Questura - Corte Ass.. - La Privata Repubblica
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FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Boffelli Giorgio è stato condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza in data 11 marzo 2000 della 5^ Corte d’assise di Milano che lo ha ritenuto e dichiarato responsabile del delitto di strage commesso in Milano il 17 maggio 1973 in concorso con Maggi Carlo Maria e Neami Francesco, nonché con Bertoli Gianfranco, autore materiale, e altri. Gli stesso Boffelli, unitamente al Maggi e al Neami, con sentenza della 3^ Corte d’assise di Appello di Milano in data 27 settembre 2002, è stato assolto da tale imputazione per non avere commesso il fatto. Accogliendo su alcuni punti il ricorso proposto dal Procuratore Generale, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza in data 11 luglio 2003, ha annullato la sentenza pronunciata in grado di appello rinviando per un nuovo giudizio, nei confronti dei tre imputati e per il solo reato di strage, ad altra sezione della Corte d’assise di Appello di Milano. L’accusa di concorso nel delitto di cui all’art. 422 C.P. ascritta agli imputati si riferisce al gravissimo episodio che ebbe in Gianfranco Bertoli l’esecutore materiale dell’attentato compiuto in Milano il 17 maggio ’73 in prossimità dell’ingresso della Questura in occasione della cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi, ucciso esattamente un anno prima. Circa alle ore 11 di quel giorno un individuo che sostava sul marciapiedi opposto all’ingresso della Questura, in via Fatebenefratelli, lanciava un ordigno esplosivo, poi risultato una bomba a mano, in direzione dell’ingresso stesso. L’esplosione cagionava la morte di quattro persone (Bortolon Gabriella, Panzino Giuseppe, Masarin Federico e Bertolazzi Felicita) oltre al ferimento di altre quarantacinque. L’attentatore, subito fermato e trovato in possesso di un passaporto intestato a tale Magri Massimo, dichiarava di chiamarsi Bertoli Gianfranco, che quel passaporto era falso, di provenire da un kibbutz di Israele, di essere un “anarchico individualista”, di aver acquistato quella stessa mattina del 17 maggio il Corriere della sera venendo così a sapere che il giorno stesso, alle 10,30 , vi sarebbe stata la cerimonia in Questura e di essere giunto in via Fatebenefratelli alle 10,40 essendo sua intenzione raggiungere il luogo a cerimonia iniziata. Ritenendo che questa si sarebbe protratta, era andato in un bar nei pressi per bere un cognac ma, accortosi che la cerimonia era terminata e che alcune auto stavano uscendo sulla strada, si era avvicinato in fretta all’ingresso della Questura e dal marciapiede opposto aveva lanciato la bomba che, essendo risultato corto il lancio, era rotolata lateralmente all’ingresso per cinque o sei metri esplodendo tra gli astanti e non contro le vetture delle autorità. Fin dal primo interrogatorio il Bertoli affermava che il Ministro degli Interni On. Mariano Rumor era uno dei bersagli dell’attentato; precisava inoltre di essere arrivato a Milano il giorno prima, proveniente - via Marsiglia - da un kibbutz israeliano dove era rimasto ininterrottamente per circa due anni (dal 22.6.1971 all’8.5.1973), di aver portato con sé la bomba a mano tipo “ananas” trafugata in precedenza nel kibbutz e, al riguardo, forniva spiegazione dei sistemi usati per non far scoprire l’ordigno in occasione dei controlli cui era stato sottoposto alle frontiere. Si premette che, nell’udienza del 10 novembre 2004, su istanza del difensore (che allegava congrua documentazione medica) e sentito il Procuratore Generale, era separata la posizione di Giorgio Boffelli per disporre perizia medico-legale intesa ad accertare se lo stesso, stante le sue attuali condizioni fisiche e mentali, fosse in grado di partecipare coscientemente al processo, in vista di una eventuale sospensione dello stesso. L’incarico peritale, con il relativo quesito, era affidato ai dottori Paolo Bianchi e Lia Radaelli nell’udienza, all’uopo fissata, del 18 novembre 2004; la Corte, assegnato un termine ai periti, fissava quindi l’udienza del 22 febbraio 2005 per la loro audizione e per la prosecuzione del processo ovverso per la sua sospensione a sensi dell’art. 88 C.p.p. 1930. A detta udienza i periti rassegnavano le seguenti conclusioni confermando la relazione scritta: “A seguito di una demenza frontotemporale il sig. Boffelli Giorgio possiede al momento una capacità di intendere e volere, ancorché non abolita, di certo grandemente scemata. Tale patologia risulta congruente con l’esame effettuato dai sottoscritti e dalla storia clinica del soggetto, per come è documentata, e dalle risultanze dei più recenti accertamenti clinici. L’assenza di critica adeguata, il grave deficit della memoria, come pure la alternante confusione del pensiero, il disorientamento, la critica inadeguata e quanto descritto sopra, inducono ad affermate che sia anche abolita la capacità del Sig. Boffelli di adeguatamente partecipare al dibattimento. Per quanto riguarda la prognosi della patologia descritta, gli elementi di conoscenza di cui si dispone inducono a dire che questa sia certamente cronicizzata, e verosimilmente non solo stazionaria nel tempo, ma con un andamento ingravescente”. Il Procuratore Generale chiedeva che il processo, pendente in questa fase di rinvio, fosse sospeso a sensi del citato art. 88 C.p.p. Rilevato che la norma di rito in questione così recita: “Quando l’imputato viene a trovarsi in tale stato di infermità di mente da escludere la capacità di intendere o di volere, il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento (artt. 378, 479), dispone con ordinanza, in ogni stato e grado del procedimento di merito, la sospensione del procesimento”, dell’imputato, la ha Corte, ritenuto accogliendo di poter la richiesta giudicare della nel difesa merito, indipendentemente dalle condizioni mentali del Boffelli, sussistendo tutte le condizioni per una pronuncia di proscioglimento, nella specie per non avere commesso il fatto. Ciò tenuto conto, in particolare, di quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento, di tutte le risultanze processuali e della sentenza emessa da questa stessa Corte d’assise di Appello in data 1.12.2004, con cui assolveva (per non avere commesso il fatto) dalla medesima imputazione i coimputati Maggi e Neami. Poiché il quadro probatorio afferente all’imputazione di strage per cui si procede, relativo sia al contesto generale sia a taluni elementi indiziari, è sostanzialmente il medesimo già esaminato per i coimputati, si ritiene di dover riportare di seguito l’intera motivazione della citata sentenza in data 1.12.2004, per poi trattare della posizione personale di Giorgio Boffelli. ========================== “”” L’istruttoria Il Giudice Istruttore, rilevate nel racconto del Bertoli palesi incongruenze e contraddizioni, conclusa l’istruttoria e, con ordinanza in data 30.7.1974, disposto il rinvio a giudizio dello stesso Bertoli (in seguito condannato alla pena dell’ergastolo), stralciava gli atti che – come si legge nell’ordinanza/sentenza in data 18.7.1998 – inducevano a ritenere l’esistenza di mandanti dietro l’esecutore materiale, proseguendo quindi le indagini istruttorie che infine porteranno all’incriminazione degli attuali imputati. I dubbi sulla effettiva corrispondenza al vero del racconto di Gianfranco Bertoli riguardavano in particolare: il fatto che l’esecutore materiale dell’attentato si fosse davvero procurato la bomba a mano in Israele, pur essendo accertato che l’ordigno era effettivamente di produzione israeliana, dato che dalle indagini svolte era risultato che negli ultimi anni nessun furto era stato commesso nell’armeria del kibbutz, nella quale per altro non erano custodite bombe, e che esercitazioni militari non erano state mai compiute con quel tipo di armamento; appariva inoltre improbabile che Bertoli avesse corso il rischio di superare varie frontiere portando con sé la bomba, tra l’altro sbarcando in Francia, a Marsiglia, quando ben avrebbe potuto sbarcare a Genova dove la nave “Dan”, proveniente dal porto di Haifa dove si era imbarcato, aveva fatto scalo; la natura e l’origine del passaporto di cui Bertoli era in possesso, un documento intestato a Massimo Magri – esponente del partito marxista/leninista italiano – provento di furto e falsificato; ad avviso del G.I. era improbabile che Bertoli fosse potuto espatriare e rientrare in Italia, superando numerose frontiere, oltre ai meticolosi controlli operati dalle autorità israeliane, utilizzando quel documento; cosa avesse fatto Gianfranco Bertoli nei giorni precedenti alla strage dato che era pacificamente risultato che lo stesso era sbarcato a Marsiglia il 13 maggio ’73, che aveva preso una camera nell’Hotel du Rhone per tre notti, cioè fino al 16 maggio, ma dove, pur pagando per l’intero soggiorno, si era trattenuto una sola notte; da Marsiglia il Bertoli era partito in treno la mattina del 16 maggio raggiungendo Milano intorno alle ore 16 e prendendo alloggio in una pensione di Via Vitruvio; non aveva quindi chiarito cosa avesse fatto a Marsiglia nei giorni precedenti e chi avesse eventualmente incontrato sia nella città francese sia a Milano; neppure era certo che Bertoli avesse agito da solo la mattina del 17 maggio ponendosi in contrasto con la sua versione quanto dichiarato dal teste Gemelli il quale, verso le 9,50 , aveva osservato l’attentatore sul marciapiede antistante la Questura affiancato da due individui; oscuro era poi l’episodio dell’incontro del Bertoli – la sera precedente all’attentato – con Rodolfo Mersi, sindacalista della Cisnal e confidente della Polizia. Quest’ultimo (testimonianza Mazzari) alle ore 23 circa del 16 maggio aveva fatto una telefonata dal ristorante dove lavorava pronunciando la frase “pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra 35/40 minuti”. Il Mersi, affermando che il Mazzari aveva equivocato, aveva dichiarato al G.I. di aver parlato per telefono verso le 22,30 con la moglie la quale in precedenza lo aveva avvertito dell’arrivo di Bertoli; aveva così chiesto alla moglie se l’amico doveva prendere il treno dato che il Bertoli aveva detto che a mezzanotte doveva trovarsi alla stazione; la parola “dottore” l’aveva pronunciata per scherzo riferendosi al Bertoli. Dubbi, infine, anche sulle modalità e circostanze con cui Bertoli era entrato in possesso del passaporto falso, nonché su come avesse potuto espatriare con una certa facilità in Israele il che, tenuto conto che ciò era avvenuto con l’aiuto di persone in contatto con i servizi segreti italiani e israeliani, prospettava la possibilità che Bertoli fosse fuggito dall’Italia con la protezione dei Servizi. Per quanto attiene alla collocazione politica di Gianfranco Bertoli, in contrasto con l’affermazione di questi di essere un “anarchico individualista”, le indagini del G.I. consentivano di accertare rapporti tra lo stesso Bertoli ed elementi dell’estrema destra veneta, appartenenti a Ordine Nuovo, segnatamente con Sandro Sedona ed Eugenio Rizzato. In effetti era risultato che il Sedona e il Bertoli, entrambi di Mestre e frequentatori degli stessi ambienti, in un comune periodo di detenzione in carcere avevano condiviso la stessa cella. Il Sedona, al riguardo, dichiarava al G.I. di aver conosciuto il Bertoli in carcere nel 1963, di non aver instaurato con lui rapporti di amicizia, di non averlo mai sentito parlare di politica tanto che, dopo aver appreso dalla lettura dei giornali che il Bertoli si era qualificato come anarchico, era rimasto assai sorpreso. Gli accertamenti disposti dal G.I. hanno riguardato, in particolare, un altro punto della versione di Gianfranco Bertoli, quello secondo cui lo stesso – come sempre sostenuto – nei circa due anni che precedettero la strage di via Fatebenefratelli, aveva vissuto nel kibbutz israeliano di Karmia, sito in prossimità della “striscia di Gaza”, da dove non si era mai mosso se non per raggiungere l’Italia, via Marsiglia, nell’imminenza del 17 maggio ’73 e dell’attentato. In proposito, gli esiti delle indagini, ritenuti come smentite delle affermazioni del Bertoli, avevano consentito di accertare non solo l’esistenza di contatti epistolari dello stesso con soggetti residenti in Italia ma anche, sia documentalmente che mediante testimonianze, che il Bertoli, nel periodo in questione, era stato sia in Francia (Marsiglia e Parigi), sia in Italia. Nello specifico: il G.I. ha richiamato le dichiarazioni rese da Borelli Giuseppe, confidente della polizia e autista dell’avv. Giancarlo De Marchi di Genova, quest’ultimo indicato da alcuni testimoni come finanziatore di movimenti eversivi di estrema destra. Il Borelli, già sentito in precedenza, nel marzo 1976 si era presentato spontaneamente al G.I. e aveva affermato che, vedendo la foto di Bertoli nella rivista “Panorama”, non solo lo aveva riconosciuto ma aveva ricordato di averlo visto due volte a Recco nel 1973; nella prima di tali occasioni Bertoli era in compagnia di Pietro Benvenuto che lo aveva presentato come amico spagnolo; il Benvenuto successivamente negherà il fatto smentendo le affermazioni del Borelli. Sulla presenza di Gianfranco Bertoli in Italia, nel periodo in cui questi – secondo le sue affermazioni – non si sarebbe mosso dal kibbutz israeliano, il 16.2.75 il G.I. assumeva la testimonianza di Sorteni Giorgio; questi premetteva di aver conosciuto il Bertoli nel 1953, quando lo stesso commetteva rapine in danno di omosessuali, che lo stesso Bertoli nel ’54 lo aveva messo in contatto con il brigadiere Fanutza il quale gli aveva proposto di svolgere attività di informatore dietro compenso mensile di 50.000 lire, attività che anche il Bertoli svolgeva; aveva accettato e aveva fatto l’informatore con il nome di copertura “Sergio”; smentiva l’affermazione di Bertoli, riportata dai giornali, secondo cui questi sarebbe rimasto ininterrottamente in Israele dal febbraio 1971 al maggio ’73, affermando con certezza (facendo anche riferimento temporale a un’operazione commerciale conclusa a Mestre) di averlo incontrato nei pressi della stazione di Mestre in un giorno compreso tra il 25 maggio e l’8 giugno 1972. Quanto affermato dal testimone ha trovato conferma nelle dichiarazioni del fratello, Sorteni Tommaso, il quale ha ricordato di essersi incontrato, insieme al fratello, con Gianfranco Bertoli nei pressi della stazione di Venezia nella primavera del 1972. Il G.I. individuava altri elementi di prova idonei a smentire l’affermazione del Bertoli di essere rimasto nel kibbutz in Israele per un periodo continuativo di circa due anni: risultava infatti che Gianfranco Bertoli dal 10 al 20 novembre 1971 era stato registrato come ospite dell’Hotel du Rhone di Marsiglia. La testimonianza resa per rogatoria da Serra Santolo, detenuto in Francia, forniva ulteriore conferma: il Serra, riconosciuto il Bertoli nella fotografia riportata dai giornali dopo la strage, indicava lo stesso come la persona da lui incontrata casualmente a Parigi un mese prima del proprio arresto (avvenuto il 18 settembre 1971); il teste ricordava in particolare che Bertoli, dopo essersi trattenuto con lui in un bar, si era allontanato in compagnia di una donna e di due uomini a bordo di una Wolksvagen bianca. Nell’ambito di tale campo di indagine il G.I. ha attribuito particolare importanza alle dichiarazioni rese da Cavallaro Roberto, sentito più volte e da ultimo il 17.1 e il 17.2.75. Nel corso di questi due interrogatori il Cavallaro aveva ricordato che una volta, probabilmente verso la fine del 1973, aveva sentito dire da Amos Spiazzi o da altra persona presente che qualcuno aveva programmato di uccidere il Ministro degli Interni Mariano Rumor nella sua villa di Pianezze, nel vicentino. Il Cavallaro aveva anche precisato che in tale occasione insieme allo Spiazzi vi era un esponente di Ordine Nuovo, Massagrande o Bizzarri; l’episodio di che trattasi era avvenuto sicuramente nell’aprile del ’73 nella caserma di Montorio Veronese; si era parlato sia di Rumor che di un altro uomo politico per l’eliminazione dei quali, secondo l’opinione dello Spiazzi, occorreva un’azione di nucleo. Il Cavallaro, preso atto che dalla trascrizione del colloquio avvenuto a Lugano il 29.3.74 tra Lercari e il cap. Labruna del SID risultava che tra la fine di giugno e i primi di luglio 1973 vi era stata una riunione al ristorante Savini di Milano nella quale era stata pronunciata la frase “attendevamo l’attentato a Rumor e non c’è stato alcun attentato a Rumor”, aveva negato di aver preso parte a detta riunione pur non escludendo che con tale frase si fosse fatto riferimento all’attentato compiuto da Bertoli davanti alla Questura di Milano. Infine il Cavallaro aveva dichiarato che l’organizzazione della quale aveva fatto parte era nata nel 1964, dopo il fallimento del “Piano Solo”; di essere entrato in contatto con l’organizzazione per il tramite dello Spiazzi e che il suo incarico era quello di contattare ufficiali di un certo indirizzo mentale e politico per legarli ai programmi dell’organizzazione stessa; questa non era la “Rosa dei Venti” ma un’organizzazione che usava per i propri fini gruppi di estrema destra, tra i quali anche la “Rosa dei Venti”; fine principale dell’organizzazione, che faceva capo a strutture di sicurezza dello Stato e a servizi segreti anche stranieri, era il cambiamento della gestione del potere in Italia mediante la strategia della tensione. Nel corso della lunga e complessa istruttoria erano compiuti alcuni accertamenti presso il Servizio Informazioni Difesa (S.I.D.). Tali accertamenti, di cui il G.I. ha dato ampio conto nella motivazione dell’ordinanza conclusiva, possono essere così riassunti: Il 25 ottobre 1974 il capitano Antonio Labruna aveva fornito al Giudice Istruttore del Tribunale di Padova la fotocopia della trascrizione del colloquio avvenuto a Lugano il 29.3.74 tra lo stesso Labruna e Attilio Lercari. Trasmesso tale documento al Giudice Istruttore di Milano, questi il 17.12.74 aveva sentito il Labruna il quale aveva precisato che Lercari, che aveva consentito alla registrazione, nel corso di quel colloquio aveva affermato che alla riunione tenutasi a Milano nel ristorante Savini erano intervenuti, oltre allo stesso Lercari, Amos Spiazzi, il De Marchi, il Rizzato e tale Palinuro, oltre a un giovane appartenente a un gruppo della destra extraparlamentare di Milano. Contestualmente il capitano Labruna aveva consegnato al G.I. la trascrizione integrale del colloquio e tre veline relative agli accertamenti compiuti in relazione ai fatti riferitigli dal Lercari. In altra copia di detta trascrizione, successivamente consegnata sempre dal capitano Labruna, risultava l’annotazione apposta dal colonnello Romagnoli a commento e spiegazione della frase “noi attendevamo l’attentato a Rumor e non c’è stato alcun attentato a Rumor” secondo cui il Lercari probabilmente si riferiva al fatto che l’uccisione dell’agente Marino e l’attentato di Bertoli non avevano prodotto i risultati sperati, vale a dire una situazione di emergenza e il conseguente intervento delle Forze Armate. Antonio Labruna, sentito altre tre volte dal G.I. (18.1, 5.11 e 16.11.1991), dopo aver spiegato che egli era stato capo del Nucleo Operativo Diretto (N.O.D.) e di aver operato agli ordini del generale Maletti, capo del Reparto D, riferiva che dal 16 gennaio 1973 aveva avuto numerosi colloqui, in tutto sei o sette, con Remo Orlandini, colloqui che aveva registrato e fatti trascrivere; precisava il Labruna che sia i nastri che le trascrizioni erano stati trasmessi al colonnello Romagnoli, capo della terza sezione del S.I.D. il quale aveva l’incarico di coordinare le indagini sotto la direzione del Maletti. Il Labruna non era in grado di spiegare il perché all’Autorità giudiziaria fossero stati consegnati solo due di quei nastri, relativi ai colloqui con Remo Orlandini. In seguito il G.I. accerterà che i colloqui registrati erano stati almeno dieci ed erano avvenuti nell’arco di tempo compreso tra il 16.1 e il 28.6.1973. I relativi nastri erano infine acquisiti nel 1991 per il tramite del giornalista Norberto Valentini e successivamente del Labruna. Quanto al numero e all’oggetto di tali colloqui il G.I. assumeva le testimonianze dei marescialli del N.O.D. Di Gregorio Paolo e Giuliani Nicola, ai quali era stato affidato l’incarico di ascoltare e trascrivere le registrazioni effettuate dal cap. Labruna; dalle loro dichiarazioni il G.I. desumeva che i colloqui registrati erano stati undici, sicché era mancante un nastro, dato che i due sottufficiali avevano riferito che in una delle registrazioni, non compresa tra quelle consegnate, in un colloquio Labruna/Orlandini si era fatto riferimento a un attentato al ministro Rumor, progettato dall’Orlandini. Entrambi i testi avevano anche riferito di essere rimasti sorpresi dall’oggetto di quel colloquio, tanto che l’avevano commentato con espressioni del tipo “ma quello è pazzo”, riferendosi all’Orlandini. A seguito delle dichiarazioni rese da Giorgio Sorteni il 25 febbraio ’75 avanti la Corte d’assise di Milano, l’ammiraglio Casardi, capo del S.I.D., confermava con una missiva che il Bertoli era stato un informatore del S.I.F.A.R. nel periodo dal novembre 1954 e che quella sua attività era cessata nel marzo 1960 a causa dello scarso rendimento fornito. In proposito il G.I., nel corso di un accesso agli archivi del SISMI compiuto nel 1991, accertava che appunto il Bertoli aveva collaborato con il SIFAR nel periodo suddetto, sotto il nome convenzionale “Negro”, e che in tale veste aveva fornito informazioni circa le attività che erano svolte in alcune sedi del Partito Comunista Italiano, in cui si era infiltrato. Erano rinvenuti anche alcuni appunti allegati a rapporti inseriti nel fascicolo del Bertoli; tra questi uno datato 1.6.73 a firma Viezzer (colonnello, all’epoca capo della segreteria del reparto D) del seguente letterale tenore: “da cap. Di Carlo – prega di non dare all’autorità giudiziaria, se non importante ed indispensabile, le notizie sul Bertoli contenute nell’allegato due”, nonché altro, siglato dal generale Maletti in data 21 maggio, con l’annotazione “Viezzer – non farne uso per ora”. Da un documento rinvenuto negli archivi del SISMI il G.I. riteneva di poter desumere che in realtà il Bertoli aveva proseguito la propria attività di informatore fino al 1966 o, comunque, era stato riassunto in servizio fino a quell’anno. Infatti nella scheda “titolo 225, sottotitolo 4, pratica 4bis - segreteria anno 1966 - oggetto informatore “Negro” - era apposta l’annotazione “cessato” scritta di pugno dal colonnello Viezzer. Quest’ultimo, sentito l’8 novembre 1991, affermava di aver apposto sulla scheda detta annotazione sicuramente dopo il giugno ’71 e, considerato che la scheda recava la data del 1966, deduceva che la collaborazione con l’informatore Negro doveva essere ancora in corso in quell’anno. Il Viezzer affermava tra l’altro che nel periodo in cui erano avvenuti i colloqui tra l’Orlandini e il capitano Labruna aveva sentito parlare di un progetto di attentato in danno dell’On. Rumor ma non era in grado ricordare chi gliene avesse parlato. Personalmente non si era interessato delle indagini su Bertoli dopo la strage della Questura. Attività di indagine sull’autore materiale dell’attentato erano state compiute dal colonnello dei carabinieri Di Carlo Vitaliano, all’epoca in servizio al SID; questi aveva ricordato che, immediatamente dopo la strage, era stato inviato dal generale Maletti in Israele per svolgere indagini; di queste aveva riferito con un lungo rapporto, acquisito presso il SISMI, nel quale aveva precisato che Gianfranco Bertoli era collocato su posizioni di estrema sinistra e che lo stesso in Israele aveva avuto contatti con i fratelli Jemmy, dei quali però non aveva accertato rapporti con Ordine Nuovo. Procedendo dagli elementi di perplessità ingenerati dalla versione di Gianfranco Bertoli circa il proprio espatrio nonché tenuto conto delle testimonianze relative alla sua presenza in Italia (non solo quelle del Borelli e dei fratelli Sorteni ma anche di chi lo aveva incontrato a Parigi, infine degli accertamenti della polizia francese su sue saltuarie presenze a Marsiglia) il G.I. svolgeva ulteriori indagini per appurare in quale modo il Bertoli fosse riuscito ad essere ammesso nel kibbutz di Karmia in Israele. Gli accertamenti, sia di natura documentale che testimoniale, consentivano di acclarare che il Bertoli aveva ottenuto in pochi giorni e con facilità, inusuale quanto sospetta, l’autorizzazione ad emigrare nello stato di Israele e l’assegnazione al kibbutz, in contrasto con la procedura normalmente seguita, consistente in lunghi e meticolosi accertamenti e visite mediche. Tutto ciò induceva il G.I. ha ipotizzare che il Bertoli, per quel suo espatrio e sistemazione in Israele, avesse fruito dell’appoggio dei Servizi Segreti italiani con i quali risultava aver collaborato certamente fino al 1966 e con tutta probabilità fino al 1971. La citata ordinanza/sentenza del G.I. di Milano dedica ampio spazio alle dichiarazioni, ritenute di notevole interesse, rese nel corso dell’istruttoria da Vincenzo Vinciguerra, da Giuseppe Albanese e da Ettore Malcangi, oltre alle deposizioni testimoniali dell’On. Mariano Rumor e del Senatore Paolo Emilio Taviani. Vincenzo Vinciguerra, sentito dal G.I. il 3 gennaio e il 5 febbraio 1992, teneva a chiarire di non essere né un dissociato né un pentito ma solo di aver voluto dimostrare per amore di verità, anche scrivendo il libro “Ergastolo per la libertà”, che la linea stragista, quella che sarebbe stata definita “strategia della tensione”, era perseguita da appartenenti agli apparati di sicurezza con l’intento di destabilizzare la situazione politica e dell’ordine pubblico, creando con gli attentati e le stragi, caos, insicurezza e sentimenti di ribellione da cui sarebbe derivata la necessità di uno stato forte, di svolte autoritarie con le relative leggi di emergenza. Il Vinciguerra confermava quanto in precedenza, nel 1984, aveva dichiarato ai Giudici Istruttori di Venezia e Bologna e cioè che Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi per ben tre volte gli avevano proposto di compiere un attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor. Ciò era avvenuto una prima volta nel 1971 fuori dal ristorante Diana, sito tra Udine e Trigesimo, la seconda volta a Udine nell’autunno dello stesso anno, infine nel febbraio/marzo ’72; gli era stato assicurato che avrebbe potuto introdursi agevolmente nella villa dell’On. Rumor dato che la scorta del ministro non gli avrebbe creato problemi; egli non aveva aderito a quelle proposte sia perché non aveva compreso il senso politico di quell’attentato