Capitolo quinto Repubblica Islamica e LGBTQ
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Capitolo quinto Repubblica Islamica e LGBTQ
Capitolo quinto Repubblica Islamica e LGBTQ Alla fine degli anni ’70 l’Iran è investito da un evento epocale, destinato non solo a stravolgere la vita dei suoi cittadini, ma altresì a influenzare profondamente tanto le culture persiananti che ad esso di sono sempre ispirate, quanto molti altri paesi islamici. L’instaurarsi della Repubblica Islamica con i suoi codici modellati su un’interpretazione restrittiva della šarī‘a colpisce i costumi sessuali tanto etero quanto omo, tentando di irregimentarli in canoni di comportamento punibili per legge. Per la prima volta nella storia del mondo persianante i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso vengono colpiti da precise regole che trovano posto nel nuovo codice penale, emanato nel 1991, il quale prevede una sezione dedicata a crimini particolarmente esecrabili da Dio, fra cui quelli sessuali (ḥodūd). Diciannove articoli sono dedicati alla sodomia (lawāṭ) definita come «accoppiamento con un maschio, con o senza penetrazione (daḫūl)» (art. 108), per cui sono punibili entrambi gli uomini coinvolti con la pena di morte (art. 110) se vi è penetrazione, o con 100 frustate cadauno in caso contrario (art. 121). Il reato, però, deve essere provato dalla testimonianza di quattro uomini (art. 117) e basta che anche uno solo dei testimoni venga meno che il reato decade e gli accusatori mendaci siano puniti (art. 118). Anche due 155 uomini non legati da vincoli di sangue scoperti nudi sotto una coperta «senza necessità» sono passibili di una punizione fino a 99 frustate (art. 123), mentre ne sono previste 60 se un uomo bacia un altro «con lussuria» (šahvat, art. 124). Infine, se uno si pente prima che i testimoni lo accusino vede la pena annullata (art. 125). Nel Codice Penale entra anche il reato di lesbismo (mosaḥeqeh), ovvero il rapporto omosessuale (hamğensbāzī) fra donne con coinvolgimento degli organi genitali (art. 127). Per le donne non si prevede la pena di morte, ma 100 frustate cadauna (art. 129) solo se sono maggiorenni (art. 130). Anche il rapporto sessuale tra donne deve essere provato alla corte da testimonianza, ma qui il codice non è chiaro: stabilendo che «la via per provare il rapporto omosessuale femminile è uguale a quello usato nel caso maschile» (art. 128), si intende quindi che debbono essere quattro uomini a certificare il rapporto tra due donne? 1 Poiché infatti, la šarī‘a in generale e la legge iraniana in particolare prevedono che per uguagliare la testimonianza di un uomo ci vogliano due donne, l’art. 128 del codice penale stabilirebbe come necessaria la testimonianza di ben otto donne per certificare la consumazione di un rapporto lesbico. Oppure di quattro uomini, ma resta assai dubbia la possibilità che due donne si facciano sorprendere in intimità da quattro maschi. Questa disquisizione non vuole certo sminuire la crudeltà dei legislatori nei confronti degli omosessuali, ma solamente sottolineare come, nello stesso momento in cui il codice si articola, come mai prima, per condannare gli atti omosessuali, al contempo si rende aperto ad essere aggirato per la difficoltà di applicare le punizioni, tanto per gli omosessuali maschi quanto per le femmine, senza contare la possibilità di «pentimento». 