoscrizione dell’atto di
compravendita. - Peraltro, va evidenziato, in ordine alla condotta stragiudiziale della convenuta e, per l’effetto, in ordine alla pretestuosità della spiegata sua
domanda riconvenzionale, non solo che la convenuta pose in circolazione comunque il veicolo acquistato dall’attore (giusta i verbali di contravvenzione in
atti), ma che la stessa F. non costituì mai in mora l’attore per contestargli la pretesa illegittima detenzione del libretto di circolazione del veicolo acquistato e
per opporgli eventualmente quell’inadempimento quale ostacolo alla richiesta
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che lei avrebbe dovuto fare, nell’arco del suddetto termine di legge, della trascrizione dell’atto di compravendita, sicché deve ritenersi che la F. non effettuò la richiesta di trascrizione del tutto ingiustificatamente rispetto gli obblighi
scaturenti dal contratto di compravendita e, quindi, colpevolmente, cosicché la
condotta dell’attore risulta rispondere al principio inadimplendi non est adimplendum. - A ben riflettere, l’effettuazione da parte della F. della richiesta di
trascrizione, con il pagamento correlato della somma di Euro 500,00, le avrebbe certamente consentito di agire a pieno titolo nei confronti dell’attore per il
caso in cui egli avesse continuato per avventura anche dopo ad omettere la datione del libretto di circolazione, per quanto non è emerso che l’attore avesse
altri motivi per trattenere il libretto di circolazione se non gli accordi contrattuali intercorsi tra le parti e quindi che la acquirente richiedesse la trascrizione
della compravendita e ne pagasse il costo. -In ordine al quantum della domanda giudiziale attorea, deve ritenersi pienamente accoglibile la richiesta di condanna della convenuta al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro
500,00 pari al costo della formalità della trascrizione dell’atto di compravendita, come documentata in atti, mentre, quanto alla voce di danno, stimata in euro 500,00, per lo stress e i “notevoli inconvenienti e perdite di tempo” che l’attore avrebbe patito a seguito del recapito presso il suo domicilio, all’indomani
della vendita dell’auto de qua, di numerosi verbali di contravvenzione riferiti
al veicolo alienato e a causa dell’attività di riscontro di detti verbali che egli era
stato costretto a fare presso i Comandi di Polizia interessati, a fronte della prova documentale dei detti assunti fornita, e consistente nella copia dei verbali di
contravvenzione pervenuti e delle note inviate alle autorità di polizia, deve ritenersi effettivamente sussistente un profilo di danno esistenziale forfettariamente ed equitativamente determinabile, secondo i recenti insegnamenti della S.C. a Sezioni Unite per cui “il danno esistenziale consiste in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (v. Cass.,
Sez. Un:, 24/3/2006, n. 6572). Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che
il “danno esistenziale” non consiste in meri “dolori e sofferenze”, ma deve aver
determinato “concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della
vita”. Nella fattispecie, deve senz’altro ritenersi sussistente tale profilo di dan-
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no a carico dell’attore il quale era costretto a determinarsi ad attività che altrimenti, in mancanza dell’altrui inadempimento contrattuale, egli non avrebbe
mai effettuato e che, pertanto, siccome eterodeterminate, comportarono un
peggioramento dei propri assetti di vita nel senso del pregiudizio alla libertà
costituzionalmente garantita di ciascun cittadino di autodeterminarsi e di non
essere da altri ‘determinato’. - Si ritiene di potere liquidare detto profilo di danno nella somma forfettaria di Euro 100,00 - Spese e competenze legali come
da dispositivo e secondo soccombenza.
Il G.d.P. di Bari,
definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Sig. D. V.,
come in atti rappresentato, difeso e domiciliato, nei confronti della Sig.ra
F. A., come in atti costituita, convenuto attore in riconvenzionale, con atto di citazione del 16.04.’08, notificato in data 23.04.2008,
così provvede:
- accoglie la domanda attorea e per l’effetto dichiara la responsabilità della
convenuta per inadempimento contrattuale della specie della mancata richiesta di trascrizione del contratto di compravendita di autoveicolo e del mancato pagamento del relativo costo; - per l’effetto, condanna la convenuta a rimborsare all’attore la somma di Euro 500,00 a titolo di costo della trascrizione,
oltre interessi legali dal pagamento all’integrale soddisfo;
- condanna la convenuta a risarcire l’attore del danno esistenziale subìto
quale effetto del dichiarato inadempimento, forfettariamente determinato in
Euro 100,00 oltre interessi legali dalla domanda giudiziale e sino al soddisfo;
- rigetta la domanda riconvenzionale della convenuta siccome del tutto priva di prova, ad eccezione del capo relativo alla richiesta di restituzione del libretto di circolazione, onde condanna l’attore a consegnare alla convenuta il
detto titolo contestualmente all’integrale soddisfo da parte della convenuta delle obbligazioni pecuniarie derivanti dalla presente sentenza;
- condanna la convenuta al pagamento delle spese processuali in favore dell’attore, e per esso in favore dell’Avv. ... dichiaratosi anticipatario,
che liquida in Euro 727,09 - di cui Euro 39,09 per spese, Euro 498,00 per
diritti, Euro 190,00 per onorario-, oltre: rimborso forfettario ex L. Prof.,
CNAP ed IVA come per legge.
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