Dogon, il popolo della falesia

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Dogon, il popolo della falesia
Dogon, il popolo della falesia
di Alice Caprotti
Una pianura sabbiosa, fitta di baobab, chiusa tra il deserto rosso che guarda al Burkina
Faso e la parete rocciosa della falaise: è qui che vivono i Dogon.
I Dogon sono giunti qui dal lontano villaggio di Mandè, intorno al 1230, per cercare nuovi
spazi coltivabili. Si narra che la popolazione Tellem abitasse questi luoghi prima del loro
arrivo, intorno al XI secolo. Le due popolazioni avrebbero potuto convivere, giacché i
Tellem erano allevatori, ma non volevano fondersi tra di loro perciò i Tellem si sono rifugiati
al confine con il Burkina Faso, a Youru. Da allora, le loro abitazioni scavate nella parete
rocciosa vengono usate dai Dogon come tombe e qualche membro della comunità dei
Tellem torna periodicamente di nascosto per fare dei sacrifici : quando i vecchi
riconoscono delle tracce strane sui feticci, capiscono che i Tellem sono passati di lì.
La falaise, questa parete rocciosa che si estende per oltre trecento chilometri, è come
una falla temporale che fa cadere in un universo parallelo, fatto di cosmogonie antiche e
stili di vita primitivi. Arrivati dall’altra parte, tutto è color della sabbia: il paesaggio si ripete
uguale fino alla linea dell’orizzonte sotto un cielo senza nuvole, così chiaro che sembra
scolorito. Questa madre naturale, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, ha
protetto i Dogon dalla cosiddetta ‘modernità’. Sebbene solo poche ore di auto li separino
dalle città e nonostante il contatto ormai frequente con i turisti occidentali, essi vivono
ancora come vivevano i primi abitanti, seguendo i ritmi della natura e proseguendo le
loro consuetudini millenarie.
Tutto ebbe inizio cinquant’anni fa in un cortile polveroso, a Sangha, quando il Bianco iniziò
la sua chiacchierata con Ogotemmeli. Il Bianco era un antropologo francese, Marcel
Griaule, e Ogotemmeli un vecchio cacciatore cieco, che decise di condividere il
patrimonio di tradizioni del suo popolo con quello straniero venuto da lontano. Il frutto di
questa conversazione fu il libro Dieu d’eau. L’ istruzione che lui stesso aveva ricevuto da
suo nonno prima, e da suo padre poi, fu trasmessa all’europeo nel corso di
un’interminabile conversazione durata trentadue giorni, che ha permesso al mondo di
conoscere la storia di questo popolo misterioso: i Dogon.
Il resoconto dell’etnologo portò alla luce una cosmogonia stupefacente per un popolo
considerato primitivo, una mitologia paragonabile a quella delle religioni asiatiche o
occidentali. Le loro leggende, fino ad allora trasmesse di generazione in generazione per
via orale, si adagiarono tra le pagine dei libri e iniziarono ad uscire dai confini del Mali,
per arrivare alle orecchie di avventurosi turisti occidentali.
La cosmogonia che intreccia le origini di questa gente è profondamente complessa.
Dopo la creazione del mondo, il primo uomo e la prima donna si unirono e diedero alla
luce i primi due figli di una serie di otto che dovevano essere gli antenati del popolo
Dogon: quattro erano maschi e quattro femmine. Questi avi primordiali potevano
fecondarsi da soli e da qui deriva la discendenza delle otto famiglie Dogon. Il numero
otto riveste una grande importanza per i Dogon ed è per questo che lo si ritrova da
sempre in molti aspetti della loro vita quotidiana.