1 Qavānīn-e ğazā (codice penale), Testo on line: http://www.dadkhahi.net/law/Ghavanin/Ghavanin_Jazaee/gh_mojazat_eslami.htm. 156 La severa censura dell’omosessualità è accompagnata, paradossalmente, dall’ufficiale favorimento di una scena omosociale. Mano a mano che lo Stato interviene per separare i sessi nelle aree pubbliche (scuole, università, luoghi di lavoro, sport, sanità, trasporti pubblici, cerimonie religiose e civili, ecc.), le persone dello stesso sesso sono costrette a condividere spazi che escludono l’altro sesso. Nella configurazione ideale della società delineata dai fautori della Rivoluzione Islamica, un uomo, a esempio, è destinato a rimanere più col padre che con la madre da piccolo, frequentare scuole di ogni ordine e grado rigorosamente maschili, andare a vedere una partita di calcio dove alle donne è vietato l’accesso, frequentare una piscina nei giorni preclusi alle ragazze, consultare i computer di una biblioteca posti sul bancone opposto a quelli consultati dalle donne (rigorosamente velate), sedersi nella parte anteriore di un autobus insieme ad altri uomini, frequentare una ragazza approvata dalla famiglia con la quale sposarsi, organizzare una festa di nozze in cui rimane coi parenti ed amici maschi (mentre le donne stanno in altra stanza), non frequentar colleghe o amiche ma solo colleghi e amici, ecc. Stesso percorso è destinato ad una donna la quale, in più, compie tutte le funzioni pubbliche con i capelli coperti da un velo e le forme del corpo non visibili. Non meraviglia, quindi, che un leader religioso di Isfahan sostenga che nelle scuole superiori femminili vi sia un alto numero di relazioni lesbiche2; oltre a tutto, queste garantiscono che il «bene prezioso» di ogni ragazza la cui perdita è temuta da ogni famiglia, ovvero la verginità, rimanga intonsa. Ovviamente, nella stessa situazione si trovano pure i maschi (escludendo il problema della verginità). Paradossalmente (l’Iran attuale è terra di paradossi) è considerato perfettamente accettabile che due uomini si scambino dei baci sulle guance e che girino a mano per strada, in 2 Citato in Sh. Haeri, Law of Desire, p. 190. 157 quanto queste effusioni non sono (mai state) considerate simbolo di omosessualità. Nonostante la difficoltà di provare l’avvenuto atto omosessuale, nelle prime due decadi della Rivoluzione sono stati incriminati centinaia di omosessuali ma è difficile stabilire la cifra esatta di quelli giustiziati, per molti motivi. Innanzitutto, moltissimi sono accusati di vari altri crimini (veri o presunti) in aggiunta alla consumazione di rapporti omosessuali. Ciò, secondo alcuni, sarebbe dovuto al fatto che molte autorità giudiziarie non vogliono essere accusate di condannare a morte gli omosessuali solo per essere tali, e quindi li accusano altresì di crimini particolarmente odiosi, quali lo spaccio di sostanze stupefacenti, oppure di aver violentato minori e così via. A volte l’accusa di sodomia viene applicata a scomodi dissidenti, come accaduto allo scrittore e giornalista Sa’dī Sirjāni nel 19943. Al di là dei numeri, la situazione per gli omosessuali dell’altipiano rimane difficilissima, tant’è che cercano di lasciare il Paese, anche clandestinamente, in molti, forse troppi: tanto da far reagire alcuni organismi internazionali e diversi stati cui gli omosessuali si rivolgono per ottenere lo stato di rifugiati in modo a dir poco singolare. Nel 1998 la sezione canadese dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR), in risposta alle sollecitazioni del governo locale (e altri) richiedente come realmente sia la situazione per gli omosessuali in Iran, visto l’alto numero di richieste da parte loro di ottenere un visto d’espatrio per il Canada, pubblica un documento dai risvolti inquietanti4. Il testo esordisce citando la durezza 3 International Commission of Jurists of the UN, Sexual Orientation and Gender Identity, Ginevra, 2007, p. 141. 