sia perché aveva sospettato che questo potesse riguardare più una logica di conflitto di potere all’interno di apparati statali che un’azione politica rivoluzionaria; aveva inoltre avuto il sentore di un coinvolgimento dei servizi segreti tenuto conto della connivenza della scorta del ministro così come gli era stato fatto intendere. Il Vinciguerra ha, tra l’altro, affermato che, successivamente alla strage compiuta davanti alla Questura di Milano, negli ambienti dell’estremismo di destra Gianfranco Bertoli era indicato come persona vicina a Ordine Nuovo. Giuseppe Albanese, sentito dal G.I. nel carcere di Volterra il 20 giugno ’92, dichiarava che dopo la strage era stato detenuto a lungo con il Bertoli il quale, gradualmente, gli aveva confidato di essersi spacciato per elemento della sinistra allo scopo di sviare le indagini; che, in realtà, era andato in Israele per combattere il terrorismo di sinistra; che erano stati i servizi segreti italiani, in contatto con quelli israeliani, a favorire il suo espatrio ed il suo soggiorno nel kibbutz; che poteva lasciare il kibbutz e lo stato di Israele quando voleva, cosa che aveva fatto alcune volte; che la bomba a mano utilizzata nell’attentato alla Questura gli era stata fornita da un camerata di Milano e che un gruppo di camerati aveva il compito di coprirlo la mattina del 17 maggio ’73 al momento dell’attentato e di favorirgli la fuga; che il suo scopo era quello di attentare alla vita dell’On. Rumor; che, infine, era stato istruito su ciò che avrebbe dovuto dire nel caso fosse stato catturato, cioè di essere un anarchico e di avere agito da solo. Angelo Izzo, sentito il 23 aprile e il 10 giugno 1994, riferiva che in un giorno non precisato del maggio ’73 Enzo Dantini si era fatto consegnare cinque o sei milioni di lire (parte del provento di una rapina) perché doveva consegnarli a Marsiglia a un individuo per un’azione clamorosa che avrebbe dovuto essere commessa a Milano. Qualche tempo dopo, nel corso di colloqui nei quali gli aveva rivelato alcuni particolari al riguardo, Dantini gli aveva detto che l’uomo con cui si era incontrato a Marsiglia era il Bertoli, che l’attentato era diretto a uccidere il ministro Rumor, che Bertoli aveva commesso un errore nel lanciare la bomba, che lo stesso non avrebbe mai confessato la vera matrice dell’attentato, che al momento dell’azione si trovavano nei pressi, in funzione di appoggio, alcuni camerati; che, secondo quanto prestabilito, il Bertoli dopo l’attentato doveva essere condotto in una località del Veneto in una casa di cui disponeva un camerata esperto in arti marziali e che, proprio per tale ragione, era soprannominato “Samurai”; Izzo aggiungeva che, se l’attentato fosse riuscito, non si escludeva l’eliminazione del Bertoli per mano di lui stesso Izzo e del Ghira. Malcangi Ettore, sentito il 3 luglio 1995, riferiva che Carlo Digilio (persona con la quale era espatriato clandestinamente a Santo Domingo) gli aveva parlato di una riunione nei primi mesi del 1973, a Verona, alla quale avevano preso parte anche il Fumagalli, Spiazzi e Frasca, generale dei carabinieri, e che quella riunione era preparatoria di un evento importante, come un colpo di Stato. Malcangi dichiarava di aver appreso da Marco Rebosio che era stato Giuliano Bovolato a consegnare la bomba al Bertoli il giorno precedente l’attentato. Il Rebosio ammetterà di aver fatto parte delle Squadre d’Azione Mussolini (S.A.M.) sostenendo però di non ricordare, dato il lungo tempo trascorso, se Bovolato gli avesse detto di aver consegnato la bomba al Bertoli. L’On. Mariano Rumor, presunto bersaglio dell’attentato del 17.5.73, dichiarava di non aver mai sentito parlare della preparazione di un attentato nei suoi confronti anche se ben capiva la ragione per cui estremisti di destra potessero coltivare tali propositi posto che egli, nella sua qualità di Ministro degli Interni, aveva contrastato attivamente le violenze della destra eversiva, tanto da aver presentato alla magistratura romana un esposto contro Ordine Nuovo per violazione della legge Scelba; a seguito di quell’esposto, nel novembre 1973, quel movimento era stato sciolto con decreto del ministro degli interni pro tempore, On. Paolo Emilio Taviani. Quest’ultimo, in relazione all’attentato compiuto dal Bertoli, escludeva che lo stesso potesse aver agito alle dipendenze dei servizi segreti israeliani dato che questi erano soliti agire direttamente ed esclusivamente per un loro esclusivo interesse. Non riteneva che Bertoli avesse agito da solo e di propria iniziativa, suggerendo di indagare su eventuali contatti tra il Bertoli e gli uomini del generale Maletti. Altro importante capitolo dell’ordinanza del G.I. è dedicato alla vicenda della così detta strage annunciata, ed ai relativi accertamenti, oggetto delle dichiarazioni rese da Ivo Dalla Costa. Questi, funzionario del Partito Comunista Italiano fin dal 1950, aveva chiesto di essere sentito dal G.I. al quale il 24 marzo 1995 riferiva quanto segue: già in epoca precedente alla strage di P.za Fontana (avvenuta nel dicembre 1969) aveva avuto contatti con il conte Pietro Loredan, che il teste descriveva come personaggio squinternato con velleità rivoluzionarie che intendeva perseguire con l’appoggio di forze estremiste, sia di destra che di sinistra; il Loredan, che all’epoca manteneva stretti contatti con la destra eversiva veneta, alle ore 6,30 del 15 maggio ’73 gli aveva telefonato dicendogli che doveva parlargli urgentemente e gli aveva fissato un appuntamento nel centro di Treviso; si era recato all’appuntamento e il Loredan gli aveva detto, secondo quanto testualmente riferito dal testimone, “questa volta spero che mi diate un po’ di fiducia: a Milano tra quarantotto ore succederà un attentato contro un’alta personalità del Governo e ne parlerà l’intera Italia. Avvisa chi di competenza”. Il Dalla Costa aveva ritenuto opportuno avvertire dell’informazione ricevuta i suoi referenti di partito a Venezia, dove si era subito recato in treno. Ritenendo il segretario provinciale non sufficientemente esperto, aveva preferito rivelare quanto appreso dal Loredan all’On. Ceravolo. membro del Comitato Regionale Veneto del P.C.I. Il Ceravolo aveva deciso, seduta stante, di recarsi con lui in auto a Milano dove erano giunti intorno alle ore 11 di quella stessa mattina; il Ceravolo però, prima di partire, aveva fatto telefonare alla direzione del P.C.I. a Roma chiedendo che l’On. Pajetta si recasse immediatamente a Milano. Questi aveva raggiunto Milano in aereo e a lui, nonché all’On. Malagugini (all’epoca giudice della Corte Costituzionale), aveva riferito quanto affermato da Pietro Loredan e riportatogli da Ivo Dalla Costa. L’On. Malagugini si era assunto l’incarico di informare immediatamente l’autorità giudiziaria, in persona del Sostituto Procuratore Alessandrini. Precisava il teste che, dopo aver avuto notizia della strage, non aveva chiesto all’On. Malagugini se avesse avvertito il dr. Alessandrini né aveva più incontrato il Loredan. Di quanto sopra non aveva riferito prima, mantenendo il segreto per tanti anni anche per non coinvolgere i due uomini politici (ormai deceduti) ma si era deciso a parlare quando, due giorni prima di essere sentito dal G.I., aveva letto sul Corriere della Sera un’intervista a Bertoli il quale aveva ribadito di aver compiuto la strage da solo; alla lettura di tale affermazione si era indignato e aveva ritenuto di dover rivelare quanto a sua conoscenza Poiché Pietro Loredan risultava deceduto nel settembre 1994, sui fatti riferiti da Ivo Dalla Costa era sentito l’On. Ceravolo il quale, preso tempo per mettere meglio a fuoco i propri ricordi, confermava sostanzialmente l’episodio di che trattasi ricordando che appunto il Dalla Costa gli aveva parlato di un grave atto eversivo, un attentato, il cui verificarsi a Milano era dato per imminente; confermava che l’incarico di informare immediatamente la magistratura milanese era stato affidato all’On. Malagugini ma non ricordava se si fosse accennato al P.M. Alessandrini. Nel prosieguo delle indagini, il G.I. riteneva di notevole interesse per ricostruire l’attività di Ordine Nuovo nel Veneto tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta le dichiarazioni rese da Martino Siciliano, persona che aveva fatto parte del gruppo di Ordine Nuovo di Mestre fino alla fine del 1972 e che aveva avuto contatti con esponenti dei gruppi ordinovisti di Venezia, Udine, Verona e Trieste fino al 1974, anno nel quale si era trasferito in Francia. Negli interrogatori del 14.10.95 e del 3.7.97 Martino Siciliano, per quanto attiene a Gianfranco Bertoli, pur non avendolo conosciuto, affermava di averne sentito parlare nell’ambito di Ordine Nuovo a Venezia. Ricordava, in particolare, che alcuni giorni dopo la strage della Questura, in un colloquio avuto con Carlo Maria Maggi nell’ospedale geriatrico in cui questi lavorava aveva appreso che lo stesso Maggi, fin dai tempi in cui frequentava l’Università di Padova, conosceva Gianfranco Bertoli; quest’ultimo, a detta del Maggi, non era un anarchico bensì un camerata; Maggi gli aveva detto anche di aver mantenuto contatti con il Bertoli anche nel periodo in cui questi si trovava all’estero. Analoghi discorsi, vale a dire essere il Bertoli un camerata e non un anarchico, gli erano stati fatti da Delfo Zorzi, con il quale aveva parlato circa quindici giorni dopo la strage di Milano; lo Zorzi gli aveva detto che l’episodio Bertoli rientrava nella strategia di Ordine Nuovo. Martino Siciliano dichiarava inoltre che nei primi anni settanta aveva sentito parlare, nell’ambito di Ordine Nuovo, di eliminare – nell’ottica della strategia del gruppo – un importante uomo politico; Zorzi, Maggi e Molin avevano anche fatto il nome dell’On. Rumor ma non era in grado di riferire del progetto nei dettagli, anche perché sospeso da Ordine Nuovo nel 1972. Nulla sapeva delle proposte fatte al Vinciguerra di uccidere l’On. Rumor. Siciliano dichiarava infine di aver frequentato in quegli anni il locale “Graspo de uva” sito in Spinea (provincia di Venezia), un locale che apriva alle quattro del mattino ed era meta abituale di nottambuli; il locale era frequentato tra gli altri da Delfo Zorzi, da Giampiero Mariga, dal Sedona e dal Bertoli. Mariga, con cui intratteneva rapporti di stretta amicizia, gli aveva confidato che Bertoli andava e veniva da Israele e che lo aveva incontrato più volte a Spinea nel 1972. Mariga aveva anche detto di aver appreso dal Bertoli che lo stesso, nel kibbutz, era stato addestrato all’uso di armi ed esplosivi e che godeva di grande libertà dato che era protetto dai servizi segreti israeliani. Seguendo lo sviluppo delle indagini sulla strage del 17 maggio ’73 una trattazione più dettagliata, così come fatto dal G.I., spetterebbe alle dichiarazioni rese da Carlo Digilio nel corso di vari interrogatori, all’attendibilità dello stesso e del suo racconto nonché agli elementi di riscontro individuati. Qui ci si limiterà, invece, a un breve cenno atteso che quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia, con particolare riferimento al coinvolgimento di Maggi, Neami e Boffelli come organizzatori e mandanti della strage, sarà oggetto di approfondita disamina sia nella motivazione della sentenza di primo grado sia in quella di appello (di cui si dirà), infine in quella della Suprema Corte che sancirà come inutilizzabili le dichiarazioni del Digilio, ritenute inattendibili, nell’accertamento delle penali responsabilità degli attuali imputati. Carlo Digilio - all’epoca dei fatti per cui si procede pienamente inserito nell’ambito del gruppo ordinovista dei Venezia Mestre, indicato come armiere del gruppo, in stretti rapporti con Marcello Soffiati, Carlo Maria Maggi, Neami e Boffelli – operata una scelta collaborativa, talora rivelatasi e ritenuta utile in altri procedimenti penali, riferiva al G.I. che in data imprecisata, ma collocata nel lasso temporale compreso tra uno o due mesi prima della strage alla Questura di Milano, aveva abitato per cinque o sei giorni nell’abitazione del Soffiati, in via Stella a Verona, con l’incarico di controllare la situazione di una persona, Gianfranco Bertoli, anch’essa ospite di quella casa. Affermava, in particolare, che il Bertoli era ivi trattenuto per essere convinto e istruito dal Neami in vista dell’esecuzione di un attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor che lo stesso Bertoli avrebbe dovuto eseguire, su come avrebbe dovuto agire e su ciò che avrebbe dovuto dire nel caso fosse stato arrestato. Il Giudice Istruttore ha indicato quali elementi di conferma alle dichiarazioni del Digilio quelle rese da Pietro Battiston, da Gabriele Forziati, da Dario Persic, da Anna Maria Bassan, da Gallo Rosa, da Gobbi Giuseppina, ritenendo infine pienamente attendibile quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia a carico degli attuali imputati e in ordine alle rispettive responsabilità nei fatti che qui riguardano. Traendo le conclusioni della lunga e laboriosa indagine il G.I. ha ritenuto innanzitutto non veritiera la versione fornita da Gianfranco Bertoli (da ultimo ribadita con interviste rilasciate nel 1997). Questi, ribadita la tesi, sempre sostenuta, di avere agito da solo come anarchico individualista nell’esecuzione della strage del 17 maggio 1973, dopo gli arresti di Maggi, Neami e Boffelli quali concorrenti in quel delitto, si era limitato ad affermare una propria conoscenza occasionale con il Maggi (che sapeva essere un medico che una volta gli aveva fatto una ricetta) e di aver conosciuto Boffelli negli anni cinquanta; a Verona c’era stato ma sempre in quegli anni, quando vendeva impermeabili. Il G.I. riteneva le affermazioni di Bertoli – non interrogato a causa di un tentativo di suicidio compiuto il 18.6.97 – smentite dai suoi provati rapporti con estremisti di destra come dimostrato dall’avere lo stesso Bertoli fornito ospitalità, nel kibbutz israeliano, ai fratelli Jemmy (entrambi risultati inseriti nel movimento eversivo di destra Ordre Nouveau), dalle frequentazioni con il Sedona e con il Mariga, dall’amicizia con Boffelli e dai rapporti intrattenuti con Carlo Maria Maggi come riferito da Martino Siciliano e da Pietro Battiston. Si era, inoltre, dimostrata falsa l’affermazione del Bertoli di non essersi mai allontanato dal kibbutz di Karmia dal 26.2.71 all’8.5.73 dato che ciò era stato smentito dalle testimonianze di Giuseppe Albanese, dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni, di Serra Santolo e di Martino Siciliano, oltre che dagli accertamenti di polizia compiuti a Marsiglia nell’Hotel du Rhone. Il G.I., ritenute attendibili le dichiarazioni rese da Carlo Digilio nei confronti di Maggi, Neami e Boffelli, indicava i seguenti elementi di conferma delle stesse: 1) le dichiarazioni di Cavallaro, Vinciguerra, Albanese e Izzo; 2) i fatti riferiti da Pietro Loredan, 3) l’appartenenza dei tre imputati alla stessa area di Ordine Nuovo; 4) la conoscenza e i rapporti di Bertoli con Boffelli; 5) la conoscenza di Bertoli da parte del Maggi; i rapporti tra Mariga e Bertoli; 6) quanto emerso in relazione alla saltuaria presenza in Italia di Gianfranco Bertoli, circostanza compatibile con la presenza di questi nell’appartamento di via Stella a Verona; 7) la conferma provenuta da Dario Perisch circa la presenza di uno sconosciuto nell’abitazione del Soffiati in un periodo temporale in cui il Bertoli sarebbe stato ospite nella casa di via Stella. Il G.I. ha ritenuto poi di poter ravvisare con certezza nella linea stragista dell’estrema destra eversiva, in particolare del gruppo ordinovista di Venezia Mestre, la matrice dell’attentato di via Fatebenfratelli e di affermare che questo aveva come vero bersaglio l’allora Ministro degli Interni On. Mariano Rumor sia per le immediate ammissioni dello stesso Bertoli sia per il fatto che nella formazione eversiva di che trattasi si era svolta, proprio in quel periodo, un’intensa attività preparatoria diretta a quel fine. Il che, inoltre, risultava dai colloqui di Antonio Labruna con il Lercari e con l’Orlandini (il secondo non trasmesso alla A.G.) nei quali si parlava di un attentato alla vita dell’On. Rumor. In proposito sono richiamate le dichiarazioni rese da Roberto Cavallaro fin dal 1974, nonché da Giuseppe Albanese, da Vincenzo Vinciguerra e da Angelo Izzo. Gli stessi Izzo, Siciliano e Vinciguerra, oltre a Pietro Battiston, avevano indicato il Maggi come sostenitore della linea stragista nell’ambito di Ordine Nuovo. Ha ritenuto il G.I. che il gruppo ordinovista si era servito, per compiere l’attentato contro l’On. Rumor, di Gianfranco Bertoli sia per la disponibilità di questi a compiere atti criminosi, sia per il fatto che era esperto nell’uso di armi ed esplosivi, sia infine perché persona facilmente suggestionabile; ma, soprattutto, ci si era serviti di lui per poter attribuire una matrice anarchica all’attentato, in coerenza con la tecnica della mimetizzazione più volte attuata in quegli anni dalla destra eversiva. Il Giudice Istruttore, con la più volte citata ordinanza/sentenza, disponeva il rinvio a giudizio avanti la Corte d’assise di Milano, tra gli altri e per varie imputazioni, degli attuali imputati per rispondere del delitto di strage e dei reati connessi. Indicava per ciascuno i seguenti e più rilevanti elementi di prova: quanto a Carlo Maria Maggi: nell’aprile del 1957 Maggi aveva costituito a Venezia la prima sezione del “Centro Studi Ordine Nuovo”; nel ’64 era entrato a far parte del direttivo nazionale di Ordine Nuovo ed era stato nominato ispettore per il Triveneto; aveva diretto il gruppo di Ordine Nuovo di Venezia Mestre negli anni 1969-1973, mantenendo i contatti in particolare con i gruppi di Verona e Trieste. Il coinvolgimento di Maggi nell’attentato all’On. Rumor era risultato dalle dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra. Dalle dichiarazioni di Carlo Digilio era emerso il ruolo centrale di Maggi nell’organizzazione dell’attentato compiuto da Gianfranco Bertoli contro Rumor e dette dichiarazioni risultavano confermate dagli accertati collegamenti di Maggi con i gruppi di Verona e Trieste, dagli stretti rapporti intrattenuti dall’imputato con Soffiati, Boffelli, Neami e Digilio, dalle dichiarazioni di Martino Siciliano circa i rapporti tra lo stesso Maggi e il Bertoli, dai contatti di Bertoli con elementi di Ordine Nuovo di Mestre e in particolare con Mariga, dalla telefonata compiuta dal Mersi il 16 maggio 1973 come riferita dal teste Mazzeri, dal coinvolgimento di Maggi nell’episodio dell’avv. Forziati con il Digilio e il Neami, infine dall’aver propugnato teorie stragiste come riferito da Pietro Battiston, Marzio Dedemo e Martino Siciliano. Quanto a Giorgio Boffelli, dall’istruttoria era risultato che aveva sempre frequentato a Venezia gli ambienti dell’estrema destra. Dal novembre 1966 all’ottobre ’67 aveva fatto il mercenario in Congo, arruolato da Italo Zambon. Per circa dieci anni, fino al 1977, nella trattoria veneziana “Lo Scalinetto” gestito dalla convivente Giusepina Gobbi, si era incontrato spesso con il Maggi (del quale era anche guardaspalle) nonché con il Digilio e il Soffiati. Boffelli era in rapporti di amicizia con il Mariga il quale a sua volta era in stretti rapporti con il Bertoli. Dalle dichiarazioni di Carlo Digilio era risultato essere stato proprio il Boffelli a suggerire al Maggi di affidare al Bertoli l’incarico di uccidere Rumor, in considerazione della abilità del Bertoli nell’uso delle armi. Era stato fatto intervenire il Boffelli nell’appartamento di via Stella per convincere e rincuorare il Bertoli, oltre che per sorvegliarlo sostituendosi al Digilio, quando Bertoli aveva mostrato riluttanza a compiere il progettato attentato all’On. Rumor. Era sempre stato il Boffelli, qualche giorno dopo il fallito attentato, a rispondere al Maggi, che gli chiedeva spiegazioni, che tutti possono sbagliare, evidentemente riferendosi all’errore nel lancio della bomba commesso dal Bertoli. Frase che il Boffelli, ammessa la propria conoscenza con il Bertoli, aveva tentato invano di spiegare diversamente. Infine l’imputato, nel corso dell’interrogatorio, aveva detto che Bertoli, oltre al francese, parlava l’ebraico così mostrando di averlo visto dopo il ritorno da Israele. Al riguardo non era ritenuta attendibile la spiegazione fornita dal Boffelli di aver appreso quel particolare dalla lettura di un giornale. Francesco Neami era stato responsabile del Centro Triestino di Ordine Nuovo ricoprendo anche la carica di dirigente del settore organizzativo giovanile del M.S.I. ma nel 1973 era stato espulso dal partito per indisciplina. Da quanto dichiarato da Carlo Digilio era risultato che il Neami aveva partecipato all’organizzazione e ai preparativi dell’attentato contro il ministro Rumor istruendo il Bertoli sull’azione che doveva compiere, sull’uso della bomba, sul piano di fuga e sulle risposte che avrebbe dovuto fornire in caso di arresto. Le indagini avevano confermato i collegamenti del Neami con Maggi e Digilio e, in particolare, era risultata la partecipazione dello stesso Neami all’episodio dell’avv. Forziati, che aveva visto il coinvolgimento delle medesime persone che in seguito avrebbero partecipato alla preparazione del Bertoli in vista dell’attentato. Infine il Neami, negli interrogatori, aveva ammesso la propria partecipazione all’episodio Forziati e i propri assidui contatti con Maggi. La sentenza di primo grado Il processo avanti la Corte d’assise di Milano aveva inizio l’11 giugno 1999 in presenza tra gli altri degli imputati Maggi, Boffelli e Neami e, dopo numerose udienze, si concludeva l’11 marzo 2000, data in cui era data lettura del dispositivo. Come si è detto in premessa, la Corte d’assise ha dichiarato Boffelli Giorgio, Maggi Carlo Maria, Neami Francesco e Spiazzi Amos penalmente responsabili del delitto di strage di cui al capo A della rubrica (artt. 110, 112 n.1 e 422 C.P.) condannandoli alla pena dell’ergastolo; quanto a Digilio Carlo, in ordine allo stesso delitto, riconosciuta la diminuente di cui all’art. 4 L. 6.2.80 n.15, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Maggi, Boffelli, Neami e Spiazzi sono stati altresì condannati, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite, tra le quali il Comune di Milano. La motivazione della sentenza di primo grado pone come premessa un dato di fatto, ritenuto assolutamente certo e attendibile, tale da un lato da dimostrare la falsità dell’affermazione di Gianfranco Bertoli di avere agito da solo, senza mandanti e appoggi, dall’altro comprovante che ideazione ed esecuzione dell’attentato di via Fatebenefratelli era da attribuirsi a ben precisi ambienti della destra eversiva veneta: la strage compiuta il 17 maggio 1973 davanti alla Questura di Milano era stata annunciata, sia due giorni sia circa due mesi prima che avvenisse, da due fonti, tanto autonome quanto attendibili, cioè dalle informazioni fornite a Ivo Dalla Costa dal conte Pietro Loredan e dai colloqui (debitamente registrati) avvenuti tra il capitano Antonio Labruna e Remo Orlandini. E’ presa in esame, per prima, la vicenda Loredan/Ivo dalla Costa. La Corte di primo grado, prescindendo dal fatto che il Dalla Costa è un testimone, ha compiuto un approfondito esame della sua personalità, delle sue attività politiche e culturali, della sua personale attendibilità pervenendo a escludere “senza alcuna incertezza” che si tratti di un mistificatore. La generale attendibilità del teste e, in particolare, di quanto dallo stesso riferito al G.I., secondo i primi giudici ha trovato pieno riscontro, da una lato, nella testimonianza totalmente confirmatoria del Ceravolo il quale, sia pur dopo qualche iniziale esitazione, ha riferito dei fatti in questione in totale concordanza con il Dalla Costa, da altro lato nelle testimonianze (Universo, Alvise Loredan, Stimamiglio) e nei rapporti di polizia riferiti alla personalità e all’attività politica svolta all’epoca da Pietro Loredan, ai contatti di questi con elementi della destra eversiva che si riunivano nel locale “la Falconiera” dello stesso Loredan, in particolare ai rapporti con Giovanni e Luigi Ventura e alla concreta possibilità che il Loredan, assiduo frequentatore della casa di Giovanni Ventura (all’epoca detenuto ma spesso visitato in carcere dai famigliari), per quella via avesse potuto venire a conoscenza dell’attentato che si stava preparando. La Corte di primo grado sottolinea poi che, come riferito dal teste Stimamiglio, proprio in quel periodo Ordine Nuovo aveva in progetto di attuare una serie di attentati per creare uno stato di tensione su cui doveva innestarsi un possibile intervento militare. Sicché, osservano i primi giudici, è ben possibile che il Loredan avesse appreso in quel contesto, da fonte attendibile, del tempo e del luogo dell’attentato. Non a caso, si osserva ancora, il Loredan nei giorni immediatamente successivi alla strage manifesterà uno stato di paura e di forte agitazione e, dopo poco tempo, alienerà tutti i suoi beni per allontanarsi dall’Italia almeno fino al 1994. I primi giudici, sulla scorta delle testimonianze assunte, hanno escluso che l’On. Malagugini avesse informato l’autorità giudiziaria di quanto appreso da Ivo Dalla Costa e dall’On. Ceravolo, forse perché non ritenuta sufficientemente attendibile la loro fonte. I giudici di primo grado, sulle tracce dell’ordinanza del G.I., hanno attribuito grande rilievo probatorio alla vicenda Orlandini/Labruna per attribuire all’eversione di destra, in particolare a elementi di Ordine Nuovo, il progetto di uccidere il ministro degli interni On. Mariano Rumor nonché la conoscenza di quel progetto da parte dei servizi segreti e il mancato attivarsi di questi per opporvisi e sventare quanto poi accaduto davanti alla Questura di Milano il 17 maggio ‘73. Ad avviso dei giudici di primo grado le affermazioni dell’Orlandini si pongono in perfetta sintonia con le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra secondo il quale, per almeno vent’anni, strutture dello Stato (i Servizi) avevano perseguito la c.d. strategia della tensione, una strategia difensiva e improntata a spiccato anticomunismo, intesa a garantire alle classi politiche dominanti il mantenimento del potere, strategia riducibile alla formula “destabilizzare per stabilizzare”; ciò doveva appunto avvenire mediante la diffusione nella popolazione di senso di insicurezza a causa di atti terroristici eclatanti che dovevano essere commessi a tale scopo; per il conseguimento di tali fini, appartenenti a quelle strutture dello Stato si servivano dei gruppi estremisti di destra (i quali vivevano nell’aspettativa salvifica dell’intervento delle Forze Armate); gli attentati dovevano poi essere attribuiti