Ad esempio, i campi di cipolle vengono divisi ancora oggi come fu diviso in origine il
campo primordiale: “questo era stato suddiviso in ottanta volte ottanta quadrati di un
cubito di lato”, che erano stati ripartiti allora tra le otto famiglie. Anche adesso le
coltivazioni di cipolle vengono ripartite in cubiti, e intorno al campo si snoda la routine
delle famiglie. Ogni mattina presto, infatti, bisogna innaffiare abbondantemente con le
calebasse: le donne di solito si recano nei campi più vicini mentre gli uomini vanno in
quelli più distanti. L’acqua utilizzata è quasi sempre quella accumulatasi durante la
stagione delle piogge oppure si attinge a qualche raro pozzo. Finito il proprio compito, le
donne ritornano a casa e cucinano per tutta la famiglia.
Ma il numero otto non spiega solo la divisione dei terreni: a sorpresa, si ritrova anche nei
depositi di cereali. I granai Dogon sono senza dubbio le costruzioni più diffuse in ogni
villaggio. Con i loro copricapi appuntiti di paglia, quando il sole cala, si stagliano come
forme scure sul profilo della falesia: anche questi edifici di argilla che vengono utilizzati
per la conservazione dei cereali, trovano una spiegazione nelle parole oscure di
Ogotemmeli. Il “Granaio del Signore della Terra Pura” rappresenta simbolicamente il
sistema del mondo. I quattro lati dell’edificio rappresentano i quattro punti cardinali. Al
suo interno ci sono quattro scomparti che contengono miglio, sorgo, riso e digitaria.
Secondo la teoria originaria, i compartimenti dovrebbero essere otto come gli otto
antenati, quattro in alto e quattro in basso. Come narra la mitologia Dogon, ognuno di
essi ricevette uno degli otto semi che anticamente erano stati dati da Dio agli otto
antenati e che rappresentavano i cereali di tutto il mondo. I compartimenti possono
essere anche considerati immagine degli organi interni dell’uomo, e i tramezzi interni alla
struttura possono simboleggiare lo scheletro. La base circolare simboleggia il sole, il tetto
quadrato il cielo e un cerchio nel mezzo del tetto simboleggia la luna. Ogni lato
dovrebbe avere dieci scalini, prefigurazione delle otto decine di famiglie nate dagli otto
antenati. Ogni singolo gradino,a sua volta, fa da sostegno a una categoria di creature ed
è in rapporto con una precisa costellazione: la scalinata settentrionale porta gli uomini e i
pesci; quella meridionale accoglie gli animali domestici; quella orientale è occupata
dagli uccelli ed infine quella occidentale sostiene gli animali selvatici,i vegetali e gli insetti.
Il numero otto è come un fil rouge che collega ogni sfaccettatura della vita di questo
popolo: per questo non c’è da stupirsi che, come spiega la ripartizione delle granaglie
che servono al nutrimento, così possa trovare posto anche quando si parla di morte.
“In quel tempo senza nome che dette inizio alla Storia di questa popolazione, il più
vecchio dei viventi era un uomo appartenente all’ottava famiglia: il Lebè. Quando
l’anziano morì il suo corpo fu deposto sulla terra, orientato da nord a sud: egli fu sepolto
supino, con la testa rivolta a nord.” Questo è l’orientamento che ancora oggi viene
seguito nel rito della sepoltura. Gli uomini adagiati sul fianco destro e le donne su quello
sinistro. Le unghie di queste membra morte si trasformarono in caurì, piccole conchiglie
bianche: erano otto per ogni mano e per ogni piede. Quando fu inventato il commercio, i
caurì vennero utilizzati come moneta di scambio e all’inizio si contava solo per multipli di
otto e 640 era considerato il numero massimo raggiungibile. Col passare dei secoli i caurì
hanno perso questa funzione e al giorno d’oggi servono per la divinazione: durante il “rito
dei caurì” le conchiglie vengono gettate su un piano e la loro disposizione casuale può
essere interpretata come positiva o negativa, e fornire a chi ha richiesto il rito uno sguardo
sul suo passato e futuro.
