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«UN GRADINO È LA MIA CASA»
Fonte: L'Unione Sarda
7 gennaio 2016
URL della pagina: http://www.comunecagliarinews.it/rassegnastampa.php?pagina=48881
Data scaricamento: 29 settembre 2016, 21:10
I senza dimora sono oltre cento, per la maggior parte sardi - Si finisce in strada per alcolismo o
divorzio. L'emergenza-migranti aggrava il problema
Non hanno preso la residenza sugli scalini del palazzo dell'Enel in piazza Deffenu, o al porto, e
nemmeno nelle panchine di piazza Matteotti. Però si può sapere quanti sono: basta contare i
sacchetti di cibo e aiuti distribuiti dai volontari della comunità L'Aquilone: «Tra i cento e i 120 ogni
sera», rivela don Carlo Follesa, anima e corpo della comunità che svolge il servizio di assistenza
per strada per conto del Comune, «duecento la notte di San Silvestro. L'emergenza-migranti, in
corso da luglio, aumenta il numero dei bisognosi».
MINI-CITTÀ È un mondo parallelo, quello dei senzatetto che dormono su gradini e panchine, o in
scatole di cartone. Gli italiani (quasi tutti sardi) sono una settantina. La droga, ma soprattutto
l'alcool li li hanno condotti lì, dopo che le loro famiglie li mettono alla porta, ma per strada si
finisce anche per altri motivi: la perdita del lavoro, o la separazione dal coniuge. «C'è chi il lavoro
l'aveva», si amareggia l'educatrice 79enne Gina che non rivela il proprio cognome (Mamma Gina
per i senzatetto italiani, Mamma Africa per gli altri: è lei che coordina tutto), «ma non più lo
stipendio perché si è separato dalla moglie e il giudice lo obbliga a consegnare quasi tutti i
guadagni. Diversi uomini, quando si sono resi conto che dovevano vivere con trecento euro al
mese, hanno traslocato in strada e lasciato il posto di lavoro», precisa Mamma Gina mentre,
assieme agli altri volontari sul camper de L'Aquilone fa il giro serale della disperazione per portare
cibo, scarpe e coperte a chi non ha nulla.
LE STORIE Quando non sono stati droga o alcol a condurre al vagabondaggio, si nota subito.
Mario, ad esempio, era un insegnante di lettere caduto in miseria con la separazione. Dal
Piemonte arrivò qui, a sessant'anni: nemmeno riscuoteva quel poco che restava della pensione.
«Il giudice tutela solo mia moglie e a me non resta nulla», diceva. Era diffidente, Mamma Gina
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(«quando lasciano il lavoro, poi precipitano») ha faticato per conquistarlo. Dopo che feroci teppisti
gli diedero fuoco mentre dormiva, in via Mameli, accettò di essere trasferito a L'Aquilone, e poi in
ospedale per diverse trombosi, infine in casa di riposo. È morto in un letto, a 75 anni. Un altro
senzatetto, sardo ex emigrato, abitava invece in piazza del Carmine. Diffidente, a modo, declinò
l'offerta di diventare un volontario de L'Aquilone (altri ex vagabondi lo sono): «Non mi sento
pronto». Poi lo divenne: «È sempre valida, l'offerta?». Ora lavora nel Centro comunale di
accoglienza in viale Sant'Ignazio, assiste chi è com'era lui: ha uno stipendio, un tetto e una
dignità restituita. C'è anche una donna che lavora in comunità a Elmas: raccolta dalla strada, è
un'ottima educatrice. Ora i volontari cercano di recuperare un ragioniere sposato con figli che ha
lasciato il posto di lavoro part-time: non riusciva a pagare l'affitto di casa. Dorme per terra in via
Roma.
LA SPERANZA Don Follesa non molla mai, Mamma Gina nemmeno: «Siamo il braccio
dell'assessorato alle Politiche sociali del Comune, e la famiglia di queste persone». La strada è
pericolosa, anche per i volontari. Lì, gli aiuti sono graditi, le domande no: chi vuole dire qualcosa
di sé, lo fa senza domande. Chi alza la voce è redarguito dai camperisti de L'Aquilone, le richieste
sono di tutti i tipi. «Una coperta, ce l'avete?», chiede un senzatetto al porto. E quando Mamma
Gina gli ricorda che ne aveva ricevuta una nuova tre sere prima, intuito che se l'era venduta, lo
rimprovera: «E agli altri, che cosa do?». Poi la consegna. Il senzatetto ringrazia: «Però rasati,
ecco le lamette: sembri un barbone». Chiunque avrebbe detto che quella coperta era leopardata,
ma le macule erano piccole, e il senzatetto è preciso: «Ghepardata, nientemeno». Un altro si
avvicina: «Mamma Gina, hai capi intimi?». Il giro in camper apre scenari impensabili: tra i
residenti per strada, il congiuntivo e un buon italiano sono più diffusi di quanto si possa ipotizzare.
Il desiderio di normalità dorme, ma è vivo. Su questo lavorano don Follesa e Mamma Gina senza
cognome. Gina Strada, insomma.
Luigi Almiento
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