alla sinistra. Per tale ragione gli autori dei più gravi attentati avvenuti in Italia in quegli anni avevano fruito di interventi di sviamento e copertura. Uno di tali atti eclatanti, pienamente rientrante nella strategia della tensione, era stato appunto l’attentato compiuto dal Bertoli alla Questura di Milano e avente come bersaglio il ministro degli Interni Mariano Rumor. In proposito i giudici di primo grado richiamano la testimonianza resa da Torquato Nicoli, appartenuto al Fronte Nazionale dal quale però, appreso del tentativo di golpe del dicembre ’70, si era allontanato non fidandosi più delle persone che ne facevano parte: “detti le dimissioni – aveva affermato il Nicoli – e non partecipai all’attività del Fronte; pur abbandonando il Fronte conservai una serie di conoscenze: seppi che il Borghese scappò in Spagna, dell’arresto dell’Orlandini e del passaggio della direzione del Fronte al dr. Ciabatti della Direzione di Grosseto. Conservai un rapporto amichevole con De Marchi; anche a me De Marchi propose di entrare a far parte del suo gruppo, assumendo che era imminente un colpo di Stato; nel chiedermi di partecipare all’operazione il De Marchi disse che la situazione era matura, che avevano tanti soldi, che c’era l’adesione di militari del Nord, ed anzi che tutte le truppe dell’Italia settentrionale erano controllabili. Mi disse in particolare che c’erano dei generali e vari ufficiali superiori; successivamente nei numerosi incontri da me avuti in Svizzera con Orlandini, Lercari, Massa e altri del gruppo che stava movendosi, ho potuto ricostruire che era stata fissata un’epoca per il colpo di stato, intorno al settembre 1973”. Torquato Nicoli aveva anche affermato che negli ambienti del Fronte Nazionale, che egli non aveva mai cessato di frequentare, “si era parlato dell’utilizzazione di elementi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale per atti violenti”. Affermava infine il Nicoli che nel 72/73 i gruppi del Fronte Nazionale, di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo si erano sostanzialmente fusi dato che gli appartenenti al Fronte Nazionale si iscrivevano anche a Ordine Nuovo e ad Avanguardia Nazionale. I primi giudici, al riguardo, annotano che persino Antonio Labruna aveva ammesso che quei gruppi erano tutti quanti collegati. Da ultimo nella motivazione si citano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Roberto Cavallaio il quale, sin dal 28 febbraio 1975, aveva riferito al G.I. di Roma che Amos Spiazzi più volte gli aveva detto che egli “subordinava l’intervento delle Forze Armate a uno stato di particolare tensione”; nell’ambito di tali discorsi, aveva aggiunto il Cavallaro, lo Spiazzi parlava dell’organizzazione Ordine Nuovo come l’unica, in quel momento, capace di compiere fatti concreti. La Corte di primo grado, data per pacificamente acclarata l’esistenza, in quegli anni, di una vera e propria strategia della tensione avente le finalità ampiamente illustrate, cioè creare le condizioni socio-politiche idonee a rendere necessario un colpo di Stato, ha individuato nel gruppo di estrema destra Ordine Nuovo una delle organizzazioni che avrebbe dovuto attuare quella strategia. I giudici di primo grado, poste tali premesse, dedicano la successiva parte della sentenza appellata all’oggetto del presente processo, vale a dire all’attentato compiuto da Gianfranco Bertoli alla vita dell’On. Rumor il 17 maggio 1973, nonché alle posizioni processuali dei tre attuali imputati, Maggi, Boffelli e Neami. Quanto al primo punto, l’attentato avente come bersaglio il Ministro degli Interni, sono richiamate innanzitutto le dichiarazioni rese il 2 agosto ’84 al G.I. di Bologna da Vincenzo Vinciguerra relative alla proposta, da questi ricevuta da parte di Carlo Maria Maggi e da Delfo Zorzi, di uccidere Mariano Rumor, accusa reiterata dal dichiarante il successivo 14 agosto al G.I. di Venezia nell’ambito dell’indagine sull’esistenza dell’associazione eversiva di cui lo stesso Vinciguerra faceva parte. Precisato che questi non era da considerarsi, tecnicamente, come collaboratore di giustizia, se non altro per non aver chiesto – per le sue dichiarazioni – corrispettivo alcuno allo Stato, ritenute altresì intrinsecamente attendibili e disinteressate tali dichiarazioni (si annota, al riguardo, che il Vinciguerra era reo confesso della strage di Peteano per la quale gli era stata inflitta la pena dell’ergastolo), la sentenza riporta ampi brani di quanto allo stesso riferito al G.I. e di poi confermato nella fase dibattimentale. I primi giudici, nella valutazione delle dichiarazioni del Vinciguerra, ritengono non possa prescindersi da alcune accertate circostanze di fatto, vale a dire: 1) in quel preciso torno di tempo, vale a dire i primi anni ’70, sia il gruppo ordinovista di Mestre, sia il gruppo di Udine perseguivano la strategia della tensione attraverso la linea stragista; 2) i fautori di tale linea di condotta, a Udine e a Venezia Mestre, erano per l’appunto i tre protagonisti degli incontri descritti dal Vinciguerra e cioè il Vinciguerra medesimo, per il gruppo di Udine, Maggi e Zorzi per il gruppo di Venezia Mestre. Tali circostanze erano da ritenersi avvalorate dalle pronunce del Tribunale e della Corte d’assise di Venezia circa l’operatività del gruppo ordinovista di Venezia Mestre e sulla figura di Delfo Zorzi, sulla freddezza e determinazione del quale nell’operare il salto di qualità della cellula nell’eversione dell’ordine costituito avevano concordemente riferito Martino Siciliano e Giancarlo Vianello. Sicché, si osserva, è più che verosimile che fosse proprio Zorzi ad accompagnare il Maggi nei reiterati incontri con Vinciguerra durante i quali si tentò con ogni mezzo di convincerlo ad eseguire l’attentato contro l’On. Rumor. Si osserva poi come il fatto che lo Zorzi sia stato prosciolto dal G.I. in relazione all’imputazione di strage, per il fatto che questi nel maggio 1973, si era già trasferito in Giappone, non implica in alcun modo l’inattendibilità di quanto riferito dal Vinciguerra. Le sue dichiarazioni, del resto, hanno trovato conferma e riscontro in quelle di Roberto Cavallaro, anch’egli a conoscenza sia del progetto di eliminare il ministro Rumor sia del luogo previsto in un primo tempo in cui lo stesso doveva essere colpito, cioè nella sua villa nel vicentino. Ulteriore conferma al Vinciguerra, secondo i giudici di primo grado, era venuta dal fatto provato che l’attentato compiuto dal Bertoli aveva effettivamente come bersaglio l’On. Rumor il quale, tra tutti gli uomini politici che potevano essere presi di mira, era quello che più aveva suscitato profonda irritazione negli ambienti dell’estrema destra ordinovista. Sul punto sono citate le dichiarazioni di Marco Affatigato, di Carlo Digilio e di Dario Persic; quest’ultimo, in particolare, aveva riferito al G.I. “io sapevo che Soffiati e gli altri non potevano soffrire Rumor perché era stato lui uno dei principali artefici dello scioglimento di Ordine Nuovo chiedendo l’applicazione della legge Scelba nei confronti di tale organizzazione”. Di fatto, si osserva, che fu proprio l’On. Mariano Rumor ad avviare il meccanismo che sfocerà nel provvedimento di scioglimento di Ordine Nuovo, anche se l’operazione sarà portata a termine dell’On. Taviani, succeduto a Rumor al ministero degli Interni. La Corte d’assise osserva a questo punto, quanto all’imputazione di strage di cui al capo A della rubrica, che dalle molteplici fonti di prova, eterogenee e autonome, è dimostrato che: 1) la strage di via Fatebenefratelli poteva essere evitata in quanto da più parti annunciata; 2) la responsabilità della strage è da attribuirsi all’estrema destra eversiva; 3) la strage si inserisce a pieno titolo nella strategia della tensione che in quegli anni ha avuto di mira la destabilizzazione del Paese, in realtà per stabilizzarlo; 4) tra i protagonisti della strategia della tensione vi era la cellula eversiva di Ordine Nuovo di Venezia-Mestre, della quale era incontrastato capo carismatico Carlo Maria Maggi; 5) tale cellula sopravvisse alla riunificazione, solo di facciata, con il Movimento Sociale Italiano. Conclusioni queste, si sottolinea da parte dei primi giudici, alle quali si è pervenuti anche prescindendo dalle dichiarazioni di Carlo Digilio (rese al G.I. in cinque interrogatori, tra il 16 dicembre 1996 e il 25 giugno 1997), esaminate e valutate come segue nella motivazione della sentenza impugnata. Il collaboratore di giustizia, anch’egli imputato come concorrente nella strage materialmente compiuta da Gianfranco Bertoli, pur affermando di non aver fatto parte di Ordine Nuovo, affermava di avere avuto contatti assidui e prolungati con appartenenti a quell’organizzazione, quali il Maggi, Zorzi, Minetto, Boffelli, Neami e Marcello Soffiati. All’inizio del 1973 aveva appreso da Maggi e Zorzi del proposito di eliminare l’On. Rumor, della proposta fatta in tal al Vinciguerra nonché del fatto che questi si era rifiutato. Maggi non aveva rinunciato al progetto e gli rivelò che intendeva reclutare per quell’azione il Bertoli, descritto come frequentatore di un circolo anarchico di Mestre, il che – in caso di arresto – sarebbe servito per idonea copertura davanti all’opinione pubblica. Del Bertoli gli avevano parlato sia il Boffelli che il Neami, che Digilio conosceva come guardaspalle del Maggi; glielo avevano descritto come un mercenario che aveva soggiornato per qualche tempo in Israele, che era tornato in Italia e che era in procinto di ripartire per il Libano, sempre come mercenario. Era stato Marcello Soffiati a chiedere a lui, Digilio, di andare ad abitare per qualche tempo nella sua casa veronese di via Stella, dove avrebbe dovuto controllare la situazione, dato che in quella abitazione era stato portato il Bertoli. Nella casa del Soffiati si era trattenuto per cinque o sei giorni ed ivi aveva trovato il Bertoli (del quale descriveva abitudini e tratti caratteriali); erano pure presenti il Neami e, meno assiduamente, il Boffelli e il Maggi; il primo istruiva il Bertoli, anche con metodi violenti, su come si doveva comportare in occasione dell’attentato all’On. Rumor e su cosa avrebbe dovuto dire nel caso fosse stato arrestato (cioè di essere un anarchico, di avere agito da solo, di aver portato con sé la bomba da Israele). Neami, a detta del Digilio, faceva in modo di rafforzare il proposito del Bertoli, sollecitandone la vanità (tutta l’Italia avrebbe parlato di lui) e promettendogli una somma di denaro di alcuni milioni di lire. Nell’abitazione del Soffiati erano conservate armi e, in particolare, alcune bombe a mano tipo “ananas” provenienti da caserme americane. Alla fine della settimana Digilio aveva lasciato la casa di via Tella non sopportando più quella situazione e aveva preso il suo posto il Boffelli. Per un certo tempo non aveva più saputo nulla del Bertoli, salvo che sarebbe stato portato sul luogo dell’attentato da due persone; aveva poi appreso dai giornali e dalla televisione che l’attentato del Bertoli era fallito. Qualche giorno dopo la strage alla Questura di Milano, Digilio si era trovato a cena nella trattoria Lo Scalinetto con Maggi e Boffelli; Maggi, che appariva abbattuto, chiedeva continuamente a Boffelli come mai Bertoli avesse sbagliato e il Boffelli gli aveva risposto “siamo tutti esseri umani e tutti possono sbagliare”. Sicché, secondo i giudici di primo grado, 1) Maggi, in una con Zorzi, fino a che quest’ultimo era rimasto a Mestre, intendeva attentare alla vita del ministro degli Interni Mariano Rumor; 2) dopo il rifiuto reiteratamente opposto dal Vinciguerra alla richiesta di provvedere alla esecuzione materiale del piano, Maggi cercava un sostituto e stava prendendo in esame, su suggerimento di Boffelli, la persona di Gianfranco Bertoli, un uomo disposto a tutto non avendo nulla da perdere; 3) effettivamente Bertoli era stato prescelto, prelevato e condotto nella casa di Soffiati in via Stella a Verona; dopo aver appreso tutto ciò, Digilio accettava l’incarico di tenere sotto controllo la situazione, sufficientemente esplosiva per richiedere la supervisione di una persona accorta come lo stesso Digilio, esistente in quell’appartamento, dove Francesco Neami (esponente di Ordine Nuovo triestino) istruiva ma, prima ancora, stando alle stesse dichiarazioni di Digilio, tentava di condizionare il prescelto, superando le resistenze di lui e preparandolo psicologicamente alla dura prova che doveva affrontare. Dunque, si osserva, Carlo Digilio, per sue stesse ammissioni, doveva considerarsi reo confesso di concorso nella strage, secondo il suo specifico ruolo, come contestatogli nel capo di imputazione. Il che, vale a dire l’assunzione delle proprie responsabilità, implica di per sé un buon grado di attendibilità delle dichiarazioni del collaborante, stante la spontaneità e il disinteresse delle stesse. Quanto alla valutazione della chiamata di correo operata dal Digilio, ritenuta precisa, ricca di dettagli e intrinsecamente logica, i primi giudici osservano che ben poco rilievo assume l’affermazione, vera o no che fosse, del collaborante di aver mantenuto rapporti con gli ordinovisti perché informatore dei Servizi Segreti Americani, così come l’aver sostenuto di non avere mai fatto parte di Ordine Nuovo quando, invece, il ruolo attivo del Digilio nell’organizzazione (indicato anche come “armiere del gruppo”) è stato positivamente affermato da sentenze definitive e dalla sua assidua frequentazione di Carlo Maria Maggi, riferita concordemente da numerosi testimoni (Giuseppina Gobbi, compagna all’epoca di Giorgio Boffelli, Dario Persic, Pietro Battiston e Francesco Zaffoni, Martino Siciliano, Marzio Dedemo). La Corte di primo grado, in tema di attendibilità generale e intrinseca di Carlo Digilio ha sottolineato la concordanza delle dichiarazioni di questi con quelle di Martino Siciliano (rese in varie occasioni a Giudici Istruttori), su punti sia marginali sia di estrema importanza. Tra questi: il ruolo di Boffelli nell’ambito di Ordine Nuovo, il possesso da parte di costui di una penna-pistola calibro 22, le confidenze di Zorzi circa le responsabilità del gruppo per gli attentati ai treni nell’estate ’69, gli esplosivi nella disponibilità del gruppo e alla loro custodia, le armi detenute dal Soffiati nell’appartamento di via Stella, l’attentato alla scuola Slovena di Trieste, il ruolo del Tettamanzi come guardaspalle di Carlo Maria Maggi, il ruolo dello stesso Digilio nell’ambito di Ordine Nuovo nel reperimento, riparazione e adattamento di armi oltre a traffico di esplosivi. Le mansioni di armiere cui era destinato il Digilio hanno trovato conferma nelle dichiarazioni del Vinciguerra il quale ha affermato di averlo conosciuto tramite il Maggi con un nome di copertura, Otto, il che gli fece intendere che Digilio “era un quadro coperto di cui era necessario proteggere l’identità”. Ulteriore conferma di quel ruolo era provenuta da Angelo Izzo il quale aveva dichiarato al G.I. il 31.1.94 che da Franco Freda, nel carcere di Trani, aveva appreso che il fornitore degli esplosivi utilizzati anche nella strage di piazza Fontana a Milano e negli attentati precedenti era un personaggio del veneto soprannominato Zio Otto. Il Digilio finirà per annettere che proprio quello era il suo nome di copertura. Il tutto, secondo i primi giudici, sta a dimostrare l’assunto relativo al ruolo fondamentale che Carlo Digilio ricopriva nella cellula clandestina ed eversiva che faceva capo a Maggi; in conclusione, il punto di osservazione della operatività di quel gruppo era davvero privilegiato sicché, anche sotto tale profilo, l’attendibilità del collaboratore di giustizia è considerata elevatissima dal punto di vista intrinseco e generale. Attendibilità non posta in dubbio dalle condizioni fisiche del Digilio, colpito da ictus il 10 maggio ’95 quando la collaborazione con L’A.G. era in corso da un considerevole lasso di tempo. Ciò sulla scorta della perizia collegiale disposta dalla Corte, all’esito della quale si osserva che è pacifica la capacità del Digilio di stare in giudizio e di difendersi adeguatamente dalle accuse, in specie nel corso del lungo interrogatorio in cui ha dimostrato di essere in ogni momento all’altezza della situazione e di essere in grado di utilizzare al meglio quello strumento processuale (cosa che, per inciso, non aveva fatto il Maggi il quale si era avvalso della facoltà di non rispondere). In conclusione, non solo Digilio aveva sempre risposto a tono, apparendo in grado di collocare senza fatica nel tempo e nello spazio fatti e circostanze, persone e relazioni tra persone, ma anche di fornire adeguate risposte sui temi sui quali era stato sollecitato, in particolare sul suo specifico ruolo nella cellula eversiva di O.N. Per tali ragioni i giudici di primo grado hanno ritenuto che il giudizio finale sull’attendibilità intrinseca e su quella generale del collaboratore non può che essere positivo. Altrettanto si afferma quanto all’attendibilità estrinseca del Digilio in relazione al fatto per cui si procede, cioè la strage del 17 maggio 1973. Quale primo e fondamentale elemento di riscontro al racconto di Carlo Digilio è indicata l’individuazione da parte sua della casa di Marcello Soffiati, in via Stella a Verona, abitazione adibita a luogo di riparo degli ordinovisti e di latitanti. Digilio aveva frequentato quella casa fin dagli anni ’60 stante la stretta amicizia con il Soffiati, sicché la conoscenza di quell’appartamento era da considerarsi scarsamente rilevante; senonché in quella casa, secondo le indicazioni del collaboratore di giustizia, a metà degli anni ’60 (nel 1972 secondo l’interessato) era stato ospitato, o meglio sequestrato, per circa un mese l’avv. Forziati. Si temeva che questi potesse riferire all’autorità giudiziaria quanto sapeva circa gli attentati alla scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine a Gorizia, sicché il Maggi lo aveva fatto prelevare e condurre dapprima a Venezia Lido nella casa di Giangastone Romani, quindi a Colognola ai Colli dal Soffiati e poi nell’abitazione di quest’ultimo in via Stella, dove il Forziati era stato sorvegliato dal Neami e dove pure era inviato il Digilio perché tenesse sotto controllo la situazione e tranquillizzasse la persona ivi trattenuta. Il Forziati aveva confermato l’episodio ricordando la saltuaria presenza nell’abitazione di via Stella di una persona che riconosceva nel Digilio in una fotografia che lo ritraeve tra i presenti al matrimonio di Marcello Soffiati. Quanto al Neami, il Forziati aveva riferito che questi partecipava alla manifestazioni del M.S.I. fin dal 1969; a Trieste erano noti i contatti che Neami aveva con Maggi, ispettore del Triveneto, e con altri elementi veneti e friulani di Ordine Nuovo; lo stesso Neami spesso si recava a Venezia dal Maggi, mentre per i contatti friulani il suo referente era il Vinciguerra. Secondo il Forziati, Neami sapeva dell’esistenza dell’appartamento veronese di via Stella; glielo aveva descritto come “sepolcrale” e, quando vi era stato trasferito, si era reso conto che il Neami effettivamente lo conosceva. Nel complesso delle dichiarazioni rese dal Forziati, i primi giudici, oltre agli specifici riferimenti a Carlo Digilio e al Neami, individuano in via di sintesi e seguenti punti di rilievo: il Forziati ha fornito ulteriore riprova della tesi, condivisa dalla Corte d’assise, dell’esistenza di due cellule ordinoviste, in ciascuna sede del gruppo; Forziati faceva senz’altro parte soltanto della struttura politica: frequentava le manifestazioni pubbliche incontrando e conoscendo Maggi, Zorzi e Soffiati, il cui impegno ordinovista prevedeva anche l’operatività eversiva, il che vale anche per il Neami il quale non solo faceva il basista per la cellula eversiva di Venezia Mestre in occasione degli attentati dinamitardi compiuti da Zorzi, Siciliano e Vinello, su ordine e con l’auto del Maggi, ma interveniva attivamente nell’operazione si contenimento dello stesso Forziati. Risultano confermati i contatti fra la cellula eversiva di Venezia Mestre e quella di Troieste: Neami prendeva parte attiva in una operazione di tutela della posizione dei mestrini implicati nell’attentato alla Scuola Slovena e conosceva perfettamente la casa di via Stella ancor prima di recarvisi con Forziati; il che qualifica quei contatti fra i due gruppi dei quali era a conoscenza lo stesso testimone. La casa di via Stella, a Verona, era un covo-rifugio della cellula eversiva ordinovista del Veneto e, al riguardo, è di rilievo il riferimento del Forziati alle finestre oscurate. Infine risultava dimostrato che la solidarietà umana ed eversiva tra Maggi, Soffiati e Digilio era intensissima. Si annota infine che il Neami non ha potuto far a meno di confermare di aver preso parte alla vicenda Forziati e, in particolare, di aver visto in via Stella una persona taciturna che aveva poi saputo essere Carlo Digilio ma che, nell’occasione, non gli era stato presentato. La vicenda dell’avv. Forziati nonché l’episodio di cui ha riferito al G.I. Martino Siciliano, circa la partecipazione del Neami a un pestaggio di elementi di estrema sinistra avvenuto a Trieste in epoca imprecisata ma successiva alla strage di piazza Fontana, sta a dimostrare che nel periodo tra il dicembre 1969 (tempo della confluenza nel M.S.I.) e il maggio 1973 nulla era mutato e Neami aveva continuato a svolgere il ruolo che ricopriva all’interno della cellula clandestina: partecipava a pestaggi, ad attentati dinamitardi e ad azioni di forza nei confronti di chi poteva rappresentare un pericolo per il gruppo. E’ per tanto ritenuto provato che Neami, nel marzo 1972, aveva partecipato a un’operazione della cellula clandestina di O.N. di Venezia Mestre nel covo di via Stella; che già prima di quella data egli era già stato in quell’abitazione, da lui stesso definita sepolcrale; che, per l’operazione Bertoli, il Maggi non poteva più valesi degli appartenenti alla cellula di Mestre, essendo la stessa in gran parte smantellata a causa dell’abbandono da parte di molti giovani come Vinello e dell’emigrazione dello Zorzi in Giappone; che il compito di vincere le ultime resistenze del Bertoli e di condizionarlo in vista dell’attentato doveva essere affidato a persona, come il Neami, decisa e abituata all’occorrenza all’uso di maniere forti; che, infine, Neami intratteneva un ottimo rapporto personale con Carlo Maria Maggi, la casa del quale frequentava abitualmente, e che considerava il proprio referente politico. Tutti elementi di prova logica, osservano i primi giudici, che riscontrano le accuse del Digilio a carico del Neami. Quanto affermato da Carlo Digilio circa il periodo di sua permanenza nell’abitazione del Soffiati in via Stella, presenti il Bertoli e il Neami, non sarebbe stato smentito dalla testimonianza resa da Anna Bessan al G.I. (considerata reticente e volutamente favorevole agli imputati quella dibattimentale); costei aveva affermato di aver convissuto per alcuni mesi con Marcello Soffiati prima del matrimonio, periodo in cui si assentava per lavoro anche per settimane intere; dall’aprile ’73, cioè dopo il matrimonio, aveva lasciato il lavoro ed era rimasta continuativamente in via Stella. Si osserva che, allora, la teste abitava nell’appartamento di via Stella anche nel dicembre ’74 quando il marito fu arrestato perché trovato in possesso di un vero e proprio arsenale di armi, munizioni ed esplosivi. Ma la donna aveva sostenuto di non aver visto armi nell’abitazione (per altro molto piccola, formata da un ingresso e due stanze); aveva comunque ricordato che esisteva un vano molto profondo nel corridoio munito di mensole installate dal Soffiati; non aveva visto armi ma, se vi fossero state, avrebbe anche potuto non accorgersene. Le dichiarazioni mendaci della Bassan sono considerate riscontro alle dichiarazioni del Digilio così come pure la presenza in via Stella di bombe a mano sequestrate molti mesi dopo la strage di Milano. Altri riscontri sono stati individuati nelle dichiarazioni di Dario Persic il quale aveva visto alcune armi nella casa di via Stella, collocate sul pavimento sotto le mensole del ripostiglio ricavato nel corridoio. Lo stesso Persic ha riferito che, dopo l’episodio dell’avv. Forziati, era stata ospitata un’altra persona nell’appartamento di via Stella; collocava tale seconda presenza in data precedente al matrimonio di Marcello Soffiati, avvenuto il 28 aprile 1973. Nulla sapeva di tale persona, salvo il fatto che si era trattenuta per qualche tempo e poi se ne era andata, poiché al riguardo – diversamente dalla vicenda Forziati – vi era stata molta riservatezza. Tuttavia aveva avuto modo di sentire Bruno Soffiati rimproverare il figlio proprio perché teneva quella persona in casa avvertendolo che ciò era pericoloso. Dunque, questa è la deduzione dei primi giudici, è provato che Persic seppe, esattamente nel periodo indicato da Digilio, di un secondo personaggio, molto più misterioso del primo, ospitato in via Stella contro il parere del padre di Marcello Soffiati che premeva perché il figlio si liberasse di tanto scomoda e pericolosa presenza. La motivazione della sentenza impugnata volge al termine ribadendo la matrice eversiva di destra della strage alla Questura di Milano, una matrice in evidente contrasto con la versione sostenuta per anni da Gianfranco Bertoli di aver agito da solo e come anarchico individualista. Si ritiene, invece, quell’attentato certamente collocato nella strategia della tensione, cioè in quella strategia diretta a creare uno stato di emergenza nella prospettiva, con l’attribuzione della responsabilità alla sinistra, di un’evoluzione autoritaria della situazione politica. Tanto che, si osserva, anche in questo caso era scattata l’azione di copertura per attribuire una etichetta anarchica all’attentato coprendo i contatti del Bertoli con l’estremismo di destra. Quei contatti sono risultati provati e, in proposito, i giudici di prima istanza richiamano numerose dichiarazioni e testimonianze (Pietro Battiston, Martino Siciliano, Carlo Rebosio, Angelo Izzo) dalle quali, appunto, risulta che il Bertoli negli ambienti dell’eversione di destra era considerato un camerata, un buon camerata che anche in carcere era in rapporti di amicizia e confidenza con Franco Freda. Un altro punto delle dichiarazioni di Carlo Digilio, quello secondo cui Bertoli negli ultimi tempi poteva liberamente andare e venire da Israele, ha trovato puntuale riscontro nella concorde testimonianza dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni i quali (il primo, in seguito deceduto, al G.I., il secondo in fase dibattimentale) hanno riferito del loro incontro con Bertoli a Venezia nella primavera 1972. Dette testimonianze sono state ritenute pienamente