E’ affascinante osservare come ogni aspetto della quotidianità di questo popolo affondi
insieme in un’antichità che ha il sapore di un mito e allo stesso tempo in un presente in
continua evoluzione: esattamente come la loro cultura, da sempre trasmessa per via
orale, di generazione in generazione. La loro identità è stata cristallizzata dall’inchiostro di
Griaule, ma in realtà le loro tradizioni, proprio perché sono ancora abitudini attuali, sono in
continua trasformazione pur rimanendo nel solco della medesima mitologia di base.
Custode intoccabile e prova vivente di queste favole dalla falaise, è l’Hogon, il sacerdote
del Lebè, l’uomo più anziano di ogni villaggio e il più alto dignitario religioso. Egli svolge
molteplici ruoli all’interno della comunità: intona le preghiere propiziatorie, effettua le
celebrazioni, funge da anello di trasmissione della cultura e, se tra uomini ci sono delle
questioni da dipanare, egli le sottoporrà agli anziani del villaggio per risolverle.
Un’attività molto importante all’interno dei villaggi Dogon è la tessitura, attività
solitamente riservata ai periodi in cui non si è impegnati con la coltivazione dei campi. In
lingua Dogon stoffa si dice soy, che significa “è la parola” : il tessuto è come parola e il
verbo è come tessuto.
Verbo è anche la percussione dei tamburi, che avviene in occasione di cerimonie
importanti. I primi otto tamburi furono costruiti da Dio stesso. Quando il tamburo viene
battuto, il suono che ne esce è come se fossero parole degli antenati: i primi tamburi,
quando vennero suonati per la prima volta, diedero così origine alle otto lingue parlate
nella falesia. Inoltre, queste due attività sono sottilmente connesse. Infatti, la tecnica di
fabbricazione del tamburo è simile a quella della tessitura e dunque battere sul tamburo è
un po’ come tessere: il suono, sotto i colpi delle bacchette, rimbalza da una pelle all’altra
come spola e filo passano da una mano all’altra fra i due ordini di fili intrecciati dai licci.
Come la loro storia e le loro tradizioni, intrecciate così fittamente tra loro da essere quasi
indistinguibili spiegazioni l’una dell’altra. La tessitura è molto importante perché è grazie
ad essa che si realizza la coperta dei morti: essa è fatta di quadrati neri e bianchi
alternati. La coperta conta otto strisce cucite insieme,ognuna delle quali dovrebbe
comprendere ottanta quadrati. E’ chiamata coperta dei morti perché vi si avvolgono i
cadaveri prima di trasportarli al luogo della sepoltura, che come detto al principio,
avviene nelle antiche abitazioni Tellem scavate nella roccia frastagliata della falaise.
Anche la forgiatura di metalli è un’attività a cui Ogotemmeli attribuisce un significato
particolare. Il fabbro, che lavora nella fucina del villaggio, solitamente nei pressi della
piazza principale, discende dal terzo degli otto antenati. E’ grazie a lui che l’uomo ha
potuto forgiare la zappa che ha dato inizio ai lavori dell’agricoltura. Al giorno d’oggi il
fabbro è ancora una figura centrale nella vita del villaggio: non è un coltivatore, dunque
non possiede un campo, e usa i suoi prodotti artigianali come materia di scambio con gli
altri membri del villaggio, che in cambio lo forniscono di cibo. Egli crea gli utensili più vari:
può forgiare i cardini di una porta o creare dal nulla un fucile artigianale da usare
durante le cerimonie funebri; inoltre spesso lavora anche il legno e intaglia delle porte
con immagini tradizionali della cosmogonia Dogon.
“La fucina è un lavoro diurno perché il suo fuoco, che è un frammento del sole, non
potrebbe risplendere durante la notte. Per questo motivo è proibito al fabbro, e a
qualunque uomo, di battere di notte il ferro, la pietra o la terra. Far risuonare nel silenzio e
nel buio i colpi dell’officina equivale a una bestemmia, laddove farlo con la luce del sole
ricorda la potenza del Dio e aiuta la loro preghiera.”