4 Iran: Update to Responses to Information Requests IRN24789.E of 22/8/1996 and IRN21549.E of 2/10/1995 on the situation of homosexuals, and on whether le- 158 della šarī‘a in tema di omosessualità, ma stemperandola con quanto accadrebbe in pratica citando le parole di Maarten Schild, autore di un saggio su islam e omosessualità, in cui lo studioso afferma che «sebbene il comportamento omosessuale teoricamente sia duramente condannato dall’islam […] è perlopiù trattato con tolleranza»5. Quindi sottolinea la severità del Codice Penale iraniano in tema, riportando l’opinione di un membro dell’Amnesty International Members for Lesbian and Gay Concerns (AIMLGC), Mark Ungar, il quale ha prima sentenziato che nel solo 1990 si sarebbero verificati assai più di 300 sentenze di morte, ma, in seguito, raggiunto al telefono da UNHCR, ritratta professandosi «un non esperto della situazione iraniana in tema di omosessualità» e affermando che la cifra di 300 sentenziati sarebbe riferita ai condannati a morte fra il 1990 e il 1998 in quanto colpevoli di vari tipi di crimine, fra i quali anche quelli accusati di sodomia. Questi dati vengono poi confermati dall’ILGA, la Lega Svedese Internazionale di Gay e Lesbiche6. Gli svedesi sono chiamati in causa perché l’ambasciata del loro Paese a Tehran, probabilmente irritata dalle molte domande di asilo che le vengono presentate, nel 1996 ha stilato un rapporto «confidenziale» in cui si afferma, fra l’altro, che in Iran: gal penalties are applied in practice. In: http://www.unhcr.org/refworld/country,,IRBC,,IRN,,3ae6aaa940,0.html. 5 «Islam», in Sexuality and Eroticism among Males in Moslem Societies, a cura di A. Schmitt, A.J. Sofer, Harrington Park Press, Londra 1992, pp. 182-183. Non a caso, J. Massad considera «Schmitt and Sofer’s book, which is a collection of mostly orientalist if not outright racist views» nel suo «Re-Orienting Desire: The Gay International and the Arab World», in Public Culture, 14, 2, 2002, pp. 36-385, p. 366. 6 Iran: Update to Responses to Information Requests IRN24789.E of 22/8/1996 and IRN21549.E of 2/10/1995 on the situation of homosexuals, and on whether legal penalties are applied in practice. Tutte le seguenti citazioni provengono da questo documento. 159 La situazione per gli omosessuali è simile a quella dei convertiti, o addirittura più favorevole, nel senso che il rischio di un procedimento legale o di molestie agli omosessuali è nullo. Gli omosessuali sono assolutamente a minimo rischio di essere perseguiti legalmente o di essere molestati fintanto che conducono una relazione in modo discreto. […] La polizia e l’amministrazione della giustizia non prendono misure attive per investigare in materia di omosessualità, né danno la caccia agli omosessuali. Complessivamente, la situazione in pratica in Iran è drasticamente differente dall’impressione che si deduce dal Codice Penale ispirato alla šarī‘a […] la situazione in Iran è relativamente tollerante, dal momento che l’omosessualità non è assolutamente inusuale nel Paese. Certi ‘health club’ di Tehran sono noti per essere frequentati da omosessuali. Inoltre, non è assolutamente frequente incontrare persone ad eventi sociali eterosessuali privati che si dichiarano apertamente omosessuali. A giudicare dalle apparenze, diplomatici con orientamento omosessuale non hanno incontrato alcuna difficoltà a mettersi in contatto con ’partner’ in Iran. Se non altro, la situazione è tale per cui gli omosessuali possono celare il proprio orientamento meglio in Iran che ad esempio in Svezia, dal momento che il contatto fisico tra uomini – abbracci, baci sulle guance, passeggiare mano nella mano – è un comportamento culturalmente accettato. Per essere punita una coppia omosessuale deve essersi comportata in pubblico con grande indiscrezione, quasi in modo provocatorio. […] Nel febbraio 1998 viene sentito anche il direttore dello speciale ufficio svedese per la migrazione, il quale dichiara che «le autorità iraniane non stanno intraprendendo azioni legali contro gli omosessuali [...] e per quanto concerne questo Ufficio, nessuno è stato perseguito con accuse di omosessualità in Iran negli ultimi 7-8 anni». Tra l’altro, nel documento si evince che, a seguito di questi autorevoli e rassicuranti rapporti, le autorità svedesi hanno deciso di rispedire in Iran un