attendibili in considerazione che le stesse facevano riferimento a rapporti con persona conosciuta da antica data, indicavano tutti gli elementi necessaria per valutare tale risalente conoscenza, unitamente a circostanze contingenti relative al singolo episodio e le ragioni per le quali nella memoria era rimasta impressa la circostanza essenziale riferita ai giudici. Quelle testimonianze sono ritenute dai primi giudici più che sufficienti a smentire l’affermazione del Bertoli di non aver lasciato il kibbutz di Karmia., se non nel maggio 1973, per circa due anni, una permanenza comunque smentita anche da altre fonti, quali le dichiarazioni del Mariga, e in particolare l’accertata presenza del Bertoli nell’Hotel du Rhone a Marsiglia tra il 10 e il 20 novembre 1971, come riferito da un rapporto ufficiale dell’Ufficio UCLAT del ministero dell’interno francese. Si richiama infine l’episodio della cena, a poche ore di distanza dalla strage, cui parteciparono Digilio, Maggi e Boffelli: come riferito dal primo, il Maggi se la prendeva con Boffelli che gli aveva proposto il Bertoli per l’esecuzione dell’attentato. Boffelli aveva risposto “tutti possono sbagliare” (lo stesso, con le dichiarazioni dibattimentali, tenterà ancora e inutilmente di attribuire un diverso significato a quella frase: si riferiva allo sbaglio non nel lancio della bomba ma nell’aver compiuto quell’azione delittuosa). Secondo l’atto di appello, il Boffelli non aveva mai ricoperto alcun ruolo nell’ambito di Ordine Nuovo ed era priva di fondamento la notizia che i suoi viaggi in Germania erano finalizzati a mantenere i contatti con estremisti di destra di quel Paese, dato che Boffelli all’epoca si recava in Germania avendo una relazione con una cittadina tedesca. Si contesta l’ipotesi di accusa secondo cui Bertoli, stante i suoi collegamenti con i Servizi Segreti, si sarebbe allontanato quando voleva da Israele. In proposito non sarebbero credibili le testimonianze dei fratelli Sorteni né, tanto meno, l’informativa UCLAT relativa alla presenza di Bertoli a Marsiglia nel novembre 1971, smentita dalle indagini disposte al riguardo. Del resto, l’ininterrotta presenza di Bertoli nel Kibbutz era stata confermata da tutti i testimoni israeliani. Quanto affermato dalla teste Bassa, di vivere all’epoca nella casa del Soffiati in via Stella e di farvi rientro dai suoi viaggi di lavoro ogni fine settimana, ha smentito il racconto del Digilio circa la presenza del Bertoli e del Neami nell’abitazione. Il Digilio, inoltre, aveva mutato versione circa il ruolo del Boffelli, prima affermando che questi si era recato in via Stella una sola volta e in compagnia del Maggi, poi sostenendo che Boffelli si era sostituito al Neami nella vigilanza di Gianfranco Bertoli. Non rispondeva a verità, né alcuna prova esiste in proposito, che Bertoli tra la fine del 1972 e l’inizio del ’73 vivesse abitualmente nella zona di Mestre. Illogico, infine, che Bertoli sia stato tenuto segregato in via Stella due mesi prima dell’attentato e poi sia stato lasciato libero di tornare in Israele. Il processo e la sentenza in grado di appello Il processo in grado di appello iniziava nell’udienza del 15 maggio 2002, in presenza degli imputati Maggi e Boffelli, contumace il Neami, e si concludeva in quella del 27 settembre 2002 con l’assoluzione piena dei tre imputati, come già si è detto. Giorgio Boffelli, confermando le dichiarazioni rese nella fase istruttoria e dibattimentale di primo grado, ribadiva la propria completa estraneità alla strage. Dichiarava di aver conosciuto Gianfranco Bertoli all’inizio degli anni cinquanta perché entrambi vivevano nello stesso quartiere a Venezia, ma non erano mai stati amici essendo di opinioni politiche diametralmente opposte; di essersi arruolato nella Legione Straniera dal ’59 al ’62, di essere rientrato in Italia per qualche anno ma di essere tornato in Africa dove aveva fatto il mercenario nel Congo dal ’66 al ’67. Tornato a Venezia, aveva lavorato come marinaio per vent’anni finché non era andato in pensione. Verso la fine degli anni sessanta, a Venezia, aveva rivisto il Bertoli apprendendo che lo stesso era diventato anarchico. Quando allo Scalinetto Giuseppina Gobbi gli aveva mostrato la foto del Bertoli sul giornale che riportava la notizia della strage alla Questura di Milano, si era limitato a commentare che Bertoli aveva sbagliato. Che Bertoli conoscesse l’ebraico l’aveva appreso da notizia riportata da giornali, in specie dal “Giornale” di Montanelli. Con il Maggi aveva instaurato rapporti di frequentazione e amicizia alla fine degli anni sessanta, era diventato suo paziente, a volte lo aveva accompagnato ma non gli aveva fatto da vero e proprio guardaspalle. Pur essendo simpatizzante della destra, non aveva mai fatto politica attiva. Non aveva mai conosciuto il Neami mentre aveva conosciuto il Digilio, che poteva definirsi amico del Maggi, nonché Marcello Soffiati nella casa del quale, in via Stella, era stato una volta passando per Verona diretto in Germania. Carlo Maria Maggi, sentito nell’udienza del 30 maggio 2002, dichiarava: di non aver mai visto e conosciuto Gianfranco Bertoli, così come, prima del processo, non aveva mai sentito parlare di Remo Orlandini; di aver conosciuto Amos Spiazzi solo nel 1978, tramite Marcello Soffiati nella trattoria di questi in Colognola ai Colli, mentre conosceva il Soffiati fin dal 1962; di avere esercitato la propria professione di medico in un ospedale geriatrico di Venezia dal 1966 (in precedenza aveva lavorato in un ospedale psichiatrico); di aver aderito a Ordine Nuovo fin dall’inizio e di essere stato nominato ispettore nel 1959, anno in cui aveva conosciuto Carlo Digilio come aderente a quel movimento; di aver rivisto il Digilio nel 1965 e di avere appreso dallo stesso che non intendeva più dedicarsi ad attività politiche; di aver frequentato lo stesso Digilio negli anni settanta con una certa assiduità, ospitandolo, con il Soffiati e altri, per partite a poker; di aver conosciuto Vincenzo Vinciguerra prima del 1969 essendosi recato qualche volta in Friuli come ispettore di O.N.; di non sapersi spiegare il perché delle accuse, del tutto inventate, formulate contro di lui dal Vinciguerra; di non aver mai avuto ragioni di astio contro l’On. Rumor; di essere rientrato nel MSI nel 1969 e di non aver mai avuto rapporti con il gruppo ordinovista che non aveva voluto rientrare nel partito; di aver conosciuto Gabriele Forziati nei primi mesi del 1972 quando Giangastone Romani, responsabile organizzativo del Centro Ordine Nuovo di Trieste, temendo come imminente l’emissione di un mandato di cattura contro il Forziati gli aveva chiesto di ospitarlo ed egli aveva girato la richiesta al Soffiati il quale aveva dato ospitalità al Forziati in via Stella a Verona; di essersi recato in quell’abitazione per fornire assistenza medica al Forziati e di avervi incontrato il Neami, amico del Forziati, anch’egli già aderente a Ordine Nuovo ma rientrato nel MSI nel 1969; di ricordare che nel 1982 Digilio sembrava coinvolto in una vicenda di armi non consegnate e di denaro trattenuto che aveva suscitato inquietudine nello stesso Digilio; questi ggli aveva chiesto di far si che il soffiati lo ospitasse per qualche tempo, il che era avvenuto per alcuni mesi; infine di non essere mai stato informato delle attività del Digilio in materia di recupero di esplosivi da residuati bellici. La Corte d’assise di Appello, con ordinanza in data 30 maggio 2002, respinte alcune eccezioni di nullità e di illegittimità costituzionale proposte dai difensori, disponeva la parziale rinnovazione del dibattimento per acquisire documentazione e per l’assunzione in qualità di testimone del generale Nicolò Pollari, direttore del SISMI, per ottenere chiarimenti in ordine all’effettivo periodo di collaborazione di Gianfranco Bertoli con il SIFAR. La motivazione della sentenza emessa in esito al giudizio di appello, di poi annullata dalla Corte di Cassazione, premette che il vero nodo da risolvere è se Bertoli agì da solo, come sempre dallo stesso sostenuto, ovvero se egli - collegato ai Servizi Segreti che lo avrebbero aiutato, prima ad espatriare nel gennaio/febbraio 1971, poi a tornare in Italia, via Marsiglia, nel periodo in cui ufficialmente risultava ospite di un kibbutz israeliano – sia stato manovrato da esponenti di Ordine Nuovo per indurlo a compiere un attentato contro l’allora ministro degli interni On. Mariano Rumor. Richiamate le ragioni che avevano indotto il G.I., così come i primi giudici, a ritenere non veritiera la versione fornita da Gianfranco Bertoli si osserva che, trascurata un’approfondita disamina della sua versione e della sua personalità, il convincimento che il Bertoli non avesse agito da solo e di propria esclusiva iniziativa si fondava da un lato sulla sua collaborazione con il SIFAR tra il 1954 e il 1959 e successivamente con il SID dal 1966 fino al 1971, dall’altro sul fatto che la strage del 17 maggio ’73 era stata preannunciata da due fonti autonome rispettivamente alcuni mesi e due giorni prima della sua esecuzione. Su tali punti l’anticipata conclusione dei giudici di appello è drastica: “anche attraverso gli elementi acquisiti nel corso della rinnovazione parziale del dibattimento nel giudizio di appello, si deve ritenere incontestabilmente accertato, in primo luogo, che la strage compiuta dal Bertoli non è stata in alcun modo preannunciata da Pietro Loredan e da Remo Orlandini e, in secondo luogo, che Bertoli, dopo il 1960, non ha avuto alcun contatto con Servizi Segreti italiani o stranieri”. Sgombrato il campo da quelli che sono definiti “equivoci” in cui sarebbero incorsi sia il G.I. che i giudici di primo grado, e riaffermato che il tema decidendi riguarda innanzitutto la riconducibilità dell’attentato al solo Bertoli, quale atto di protesta e vendetta verso chi era ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Pinelli, previo un attento esame sia della sua versione dei fatti che della sua personalità, si osserva che il G.I., in vent’anni di indagini - tramite le dichiarazioni di Roberto Cavallaro, di Vincenzo Vinciguerra e di Angelo Izzo (oltre che con i colloqui registrati dal capitano Antonio Labruna) - era pervenuto all’individuazione di presunti complici del Bertoli (Spiazzi, Rizzato, De Marchi, Lercari, Rampazzo, Camillo Virginio, Maggi, Zorzi, Remo Orlandini, Dantini e Bovolato), ma che la svolta decisiva all’istruttoria era stata impressa dalle dichiarazioni di Carlo Digilio che avevano consentito di focalizzare il ruolo avuto nella strage da Maggi, Neami, Boffelli e dallo stesso Digilio. Secondo i giudici di appello il punto centrale delle dichiarazioni di Carlo Digilio, vale a dire la permanenza del Bertoli nell’appartamento di via Stella a Verona nel marzo 1973, prescindendo dalla valutazione dell’intrinseca attendibilità del Digilio, deve ritenersi senz’altro smentito dalle affermazioni di testimoni israeliani relative all’ininterrotta presenza del Bertoli nel kibbutz di Karmia dal febbraio 1971 al maggio 1973, oltre che dalla corretta valutazione del rapporto di Polizia che indicava la presenza del Bertoli nell’Hotel du Rhone a Marsiglia dal 10 al 20 novembre 1971. L’esame del vasto materiale probatorio inizia con la ricostruzione della così detta vicenda Loredan. A quell’episodio, ricostruito come già ripetutamente si è detto, i giudici di appello hanno ritenuto di non potere e dover attribuire il significato di annuncio dell’attentato che si stava preparando e che doveva essere eseguito a Milano in danno di un importante esponente del Governo. Sull’episodio di che trattasi, per sondarne significato e rilevanza, si è fatto riferimento alle dichiarazioni dibattimentali dell’On. Ceravolo (u. 24.11.99) secondo il quale il Dalla Costa, che era andato a trovarlo a Venezia, gli aveva riferito che secondo una “soffiata” di Pietro Loredan “qualcosa stava maturando, qualche attentato, qualcosa del genere, che circolava la voce che qualcosa bolliva in pentola”; il Ceravolo aveva telefonato a Roma e gli avevano detto che il giorno dopo avrebbe potuto incontrarsi a Milano con gli On.li Malagugini e Pajetta, così come in effetti avvenuto. Dal tenore di tali dichiarazioni si è dedotto che le informazioni fornite da Loredan al Dalla Costa e da questi al Ceravolo erano assai vaghe e poco attendibili. Quel minimo residuo di attendibilità era venuto definitivamente a mancare una volta individuata la fonte delle informazioni di Pietro Loredan: sulla scorta di quanto dichiarato dal teste Giuseppe Universo e dalla lettura degli atti del processo per diffamazione intentato dal giornalista dell’ANSA Sergio D’Asnasch nei confronti di Sergio Saviane e di Livio Zanetti, si riteneva accertato che nel 1973 (esattamente il 15 maggio ’73, come sicuramente desumibile dall’articolo del Saviane pubblicato sul settimanale l’Espresso del 12 agosto ’73) nel corso di una cena cui avevano partecipato anche Universo e Loredan, il D’Asnasch aveva parlato, ma in modo del tutto generico, di fatti gravi che si stavano preparando a Milano. Evidentemente, secondo i giudici di secondo grado, Pietro Loredan, aveva dato credito a quei discorsi e aveva deciso di metterne al corrente Ivo Dalla Costa. Conferma di tutto ciò è tratta da quanto dichiarato dallo stesso Loredan in quel processo per diffamazione e cioè che D’Asnasch aveva fatto generico riferimento alla situazione di tensione esistente a Milano in quel periodo, sicché aveva pensato che il giornalista fosse stato anticipatamente informato di ciò che stava per accadere. La conclusione dei giudici di appello e, per tanto, la seguente: “non è importante sapere che Saviane e Zanetti furono condannati dal Tribunale di Milano. E’ invece molto importante aver accertato che Pietro Loredan ha appreso, il 15 maggio 1973, dal giornalista Sergio D’Asnasch la notizia generica di gravi fatti che stavano per accadere in Milano, che lo stesso Loredan, ritenendo che D’Asnasch fosse in possesso di notizie riservate in quanto agente della CIA, aveva avvertito Ivo Dalla Costa; che questi, a sua volta, aveva ritenuto di informare prima Ceravolo e poi alti esponenti del Partito Comunista Italiano (Pajetta e Malagugini); che costoro, sia per la genericità della notizia sia per la poca affidabilità della fonte, non avevano ritenuto di dover allertare né i locali dirigenti del Partito né il capo gabinetto del Questore”. Si ritiene infine che Ivo Dalla Costa, con il passare degli anni, aveva sicuramente rielaborato l’episodio e probabilmente in buona fede aveva riferito al G.I. che Pietro Loredan gli aveva parlato di un attentato entro quarantotto ore contro un’alta personalità del Governo. Pietro Loredan, invece, gli aveva comunicato una notizia molto più generica, appresa dal D’Asnasch. Di conseguenza cade completamente l’assunto del primo giudice che la strage compiuta da Gianfranco Bertoli fosse stata preannunciata da Pietro Loredan a Ivo dalla Costa. La motivazione della sentenza di appello prosegue con la disamina della vicenda relativa ai colloqui avvenuti tra il capitano Antonio Labruna e Remo Orlandini, in almeno uno dei quali l’Orlandini avrebbe annunciato come imminente un attentato contro l’On. Rumor. Assumendo che il nastro su cui era stato registrato quel colloquio era sparito, si osserva che mentre il G.I. ne aveva attribuito la responsabilità, più che al Labruna, ai suoi diretti superiori (colonnello Romagnoli e genrale Maletti), i giudici di primo grado erano pervenuti alla conclusione che Antonio La bruna, il quale evidentemente fruiva della piena fiducia dell’Orlandini, aveva occultato il nastro o i nastri relativi ai colloqui nei quali si parlava dell’attentato all’On. Rumor omettendo di attivarsi per prevenirlo, come i doveri del suo ufficio gli imponevano. Per far luce sulla vicenda, i giudici di secondo grado - ricostruite le complesse modalità con cui nastri e trascrizioni erano pervenuti nella disponibilità del Giudice Istruttore (in parte da altre autorità giudiziarie inquirenti, successivamente per il tramite del giornalista Norberto Valentini, infine ad opera dello stesso Labruna) – hanno esaminato tempi e contenuti dei colloqui con l’Orlandini, registrati a sua insaputa dal Labruna, e le relative trascrizioni; hanno quindi rilevato che il G.I. aveva più volte sentito come testimoni i sottufficiali del NOD che avevano eseguito le trascrizioni di quei nastri (Mar.lli Mario Esposito, Nicola Giuliani, Giuseppe Pasin, Paolo Di Gregorio, quest’ultimo risultato aver preso servizio al NOD dal 15 ottobre 1973 e quindi ben cinque mesi dopo la strage compiuta dal Bertoli), ricevendo solo dal Di Gregorio e dal Giuliani vaghe indicazioni circa un colloquio Orlandini/Labruna in cui il primo parlava di attentati, in particolare contro uomini politici ed aveva fatto espressamente il nome del ministro Rumor. Antonio Labruna, sentito più volte, non aveva escluso l’esistenza di altri nastri registrati oltre a quelli da lui consegnati (trattenuti per premunirsi, a suo dire, da possibili scarichi di responsabilità da parte dei superiori) ed aveva ammesso che sia il Di Gregorio sia il Giuliani erano persone degnissime e sicuramente avevano riferito il vero. Tutto ciò premesso La Corte d’assise di Appello perviene alla seguente conclusione: “non vi è mai stato un nastro contenente riferimenti, da parte di Remo Orlandini a un attentato contro Rumor, e quindi non è vero, come ha ritenuto il primo giudice, che l’azione compiuta da Bertoli fosse stata preannunciata”. Il che è derivato dal fatto che l’esistenza di quel nastro era stata derivata dallo spontaneo ricordo del maresciallo Paolo Di Gregorio il quale, però, proprio perché entrato in servizio al NOD nell’ottobre ’73, non poteva fare riferimento a all’attentato commesso dal Bertoli nel maggio di quell’anno. Si spiega l’inesatto ricordo del Di Gregorio con la possibilità che questi avesse avuto in mente il colloquio Labruna/Lercari. Dal canto suo il maresciallo Giuliani, trovatosi in grave difficoltà di fronte alla contestazione di quanto dichiarato dal suo collega, temendo di essere incriminato, abbia preferito compiacere il G.I. ammettendo che l’Orlandini, in uno dei colloqui registrati, aveva parlato dell’attentato contro l’On. Rumor. E’ considerato, inoltre, del tutto illogico, oltre che inverosimile, che il Labruna si fosse distratto proprio nel mentre l’Orlandini lo informava di un progetto tanto grave, ovvero che lo stesso Labruna – ammesso e non concesso fosse favorevole ai disegni eversivi dell’Orlandini – avesse poi affidato quei nastri, per la trascrizione, a dei subalterni i quali si sarebbero potuti attivare per scongiurare l’attentato e, comunque, sarebbero stati pericolosissimi testimoni dei preparativi dello stesso. Scarsa rilevanza è attribuita alla frase pronunciata da Remo Orlandini nel colloquio del 6 aprile ’73 (“maggio non passerà, può darsi anche aprile”) essendo certamente riferita a un possibile colpo di Stato. Infine, quanto al colloquio registrato avvenuto in Lugano il 29 marzo 1974 tra Antonio Labruna e il Lercari, il riferimento all’atteso attentato all’On. Rumor, che poi non si era verificato non riguardava l’azione di Gianfranco Bertoli bensì altro attentato promesso e, come altri, non eseguito. Nella motivazione della sentenza annullata un capitolo è dedicato a risolvere, una volta per tutte secondo i giudici di appello, la questione se il Bertoli fu a libro paga del SIFAR, come informatore infiltrato negli ambienti del P.C.I., solo dal 1954 al 1960 come affermato dall’ammiraglio Casardi, sentito sul punto a seguito delle dichiarazioni dibattimentali rese da Giorgio Sorteni il 25 febbraio 1975, ovvero fu riassunto in quel ruolo nel 1966 fino alla cessazione, avvenuta nel 1971, così come chiarito e confermato dalle deposizioni del colonnello Viezzer e del generale Cogliandro. Sulla scorta della testimonianza del generale Pollari, sentito nella fase di appello, e mediante il raffronto con un fascicolo del SID relativo ad altro informatore, si è stabilito che sia il Viezzer che il Cogliandro erano incorsi in errore atteso che la scritta “1966” sulla copertina del fascicolo dell’informatore “Negro” (nome di copertura di Gianfranco Bertoli) non stava a significare la riassunzione in servizio dell’informatore a far tempo da quella data (e fino al 1971, quando Viezzer, di sua pugno, aveva apposto la dicitura “cessato”) bensì indicava la data in cui la segreteria aveva raccolto la documentazione relativa al Bertoli, i cui rapporti con il SIFAR erano, appunto, cessati nel 1960. Escluso quindi che all’epoca della strage, o negli anni di poco precedenti, il Bertoli fosse ancora un informatore, si deduce che l’espatrio dello stesso non fu in alcun modo favorito dai Sevizi Segreti, né italiani né stranieri, mentre è certo che - a tal fine - appoggio e assistenza furono forniti da appartenenti al gruppo anarchico Ponte della Ghisolfa, pur ammettendo che di quell’espatrio i Servizi furono in qualche modo a conoscenza per il tramite dell’informatore Enrico Rovelli (quello che, infiltrato nel circolo anarchico, aveva fornito al commissario Calabresi la foto – identica a quella poi servita per formare il passaporto falso del Bertoli – con l’informazione che si stava aiutando a espatriare un anarchico colpito da mandato di cattura) oltre che per il tramite di Rolando Bevilacqua (in contatto con il Mossad e con il colonnello dei carabinieri Renzo Monico) che aveva dato ospitalità al Bertoli (presentatogli come Massimo Magri) a Tresivio, in provincia di Sondrio, in vista dell’espatrio prima in Svizzera e di qui a Marsiglia e infine in Israele. Per l’espatrio Gianfranco Bertoli non aveva fruito di alcuna “corsia preferenziale” tant’è vero che egli risulta essere stato controllato dalla Polizia di Marsiglia, nei pressi della stazione ferroviaria, l’8 gennaio 1971 e che il suo ingresso nel kibbutz di Karmia, dove si trattenne ininterrottamente per circa due anni e fino all’8 maggio ’73, non fu per nulla facilitato ma avvenne secondo le regole vigenti all’epoca come riferito dai testimoni israeliani Farhi Michel, delegato della Agence Juive di Marsiglia, e Grubstajn Haim, delegato europeo della Hachomer Hatzair di Parigi. A questo punto i giudici di secondo grado procedono a una meticolosa disamina della versione resa dal Bertoli al G.I. in numerosi interrogatori e di poi in fase dibattimentale alla Corte d’assise, considerato che l’accusa nei confronti di Maggi, Neami e Boffelli, proveniente dalle dichiarazioni di Carlo Digilio, ha i suoi presupposti necessari nel fatto che Gianfranco Bertoli, sostenendo di aver agito da solo, avrebbe mentito, che lo stesso si trovasse in Italia nel 1973 e che l’attentato fosse diretto contro il Ministro degli Interni On. Rumor. In sintesi, nel corso di detti interrogatori, Bertoli aveva dichiarato: di essere un anarchico e, come tale, di non riconoscere alcuna autorità; di aver commesso il fatto per vendicare l’anarchico Pinelli che, secondo quanto appreso mentre si trovava nel kibbutz, sarebbe stato gettato dalla finestra dal commissario Luigi Calabresi; di essere arrivato a Milano il giorno 16 maggio intorno alle ore 16 prendendo alloggio in una pensione di via Vitruvio; che il passaporto falso gli era stato a suo tempo fornito da dei “capelloni hippy; di aver girato per Milano nel pomeriggio del 16 e di essere rientrato alla Pensione verso mezzanotte; che il giorno 17 maggio era uscito intorno alle 8 con la bomba in tasca, aveva acquistato il Corriere della Sera apprendendo così della manifestazione in Questura, in programma quella stessa mattina, per la commemorazione del Commissario Calabresi; verso le 9,30/9,45, giunto alla Questura, dove intendeva lanciare la bomba contro il busto che riproduceva il commissario ucciso, era stato fermato da alcuni agenti; di essersi allora recato in un vicino bar dove aveva bevuto un brandy; di essere poi tornato davanti alla Questura e, visti uscire dei militari e avuta conferma da due poliziotti che si trattava della commemorazione del Calabresi, aveva lanciato la bomba; di essersi procurato l’ordigno nel kibbutz intendendo servirsene nel caso fossero andati ad arrestarlo, ma anche di aver avuto in animo, in un primo momento, di farne uso per un attentato a Pisa nell’anniversario della morte di Franco Serantini (7 maggio 1972), poi in occasione della commemorazione del commissario Calabresi; di essere partito in nave dal porto di Haifa l’8 maggio proponendosi di compiere l’attentato il giorno 17 a Milano ritenendo che sicuramente vi sarebbe stata una cerimonia per il primo anniversario della morte di Luigi Calabresi; di non essere sbarcato a Genova temendo che da un controllo risultasse che disponeva di un passaporto falso; di avere eluso controlli e perquisizioni trasferendo, secondo necessità, la bomba dalla borsa alla tasca; di aver compiuto l’attentato contro le Autorità presenti pur ammettendo che, se fosse riuscito a entrare nel cortile della Questura, suo intento sarebbe stato quello di eliminare il ministro insieme alle altre autorità; di essere espatriato dall’Italia raggiungendo Israele passando per la Svizzera e per Marsiglia ma di non essere stato aiutato da elementi anarchici; che, nel lungo periodo di permanenza nel kibbutz, non aveva mantenuto contatti con persone in Italia; che non aveva alcun appuntamento in Francia per il 15 maggio ’73, attribuendo l’affermazione dello Shusterman in tal senso a pura fantasia. In fase dibattimentale Bertoli aveva confermato quanto sopra dichiarando poi testualmente: “io volevo compiere un gesto contro le Autorità e, in particolare, quando ho saputo della presenza di Rumor, avrei preferito eliminare lui. Anche se non ci fosse stato Rumor, io la bomba l’avrei lanciata lo stesso, e meglio ancora se ci fosse stato il Capo dello Stato o il Papa, insomma qualsiasi autorità”. Ai fini della verifica di attendibilità della versione sempre fornita da Gianfranco Bertoli su motivazioni e modalità dell’attentato, nella motivazione della sentenza di appello ci si sofferma, prima ancora che sui riscontri individuati a conferma di tale versione, sulla personalità dello stesso Bertoli, sondata attraverso le sue stesse dichiarazioni, la perizia psichiatrica cui fu sottoposto, le annotazioni sul diario da lui redatto in carcere nel 1968. Il che consentiva alla Corte di secondo grado di ritenere per certo non solo che Bertoli era in effetti un anarchico, insofferente di leggi e autorità, ma che lo stesso, ben prima della strage, aveva in animo di commettere un gesto eclatante. La versione sempre sostenuta da Gianfranco Bertoli, cioè di avere da solo e quindi non per conto di altri e senza l’appoggio dei servizi segreti è stata ritenuta veritiera anche perché confermata dai seguenti elementi di prova: 1) la bomba utilizzata nell’attentato era risultata di produzione israeliana e in dotazione alle forze armate di quel Paese, un dato assai significativo non smentito dal fatto che nell’armeria del kibbutz, nel periodo che interessa, non si erano verificati furti, atteso che il Bertoli ha sostenuto di aver sottratto la bomba non dall’armeria bensì in un alloggio di militari che stazionavano nel kibbutz; era ben possibile che Bertoli fosse riuscito a portare con sé la bomba, superando indenne i controlli di frontiera, essendo una persona scaltra e adusa a commettere azioni illecite. 