A proposito dell’agricoltura, ancora una volta i Dogon si rifanno al numero otto “perché il
campo è diviso per quadrati di otto cubiti di lato, circondati da un argine di terra”: il
campo è come una coperta di otto strisce di stoffa, e dunque la coltivazione è una forma
di tessitura. L’insieme dei campi intorno ad ogni villaggio e il villaggio stesso finiscono per
rimandare a una grande coperta. La stoffa ultimata simboleggia il campo lavorato
mentre la parte senza trama dell’ordito rinvia alla boscaglia selvatica punteggiata di
baobab e termitai.
La Digitaria exilis, una graminacea chiamata anche fonio, è la pianta più coltivata nella
falesia. Il suo piccolo seme, dalla scorza molto dura è impossibile da rompere per l’uomo
ma non per la natura, da qui l’assunzione a simbolo della forza vitale. Questa sorta di
miglio viene utilizzata nei modi più svariati e costituisce la fonte primaria di
sostentamento dei Dogon; spesso viene anche mischiata all’acqua e usata nei sacrifici e,
cosa ancora più importante, è la base per la preparazione della birra, elemento
importante dei riti funebri Dogon. Le cerimonie funebri sono molto costose e, per ridurre
le spese, le famiglie che hanno avuto dei morti durante l’anno, le celebrano insieme nel
periodo in cui non si è impegnati nel lavoro dei campi. Questo lascia i morti in una sorta di
limbo che crea scompiglio nei villaggi: il caos può essere placato attraverso la libagione
della birra, di cui i morti vengono ad abbeverarsi. Per questo l’ebbrezza in generale viene
considerata positiva presso i Dogon: attraverso di essa si placano i defunti portatori di
confusione. “Anzi, per i vecchi ubriacarsi è quasi un dovere: perché è un disordine
apparente che contribuisce al ristabilimento dell’ordine”. La preparazione di questa
bevanda è affidata alle donne: esse mischiano miglio e acqua in un’enorme calebasse,
nella quale infilano al centro un tronco svuotato. L’acqua che filtra dal miglio inzuppato
si concentra nel mezzo del cilindro di legno: a quel punto esse la raccolgono con una
piccola calebasse e la mettono in un pentolone sopra il fuoco. A questo punto quando il
pentolone è colmo, il liquido va fatto bollire per due giorni. Al terzo giorno si aggiungono
frutto e foglie di baobab per attivare la fermentazione che durerà altri due giorni. Ciò
che rimane nella grande calebasse viene dato come pasto agli animali.
I villaggi aggrappati ai piedi della falesia hanno una disposizione irregolare e
accidentata, ma coloro che hanno il privilegio di abitare in pianura ritrovano una
regolarità inaspettata anche nella pianta apparentemente casuale del villaggio: esso
infatti è “come un corpo d’uomo che giace supino”. Diverse abitazioni o edifici particolari
vanno a simboleggiare parti di questo corpo immaginario disteso mollemente sul suolo
sabbioso.
Nelle strette viuzze che disegnano la struttura del villaggio non mancano luoghi per
officiare sacrifici. Che si tratti di consacrazione, di divinazione, di purificazione o di
conservazione dell’invisibile o di se stessi: il sacrificio presso i Dogon ha l’effetto costante di
ridistribuire la forza vitale. Nel momento principale del sacrificio, quando il sangue
dell’animale inizia a gocciolare, lo stregone (gri-gri) chiama la divinità e, dando voce ai
suoi gesti, essa si fortifica grazie alle forze accumulate sull’altare dal susseguirsi di sacrifici.
Ma l’uccisione di animali e lo spargimento del loro sangue non è l’unico modo in cui si
può interrogare il cielo e i suoi abitanti: la divinazione permette anche di avere una
predizione chiara del proprio futuro.