omosessuale iraniano di 25 anni che aveva chiesto asilo, in quanto lo stesso «non corre nessun rischio di seria persecuzione [e] alla luce di quanto esposto a proposito sulla si160 tuazione degli omosessuali in Iran, la sua storia […] non sembra credibile né per quanto concerne le torture al suo boyfriend né per quanto riguarda la visita domiciliare. Quindi, per corroborare questi idilliaci reportage, l’UNHCR ricorre a un altro studioso, Jehoheda Sofer, co-editore del libro in cui compare l’articolo di Maarten Schild succitato, il quale conferma che il requisito dei quattro testimoni che abbiano effettivamente assistito all’atto carnale omosessuale rende difficile la punizione. Inoltre, l’agenzia consulta, telefonicamente (!), alcuni sociologici docenti in atenei parigini (senza rivelarne il nome) i quali confermano che «l’omosessualità così come concepita in Occidente non è accettata in Iran» (dalle autorità? Dalla popolazione iraniana in toto?); che nel Paese vi sono perlopiù bisessuali che «perseguono le proprie attività con altri uomini privatamente e non hanno problemi con le autorità»; e che in Iran un uomo «è considerato omosessuale solo se nel rapporto sessuale funge da donna». Inoltre, sempre secondo i sociologi, «le relazioni omosessuali in Iran (sia al maschile che al femminile) esistono da moltissimo tempo; e gli uomini in Iran «tessono relazioni sessuali con altri uomini come misura temporanea per compensare il desiderio sessuale e non rappresentano casi di omosessualità». Due di questi sociologi affermano che a Tehran vi è un parco chiamato Dānešğū famoso come luogo di ricerca per compagnia omosessuale, cosa risaputa dalle autorità, ma in pratica «è così difficile perseguire un caso di omosessualità che ciò non accade quasi mai»7. Questo rapporto merita alcune considerazioni: da un lato, esso è ennesima prova dell’ipocrisia con la quale spesso l’Occidente affronta i cosiddetti «diritti umani» in altre realtà. Nel momento stesso in cui l’Iran viene globalmente etichettato come un inferno 7 Ibidem. 161 per i diritti delle minoranze, omosessuali inclusi, fonti ufficiali di Stati occidentali e agenzie internazionali per i diritti umani lo dipingono come una sorta di eden in cui addirittura i diplomatici stranieri si farebbero comandare per avere una vita omosessuale più facile; e con un processo di Orientalismo a rovescio, l’ambiente da «Sodoma e Gomorra» lamentato dai viaggiatori ottocenteschi riprende vita nei dispacci dei diplomatici attuali che trasformano Tehran in una scena molto più «gay-friendly» di quella vivibile a Stoccolma. E tutto ciò, probabilmente, solo per evitare che gli uffici d’immigrazione internazionali vengano presi d’assalto da omosessuali iraniani, veri o presunti, in cerca di visto. Meritano un commento anche le fonti specialistiche citate, che vanno da generici articoli su «Islam e omosessualità», che ignorano la realtà iraniana, o ricercatori la cui identità viene taciuta e la cui testimonianza è stata resa telefonicamente e quantomeno citata in modo assai approssimativo. Uno dei sociologi consultati dall’UNHCR, tra l’altro, s’inoltra in una distinzione linguistica che abbisogna di un ulteriore approfondimento: lo studioso afferma esservi tre termini in Iran per definire le relazioni sessuali tra uomini, ovvero «liwāt che significa relazione sessuale tra uomini, hamjenbaz, ovvero persona che ‘gioca assieme’ a una dello stesso sesso8 e hamjensgara che significa attaccamento emozionale a persona dello stesso sesso». Secondo il sociologo, sarebbe quest’ultimo termine quello più vicino alla concezione occidentale di omosessualità e «gli uomini in Iran che si definirebbero hamjensgaray sono molto rari»9. È evidente come tali distinzioni siano pretestuose vis à vis la realtà della legislazione della Repubblica Islamica d’Iran (nel cui Codice Penale, peraltro, compare anche il termine hamğenbāzī per 8 9 Questo, peraltro, è il significato letterale di hamğensbāzī. Ibidem. 