2) Bertoli effettivamente, come da lui sostenuto, ritornò in Italia per vendicare, con l’attentato, l’uccisione dell’anarchico Pinelli e con il proposito di lanciare la bomba nel corso della cerimonia che immaginava si sarebbe tenuta a Milano per l’anniversario della morte del commissario Calabresi, da lui ritenuto il responsabile dell’uccisione del Pinelli. Un dato oggettivo, annotano i giudici di appello, che conferma la versione di Bertoli è proprio il fatto che ha compiuto l’attentato proprio nel giorno di quell’anniversario, predisponendo tutto per essere a Milano solo il giorno prima dell’attentato. Partito da Haifa l’8 maggio e giunto a Marsiglia il 13 per poi raggiungere Milano la mattina del giorno 16. Il fatto che Bertoli si fosse trattenuto per tre giorni a Marsiglia arrivando a Milano solo il giorno precedente all’attentato è spiegato con il timore del Bertoli di sostare sul territorio italiano, dove credeva di essere ancora ricercato, e di essere fermato. Si osserva inoltre sul punto: “tenendo conto della personalità del Bertoli, e in particolare del suo modo di agire disordinato e disorganizzato, non è affatto incredibile che abbi aspettato la mattina del 17 maggio per conoscere il luogo dove si sarebbe svolta la cerimonia per l’anniversario della morte di Calabresi”. Del resto, si osserva ancora, Bertoli aveva effettivamente letto sul Corriere della Sera la notizia della cerimonia avendo, nel suo racconto, ricordato esattamente alcuni particolari riportati da quel quotidiano. 3) Che Gianfranco Bertoli fosse davvero un anarchico e che possa aver maturato da solo, durante il soggiorno nel kibbutz, la decisione di compiere un clamoroso gesto di rivolta contro la società, non solo risulta dal diario da lui redatto in epoca precedente alla perizia psichiatrica (1973) ma anche da testimonianze rese da persone che erano vissute con lui nel kibbutz (Alex Weinberg, Noah Shusterman, Jean Michel Jemmy). 4) Posto che il G.I. non aveva creduto all’affermazione del Bertoli di avere agito da solo e senza l’appoggio di alcuno, si oppone che dalle indagini svolte non era risultata la presenza di italiani nel kibbutz nel periodo di permanenza di Bertoli; questi non riceveva corrispondenza né aveva ricevuto o effettuato telefonate da e per l’estero, non esisteva traccia alcuna di suoi rapporti con elementi della destra eversiva di Marsiglia. Da tali elementi la Corte di secondo grado ritiene possa evincersi con chiarezza che Bertoli, né nel periodo in cui è stato nel kibbutz né a Marsiglia, ha avuto un qualche contatto sospetto in relazione ai preparativi dell’attentato. E’ vero, si aggiunge, che Bertoli non ha voluto fornire indicazioni sulle persone con le quali intrattenne qualche rapporto epistolare, ma è facilmente deducibile dal complesso delle risultanze che doveva trattarsi di compagni anarchici con i quali aveva mantenuto sporadici rapporti e che non voleva in alcun modo coinvolgere nel fatto in cui egli era implicato. Tanto vale per la negazione di aver ricevuto il passaporto falso da appartenenti al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Non è ritenuto significativo circa l’eventuale appoggio fornito al Bertoli l’episodio relativo a Rodolfo Mersi, avvenuto a Milano la sera del 16 maggio ’73, quando lo stesso, dal ristorante dove lavorava, aveva fatto una telefonata dicendo “pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra 35/40 minuti”, dato che il significato di quella telefonata era stato spiegato dal Mersi in modo convincente: in quella telefonata aveva parlato con la moglie, essendo sua abitudine, prima di lasciare il ristorante, di telefonare a casa per avvertire del suo arrivo; probabilmente aveva chiesto alla moglie a che ora Bertoli, che si trovava con lei, a che ora Bertoli doveva prendere il treno dato che la moglie in precedenza gli aveva comunicato per telefono che il Bertoli si doveva trovare alla stazione a mezzanotte. Quanto alle modalità dell’attentato sono state richiamate le testimonianze di persone presenti in via Fatebenefratelli e che avevano assistito al fatto in base alle quali si ritiene accertato che Bertoli si trovava da solo sul marciapiede opposto all’ingresso della Questura, che aveva lanciato la bomba quando ormai la cerimonia era finita, che al mometo del lancio aveva gridato qualcosa come “questo è ciò che merita Calabresi”, che infine, pur avendo tentato di assumere un atteggiamento disinvolto infilando le mani nelle tasche dell’impermeabile, Bertoli era stato immediatamente bloccato da almeno quattro agenti. Da quelle modalità di commissione del fatto, ad avviso dei giudici di appello, si evince con chiarezza che Bertoli (come sempre da lui sostenuto) non aveva alcuna intenzione di fuggire dopo aver lanciato la bomba, avendo eseguito il lancio non solo in un momento in cui davanti alla Questura vi erano numerosissime persone, ma anche quando a pochi passi da lui vi erano agenti che poi in effetti sono immediatamente intervenuti. Infine si osserva che l’ipotesi di accusa nei confronti degli attuali imputati si fonda sul presupposto che Bertoli intendesse colpire l’On. Rumor, mentre tutte le risultanze dimostrano che non era quello l’obiettivo dell’attentatore considerato che Bertoli non sapeva che Rumor avrebbe partecipato alla cerimonia, che non aveva mostrato particolare interesse a colpire il ministro degli interni essendosi attardato al bar a bere un brandy prima di eseguire l’attentato, che la posizione da dove effettuò il lancio faceva intendere che Bertoli intendeva colpire a caso e non necessariamente l’On. Rumor. La versione di Gianfranco Bertoli aveva trovato conferma anche sulla circostanza, dallo stesso sempre affermata, relativa alla sua ininterrotta permanenza nel kibbutz di Karmia dal 28 febbraio 1971 all’8 maggio ’73. Sul punto, si osserva che sia il G.I. che i giudici di primo grado avevano dato credito unicamente alle testimonianze dei fratelli Sorteni e al contenuto della nota UCLAT del 30 marzo 1992 relativa alla presenza del Bertoli a Marsiglia nel novembre 1971, oltre ad altre fonti che avevano riferito di aver visto il Bertoli sia a Parigi che a Recco, nei pressi di Genova, in tempi compresi nel periodo in questione. Inspiegabilmente non erano stati valutati gli accertamenti disposti al riguardo, in particolare del P.M. di Milano e le varie testimonianze di personale del kibbutz, tutte di segno contrario. Premesso che dalle annotazioni sul passaporto in possesso del Bertoli, quello recante il nome di Massimo Magri, non poteva desumersi che il Bertoli fosse uscito dallo Stato di Israele se non l’( maggio ’73 quando si imbarcò sulla nave Dan nel porto di Haifa diretto a Marsiglia, sono esaminate tutte le dichiarazioni testimoniali assunte in Israele dalla polizia italiana con l’assistenza di quella israeliana; dall’insieme di queste la C.A.A. perviene alla conclusione che Bertoli, non si allontanò dal kibbutz se non in una sola occasione e per un solo giorno, salvo fruire di un permesso quindicinale per sottoporsi a cure odontoiatriche. Tali testimonianze sono state ritenute attendibili e non smentite da quelle, definite incerte e contraddittorie, dei fratelli Sorteni (i quali avrebbero riferito del loro incontro con il Bertoli nella primavera del 1972 solo per accreditare la tesi di un Bertoli finto anarchico al soldo dei servizi segreti e collegato alla destra eversiva), dalla nota UCLAT determinata da evidente errore di registrazione di dati dell’autorità francese, dalle dichiarazioni di Serra Santolo (relative all’incontro con il Bertoli a Parigi) ritenute inattendibili sia perché imprecise sia per l’intrinseca inaffidabilità di chi le aveva rese, infine da quelle del teste Borelli e di Martino Siciliano ritenute le prime inverosimili e le seconde di scarso valore perché “de relato”. Del resto, si conclude sullo specifico punto, sarebbe stato assurdo che Bertoli, consapevole dell’ordine di cattura emesso nei suoi confronti, fosse rientrato in Italia, anche se per pochi giorni, recandosi in luoghi (Mestre, Spinea al “Graspo de uva”) dove era conosciuto e poteva essere arrestato. I giudici di appello, infine, prendono in esame le dichiarazioni rese in numerosi interrogatori (a diversi Giudici Istruttori e in fase dibattimentale) da Carlo Digilio, sulle quali troverebbe fondamento l’accusa contro gli imputati di aver concorso con Gianfranco Bertoli, ciascuno secondo un ben preciso ruolo, all’attentato in danno dell’On. Rumor risoltosi con la strage compiuta davanti alla Questura di Milano il 17 maggio 1973. In sintesi, secondo tali dichiarazioni, costituenti chiamata in correità anche se il Digilio non si era assunto alcuna personale responsabilità delineando un proprio ruolo defilato (quello di controllare la situazione del Bertoli per cinque o sei giorni), su iniziativa del Maggi (che aveva prescelto per l’attentato il Bertoli su suggerimento del Boffelli) Gianfranco Bertoli era stato prelevato e condotto nell’abitazione del Soffiati a Verona in via Stella dove dal Neami, con gli sporadici interventi del Maggi e del Boffelli, era stato convinto ad eseguire l’attentato, rafforzato nel proposito delittuoso, istruito all’uso della bomba a mano nonché su ciò che avrebbe dovuto dire in caso di arresto, cioè di essere un anarchico individualista e di avere agito da solo e di propria iniziativa. Premesso che l’episodio in questione, secondo la C.A.A., non è possibile si sia verificato attesa la dimostrata presenza ininterrotta del Bertoli nel kibbutz israeliano, anche nel periodo (marzo o aprile 1973) cui si fa riferimento, le dichiarazioni di Carlo Digilio in relazione a tale episodio sono state ritenute totalmente inattendibili sia intrinsecamente sia sul piano dei riscontri. Sotto il primo profilo si rileva l’assoluta carenza dei requisiti di attendibilità della costanza, della spontaneità e della coerenza logica. Si rileva, quanto al primo di tali requisiti, che il dichiarante, pur avendo affermato nel primo interrogatorio di poter riferire sui rapporti tra Maggie Bertoli, non aveva fatto alcun cenno all’episodio di via Stella; successivamente aveva parlato della vicenda ma, nel succedersi degli interrogatori, aveva sempre modificato la propria versione su particolari sicuramente rilevanti (la collocazione temporale della vicenda stessa, la durata della propria presenza nell’abitazione del Soffiati, l’esistenza di bombe a mano in quell’abitazione, il luogo e il tempo in cui doveva essere eseguito l’attentato); le sue dichiarazioni non erano state spontanee perche, da un lato, evidentemente intese ad adattare i fatti alla precostituita figura del Bertoli come falso anarchico, aderente a Ordine Nuovo e pedina nelle mani di chi professava strategie stragiste, dall’altro essendo forse il dichiarante condizionato dal proprio precario stato psico-fisico in conseguenza dell’ictus che lo aveva colpito e dal timore di perdere i benefici premiali di cui godeva per la collaborazione fornita in altri processi. Il difetto di coerenza logica delle dichiarazioni del Digilio è stato ravvisato sui seguenti punti: 1) se Bertoli, come ritenuto dal G.I. e dai primi giudici, fosse stato veramente un aderente al movimento Ordine Nuovo non sarebbe stato necessario convincerlo, anche ricorrendo alle maniere forti, promettergli un compenso in denaro e addirittura tenerlo segregato a lungo nell’appartamento del Soffiati; se, invece, Bertoli nulla aveva a che fare con Ordine Nuovo, la sua scelta sarebbe stata un azzardo inspiegabile, dato che avrebbe potuto trasformarsi in un pericoloso testimone. 2) Del tutto incredibile che un simile attentato fosse stato progettato senza predisporre un piano di fuga, così rendendo praticamente certo l’arresto dell’autore materiale. 3) Non ha alcun senso credere che Bertoli, il quale in vista dell’attentato doveva essere convinto e condizionato, con un vero e proprio lavaggio del cervello, sia stato poi lasciato libero di tornare in Israele e che quel condizionamento abbia spiegato la propria efficacia per un periodo, non breve, di circa due mesi. 4) Nel periodo in cui, secondo il Digilio, il Bertoli sarebbe stato ospite nella casa di via Stella, la Bassan era incita di sei mesi, conviveva con Marcello Soffiati in quell’abitazione, il che rendeva incompatibile la contemporanea presenza del Bertoli, del Neami e del Digilio, oltre all’andirivieni del Maggi e del Boffelli. Infine il racconto di Carlo Digilio è stato ritenuto privo di riscontri per quanto attiene all’accusa nei confronti degli imputati, non potendo essere ritenuti tali le dichiarazioni relative alle vicende di ciascuno nell’ambito di Ordine Nuovo e ai rapporti esistenti tra gli stessi e con altri elementi della destra eversiva. Ritenute false le dichiarazioni del Digilio a carico degli imputati, Maggi, Neami e Boffelli sono stati assolti dal delitto di strage per non avere commesso il fatto. Avverso la sentenza emessa in grado di appello proponeva ricorso il Procuratore Generale e la Corte di Cassazione, con sentenza in data 11 luglio 2003, annullava la sentenza impugnata rinviando ad altra sezione della Corte d’assise di Appello di Milano per un nuovo giudizio nei confronti di Maggi, Neami e Boffelli limitatamente all’imputazione di strage loro contestata. Il processo nel presente ulteriore grado di giudizio era fissato per l’udienza del 10 novembre 2004 e si concludeva in quella dell’1.12.2004. La Corte decideva sulle istanze di rinnovazione parziale del dibattimento con l’ordinanza in data 11 novembre 2004 che si riporta testualmente: “Sulle istanze di rinnovazione del dibattimento di appello variamente proposte dalle parti, rilevato che le produzioni documentali appaiono necessarie per consentire alle parti di argomentare le rispettive tesi; considerato che le prove dichiarative richieste – qualunque fosse il loro esito – non sarebbero in ogni caso risolutive in ordine al tema del giudizio di rinvio come stabilito dalla sentenza di annullamento; atteso che gli ulteriori atti di indagine sollecitati dalla difesa degli imputati hanno carattere meramente esplorativo e, come tali, non sono compatibili con la natura e le finalità della rinnovazione del dibattimento di appello regolata dall’articolo 520 del C.p.p. previgente; ammette l’acquisizione e la lettura dei documenti prodotti dalle parti e respinge tutte le altre istanze di rinnovazione del dibattimento; ordina procedersi alla discussione e rinvia all’udienza del 16 novembre prossimo per la conclusione dei difensori di parte civile ed eventualmente per la requisitoria del Procuratore Generale”. Le parti concludevano come da verbale in atti. MOTIVI DELLA DECISIONE Come già detto, la Corte Suprema di Cassazione, V^ Sezione penale – ritenuti fondati alcuni dei motivi di ricorso proposti dal Procuratore Generale - con sentenza in data 11 luglio 2003 ha annullato la sentenza pronunciata in grado di appello, nei confronti di Maggi Carlo Maria, Boffelli Giorgio e Neami Francesco, limitatamente all’imputazione di strage, rinviando per un nuovo esame ad altra sezione di questa Corte. Al fine di individuare il campo di indagine e tracciare i limiti dell’ulteriore esame demandato al giudice di rinvio occorre, ovviamente, fare riferimento alla motivazione della sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di Cassazione, che qui si richiama in ampia sintesi: i giudici di legittimità, dopo la disamina dei fatti per cui si procede, dello svolgimento del processo e delle risultanze istruttorie e dibattimentali, individuano il punto di diritto al quale si ispirano e sul quale si fondano le censure mosse dal Procuratore Generale sia all’impianto generale della sentenza impugnata sia agli specifici punti in cui la sentenza si articola, cioé la violazione dell’art. 524 n.1 del C.p.p. 1930 per travisamento dei fatti determinato da erronea applicazione delle norme relative alla valutazione delle prove. E’ richiamata la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, alla quale lo stesso ricorrente fa riferimento, secondo cui “il vizio di travisamento del fatto si risolve in un vizio logico-giuridico della ratio decidendi che determina mancanza e contraddittorietà della motivazione quando il giudice abbia manifestamente errato ammettendo un fatto inesistente o escludendo un fatto decisivo”. Rilevato che, secondo il Procuratore Generale, la Corte d’assise di Appello sarebbe incorsa nell’errore logico di aderire a una tesi preconcetta, modulando poi la motivazione su di essa al fine di avallarla, la Suprema Corte procede all’esame dei punti della motivazione considerati viziati da illogicità o contraddittorietà, iniziando dal capitolo intitolato “una strage annunciata”. Si osserva che i giudici di appello hanno concluso l’esame degli elementi di prova acquisiti affermando, in modo perentorio, che la strage compiuta da Gianfranco Bertoli non era stata in alcun modo preannunciata da Pietro Loredan e da Remo Orlandini. Tale affermazione, con riferimento all’episodio Loredan, è considerata frutto di un travisamento dei fatti che ha determinato una motivazione illogica perché non coerente con gli elementi obiettivamente accertati. Tali elementi, di seguito indicati e valutati dai giudici della Cassazione, sono costituiti: 1) dalla deposizione resa al G.I. il 24 marzo 1995 da Ivo Dalla Costa il quale aveva riferito di un incontro avvenuto a Treviso il 15 maggio ’73 con Pietro Loredan (che lo aveva richiesto per telefono quella stessa mattina, alle ore 6,30) e al colloquio nel quale il Loredan lo aveva avvertito che entro 48 ore, a Milano, sarebbe stato compiuto un attentato contro un’alta personalità del Governo. Ne era seguito l’immediato viaggio di Dalla Costa a Venezia per riferire quella informazione all’On. Ceravolo e l’altrettanto immediata partenza di entrambi per Milano dove, la mattina stessa del 15 maggio, i due avevano conferito con gli On.li Pajetta e Malagugini appositamente giunti da Roma su richiesta telefonica del Ceravolo. 2) dalla conferma dell’episodio provenuta dalla testimonianza dell’On. Ceravolo il quale, tra l’altro, aveva ricordato che l’On. Malagugini si era assunto l’incarico di informare l’autorità giudiziaria (in persona del Sostituto Procuratore della Repubblica Emilio Alessandrini) dell’informazione fornita da Pietro Loredan. I giudici di legittimità, premesso che dalla ricostruzione del fatto non può escludersi il significato dell’episodio riferito, osservano: “non si può escludere che l’episodio si sia verificato, o che il contenuto della comunicazione sia stato tale da aver allarmato il Dalla Costa e il Ceravolo. D’altra parte il Dalla Costa è persona assolutamente credibile e ha reso una deposizione logica e concludente, dando una spiegazione accettabile dei motivi per cui, dopo tanto tempo, aveva deposto, affermando di essersi deciso dopo la lettura sul Corriere della Sera delle dichiarazioni fatte da Bertoli, da lui considerate contrarie alla verità. Dalla Costa conosceva bene il conte Pietro Loredan che era suo buon amico e sapeva che era in contatto continuo con elementi di Ordine Nuovo del Veneto, aveva quindi personalmente dato credito alla notizia, successivamente rivelatasi coincidente o almeno molto simile, con l’attentato di via Fatebenefratelli”. Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere valida la preoccupazione del Dalla Costa esistendo in atti elementi di prova idonei a confermare i rapporti tra Loredan ed elementi di Ordine Nuovo (il teste Universo aveva riferito di aver incontrato più volte Giovanni Ventura nel ristorante del Loredan “la Falconiera”, il teste Stimamiglio aveva riferito, a sua volta, dei rapporti di amicizia esistenti tra il Loredan e Giovanni Ventura e della concreta possibilità che lo stesso Loredan avesse appreso dell’imminente attentato grazie alla frequentazione di Luigi Ventura, fratello di Giovanni all’epoca detenuto per la strage di Piazza Fontana. Si osserva quindi che la Corte d’Appello “pur potendo tranquillamente ritenere che il Loredan aveva appreso la notizia del prossimo attentato negli ambienti di Ordine Nuovo, ha preferito avventurarsi in una complicata e incerta costruzione logica che l’ha condotta ad affermare che Pietro Loredan aveva appreso, il 15 maggio 1973, dal giornalista Sergio D’Asnasch, nel corso di una cena, la notizia (generica) di gravi fatti che stavano per accadere in Milano; che lo stesso Loredan, ritenendo che D’Asnasch fosse in possesso di notizie riservate in quanto agente della CIA, aveva avvertito Ivo Dalla Costa; che questi, a sua volta, aveva ritenuto di informare prima Ceravolo e poi altri esponenti del P.C.I. (Pajetta e Malagugini); che costoro, sia per la genericità della notizia sia per la poca affidabilità della fonte (Loredan), non avevano ritenuto di dover allertare né i locali dirigenti del Partito né il capo gabinetto del Questore, anche perché all’epoca si sentivano con notevole frequenza voci dello stesso genere. Ivo Dalla Costa, con il passare degli anni, avrebbe sicuramente rielaborato l’episodio e probabilmente in buona fede avrebbe riferito al G.I. che Pietro Loredan gli aveva parlato di un attentato entro quarantotto ore contro un’alta personalità del Governo”. Queste le conclusioni della Cassazione sul punto in esame: la ricostruzione compiuta dalla Corte di secondo grado appare contraddittoria perché in contrasto con il fatto che il Dalla Costa ricevette la telefonata del Loredan alle 6,30 del 15 maggio ’73, mentre la Corte stessa ha indicato come avvenuta la sera di quel giorno la cena con il D’Asnasch sicché Loredan, quando parlò con Dalla Costa, non avrebbe potuto avere dal D’Asnasch le informazioni sull’attentato in preparazione. Ben più credibile che, invece, sia stato proprio il Loredan a dire qualcosa di quanto aveva saputo al D’Asnasch e che questi abbia poi elaborato la notizia a suo modo. “Deve quindi ritenersi che sul punto indicato la Corte di merito abbia effettuato una analisi non esauriente delle risultanze probatorie acquisite, che ha inciso sul libero convincimento del giudice di Appello, condizionandolo fino a produrre gli effetti negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto delle prove esistenti in atti, con conseguenti scelte non coerenti sul piano logico”. Il che comporta la necessità di un riesame nel merito al fine di valutare l’episodio in questione per verificarne la rilevanza in ordine all’oggetto del giudizio. “In particolare – prosegue la Cassazione – dato per accertato che Loredan abbia avuto sentore, in modo più o meno approssimativo, dell’attentato verificatosi il 17 maggio 1973, tanto da sentire il dovere di avvisare il suo amico impegnato politicamente sul fronte avverso, resta però da chiarire quale sia stata la fonte della notizia. Il P.G. ricorrente ha sottolineato i rapporti del Loredan con Giovanni e Luigi Ventura, indicando una possibilità di verificare ulteriormente il fatto. Dovrà però la Corte di rinvio, attraverso una rilettura delle prove esistenti, soprattutto valutare se vi sia stato un collegamento fra Loredan e il gruppo di O.N. diretto da Carlo Maria Maggi, e se la notizia sia scaturita da informazioni ricollegabili all’attività degli imputati”. La Suprema Corte, sempre sul tema della “strage annunciata”, ha ritenuto infondata la censura proposta dal Procuratore Generale di Milano alla motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la C.A.A. ha escluso l’esistenza di almeno un colloquio tra Remo Orlandini e il capitano Antonio Labruna (registrato), risalente ad epoca precedente alla strage, in cui si parlava espressamente di un attentato contro l’On. Rumor in preparazione. L’esistenza di quel colloquio e della relativa registrazione, invece, era stata ritenuta sia dal G.I. che dai giudici di primo grado sulla scorta della testimonianza resa dal maresciallo Paolo Di Gregorio. Il travisamento dei fatti, secondo il ricorrente, sarebbe ravvisabile nell’affermazione dei giudici di appello secondo cui il Di Gregorio, nel riferire che in uno di quei colloqui si parlava di attentati a uomini politici e che gli era rimasto impresso il nome del ministro degli interni Rumor, aveva equivocato intendendo, evidentemente, riferirsi al colloquio del Labruna con il Lercari, persona quest’ultima della quale il Di Gregorio ha detto di non essersi mai occupato. Al riguardo i giudici di legittimità osservano che dalle dichiarazioni del Di Gregorio non può dedursi l’esistenza di un nastro in cui si parlava di un attentato all’On. Rumor ma soltanto di generici riferimenti ad attentati, atti rivoluzionari, colpi di Stato e che tra le persone prese di mira vi era il ministro Rumor, considerato nemico degli estremisti di destra. Il che, si aggiunge, “non comporta l’esistenza di un nastro che preannunziasse l’attentato verificatosi. Non vi è in atti, quindi, alcuna prova o serio indizio, dell’esistenza di un preciso riferimento all’attentato di via Fatebenefratelli. Gli elementi acquisiti confermano soltanto l’esistenza di una fervente attività eversiva nell’ambiente dell’estremismo di destra, che certamente non basta a creare un collegamento con l’attentato oggetto del giudizio ed un riferimento operativo al gruppo di Carlo Maria Maggi. La Corte d’assise di Appello avrebbe potuto escludere la rilevanza probatoria dell’episodio senza tentare di negare in radice l’attendibile testimonianza del Di Gregorio. Il teste, infatti, non ha mai parlato di uno specifico nastro che si riferisse a un attentato in preparazione contro Rumor ma del generico contenuto di tutti i nastri da lui trascritti”. Sono quindi indicati altri tre punti della motivazione della sentenza impugnata, censurati dal Procuratore Generale: 1) la tassativa esclusione che il Bertoli possa aver avuto contatti con i servizi segreti italiani o israeliani dopo aver chiuso la sua esperienza quale informatore del SIFAR ufficialmente avvenuta dal 1954 al 1960; 2) l’altrettanto tassativa affermazione che Bertoli aveva soggiornato in Israele dal 1971 al 1973 senza essersi mai allontanato per recarsi in Francia o in Italia, basando questa certezza unicamente sulle risultanze del passaporto falso intestato a Massimo