Ci si può affidare anche ad un rituale diverso, che è spesso più utilizzato. Tuttora è
abitudine comune recarsi dallo stregone per chiedere protezione o aiuto,interrogarlo sulle
questioni più diverse o per farsi predire il futuro prima, ad esempio, di un viaggio
importante.
Anche questo rituale, la lettura delle tavole geomantiche, è affidato alla mano esperta
di un gri-gri: al tramonto, il suo bastone disegna sulla sabbia dei simboli magici, recanti in
sé delle domande per il Dio. Per terra vengono anche disposti dei bastoncini, in quantità
pari al numero delle persone che richiedono la divinazione. Questi tracciati vengono
cosparsi di cibo in modo da attirare lo sciacallo. Dopo aver eseguito questi passaggi la
sera, la mattina si torna a osservare quali segni ha lasciato l’animale: attraverso di essi è
possibile gettare uno sguardo sul futuro.
I figli del Dio furono nove: lo Sciacallo più otto gemelli generati da quattro parti. Per la
cultura Dogon nelle nascite il numero due rappresenta la perfezione. Lo Sciacallo quindi,
figlio unigenito, è considerato perciò il disordine e l’imperfezione. Per quanto fosse
disonorevole e incompleto, egli era, ed è rimasto, depositario della Parola: proprio per
questo è ancora in grado di rivelare agli indovini terrestri parte dei disegni celesti.
Questo figlio primogenito possiede un altro importante primato: è il primo ad aver
danzato.
Con o senza maschere, la danza costituisce un fulcro dell’attività religiosa per i Dogon ,
particolarmente nel rito funebre. Dunque questo rituale così frequente immerge le sue
radici nella prima stagione del mondo: “la terrazza sulla quale lo Sciacallo danzò la sua
prima Danza è stata la prima tavola di divinazione, quella che, ancora oggi, viene
imitata dagli uomini ai margini del villaggio”. Ma non fu solo una danza di divinazione:
essendo stata concepita per onorare il padre morto, essa è anche una danza di morte.
Oggi, nel corso delle cerimonie funebri, le danze vengono eseguite sul tetto della casa
del morto e nelle piazze principali dei villaggi, spesso vicino alle fucine: esse vengono
accompagnate dal suono ritmico dei tamburi. I danzatori e le loro maschere sono
immagini del mondo intero: tutti gli uomini, tutte le funzioni, tutti i mestieri, tutte le età , tutti
i popoli stranieri e tutti gli animali sono scolpiti in forma di maschera o intessuti a guisa di
cappucci. Su questi spazi battuti dal sole, nei movimenti ritmati ed eleganti di questi
uomini travestiti, si può vedere il sistema stesso dell’universo muoversi in tutti i suoi colori.
Appare evidente come i racconti intrecciati da Ogotemmeli più di cinquant’anni fa,
siano ancora una realtà viva, che si respira e soprattutto si osserva nelle cose ordinarie
della vita di tutti i giorni. Il dubbio che resta è se i dettagli della cosmogonia, raccontata
così minuziosamente da Ogotemmeli, siano davvero ormai patrimonio collettivo come
alcuni sostengono. Numerosi antropologi moderni diffidano dal considerare queste
persone semplici, conoscenti consapevoli di genealogie così complesse. I gesti che i
Dogon ripetono da sempre trovano forse spiegazione semplicemente nel loro eterno
ripetersi, come eredità quotidiana la cui origine è in realtà per molti nebulosa. Che le
guide della capitale siano ben informate su Griaule è un dato di fatto: ma quanti di
questi contadini di cipolle ha mai visto o vedrà mai una strada di cemento? O un
palazzo? Pressoché nessuno di loro è in grado di scrivere e, a parte un paio di parole, il
francese per loro è una lingua straniera. Forse sono ingenui ma ferventi continuatori di una
tradizione che, sebbene poco chiara in ogni suo risvolto, essi amano e sentono propria.
I periodi virgolettati sono tratti dal libro Dio d’Acqua di Marcel Griaule.