162 definire una relazione punibile, come sopra visto). Che sulla scena iraniana contemporanea si registrino cambiamenti linguistico-semantici dei termini indicanti l’omosessualità è vero, come esamineremo più sotto, ma trincerarsi dietro ai termini per nascondere scomode verità è inutile e disonesto. La reiterata affermazione che pochissimi iraniani si definirebbero omosessuali è smentita, tra l’altro, da alcune personalità della scena artistica iraniana che sono usciti allo scoperto proprio per sollecitare l’attenzione internazionale sui loro problemi. Tra loro, i registi Ramin Goudarzi-Nejad e Mashhad Torkan autori del documentario Cul de sac (Bombast), in cui l’attrice protagonista, Kiana Firuz, ripercorre la propria vita reale di artista e attivista lesbica iraniana che ha fatto richiesta di asilo alle autorità britanniche, peraltro in un primo tempo rifiutato e solo più tardi, a seguito delle proteste internazionali, accordato. Si noti che GoudarziNejad aveva già girato un film su tema omonimo nel 2007 la cui protagonista, poetessa e suonatrice di violoncello, lotta contro gli uffici di immigrazione britannici che non le concedono il visto richiesto in quanto omosessuale perseguitata10. Oltre che dalla docu-fiction, la vita degli omosessuali in Iran è documentata dai siti degli attivisti, quali quelli fondati da Arsham Parsi. L’attivista e gay iraniano dapprima (2004) fonda nel suo Paese un gruppo internet per LGBTQ, Rangīn kamān (L’arco dell’arcobaleno), ma successivamente la paura per la propria incolumità lo spinge a lasciare l’Iran e, dopo una serie di traversie, si stabilisce a Toronto, in Canada, dove fonda l’associazione Iranian Railroad for Queer Refugees (www.irqr.net) che segue le peripezie dei LGBTQ non solo nella Repubblica Islamica ma pure nei paesi di immigrazione o di transito degli omosessuali iraniani. Molti di loro, infatti, non solo hanno problemi in Iran ad essere ac10 ramingoudarzinejad.blogspot.com. 163 colti nei paesi europei, ma pure di transito, dal momento che moltissimi di loro usano, come itinerario di fuga, la via della Turchia, paese che non richiede agli iraniani un visto d’entrata, ma che non si rivela molto gay-friendly. Nonostante, infatti, la Turchia sia l’unico paese musulmano dove la comunità LGBTQ può organizzare a Istanbul l’annuale parata «Gay Pride» nel mese di giugno, per loro permangono molte difficoltà, come rivela, tra l’altro, una delle maggiori organizzazioni LGBTQ locali, la Kaos (www.kaosgl.com). Inoltre, gli iraniani in fuga dall’alto-piano in Turchia sono doppiamente a rischio, in quanto omosessuali e clandestini11. Slittamenti semantici, nuova ermeneutica e attivismo L’attivista Arsham Parsi è altresì promotore della prima rivista on line in persiano dedicata al mondo LGBTQ, Māhā (Noi), lanciata nel dicembre 2004, che tratta, fra l’altro, pure di alcune questioni semantiche importanti. Da tempo è in atto in Iran una revisione linguistica per definirsi da parte degli stessi LGBTQ. Ovviamente, nel linguaggio scurrile/denigratorio comune persistono i termini derogatori, quali kūnī e altri meno volgari ma comunque ingiuriosi12. Fin dal primo numero la rivista si propone come stampa dedicata agli omosessuali definiti hamğensgarāyān, «di tendenze omosessuali», un termine che vuole distanziarsi da quello, un tempo 11 Nel documentario Gender Me di Nafise Arkal Lorentzer, parzialmente ambientato a Istanbul, ci si lagna, tra l’altro, che la cosmopolita città, dove è possibile assistere quotidianamente a spettacoli di danzatori, anche del ventre, vestiti in abiti femminili, sia ricettiva agli spettacoli dei travestiti anziché a una vera cultura gay. 12 Kūnī significa culattone. Così come parola molto in uso per indicare un effeminato è evāḫahār. 