Magri e in possesso del Bertoli; 3) il fatto di aver ritenuto credibile e sincero il Bertoli fino al punto di considerare non veritiere tutte le dichiarazioni contrastanti con la ricostruzione dei fatti da lui effettuata. Quanto al primo punto, la Corte di Cassazione rileva che i giudici di appello si sono preoccupati di escludere totalmente i servizi segreti italiani ed israeliani dall’espatrio di Bertoli e si è avventurata in una complicata e incerta disamina del sistema di fascicolazione delle pratiche relative agli informatori del servizio segreto, fondata sui ragionamenti del teste Pollari. In realtà il teste, solo recentemente posto a capo dei servizi segreti, ha tentato di spiegare il sistema di fascicolazione delle pratiche contenenti i contributi forniti dagli informatori, vigente negli anni sessanta, attribuendo un significato logico ad annotazioni ed archiviazioni di dati, che sembrerebbero improntate ad approssimazione e disordine. La Corte ha dato totalmente credito al Pollari, trasformando così una semplice ipotesi logica, effettuata da un funzionario che non aveva partecipato alla fascicolazione delle vecchie pratiche, in una indiscutibile verità, in grado di superare tutte le dichiarazioni fatte dai funzionari addetti al servizio. In merito può solo osservarsi che, anche se Bertoli abbia continuato dopo il 1960 ad avere qualche rapporto quale informatore del servizio segreto ed anche se sia stato aiutato ad espatriare, il fatto non assume rilevanza con riferimento alla strage di Milano e alle imputazioni ascritte agli odierni imputati”. Quanto al secondo e terzo punto la Suprema Corte ha ritenuto fondate le censure del Procuratore Generale. Questi denunciava l’incompleta e non adeguatamente motivata la valutazione del materiale probatorio essendo stata attribuita esclusiva rilevanza alle annotazioni sul falso passaporto del Bertoli e alle dichiarazioni di testimoni israeliani assunte da personale dei servizi segreti italiani e di Israele, in ordine all’ininterrotta permanenza di Gianfranco Bertoli nel kibbutz dal febbraio ’71 all’8 maggio 1973. Si osserva in proposito che la Corte di merito si è fatta influenzare in modo rilevante da detti elementi di prova, sottovalutando quelli di segno contrario, avventurandosi in congetture non fondate sui fatti evidenziati ma conseguenza di una lettura sin dall’inizio incredula. In particolare non è stato attribuito credito alla nota UCLAT che conteneva l’informazione fornita dalla polizia francese circa la presenza del Bertoli a Marsiglia non solo l’8 gennaio ’71 e il 13 maggio ’73 ma anche, in particolare, dal 10 al 20 novembre 1971, periodo in cui fu ospite dell’Hotel du Rhone dove invece il Bertoli aveva sostenuto di aver preso alloggio l’8 gennaio ’71. Fra le due tesi, ritengono i giudici di legittimità, deve privilegiarsi quella fornita dagli organi inquirenti francesi, maggiormente affidabile e priva di interessi particolari. “D’altra parte – si osserva – è poco credibile che al momento della fuga dall’Italia il Bertoli, con un passaporto falso e un mandato di cattura pendente, si avventurasse a recarsi in un albergo, dando così alla polizia la possibilità di controllarlo con maggiore precisione e di far fallire il suo progetto di fuga. Del tutto gratuita appare invece la conclusione indicata in sentenza in cui si asserisce: ^solo per mero errore la polizia francese ha comunicato all’UCLAT che Gianfranco Bertoli aveva soggiornato a Marsiglia nel novembre 1971 invece che nel gennaio/febbraio ‘71^. La nota informativa della polizia francese ha carattere di prova in ordine ai fatti accertati, indipendentemente da eventuali vizi di forma attinenti alle modalità con cui è stata richiesta e trasmessa.” La Cassazione osserva ancora che i giudici di appello hanno disatteso le testimonianze dalle quali risultava la presenza del Bertoli in Italia o in Francia nel periodo che interessa, rilevandone l’inattendibilità o la falsità “con argomenti talvolta corretti e condivisibili ma in altri casi con l’evidente intento di evidenziare possibili contraddizioni ed incoerenze per eliminare tutti gli ostacoli logici alla tesi della veridicità assoluta di quanto dichiarato dal Bertoli”. In particolare erano stati dichiarati non credibili i testimoni Santolo Serra, Borelli, Albanese, Martino Siciliano, Giorgio e Tommaso Sorteni e, infine, era stato ignorato il rapporto dei Carabinieri di Milano che avevano acquisito le testimonianze di quattro persone (Negriolli, Liardo, Miele e Sedona) dalle quali era emerso che Bertoli era abituale frequentatore di trattorie e di altri locali di Spinea dove incontrava Rampazzo e Rizzato. In conclusione la Corte di merito “così liquidando tutte le prove contrarie alla possibile interruzione del soggiorno, ha dato per dimostrato quanto era oggetto di dimostrazione, compiendo un evidente errore logico. Il che rende necessario un riesame di merito demandato al giudice di rinvio”. E ancora: la versione di Bertoli è stata creduta anche perché confermata dal fatto che la bomba a mano a lui servita per l’attentato era risultata inequivocabilmente di produzione israeliana, il che rendeva attendibile l’affermazione che il Bertoli era entrato in possesso dell’ordigno quando si trovava nel kibbutz e che lo aveva portato con sé nel viaggio fino a Marsiglia e a Milano. Di conseguenza i giudici di appello, ritenuto altamente improbabile che per l’attentato – se veramente organizzato da elementi di Ordine Nuovo – non fosse stata fornita a Bertoli una bomba prelevata dagli arsenali del movimento eversivo, hanno ritenuto credibile il modo con cui il Bertoli, come da lui descritto, sarebbe riuscito a superare i controlli di frontiera. Al riguardo, convenendo con le argomentazioni del P.G., si evidenzia che la sentenza impugnata non ha tenuto conto di altri elementi esistenti nel processo: in particolare a) che nel 1966 erano state sequestrate nelle abitazioni di due militanti di O.N. armi e munizioni di provenienza israeliana; che tra gli esponenti di O.N. del Veneto vi era una corrente filo.israeliana e che molti aderenti avevano soggiornato in Israele, che dall’agenda sequestrata a Leo Pagnotta (italo-americano con interessi commerciali a Padova) erano risultati traffici d’armi con Israele sin dal 1960, attuati con il sistema della triangolazione. Di contro devono ritenersi poco credibili sia il sotterfugio indicato da Bertoli per portare con sé la bomba fino a Milano, perché di difficile realizzazione, sia l’affermazione dello stesso Bertoli di non essere sbarcato a Genova per il timore di essere arrestato, non sapendo di essere stato assolto fin dall’11.6.71 dal reato per cui era stato emesso mandato di cattura nei suoi confronti. Secondo la Suprema Corte “andavano, invece, verificati attentamente i motivi che lo hanno indotto a sbarcare a Marsiglia, tenendo conto che proprio in quel periodo nella citta di Marsiglia era in corso un raduno di Ordine Nuovo al quale partecipavano i fratelli Jemmy, dal Bertoli in precedenza ospitati per lunghi periodi nel kibbutz”. Per tanto la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della C.A.A. di Milano, relativamente al secondo e terzo punto di cui sopra, affidando alla Corte di rinvio il compito di effettuare le seguenti verifiche di merito. 1) Riesaminare in fatto tutti gli elementi di prova esistenti, sia in ordine alla permanenza di Bertoli in Israele, sia relativi ai suoi spostamenti, per verificarne per ciascun teste l’attendibilità intrinseca, la concordanza e la logicità; 2) valutare la rilevanza di ciascuna prova in ordine all’attentato oggetto del presente giudizio, sia con riferimento al periodo in cui i presunti rientri in Italia si sarebbero verificati, sia all’esistenza di collegamenti fra eventuali presenze in Francia o in Italia di Bertoli e il gruppo di O.N. e in particolare con Carlo Maria Maggi e gli altri imputati; 3) riesaminare i rapporti di Bertoli con il gruppo francese di O.N. e con i fratelli Jemmy, e precisare se vi siano stati collegamenti di costoro con il gruppo di Carlo Maria Maggi”. I giudici della Corte Suprema dedicano ampio spazio all’esame delle dichiarazioni rese da Carlo Digilio in occasione di numerosi interrogatori, sia nella fase istruttoria sia in quella dibattimentale (oltre che ad altre autorità giudiziarie). Esaminati singolarmente e nel loro complesso tali dichiarazioni, si osserva, sostanzialmente convenendo con i giudici di appello, che il Digilio aveva modificato più volte la propria versione, in specie quella relativa all’episodio in cui, a suo dire, il Bertoli era stato trattenuto nell’appartamento del Soffiati per essere convinto e addestrato dal Neami in vista dell’attentato contro il ministro Rumor; modifiche, incertezze e contraddizioni avevano riguardato punti essenziali della vicenda riferita, in particolare da chi, come e quando era stata presa la decisione dell’attentato e di incaricarne il Bertoli; il tempo in cui Bertoli era stato ospite in via Stella a Verona e come vi era stato condotto; le persone che avevano frequentato la casa del Soffiati in quel periodo e il loro ruolo; dove e per quando era programmato l’attentato; il ruolo svolto dallo stesso Digilio; la presenza o meno di armi e di ordigni esplosivi nell’abitazione del Soffiati. La Corte regolatrice enuncia quindi i criteri di valutazione delle dichiarazioni del coimputato, da tempo costanti nella giurisprudenza, ribadendo che affinché le stesse assurgano a dignità di prova occorre, oltre alla verifica di generale e intrinseca attendibilità del dichiarante, che i fatti riferiti trovino adeguata conferma in elementi di riscontro; questi, “per superare il deficit probatorio intrinseco alla chiamata in correità, possono consistere in elementi di qualsivoglia natura, cioè non predeterminati per specie o qualità, e quindi anche solo di carattere logico che, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado di corroborare la chiamata, in radice passibile di sospetto, conferendole la credibilità di qualsiasi elemento di prova. Essi debbono, comunque, consistere in elementi fattuali e/o logici, esterni alla chiamata nel senso che, pur dovendosi collegare ai fatti riferiti dal dichiarante, debbono tuttavia essere esterni ad essi, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare, tautologica ed autoreferente e cioè che in definitiva la ricerca finisca per usare come sostegno l’ipotesi probatoria che si trae dalla chiamata, la chiamata stessa e cioè lo stesso dato da riscontrare”. Ciò posto, si osserva che la Corte di merito, da un lato, ha manifestato di privilegiare la veridicità del racconto fatto da Bertoli tacciando immediatamente di falsità il Digilio perché le sue dichiarazioni contrastavano con quelle di Bertoli, ma dall’altro aveva poi effettuato una accurata analisi dell’attendibilità intrinseca del Digilio, indipendentemente dal contrasto con quanto affermato dall’imputato Bertoli. E, sulla base degli atti, la Corte di merito ha ritenuto di dover considerare il teste Digilio non credibile, in relazione alle dichiarazioni rese in questo processo, in ragione della sua particolare situazione psicologica verificatasi in seguito ad altre collaborazioni e all’insorgere di una grave malattia. Infatti, dai vari elementi in atti era stato possibile desumere che Digilio (tenuto anche conto delle dichiarazioni di questi sul punto), dopo la malattia aveva temuto fortemente di perdere i benefici previsti dal programma di protezione al quale era sottoposto, in quanto gli inquirenti – così pensava – sospettavano che egli tacesse su altri fatti molto gravi di cui sarebbe stato a conoscenza. Sicché, con tutta probabilità, l’organismo gravemente defedato e il timore di perdere quei benefici sarebbero stati la molla che aveva spinto Digilio a fare rivelazioni sulla strage compiuta da Bertoli, ritenendo così – nella sua ottica – di dimostrare la completezza della sua collaborazione e di assicurarsi i benefici derivanti dal programma di protezione. La Corte di Cassazione indica una linea valutativa delle di dichiarazioni di Carlo Digilio parzialmente diversa da quella dei giudici di appello: se è vero che le osservazioni formulate dalla sentenza impugnata senz’altro minano la credibilità del dichiarante sotto il profilo della spontaneità e del disinteresse della collaborazione, tuttavia è doveroso osservare, da un lato, che Digilio già fruiva dei benefici economici per il suo ruolo di collaboratore e che, accettando di fare altre dichiarazioni, si sottoponeva al rischio di perdere detti benefici se i nuovi fatti da lui riferiti fossero stati ritenuti non veritieri, dall’altro che la disposta perizia psichiatrica aveva accertato che il dichiarante ha conservato le normali capacità di intendere e volere, pur ammettendo che, a causa della malattia, la sua credibilità può essere considerata notevolmente attenuata. Ciò premesso, sull’attendibilità intrinseca si osserva che, in base al principio della frazionabilità delle dichiarazioni, alcune parti delle dichiarazioni di Carlo Digilio possono ritenersi attendibili e adeguatamente riscontrate: 1) può ritenersi certo che Digilio ben conoscesse la casa di via Stella a Verona e sapeva che il gruppo di O.N. del Veneto la utilizzava come base per attività di vario genere; 2) l’appartenenza al gruppo degli odierni imputati, con i rapporti gerarchici indicati e la loro dedizione all’attività eversiva; 3) i rapporti di conoscenza fra Bertoli e alcuni esponenti del gruppo Ordine Nuovo. Su altri punti, invece, le dichiarazioni di Digilio, non collegate necessariamente con le precedenti, sono censurabili in base ai criteri della precisione, della coerenza e della costanza e, più in particolare: 1) “le sue dichiarazioni sono approssimative in ordine al periodo di presenza di Bertoli nella casa di via Stella (dapprima ha indicato una data assai prossima all’attentato - mese di maggio – successivamente l’ha retrocessa di vari mesi; 2) dapprima ha dichiarato che in via Stella vi erano armi e successivamente lo ha negato; 3) ha fornito tre tesi diverse e contraddittorie in ordine ai presunti pagamenti di compensi assicurati al Bertoli; 4) ha dato diverse versioni dei comportamenti degli imputati nel corso del presunto soggiorno di Bertoli in via Stella; 5) ha dato versioni diverse della riunione nella quale sarebbe stato deciso di affidare a Bertoli il compito di uccidere Rumor, modificando più volte sia la presenza di alcune persone sia il luogo nel quale si sarebbe tenuto l’incontro”. In conclusione, i contrasti tra le varie versioni sono ritenuti rilevanti e sintomatici di progressivi aggiustamenti verso gli obiettivi di rendere, contemporaneamente, influenti i fatti narrati e di ridurre al minimo la responsabilità personale dello stesso Digilio. “Complessivamente – secondo i giudici della Cassazione – deve ritenersi che la testimonianza di Digilio sia notevolmente carente sul piano della credibilità e che inoltre l’attendibilità intrinseca delle singole dichiarazioni non possa ritenersi pienamente raggiunta, su punti particolarmente individuanti, per difetto di coerenza e per manifesta incertezza e contraddittorietà”. Si osserva poi che mancano riscontri esterni individualizzanti in grado di superare il deficit probatorio indicato. Tali non sono ritenuti quelli individuati dal Procuratore Generale, idonei a confermare soltanto la parziale credibilità del Digilio, già evidenziata ma limitata a punti non essenziali nella vicenda. Ad avviso della Suprema Corte “i punti, centrali e particolarmente indizianti delle affermazioni del Digilio in ordine alla responsabilità degli imputati, consistono nella presenza di Bertoli alcuni mesi prima dell’attentato nella casa di via Stella a Verona e nel fatto che Maggi, Boffelli e Neami lo abbiano, in quel loro rifugio, preparato e addestrato all’attentato, tenendolo segregato per vari giorni e che presumibilmente gli abbiano fornito la bomba. Gli elementi indicati come riscontro, in realtà, non si inseriscono in modo necessario nella dinamica degli avvenimenti descritta dal Digilio ma costituiscono argomenti, o in parte prove, di un coinvolgimento generale del gruppo Maggi e dello stesso Bertoli in attività eversive. Anche la dichiarazione resa dal Vinciguerra, che riguarda un attentato a Rumor progettato dal Maggi, non può essere considerata riscontro perché si tratta di un fatto diverso, progettato in epoca precedente con modalità nettamente diverse. Anche i buoni rapporti esistenti fra Bertoli, Maggi e altri aderenti a Ordine Nuovo, sono indizi rilevanti per l’intera vicenda ma non necessariamente legati all’episodio criminale così come descritto dal Digilio. Gli elementi indicati come riscontri, in realtà, consistono in elementi autonomi di prova che servono certamente a incrinare la credibilità di Bertoli come anarchico individualista, lontano da qualsiasi contatto con gruppi associati o eversivi, ma nulla aggiungono o chiariscono in ordine alla sua presenza in Verona nella casa di via Stella”. Di conseguenza i giudici di legittimità dispongono che l’impianto accusatorio sia riesaminato nel merito, alla luce dei chiarimenti indicati, attribuendo validità indiziaria agli elementi di prova esclusi dalla sentenza impugnata, sui punti annullati in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale, ed escludendo la validità probatoria del teste Digilio. La Suprema Corte, dopo aver indicato gli elementi di prova risultanti per ciascun imputato dalla sentenza impugnata, dai ricorsi e dalla sentenza di primo grado, così conclude: “Su tali elementi, e sugli altri che eventualmente nel nuovo giudizio di merito possano ricavarsi dall’istruttoria o dai dibattimenti effettuati, deve essere compiuta una nuova verifica in fatto per valutarne la validità probatoria e la rilevanza in ordine all’imputazione di concorso in strage e alla possibilità di attribuire agli imputati Maggi, Boffelli e Neami il coinvolgimento nella ideazione, nella preparazione e nell’attuazione dell’attentato o di alcune sue fasi e conseguentemente di dichiarane la responsabilità”. ********************** Sulla scorta delle indicazioni fornite dai giudici di legittimità, così come sopra ampiamente riassunte, è dunque affidato a questa Corte il compito di riesaminare le prove acquisite ed eventualmente di ricostruire, sulla base di una diversa valutazione dei fatti, l’intera dinamica della vicenda oggetto del giudizio, tenuti presenti appunto i temi di indagine e valutazione specificati dalla Suprema Corte - in ordine ai quali la sentenza di annullamento ha rilevato incongruenze motivazionali, travisamento dei fatti, adattamento delle risultanze processuali a tesi precostituite - e senza quindi riproporre le medesime argomentazioni e conclusioni già censurate dai giudici di legittimità. Per tali ragioni gran parte della motivazione sarà dedicata - con i doverosi approfondimenti quali richiedono la complessità dei fatti, le risultanze delle indagini istruttorie e dibattimentali, l’ingente quantità di elementi acquisiti, sia documentali che testimoniali - agli argomenti sui quali la Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione del giudice di rinvio, mentre per quanto attiene ad altri temi del processo, sui quali né la Suprema Corte né la sentenza d’appello annullata si sono espressamente pronunciate, per evitare inutili ripetizioni e per non appesantire ulteriormente la già complessa trattazione, saranno richiamate (se del caso in sintesi o più diffusamente) quelle parti dell’ordinanza del Giudice Istruttore e della sentenza della Corte d’assise di Milano non oggetto di specifiche contestazioni e, comunque, condivise da questa Corte. Nella motivazione della presente sentenza si seguirà un ordine di trattazione che si ritiene il più logico ai fini dell’esaustivo riesame, per quanto possibile, della complessa vicenda oggetto del processo, prendendo le mosse dalla strage avvenuta la mattina del 17 maggio 1973 nei pressi della Questura di Milano, dall’immediato arresto di Gianfranco Bertoli, esecutore materiale dell’attentato, e dalle dichiarazioni rese dallo stesso nell’immediatezza e nei numerosi successivi interrogatori. Su tempi, modalità e circostanze dell’attentato per cui si procede ben poco può aggiungersi rispetto a quanto già detto nella parte espositiva che precede: la bomba a mano, che provocò la morte di quattro persone e il ferimento di altre quarantacinque, fu lanciata alle ore 11 circa del 17 maggio 1973, dal marciapiede opposto, in direzione del portone di ingresso del palazzo di via Fatebenfratelli a Milano, dove ha sede la Questura; probabilmente per un errore nel lancio, la bomba rotolò a finaco del portone per alcuni metri esplodendo tra le persone in quel momento presenti sul marciapiede. L’autore del gesto criminoso, Gianfranco Bertoli (alias Massimo Magri, come da passaporto falso in suo possesso), immediatamente individuato (per alcuni testimoni addirittura nel momento del lancio) era subito tratto in arresto. Forse proprio per l’immediato arresto del responsabile della strage non furono effettuati particolari rilievi e l’azione non fu ricostruita nei minimi dettagli. Furono assunte, in vero, numerose testimonianze di persone che avevano assistito al fatto (cittadini e poliziotti) che consentirono di stabilire che l’attentatore, fermo sul lato opposto della strada rispetto al portone d’ingresso della Questura, improvvisamente aveva lanciato un oggetto che teneva in mano e, solo per alcuni testimoni, aveva gridato qualcosa che si riferiva al commissario Calabresi. Secondo alcune testimonianze il Bertoli non aveva tentato di fuggire, secondo altre aveva assunto un atteggiamento indifferente, quasi volesse far credere di essere estraneo al fatto. Altre testimonianze, infine, indicheranno che l’autore della strage era già presente nei pressi della Questura tra le 9,30 e le 9,50 essendo stato visto in un bar della zona e, secondo quando dichiarato dal teste Gemelli (della polizia scientifica), lo stesso alle 9,50 circa si trovava già sul marciapiede opposto alla Questura, apparentemente in compagnia di due uomini. La versione di Gianfranco Bertoli Ritiene la Corte che il naturale e logico punto di partenza per il pressocché completo riesame del materiale probatorio acquisito, così come richiesto dalla sentenza di annullamento, non possa che essere quello concernente l’approfondita e rigorosa verifica dell’attendibilità della versione dei fatti fornita da Gianfranco Bertoli, tenuto conto in particolare del fatto che, rispetto ad altri episodi di strage che insanguinarono il nostro Paese in quegli anni settanta, quello in esame fu caratterizzato, in modo peculiare e differenziale, dall’immediata individuazione e dall’arresto del suo esecutore, un esecutore che da subito si dichiarò colpevole dell’attentato assumendosene la piena ed esclusiva responsabilità. Inutile sottolineare l’assoluta rilevanza di tale verifica, considerato che se questa si risolvesse positivamente, vale a dire con un giudizio di piena credibilità di quanto affermato da Gianfranco Bertoli circa i personali moventi, la spinta ideologica del suo agire (quella anarchica), l’ideazione e l’esecuzione del progetto delittuoso, oltre a tutti gli altri elementi di contorno riferiti (dall’espatrio in Israele al soggiorno nel kibbutz, dall’occasione e dal modo con cui Bertoli si procurò la bomba poi utilizzata nella strage alla Questura al viaggio di ritorno prima a Marsiglia e poi a Milano, dalla decisione di compiere l’attentato alla sua esecuzione), si porrebbe come del tutto superflua ogni ulteriore attività di indagine intesa a individuare eventuali mandanti della strage nonché ad accertare se, come e in quale contesto abbiano avuto una diversa genesi i fatti di via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973. Se, aderendo per un momento a tale ipotesi, l’attentato fu effettivamente esclusiva opera del Bertoli essendo stato questi il suo unico ideatore ed esecutore, con le ovvie conseguenze sulla posizione degli imputati, si dovrebbe pervenire necessariamente alle medesime conclusioni dei precedenti giudici di appello, seguendo in sostanza un percorso argomentativo non ritenuto convincente, né sul piano logico né aderente alle acquisizioni probatorie, dalla sentenza di annullamento pronunciata dalla Suprema Corte. E’ per tali ragioni che le dichiarazioni rese da Gianfranco Bertoli nei suoi ripetuti Interrogatori (avanti al P.M. e al Giudice Istruttore) devono essere ora riesaminate e attentamente valutate. Solo una volta stabilito se la versione complessivamente fornita dal reo confesso dell’attentato sia o no attendibile si potranno assumere le prime conclusioni e, a seconda del loro segno, sarà possibile procedere alla disamina di tutti gli altri elementi di giudizio, frutto di una lunga e complessa istruttoria, già oggetto di approfondita valutazione nella motivazione della sentenza appellata. Dei numerosi interrogatori di Bertoli nella fase istruttoria (ben dodici), avanti al P.M. e al Giudice Istruttore tra il 17 maggio 1973 e il 25 giugno 1974, il più significativo, per ampiezza e contenuti, è senz’altro il primo, avvenuto nel Carcere di San Vittore a Milano lo stesso giorno della strage, iniziato alle ore 14,35 del 17 maggio e terminato alle 0,05 del 18. Nell’occasione il Bertoli, ammessa pienamente la propria responsabilità in ordine ai fatti di via Fatebenefratelli, fornì al Pubblico Ministero la versione che, sia pur oggetto in seguito di aggiustamenti e precisazioni, sarebbe rimasta costante e che si presta ad essere riassunta con poche parole: anarchico individualista, aveva da tempo coltivato il proposito di compiere un attentato contro Autorità costituite; a tal fine si era procurato una bomba a mano nel kibbutz di Karmia, in Israele, dove aveva vissuto negli ultimi due anni, si era imbarcato ad Haifa raggiungendo Marsiglia il 13 maggio e di qui Milano, nel pomeriggio del 16 maggio, dove la mattina del 17 aveva compiuto l’attentato, agendo di propria iniziativa, da solo e senza il mandato o la copertura di chicchessia. Del primo interrogatorio reso da Gianfranco Bertoli si ritiene opportuno riferire con una certa ampiezza, all’occorrenza riportandone testualmente alcuni brani. Preso atto dell’imputazione di strage (oltre a quelle di ricettazione e falso relative al passaporto), il Bertoli così esordiva: “Non nego quanto ho commesso. In sostanza ammetto tutti gli addebiti. Io non riconosco alcuna autorità, perché secondo me l’uomo è nato libero e deve essere libero; tutte le forme di autorità sono basate soltanto sulla violenza. Quando ho commesso i fatti, speravo che subito dopo fossi ucciso; speravo ache che qualcuno mi avrebbe imitato. Tutto il resto non me ne frega niente. La vita è una beffa, un assurdo.” Proseguiva, quindi, dichiarando quanto segue: di essere fuggito dall’Italia per sottrarsi a un ordine cattura emesso nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di Padova e di essersi rifugiato in un kibbutz in Israele; contrariato dai metodi repressivi di quello Stato, aveva pensato di compiere un attentato in danno del primo ministro Golda Mair ma vi aveva rinunciato a causa delle difficoltà che l’impresa presentava; durante la permanenza nel kibbutz aveva appreso dell’uccisione del commissario Calabresi, da lui ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Pinelli, non approvando il fato che l’attentatore fosse fuggito invece di farsi arrestare. Di essere arrivato in treno a Milano, proveniente da Marsiglia, verso le ore sedici del 16 maggio; nessuno era ad attenderlo, aveva lasciato il proprio bagaglio alla stazione Centrale e si era diretto in piazza del Duomo dove sperava di incontrare non megli indicati “capelloni”, gli stessi che a suo tempo gli avevano procurato il passaporto falso, perché gli indicassero dove trovare alloggio; aveva desistito per la presenza di molti poliziotti e Carabinieri ed era tornato nei pressi della stazione, in via Vitruvio, dove aveva preso una stanza nella pensione “Italia” esibendo il passaporto falso e confidando che non fosse registrato; dato che la stanza non era pronta e appreso che la pensione rimaneva aperta fino all’una di notte, si era messo a girare per la città senza una meta. Quanto alla mattina del 17 maggio, Bertoli affermava: “mi sono alzato verso le otto, sono subito uscito, ho acquistato un giornale e ho preso un caffè. Quando ho acquistato il giornale e ho appreso l’ora della manifestazione, ho preso il Metrò e mi sono recato in piazza del Duomo. In piazza del Duomo mi sono informato sulla strada da fare per andare in via Fatebenefratelli e mi sono diretto verso la Questura. Io mi sono diretto verso la Questura per tirare la bomba. Ammetto quindi la circostanza che questa mattina io sono uscito dalla pensione con la bomba nella tasca destra dei pantaloni. Ammetto di aver tentato di entrare nell’atrio della Questura ma degli agenti mi hanno impedito di entrare. Dopo sono andato in un bar poco distante e ho preso un brandy..............Preciso che era mia intenzione, una volta entrato nell’atrio della Questura, compiere un’azione dimostrativa, nel senso che, a seconda delle circostanze, avrei gridato, una volta portatomi accanto al busto di Calabresi, ^allontanatevi tutti^ tenendo in mano la bomba che avrei lanciato contro il busto di Calabresi. Se non avessero accolto il mio invito ad allontanarsi tutti, era comunque mia intenzione fare esplodere ugualmente l’ordigno. Ho pensato anche che, nel caso in cui avessero cercato di fermarmi, avrei fatto esplodere l’ordigno su di me e lo stesso avrebbe naturalmente colpito anche gli altri”. Sull’attentato: “Dato che non ero riuscito a entrare, dopo di essere andato al bar, mi sono riportato davanti alla Questura, sul marciapiede antistante, o meglio di fronte alla Questura nel lato opposto, proprio nel momento in cui uscivano le persone che erano intervenute alla manifestazione. Ho visto uscire dei militari e ho chiesto a due agenti che stavano davanti a me se si trattava della manifestazione relativa a Calabresi; gli agenti hanno risposto di si e io, dopo aver detto ^Calabresi è l’assassino di Pinelli^, ho lanciato la bomba verso il portone. Dopo che la bomba è scoppiata, alle persone che mi stavano vicino e che mi stavano intorno meravigliate, io ho detto ^sono stato io^, aggiungendo altre parole che adesso non ricordo. Da quel momento non ricordo bene cosa sia accaduto anche perché sono stato circondato dalla folla tumultuosa. Sono stato preso e condotto in Questura dove mi hanno arrestato. Quando compii l’atto io ero solo e accanto a me non vi era alcuna persona che io conoscessi”. Bertoli proseguiva dichiarando: di essersi procurato la bomba a mano prelevandola, tra altre bombe e armi, in un alloggio di militari nel kibbutz di Israele; intendeva usarla quando sarebbero andati ad arrestarlo; comunque pensava anche di utilizzarla in un gesto eclatante, precisando: “ quando ho appreso la notizia della morte di Calabresi, ho pensato anche di fare un attentato dal momento che, a seguito della morte di Calabresi, c’erano state troppe celebrazioni che non si sarebbero dovute fare, perché le decine di migliaia di persone che avevano partecipato a quelle celebrazioni si erano rese solidali con Calabresi, che io ritenevo un assassino. Su questo non ho alcun dubbio”. Di avere progettato, in un primo tempo, di compiere un attentato a Pisa in occasione dell’anniversario della morte di Franco Serantini avvenuta il 7 maggio 1972, ma non era riuscito a trovare alcun mezzo per giungere in tempo in Italia. Quando si era reso conto che non poteva più giungere in tempo utile a Pisa per compiere l’attentato il 7 maggio, aveva “pensato di compiere l’attentato a Milano in occasione della celebrazione” per il commissario Calabresi. Precisava meglio in proposito: “Non mi sono informato direttamente sul giorno della celebrazione perché ho pensato che essendo morto Calabresi il giorno diciassette maggio, certamente nell’anniversario della sua morte ci sarebbe stata una celebrazione. Non sapevo infatti che durante la celebrazione che ritenevo quasi certa, si sarebbe scoperto un busto di Calabresi nella Questura di Milano”. Bertoli, sul punto, ribadiva: io avevo saputo che stamane vi era l’inaugurazione del busto di Calabresi avendolo appreso dal Corriere, che avevo comprato questa mattina. La notizia era riportata nella pagina della cronaca di Milano”. Si era imbarcato sulla nave “Dan” nel porto di Haifa ed era partito l’8 maggio ’73, portando con sé una valigia, una borsa e la bomba a mano che teneva in tasca; prima erano stati controllati i bagagli dopo di che, al momento della perquisizione personale aveva messo la bomba nella borsa senza essere visto. La nave aveva fatto scalo a Genova dove si era fermata per circa due ore; era sceso a terra e aveva girato per il porto, proseguendo poi per Marsiglia preferendo sbarcare in quella città. Precisava al riguardo: “feci ciò in quanto temevo che a Genova potessi incontrare qualche poliziotto che scoprisse che il passaporto di cui ero in possesso era falso e comunque proveniente da furto, per via del numero, pensando che fosse stato segnalato. Inoltre temevo di trovare qualche poliziotto il quale mi facesse magari delle domande sulla città in cui risultava rilasciato il passaporto e che io non conoscevo, non essendo mai stato a Bergamo”. A Marsiglia si era trattenuto per due giorni prendendo nell’Hotel “du Rhone”, nei pressi della Gare de l’Est, ed era partito alla volta di Milano alle 6 antimeridiane del 16 maggio. A Marsiglia si era trattenuto per circa due mesi due anni prima, senza una ragione particolare, ma per sottrarsi all’ordine di cattura; in quel periodo aveva vissuto di espedienti e con mezzi illegali, aveva conosciuto persone che non intendeva indicare, infine era stato fermato e identificato dalla polizia dopo di che, non avendo destato sospetti il passaporto falso di cui disponeva, si era sentito più sicuro e aveva preso una camera nell’Hotel “du Rhone”; sbarcato a Marsiglia, proveniente da Haifa, non aveva incontrato nessuna delle persone conosciute due anni prima nella città francese. Di essere espatriato dall’Italia servendosi di un passaporto falso, quello trovato in suo possesso al momento dell’arresto e recante il nome di Massimo Magri, che gli era stato procurato da alcuni “capelloni” (dei quali non era in grado di fornire più precise indicazioni) conosciuti a Milano in piazza del Duomo; con quel passaporto si era recato a Zurigo, a Ginevra, a Parigi e a Marsiglia. Rispondendo a una domanda del difensore, Bertoli teneva a precisare che, giunto a Milano per compiere l’attentato, aveva evitato di prendere contatto con qualsiasi persona, per non compromettere nessuno nella sua azione, trattandosi di un’azione individuale. A fronte della relativa contestazione, ammetteva di conoscere Rodolfo Mersi (un sindacalista della CISNAL, caposala in un ristorante milanese) e la moglie di questi, di essersi recato nella sua abitazione (in via Pericle n.5) la sera del 16 maggio, verso le ore 21, trattenendosi per circa mezz’ora. (per inciso, il Mersi, poche ore dopo l’attentato, si presenterà in Questura per riferire dell’incontro avuto la sera prima con il Bertoli, persona che aveva subito sospettato essere l’autore della strage – n.d.u.). Non escludeva di aver “parlato di bombe” con la moglie del Mersi e precisava di aver conosciuto Rodolfo Mersi a Venezia nel 1954/55 quando lo stesso era esponente di un movimento neofascista, trafficava in armi ed era informatore della Polizia. Mersi gli si era rivolto perché lui, Bertoli, conosciuto all’epoca come commerciante di armi gliene fornisse alcune. Ammetteva che quella sera si era incontrato con il Mersi il quale, avvertito telefonicamente dalla moglie della sua visita, era giunto intorno alle ore 23,15; aveva trascorso circa due ore a chiacchierare con la moglie e la figlia del Mersi, raccontando cose fantasiose (“che ero un appartenente ad Alfatah, che ero in grado di far saltare il Parlamento, che se mi davano centomila lire gli eliminavo la portinaia”) più che altro per scaricare la tensione che era in lui a causa di ciò che avrebbe dovuto fare l’indomani. Di non aver parlato dei suoi propositi con il Mersi, dichiarando testualmente: “non è vero che ho parlato con il Mersi della celebrazione che si sarebbe tenuta oggi in Questura. Non ne ho parlato perché ancora non sapevo bene se quella celebrazione si fosse tenuta o meno. Io in effetti ero venuto a Milano nella certezza che la celebrazione sarebbe avvenuta il giorno 17, però ieri ho letto i giornali e non vi ho trovato alcuna notizia in ordine a quella celebrazione; in sostanza io ho avuto la certezza della celebrazione che sarebbe avvenuta soltanto questa mattina leggendo il Corriere della Sera. Non è vero che ho detto al Mersi che ero venuto a Milano per compiere un attentato e che avevo con me una bomba. Come ripeto, ho parlato di bombe solo genericamente”. Non escludeva di aver parlato di Calabresi con la moglie del Mersi, ma ribadiva: “non è vero che ho parlato ai coniugi Mersi dell’attentato che avevo in mente di compiere. Non è vero nemmeno che io abbia detto loro che ero in possesso di una bomba. Di non avere dovuto affrontare alcuna difficoltà per recarsi in Israele: aveva compilato alcuni moduli al consolato di Marsiglia e aveva ottenuto il visto d’ingresso; giunto in Israele aveva chiesto di essere assegnato a un kibbutz, cosa che gli era stata concessa senza particolari formalità. Quanto al periodo di permanenza in quel luogo dichiarava: “sono rimasto nel kibbutz per circa due anni. Naturalmente durante questo periodo ho fatto delle amicizie, però non intendo fare alcun nome delle persone che ho conosciuto e con le quali ho trattenuto rapporti di amicizia, perché non volgio coinvolgerle in questi fatti”. Nel periodo di permanenza nel Kibbutz non aveva avuto alcun contatto con italiani. Gianfranco Bertoli, due giorni dopo, affermava di aver lanciato la bomba quando aveva visto uscire dal portone della Questura alcuni Ufficiali Superiori, precisando inoltre: “nel caso in cui io fossi riuscito a entrare in Questura speravo di eliminare il Ministro e tutte le autorità presenti, in particolare speravo che fosse presente il dr. Guida e il dr. Amati che io avevo intenzione di eliminare in quanto, secondo me, essi si erano resi responsabili della morte di Pinelli”. Ribadita la propria intenzione di colpire il gruppo delle Autorità, riteneva che l’errore nel lancio della bomba fosse da attribuire alla concitazione del momento e al timore che l’ordigno, una volta tolta la sicura, gli esplodesse in mano. Ammetteva di aver parlato di bombe con la Di Lalla (moglie di Rodolfo Mersi) ma, quanto ai suoi propositi per la mattina del 17 maggio, dichiarava: “nego ancora una volta di aver detto al Mersi e alla moglie che avevo intenzione di compiere un attentato l’indomani mattina in occasione della celebrazione dell’anniversario della morte di Calabresi. Non gliel’ho detto anche perché temevo che egli avrebbe potuto avvertire la polizia”. Quanto al suo soggiorno a Marsiglia, dal 13 al 16 maggio, Bertoli confermava di aver gironzolato per la città senza una meta precisa, in attesa di prendere il treno per Milano, e di non avere incontrato nessuna persona di sua conoscenza. Così concludeva l’interrogatorio: “Ribadisco ancora una volta che ho agito da solo, che dietro di me non c’è nessuno, che non faccio parte di alcuna organizzazione e che non vi ho mai fatto parte essendo contrario al principio stesso di organizzazione. Ribadisco altresì che nessuno mi ha detto che il giorno 17 maggio 1973 ci sarebbe stata la celebrazione per l’anniversario della morte di Calabresi”. Nel succedersi degli interrogatori Gianfranco Bertoli, spontaneamente o a specifiche domande, forniva ulteriori particolari e precisazioni: durante la permanenza nel kibbutz aveva conosciuto i fratelli Jemmi, Michael e Jacques, negava di aver fatto parte del movimento “Pace e Libertà” come del gruppo “Ordine Nuovo”; aveva lasciato il proprio bagaglio alla stazione Centrale di Milano ritenendo di non averne bisogno dato che, se la mattina del 17 maggio avesse compiuto l’attentato, sarebbe morto o sarebbe stato arrestato (al P.M. interr. 21.5.1973); aveva conosciuto i fratelli Jemmi nel marzo 1971, ospiti anche loro del kibbutz, instaurando rapporti di amicizia data la comune ideologia di sinistra; i due erano stati allontanati dal kibbutz, a seguito di una lite per motivi religiosi avvenuta con tale Claude, e riteneva si fossero recati prima in Grecia e poi a Parigi; li aveva rivisti nell’autunno ’72 quando li aveva ospitati, di nascosto, nel suo alloggio. Si era allontanato dal kibbutz in varie occasioni, per recarsi in città di Israele, per tre giorni al massimo ma il più delle volte rientrando in giornata. A Marsiglia aveva alloggiato per tre notti nell’Hotel “du Rhone”, pagando la stanza dieci franchi a notte, e nel suo girovagare per la città non aveva avuto contatti con alcuno. Sempre sull’attentato ribadiva: “il mio obiettivo esclusivo era quello di provocare la morte delle Autorità che partecipavano a quella celebrazione” (al P.M. interr. 24 maggio ’73). Dall’interrogatorio reso al Giudice Istruttore il 1° giugno ’73: “era mia intenzione gettare la bomba in mezzo agli ufficiali di P.S. che stavano uscendo dal portone in quel momento e dietro ai quali supponevo ci fossero le Autorità”................”Confermo che a casa del Mersi arrivai intorno alle 21..........il Mersi arrivò alle 23,15 , io andai via alle 23,55 circa.......avevo telefonato alla signora Mersi alle ore 20,30 prima di andare. Poco dopo il mio arrivo la signora Mersi telefonò al marito il quale ci chiese di raggiungerlo al ristorante ma, per ovvi motivi, io non volli andare e preferii aspettarlo. Mi sembra che la signora Mersi telefonò una sola volta al marito. Non mi pare che la signora Mersi ricevette altra telefonata mentre io ero lì”..........”Telefonai al Mersi perché, essendo in uno stato di tensione, desideravo che qualcuno mi chiamasse con il mio nome. Inoltre in quel momento non ero sicuro che ci sarebbe stata una qualche manifestazione in memoria di Calabresi; la mia sicurezza precedente aveva vacillato per il fatto che sui giornali non era riportata alcuna notizia sulla celebrazione. Comunque considero la mia visita al Mersi una debolezza”...........”durante la conversazione con il Mersi non feci alcun riferimento specifico alla celebrazione che vi sarebbe stata il giorno seguente........Non riesco a capire come, subito dopo il lancio della bomba, il Mersi abbia immediatamente intuito che ero stato io, pur non conoscendo le caratteristiche di chi aveva compiuto il gesto”. Alla contestazione che tale Shusterman e un suo amico, ospiti del kibbutz, avevano affermato che lui, Bertoli, aveva detto di avere un appuntamento a Parigi per il 15 maggio, replicava: “è probabile che abbia dichiarato ciò, ma ho dichiarato il falso perché non avevo alcun appuntamento”. Negava di aver detto ai due di aver paura di essere ucciso e di aver ricevuto una lettera dalla Francia e del denaro dall’Italia (“avendo una concezione nichilista della vita, non posso aver paura di morire. Escludo di aver deciso di partire dopo aver ricevuto una lettera dalla Francia. E’ probabile che i miei discorsi siano stati fraintesi perché mi esprimevo male in ebraico”). Ribadiva di aver dormito tre notti nell’hotel “du Rhone” contrariamente a quanto affermato dalla titolare secondo la quale egli aveva trascorso nell’albergo una sola notte. Quanto al giorno dell’attentatto: “andai alla pensione in via Vitruvio tra le ore 0,30 e le ore 0,45. La mattina seguente uscii alle ore 8 circa. Appena uscito andai alla stazione a comprare il giornale dove appresi della manifestazione.......sapevo che la cerimonia era alle 10,30 e non volevo arrivare prima per evitare di essere notato.....arrivai in via Fatebenefratelli, passando per via Manzoni, alle 10,45 circa. La cerimonia era già iniziata.........Pensavo che la celebrazione sarebbe durata ancora per parecchio, almeno fino a mezzogiorno. Entrai in un bar distante circa 50 metri e presi un cognac. Uscito dal bar mi resi conto che la cerimonia era già finita e la gente stava uscendo. Mi portai sul marciapiede opposto di fronte all’ingresso”. Aveva lanciato la bomba quando alcuni poliziotti, ai quali si era rivolto, gli avevano confermato che si trattava della cerimonia per il commissario Calabresi. Lanciando l’ordigno aveva gridato “Calabresi è l’assassino di Pinelli. Viva l’anarchia e viva la rivoluzione”. (interr. G.I. 14.6.1973) ..........“confermo che la sera precedente io non sapevo che vi sarebbe stata la manifestazione; la mia era solo una supposizione, anzi dico una certezza morale. E’ probabile che abbia detto, lasciando la casa del Mersi, ^se non mi ammazzano ci vediamo tra dieci anni^. Escludo di aver detto al Mersi che avevo paura che mi ammazzassero mentre dormivo...........Se dovevo essere ammazzato, pensavo che ciò sarebbe avvenuto nell’esecuzione del mio attentato e non altrimenti”. “La mia aspirazione era di gettare la bomba nel momento in cui c’era la massima autorità presente; sarei stato lieto di gettare la bomba verso Rumor. Purtroppo non mi accorsi del momento in cui uscì dal cortile perché ero nel bar”. Alla contestazione delle dichiarazioni rese da Augusta Farvo (strettamente legata ad ambienti anarchici milanesi – n.d.u.), Bertoli negava di aver preso contatto con costei verso le 18,30 del 16 maggio ’73 sostenendo di non conoscere la donna e di non averne mai sentito parlare, spiegando che probabilmente si trattava di un equivoco o di qualcuno che mentiva per suoi fini particolari. Bertoli sarà sentito ancora dal Giudice Istruttore (25.7 e 3.10 1973, 17.1, 19.2, 24 e 25.6.1974) per rispondere in ordine a fatti, considerati rilevanti, man mano emersi dalle indagini, relativi in particolare alle modalità dell’espatrio in Israele, alla permanenza nel kibbutz, alle dichiarazioni di alcuni testimoni circa i suoi mantenuti rapporti con persone in Italia e sulle ragioni che lo avevano indotto a partire per Marsiglia. Se ne tratterà, quando occorra, nel prosieguo della motivazione. Al momento, però, l’attenzione della Corte deve rivolgersi a una prima e fondamentale verifica: l’attendibilità o meno della versione dei fatti fornita da Gianfranco Bertoli con le dichiarazioni rese in occasione dei richiamati interrogatori. Quegli stessi elementi di dubbio che, già a suo tempo, furono prospettati dal Giudice Istruttore nonché dalla Corte d’assise di Milano che giudicò l’autore materiale della strage di via Fatebenefratelli e che resero necessarie ulteriori approfondite indagini in ordine all’esistenza di mandanti dell’attentato e alla loro individuazione, del che si è occupata la lunga istruttoria sfociata nel processo contro gli attuali imputati, non possono non essere condivisi da questa Corte, confortata in proposito dalle conclusioni, su punti particolarmente significativi, cui sono giunti i giudici di legittimità con la sentenza di annullamento. Prescindendo, per il momento, dalle numerose incongruenze e contraddizioni di cui appare infarcita la versione ripetutamente sostenuta da Gianfranco Bertoli, uno dei punti più significativi, per illogicità e inverosimiglianza, di quella versione è senz’altro quello attinente alla ideazione dell’attentato, vale a dire al tempo, ai modi e alle circostanze in cui maturò nel Bertoli il proposito di compiere il gesto criminale in occasione della cerimonia, fissata per quel 17 maggio 1973, in memoria del commissario Luigi Calabresi. Il tema, poco approfondito se non trascurato nella sentenza di primo grado, merita ora una compiuta disamina: deve ritenersi assurdo, per tanto assolutamente incredibile, quanto sostenuto da Bertoli circa il progetto, meditato e deciso quando ancora si trovava nel kibbutz di Karmia, di esprimere in concreto la propria personale protesta di “anarchico individualista” contro le Autorità statuali e contro la società ritenuta ingiusta mediante un gesto eclatante, il lancio di una bomba, da compiere in occasione della commemorazione del dr. Calabresi nell’anniversario della sua uccisione. Un progetto che, secondo le ripetute affermazioni dello stesso Bertoli, aveva come presupposto per la sua realizzazione il presentarsi dell’unica occasione possibile, rappresentata nella specie dalla cerimonia che si sarebbe svolta alla Questura di Milano il 17 maggio ’73. Orbene, Bertoli ha sostenuto, e più volte ribadito, di avere soltanto sperato e confidato che la cerimonia vi sarebbe stata, essendo cosa ovvia e logica - a suo dire - che a distanza di un anno dalla morte non sarebbe certamente mancata la commemorazione del Commissario vittima del terrorismo. Sicché, sempre seguendo il suo racconto e attribuendogli un pur minimo credito, Bertoli avrebbe raggiunto Milano nel pomeriggio del 16 maggio senza neppure sapere se le condizioni e l’occasione per attuare il suo proposito si sarebbero verificate. E infatti è lo stesso Bertoli a spiegare, prima al P.M. poi al Giudice Istruttore, che solo verso le ore 8 del 17 maggio ’73 aveva appreso, dalla lettura del Corriere della Sera, che nella mattinata stessa si sarebbe tenuta la cerimonia nel cortile della Questura in via Fatebenefratelli. Appresa quella notizia e avuta conferma della propria previsione, meglio definita - usando le sue parole - “una supposizione, anzi una certezza morale”, Bertoli si era recato in piazza del Duomo e di qui in via Fatebenfratelli percorrendo via Manzoni. L’autore dell’attentato stragista ha sempre sostenuto, e lo ha fatto con continui riferimento alle proprie scelte filosofiche e politiche, di aver a lungo meditato di compiere un gesto eclatante, quello appunto di lanciare una bomba, per vendicare la morte dell’anarchico Pinelli e in segno di protesta contro tutti coloro che, Autorità o comuni cittadini, avevano manifestato cordoglio e indignazione per l’uccisione del commissario Calabresi, da lui ritenuto responsabile dell’uccisione del Pinelli. Per il vero, della serietà e fermezza di un tale proposito è quanto meno lecito dubitare considerato che, stando alle sue stesse dichiarazioni, Bertoli, poco prima di intraprendere il viaggio da Haifa a Marsiglia, aveva anche pensato di eseguire l’attentato a Pisa nell’anniversario della morte dell’anarchico Serantini, rinunciando al progetto per la contingente ragione di non aver trovato un mezzo di trasporto che gli consentisse di essere a Pisa in tempo utile. E’ allora lecito, se non doveroso, domandarsi quale dei due progetti stesse a cuore al Bertoli: chi intenedeva vendicare, Serantini o Pinelli ? contro chi intendeva protestare facendo esplodere la bomba, contro la situazione che determinò la morte del Serantini (avvenuta nel corso di scontri con le forze dell’ordine) o contro le Autorità e cittadini milanesi ? Ma non si tratta degli unici interrogativi. Ve ne sono altri, correlati con altrettante incongruenze, che le dichiarazioni del Bertoli pongono come ineludibili: è mai possibile, o anche soltanto verosimile, che un’azione tanto grave, e tanto “importante” nelle intenzioni dell’autore (l’attentato nel corso della cerimonia per il commissario Calabresi), che l’attuazione di un progetto tanto a lungo meditato e assurto a gesto nobilitante e conclusivo (Bertoli, sono sue parole, aveva messo in conto di poter essere ucciso nel corso o a seguito dell’azione) fosse affidata al caso, al verificarsi di una condizione ipotizzata o sperata ma della quale il Bertoli, per sua stessa ammissione, non aveva la minima certezza ? Si può ragionevolmente credere che l’autore dell’attentato non solo si fosse procurato la bomba a mano (sottraendola a dei militari !) ma l’avesse anche a lungo conservata e occultata, l’avesse poi portata con sé facendo ricorso a inverosimili stratagemmi, comunque correndo il grave rischio di esserne trovato in possesso, nella prospettiva di compiere un’azione contemplata in termini di mera possibilità ? Come è possibile non rilevare l’evidente incongruenza di un Bertoli che da un lato, a suo dire, si guarda bene dallo sbarcare dalla nave “Dan” a Genova, pur potendo farlo, ma prosegue per Marsiglia per evitare di essere fermato dalla polizia per via del passaporto falso o per la pendenza dell’ordine di cattura, e dall’altro affronta i rischi connessi agli ulteriori controlli di frontiera cui sarebbe stato sottoposto ? Per quanto astuto nell’occultare l’ordigno, ora nel bagaglio ora sulla persona, poteva essere scoperto e allora come avrebbe spiegato il possesso, non di un coltello o di una pistola, ma di una bomba ? E tale rischio Bertoli avrebbe corso consapevolmente per compiere qualcosa che, lo afferma lui stesso, gli si presentava come assolutamente incerta ? E ancora: se è vero, come è vero, che il viaggio da Israele fu organizzato meticolosamente da Bertoli per consentirgli di sbarcare a Marsiglia il 13 maggio e, sopratutto, di essere a Milano nel pomeriggio del giorno 16, per tanto proprio nell’imminenza della cerimonia in Questura, come conciliare tutto ciò con la semplice speranza (“supposizione o certezza morale” che dir si voglia) che quella cerimonia vi sarebbe stata ? Infine, come è possibile credere che un simile attentato, tanto grave negli effetti e significati ma altrettanto “importante” per chi si apprestava a compierlo, possa essere dipeso nella decisione e nella esecuzione..........dalla lettura di un