164 comune, di hamğensbāz definito come colui che «gioca con persona dello stesso sesso», carico di accezione negativa che implica sbilanciamento del rapporto, supponendo un ruolo di pretesa di un rapporto da parte di una delle due parti, anziché una relazione basata su reciproco amore e parità. Nell’articolo, «Perché non sono hamğensbāz ma piuttosto hamğensgarā?» l’autore, Jahāngir Shīrāzi, ripercorre la storia del termine hamğensgarā coniato già negli anni ’60 dalla prima associazione di omosessuali iraniani, Humān, per concludere che è il termine che meglio rappresenta gli individui che desiderano rapporti omosessuali basati sulla reciproca scelta13. Chiaramente, quella di Māhā non è una mera disquisizione linguistica, né uno strumento per nascondersi dietro ai termini, ma piuttosto il tentativo di articolare una strategia per aiutare le persone omosessuali a definirsi e pertanto precisare la propria identità. Ma con la definizione linguistica gli attivisti di Māhā perseguono altri obiettivi: a esempio, evitando il termine ormai usato spesso anche in Iran «gay», e cercando un termine persiano si sottolinea come l’omosessualità non sia un’invenzione/devianza occidentale, ma un’istanza con profonde radici nel Paese. Il fatto poi di isolare il termine hamğensbāz per indicare un predatore ha risvolti religiosi, in quanto molti musulmani omosessuali sostengono che l’esecrazione coranica nei confronti di Lot provenga dal fatto che si tratta di uno stupratore. Se un hamğensbāz è identificato come Lot, significa che solo quel modello di omosessuale è religiosamente condannato, non chi pratica l’omosessualità come rapporto consensuale14. Il richiamo di Māhā alla religione è altresì significativo, sia che i LGBTQ iraniani sentano l’esigenza di conciliare fede e identità 13 Māhā, 6, 2005, pp. 25-29: http://majalehmaha.wordpress.com/. E l’opinione, tra altri, dell’imām Dayie Abdullah, un afro-americano omosessuale convertito all’islam. V. il documentario Gender Me. 14 165 sia che ricorrano al ragionamento rimanendo nei parametri religiosi per strategia, ovvero, perché la Repubblica Islamica è tale, e quindi cercano di trovare una via che consenta loro di vivere da omosessuali all’interno di un regime teocratico. Māhā si rivolge in più d’una occasione a teologi e altre figure religiose, a esempio, criticando i riformisti come ‘Ali Shari‘ati e Abdolkarim Sorush che hanno affrontato cruciali nodi fra religione e modernismo (quali la democrazia, il pluralismo ecc.) ma chiudono gli occhi sulla questione omosessuale15. In un articolo dedicato ai «Omosessuali musulmani d’Iran e la sfida del futuro» si sottolinea che l’islam è la religione dell’uguaglianza, quindi non si possono discriminare gli omosessuali al suo interno. Inoltre, riprendendo la storia coranica di Lot con nuovo piglio ermeneutico, dopo aver precisato che si tratta dell’unico tenue riferimento all’omosessualità nel testo sacro dell’islam, si ricorda che nel libro per eccellenza non vi è alcun riferimento all’omosessualità femminile, neppure nella storia di Lot: Allora perché la propensione omosessuale tra donne o la stessa omosessualità (masāḥeqeh) non sono libere nelle società musulmane e non vengono riconosciute ufficialmente16? Peraltro, nella sua crociata Māhā dimostra di avere una idea assai romantica ma poco veritiera della realtà degli omosessuali nelle altre due religioni di Abramo, affermando che gli omosessuali tanto cristiani quanto ebrei hanno ottenuto la riappacificazione tra fede e identità, come dimostrato dall’esistenza di innumerevoli associazioni LGBTQ all’interno delle due fedi monoteiste17. 15 «Ḥalqeh -ye gomšodeh-ye mabāhez-e roušanfekrān-e maḏabī» (L’anello mancante nelle discussioni degli intellettuali religiosi), in Māhā, 1, 2004, pp. 11-12. 16 «Hamğensgarāyā-e mosalmān-e Irānī va čālešhā-ye pīšrū», in Māhā, 2, 2005, pp. 17-18, p. 16. 17 Ibi, p. 18. 166