quotidiano? E se la notizia della cerimonia (confinata nella pagina della cronaca milanese) gli fosse sfuggita, cosa ne avrebbe fatto Gianfranco Bertoli della sua tanto agognata azione eclatante, da eseguire - secondo i suoi dichiarati propositi - non a caso, cioè contro innocenti cittadini, ma contro rappresentanti dello Stato ? si sarebbe tenuta la bomba in tasca in attesa di altra favorevole ed altrettanto ipotetica occasione ? La risposta a quest’ultimo interrogativo è fornita dallo stesso Bertoli: “se la celebrazione non vi fosse stata, me ne sarei andato” ! Si tratta di interrogativi che trovano conclusiva risposta solo nell’assoluta inattendibilità delle dichiarazioni rese dal Bertoli sullo specifico punto in esame, in quanto illogiche, incongruenti e inverosimili, implicanti necessariamente una versione menzognera dei fatti, che dovrà essere compresa e spiegata. Prima ancora, però, occorre soffermarsi sui fatti della sera del 16 maggio quando cioé il Bertoli, previo accordo telefonico con la Di Lalla, si recò nell’abitazione di Rodolfo Mersi in via Pericle 5 e vi si trattenne fin verso le 23,50 prima di prendere la metropolitana diretto alla stazione Centrale. L’autore dell’attentato, all’inizio del suo primo interrogatorio, ha implicitamente escluso quell’incontro affermando che a Milano, prima di compiere la strage alla Questura, non aveva preso contatto con alcuno. Ammetterà poi di essersi recato a casa del Mersi, sua vecchia conoscenza fin dai tempi in cui abitava a Venezia, intrattenendosi per circa mezz’ora con la Di Lalla e la figlia di questa e, infine, che la visita si era protratta fin verso mezzanotte, di aver rifiutato l’invito di Mersi avvertito telefonicamente dalla moglie della sua presenza - di raggiungerlo al ristorante “Alfio”, preferendo attenderne il rientro. Nonostante i ripetuti interrogatori del Mersi, della moglie e della figlia, non è stato possibile chiarire del tutto le ragioni e lo scopo di quella visita, spiegata dal Bertoli, in modo ben poco convincente, con il desiderio di parlare con “qualcuno che lo chiamasse per nome”. Tuttavia, prescindendo da tale mancato accertamento, anche dall’episodio in questione si traggono elementi a conferma della falsità dell’assunto di Bertoli di aver appreso della cerimonia in Questura solo la mattina del 17 maggio dalla lettura del Corriere della Sera e di avere deciso, seduta stante, di compiere l’attentato. Innanzitutto, dopo averlo inizialmente negato, Bertoli ha finito per ammettere di aver parlato con la Di Lalla della bomba che aveva con sé; lo avrà pur detto per scherzo, ma sta di fatto che la donna ritenne opportuno informarne immediatamente il marito al suo rientro; ha ammesso anche di aver parlato del commissario Calabresi e, infine, di aver detto a Rodolfo Mersi, al momento del commiato, che se “non lo avessero ammazzato, si sarebbero visti dopo dieci anni”. Si tratta di comportamenti che non possono diversamente spiegarsi se non con il fatto che Bertoli, la sera del 16 maggio già sapeva, con tutta certezza, ciò che avrebbe compiuto la mattina successiva, al punto di dare per scontata la possibilità di essere ucciso o arrestato e di non nascondere il possesso della bomba, anzi vantandosì di averla con sé, naturalmente scherzando. Uno scherzo, si osserva, talmente ben riuscito (unitamente ai discorsi su Calabresi e all’ipotesi dell’arresto o di essere ammazzato) che indurrà il Mersi, la stessa mattina dell’attentato, a precipitarsi in Questura per fornire informazioni sul suo amico Bertoli (quando non era stato ancora reso noto il nome dell’attentatore), nel caso fosse stato proprio lui a lanciare la bomba; il tutto in piena sintonia con le dichiarazioni del teste Mazzari, collega di lavoro del Mersi, secondo cui quest’ultimo - appresa la notizia di quanto accaduto in via Fatebenefratelli - aveva immediatamente collegato i due fatti, cioé l’attentato e la visita della sera precedente, manifestando la quasi certezza che autore dell’attentato fosse il “figlio del giudice”, cioé Franco “il bidone” (significativo soprannome con cui Mersi conosceva Gianfranco Bertoli). A questo punto è giocoforza chiedersi per quale ragione Bertoli abbia mentito in modo tanto evidente quanto gratuito (fu lui stesso a dire, spontaneamente, quando e come aveva appreso della cerimonia che si sarebbe svolta nel cortile della Questura) nel fornire la sua versione sul punto in esame e, in seguito, nell’insistervi ostinatamente. La vera ragione, ad avviso della Corte, può essere desunta dalla lettura dei numerosi interrogatori nei quali è apparso evidente come Gianfranco Bertoli si sia preoccupato innanzitutto di sostenere di avere agito da solo, senza l’appoggio di alcuno, senza essere parte di qualsivoglia organizzazione; lo ha fatto fin dall’inizio delle sue dichiarazioni e, con singolare insistenza, è tornato più volte sull’argomento, in particolare cercando in tutti i modi di fornire di sé un’immagine “romantica”, per non dire eroica, per dipingersi come idealista desideroso di far giustizia dei mali di un sistema statuale da lui ritenuto colpevole della morte di un compagno innocente, disposto ad assumersi fino in fondo - anche sacrificando la propria vita - la responsabilità di un gesto estremo di protesta. Per sostenere la propria versione, quella cioè dell’”anarchico individualista” che aveva agito da solo, per iniziativa esclusivamente personale, Bertoli non aveva altra scelta se non quella di affermare che l’occasione per compiere l’attentato gli si era presentata, in modo del tutto occasionale, nel momento in cui, meno di tre ore prima della strage, aveva appreso dal Corriere della Sera che vi sarebbe stata la cerimonia in memoria del commissario Calabresi. Non poteva certo sostenere, smentendo se stesso, di averne avuto notizia mentre si trovava nel kibbutz di Karmia - dove a suo dire non aveva avuto rapporti di nessun genere con persone abitanti in Italia, dove al più aveva ricevuto qualche rivista e dove non aveva messo a parte nessuno dei suoi progetti - tanto meno che altri - a Marsiglia o a Milano dove, sempre a suo dire, non aveva incontrato nessuno ( a parte il Mersi) - gliene avevano fornito conferma. Secondo questa Corte l’unica logica conclusione che può trarsi da tutto quanto detto finora è quella che Gianfranco Bertoli mentì sul punto in questione e che la menzogna non fu, ovviamente, fine a se stessa ma spiegabile solo se intesa come diretta ad accreditare l’insistita affermazione, altrettanto falsa, dell’iniziativa autonoma e strettamente personale. Fornire una falsa rappresentazione dei fatti implica che quei fatti si svolsero diversamente e che, mentendo, si intese occultare la verità. Nella specie, la ritenuta inattendibilità della versione di Bertoli circa il modo e il tempo della decisione di attuare il progetto criminoso rende necessario accertare l’effettiva realtà dei fatti, con ciò intendendo l’esistenza di un piano delittuoso altrove e da altri ideato e, di conseguenza, l’individuazione dei possibili mandanti che armarono la mano dell’esecutore materiale dell’attentato del 17 maggio 1973. Gianfranco Bertoli non mentì soltanto sul punto che si è testé esaminato, per altro da considerarsi dato cruciale del suo racconto, ma non disse il vero su altri particolari di non poco conto, quegli stessi che a ragione destarono i dubbi sia del Giudice Istruttore che della Corte d’assise e che ora si ripropongono a questo Giudice di rinvio, sollecitato in proposito dalle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento. I dubbi di che trattasi riguardano in particolare: 1) come e dove Bertoli entrò in possesso della bomba mano poi utilizzata nell’attentato di via Fatebenefratelli; 2) le ragioni che indussero Bertoli a non sbarcare a Genova ma a recarsi a Marsiglia, dove si sarebbe trattenuto per tre giorni, e chi eventualmente incontrò nella città francese; 3) se effettivamente Bertoli, come dallo stesso sostenuto, rimase ininterrottamente dal 26 febbraio ’71 al maggio ‘73 nel kibbutz in Israele ovvero se ne allontanò, anche per brevi periodi, per recarsi in Italia o altrove; 4) i rapporti avuti con i Servizi segreti italiani (SIFAR) in qualità di informatore e la loro effettiva durata; 5) le modalità dell’espatrio in Israele. Quanto al primo dei punti sopra elencati la Corte condivide le ragioni di perplessità già a suo tempo manifestate dal Giudice Istruttore circa il fatto che Bertoli si sia effettivamente procurato la bomba a mano mentre si trovava nel kibbutz in Israele. Se dalle indagini istruttorie, svolte in proposito, da un lato è risultato che l’ordigno esplosivo era certamente di produzione israeliana (come è stato possibile desumere dalle iscrizioni esistenti sulla linguetta recuperata dopo l’attentato e dai relativi accertamenti), dall’altro (rapporto 14.6.73 del Reparto Unità Speciali – R.U.S. – che aveva svolto indagini in Israele) è stato escluso non solo che fossero avvenuti furti di armi o munizioni nell’armeria del kibbutz ma anche che in quell’armeria fossero state custodite bombe; così pure è stato escluso che, nel periodo che qui interessa (circa un anno prima del 17 maggio 1973, come indicato dal Bertoli), che nelle vicinanze del kibbutz vi fossero state esercitazioni militari con lancio di bombe a mano. Orbene: se l’armeria del kibbtz di Karmia non disponeva di bombe, deve ritenersi quanto meno improbabile che ne disponessero, a titolo personale, dei militari di stanza in quel luogo; sicché appare ben poco credibile la versione di Bertoli su come e quando si sarebbe procurata la bomba, versione per altro - come già rilevato dal G.I. – apparsa da subito estremamente generica (“in un alloggio di militari” – “non ricordo bene in quale posto in particolare io abbia sottratto la bomba; mi sembra accanto a un letto ove vi erano altre bombe”), diversamente da altri punti del suo racconto in cui Bertoli aveva dimostrato ottima memoria e grande precisione, anche nel riferire minimi particolari. Inutile ripetere quanto già si è detto circa l’assoluta inverosimiglianza del trasporto dell’ordigno attraverso varie frontiere, in primis quella israeliana dove i controlli erano meticolosi, con i rischi del caso, nonchè degli improbabili trucchi per occultare la bomba ed evitare che fosse trovata nelle perquisizioni; è bene, invece, prestare attenzione al fatto che Bertoli, non estraneo al traffico di armi (come dallo stesso ammesso e come attestato dai suoi precedenti) avrebbe potuto procurarsi la bomba a mano, più facilmente e con minori rischi, sia a Marsiglia che a Milano. Ci si riserva di tornare sul punto, tra l’altro specificamente indicato dalla Suprema Corte come meritevole di ulteriori accertamenti, ma fin d’ora può trarsi la conclusione che, pur non potendosi individuare con certezza tempo e circostanze in cui l’autore dell’attentato si procurò l’ordigno esplosivo, la versione di Gianfranco Bertoli deve ritenersi scarsamente, se non del tutto, inattendibile. Altrettanto inattendibile, perché non adeguatamente spiegata, e in parte falsa, la versione del Bertoli circa le ragioni del viaggio a Marsiglia e della permanenza per tre giorni in quella città. Innanzitutto è difficile, se non impossibile, comprendere per quale motivo Bertoli non approfittò della sosta di circa due ore che la nave “Dan”, su cui era imbarcato, aveva fatto a Genova. Visto che, secondo le sue dichiarazioni, lo scopo del viaggio era quello di raggiungere Milano per compiere l’attentato la mattina del 17 maggio, sarebbe stato per lui molto più agevole, oltre che meno rischioso, sbarcare a Genova e di lì proseguire per il capoluogo lombardo. Bertoli ha tentato di spiegare la strana scelta di non sbarcare e di proseguire per Marsiglia con il timore di essere identificato ed arrestato per via del passaporto falso e per la pendenza dell’ordine di cattura contro di lui emesso nel 1971 dalla Procura di Padova (cioé quello stesso provvedimento che lo aveva indotto a fuggire dall’Italia e a riparare in Israele). Tale spiegazione, ad avviso della Corte, non regge a una valutazione che sia sorretta da un minimo di logica: va da sé che per chi usufruisce di un passaporto falso i rischi di essere scoperto aumentano progressivamente in proporzione all’uso di quel documento, sicché è cosa evidente che Bertoli avrebbe corso ulteriori e maggiori rischi, recandosi a Marsiglia e poi in Italia, rappresentati da almeno altri due controlli alle frontiere. E’ poi assolutamente incredibile che la scelta di non sbarcare a Genova sia stata suggerita dal timore di essere arrestato in esecuzione dell’ordine di cattura, dato che per i fatti che ne avevano determinato l’emissione egli era stato assolto; è ragionevole ritenere che di ciò fosse a conoscenza, sia per l’ovvio interesse che egli doveva avere per l’esito di quella vicenda giudiziaria che lo aveva indotto a fuggire all’estero, sia essendo risultato provato che Bertoli, nel periodo di permanenza nel kibbutz, aveva ricevuto lettere dall’Italia (da Mestre e Venezia in particolare) con le quali ben poteva aver ricevuto l’informazione di che trattasi. Ma, se così non fosse stato, Bertoli non avrebbe corso l’identico rischio di essere arrestato al posto di frontiera tra Francia e Italia nel viaggio da Marsiglia a Milano ? E’ allora evidente che ben altri erano i motivi per i quali il Bertoli doveva recarsi nella città francese, non certo quelli, che lo stesso ha sostenuto e tentato di accreditare, che lo avevano indotto a non sbarcare a Genova. Gianfranco Bertoli ha sempre sostenuto che, durante la permanenza nel kibbutz, non aveva mai avuto rapporti con italiani, che nessuno in Italia era a conoscenza di dove egli si trovava in quel periodo di tempo, di aver avuto contatti epistolari unicamente con persone che aveva conosciute nel kibbutz (delle quali, per non coinvolgerle, non aveva inteso fare i nomi). Sul punto Bertoli ha mentito essendo risultato (testimonianze Weinberg e Azzolai) che egli riceveva lettere dall’Italia, una delle quali - come attestato da un francobollo regalato dal Bertoli a un bambino nel kibbutz - sicuramente proveniente da Mestre. Sempre in tema di lettere, il teste Weinberg ha dichiarato che Bertoli gli aveva confidato che “doveva ricevere una lettera che avrebbe determinato la sua partenza da Israele”, una lettera importante che avrebbe indicato i particolari del viaggio; Bertoli gli aveva poi confermato che quella lettera era effettivamente arrivata e che, per tanto, doveva partire. Al teste Shustermann il Bertoli aveva detto che doveva trovarsi in Francia il 15 Maggio, dove era atteso da un compagno, precisando che doveva essere “assolutamente” in Francia per quel giorno, che temeva di non giungere in tempo all’appuntamento e che “forse”, dopo, sarebbe andato in Italia. Altrettanto menzognera l’affermazione di Bertoli di avere dormito per tre notti nell’Hotel “du Rhone” a Marsiglia: secondo la testimonianza della proprietaria dell’albergo, Sassi Virginia, egli aveva lasciato il bagaglio, aveva pagato quanto dovuto per tre notti ma aveva dormito nell’hotel una sola notte, ritirando i bagagli la mattina del 16 maggio, alle ore 6, vale a dire nell’imminenza della partenza per Milano. Cosa Gianfranco Bertoli abbia fatto in quei tre giorni trascorsi a Marsiglia, o altrove in Francia, e con chi possa essersi incontrato, non è stato possibile accertare. L’interessato non ha fornito al riguardo alcunché di preciso e verificabile, limitandosi a dire di aver “gironzolato” per Marsiglia (per tre giorni ! n.d.u.) e di non avere incontrato nessuna delle persone conosciute durante il precedente soggiorno di circa due mesi, prima della partenza per Israele. Le indagini non hanno consentito positivi accertamenti in proposito ma dal racconto non veritiero del Bertoli la Corte ritiene di poter concludere che lo stesso avesse mantenuto rapporti con persone in Italia, che dovesse partire dal kibbutz per trovarsi a Marsiglia il 15 maggio ’73 per ivi incontrarsi con qualcuno, non appena gli fosse giunta una lettera di cui era in attesa, che avesse preso contatto con persone, da lui conosciute, in quella città o in altro luogo della Francia tenuto conto della non spiegata permanenza di tre giorni e della falsa affermazione delle tre notti trascorse nell’Hotel “du Rhone”. Per tanto, anche per quanto attiene a questa parte del racconto, la versione di Gianfranco Bertoli Bertoli deve essere considerata inattendibile e volta a nascondere la verità dei fatti. Un altro punto, particolarmente significativo ai fini della verifica di attendibilità delle dichiarazioni del Bertoli, sul quale la Corte di Cassazione ha richiesto al giudice di rinvio un giudizio più attento e aderente agli elementi di prova acquisiti, riguarda l’asserita permanenza ininterrotta nel kibbutz di Karmia nei circa due anni che precedettero il maggio 1973. In proposito Bertoli ha riferito di assenze temporanee, in genere di un giorno o al massimo di tre, per sottoporsi a terapie mediche o per visite a città israeliane, escludendo quindi di avere lasciato il territorio di Israele per tornare, anche se temporaneamente, in Italia o per recarsi altrove. Si tratterà dell’argomento in forma schematica considerato, da un lato, che i giudici di legittimità censurando le argomentazioni della sentenza annullata, pur riservando al giudice di merito la compiuta valutazione degli elementi di prova emersi dalle indagini e contrastanti con la versione del Bertoli, in sostanza ne hanno già tracciato la corretta linea interpretativa e, da altro lato, che l’accertamento in questione ha ormai perso, almeno in parte, l’originario valore indiziante (o, se si vuole, di riscontro ad altrui dichiarazioni). Si intende dire, con ciò, che la provata presenza del Bertoli in Italia (o anche in Francia), per periodi più o meno lunghi, tra il 1971 e il maggio ’73 era, e sarebbe, di importanza fondamentale se posta in relazione a quanto dichiarato da Carlo Digilio sulla permanenza del Bertoli per circa una settimana nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona, dove lo stesso sarebbe stato convinto e preparato dagli odierni imputati a compiere l’attentato contro il Ministro degli Interni On. Mariano Rumor. La Suprema Corte non ha consentito di utilizzare quelle dichiarazioni, ritenute contraddittorie e non adeguatamente riscontrate, sicché l’accertamento de quo vede limitata la propria valenza, come altri elementi di valutazione, alla verifica di attendibilità della versione di Gianfranco Bertoli ovvero, più in particolare, alla concreta possibilità che lo stesso, in quei due anni, abbia effettivamente mantenuto contatti (non soltanto epistolari) con persone in Italia. Gli elementi di prova contrastanti con l’affermazione di Bertoli di non avere mai lasciato Israele dal 26 febbraio 1971 all’8 maggio 1973, secondo la Cassazione “sottovalutati, talvolta avventurandosi in congetture non fondate sui fatti evidenziati, ma conseguenza di una lettura sin dall’inizio incredula”, sono i seguenti: - la presenza di Bertoli a Marsiglia non solo l’8 gennaio 1971 (quando fu identificato dalla locale Polizia) e il 13 maggio ’73 (proveniente da Haifa) ma anche dal 10 al 20 novembre 1971, periodo in cui alloggiò nell’Hotel “du Rhone” - la testimonianza di Santolo Serra il quale avrebbe visto il Bertoli a Parigi nell’agosto ’71 - quella del teste Borelli che lo avrebbe incontrato a Recco nel maggio 1973 - quella di Martino Siciliano di aver visto il Bertoli a Spinea nella trattoria “Graspo de uva” nel 1972 - infine, la testimonianza dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni i quali hanno affermato di avere incontrato Bertoli a Venezia (o a Mestre) tra il 25 maggio e l’8 giugno 1972. Il soggiorno di Gianfranco Bertoli a Marsiglia tra il 10 e il 20 novembre 1971 era risultato dalla nota UCLAT che trasmetteva le informazioni fornite dalla polizia francese il 30.3.1992 ricavate dalle annotazioni di archivio presumibilmente riferite alle notizie giornalmente fornite dagli albergatori e memorizzate nei registri della Polizia. Di contro Bertoli, fin dal suo primo interrogatorio, aveva sostenuto di aver preso alloggio nell’Hotel “du Rhone” l’8 gennaio 1971, cioè il giorno in cui, controllato dalla Polizia, aveva ritenuto di non correre più rischi utilizzando il passaporto falso in suo possesso. Dall’informativa in questione è invece risultato che Bertoli nel gennaio ’71 non aveva dormito in quell’albergo ma, più verosimilmente, presso amici che lo avevano aiutato a espatriare. Tra le due contrastanti tesi deve essere privilegiata quella fornita dagli organi inquirenti francesi, maggiormente affidabile e priva di interessi particolari. In tal senso si è esplicitamente pronunciata la Corte di Cassazione (pag. 16 della sentenza di annullamento) la quale, tra l’altro, ha stabilito che “la nota informativa della polizia francese ha carattere di prova in ordine ai fatti accertati, indipendentemente da eventuali vizi di forma attinenti alle modalità con cui è stata richiesta e trasmessa” aggiungendo su quest’ultimo punto che “l’autorità giudiziaria italiana aveva chiesto in precedenza opportuni accertamenti, attraverso la forma della rogatoria internazionale, ma non aveva ottenuto le informazioni richieste. La risposta fornita dalla polizia francese all’UCLAT è il frutto del completamento delle indagini e contiene la relazione conclusiva. Essa, per tanto, legittimamente è stata acquisita formalmente agli atti ed assume valore di fonte di prova”. Questa Corte ritiene di dover aderire alle indicazioni dei giudici di legittimità, condividendo pienamente anche l’osservazione di merito secondo cui “è poco credibile che al momento della fuga dall’Italia il Bertoli, con un passaporto falso e un mandato di cattura pendente, si avventurasse a recarsi in un albergo dando così alla polizia la possibilità di controllarlo con maggiore precisione e di far fallire il suo progetto di fuga”, così come, per escludere l’attendibilità dell’informativa in questione, non può riproporre la conclusione dei precedenti giudici di appello, censurata come “del tutto gratuita” dalla Suprema Corte, secondo cui “solo per mero errore la polizia francese ha comunicato all’UCLAT che Gianfranco Bertoli aveva soggiornato a Marsiglia nel novembre 1971 invece che nel gennaio-febbraio 1971”. La Corte regolatrice ha ritenuto necessario, da parte del giudice di rinvio, un riesame di merito per quanto attiene all’attendibilità di alcuni testimoni che avevano riferito della presenza del Bertoli in Francia e in Italia nel periodo, compreso tra il 26 febbraio ’71 e l’8 maggio ’73, in cui lo stesso ha sostenuto di essere sempre rimasto in Israele. Serra Santolo, detenuto dal 14.10.72 nel carcere francese di Bois La Duc, aveva inviato una lettera al Giudice Istruttore affermando di avere conosciuto Gianfranco Bertoli, da lui incontrato a Parigi ai Campi Elisi, e di averlo riconosciuto quando aveva visto la sua foto pubblicata dai giornali. Aveva ritenuto suo dovere inviare quella lettera essendosi reso conto che Bertoli mentiva quando aveva affermato di non aver lasciato il kibbutz dal febbraio 1971. Il Serra, sentito per rogatoria a Parigi il 31.7.73, riferiva di aver avvicinato il Bertoli e, ritenendolo un francese, gli si era rivolto parlando francese; aveva poi capito che si trattava di un italiano, gli aveva venduto un orologio e si era intrattenuto un pò di tempo con lui in un bar; a un tratto Bertoli aveva lasciato il bar correndo ed era salito su un’autovettura Volkswagen bianca targata Parigi a bordo della quale si trovavano un uomo e una donna. Serra si dichiarava certo che quel fatto era accaduto circa trenta giorni prima di essere arrestato a Milano, il che era avvenuto (come da accertamenti esperiti - rapp. 21.11.92) il 18 settembre 1971. La Corte non ravvisa alcuna valida ragione per ritenere inattendibile tale testimone: pacifico il fatto che Santolo Serra rese le dichiarazioni di che trattasi del tutto spontaneamente (fu lui stesso a prendere l’iniziativa di rivolgersi agli inquirenti), certamente agì in modo del tutto disinteressato non potendo certo sperare di ottenere qualsivoglia beneficio dalla sua collaborazione. Deve, quindi, ritenersi che il Serra rivelò quanto a propria conoscenza unicamente mosso dal desiderio di essere utile alle indagini sulla strage di via Fatebenefratelli nonché, come dallo stesso affermato, per smentire quanto falsamente sostenuto dal Bertoli. Unico argomento contrario è quello, sostenuto dal difensore di Carlo Maria Maggi, relativo alla scarsa attendibilità dei riconoscimenti fotografici, ma l’obiezione non appare fondata: nel caso in esame è improprio riferirsi a quel tipo di riconoscimento nel quale, come è ben noto, sono mostrate al testimone alcune fotografie affinche questi possa eventualmente riconoscere la persona a suo tempo osservata e poi descritta (il che, in alcuni casi, può indurre il teste in errore nell’individuare, tra altri, la persona da riconoscere); tutt’affatto diverso il riconoscimento compiuto da Santolo Serra il quale, anzicché dover scegliere tra le foto effigianti varie persone, vista sui giornali la foto di Gianfranco Bertoli ha subito individuato la persona che aveva incontrato sui Campi Elisi e con la quale si era intrattenuto per un tempo apprezzabile, comunque tale da consentirgli un preciso ricordo. Analoghe considerazioni valgono per il riconoscimento effettuato da Borelli Giuseppe: questi, all’epoca dei fatti, era cliente e amico (a volte fungendo anche da autista) dell’Avv. De Marchi (coinvolto, con Attilio Lercari, nella relativa inchiesta del G.I. di Padova, come uno dei finanziatori di attività eversive del gruppo “Rosa dei Venti”, in contatto con il Rizzato e il Rampazzo), oltre che confidente della Polizia. Il 18 marzo 1976 il Borelli, già sentito in precedenza, si presentava spontaneamente al G.I. di questo processo riferendo che pochi giorni prima, mentre si trovava nella sala d’attesa di un dentista, aveva sfogliato la rivista “Panorama” (n. 513 del 17.2.76) e aveva osservato a pagina 43 la foto di Gianfranco Bertoli, foto che non aveva mai visto prima, neppure all’epoca della strage. Si dichiarava certo di avere visto il Bertoli due volte, a Recco, nel 1973, ricordandolo la prima volta seduto a fianco di Pietrino Benvenuto a bordo della Mini Minor rossa di quest’ultimo davanti alla Pretura di Recco, dove egli era in attesa dell’avv. De Marchi. Ricordava in particolare che Benvenuto glielo aveva presentato come “amico spagnolo” senza dire alcun nome; l’individuo era molto magro, spalle strette, barba a V (la stessa poi vista nella fotografia pubblicata da “Panorama”) e parlava perfettamente l’italiano. Uno o due giorni dopo aveva rivisto lo stesso individuo, osservandolo da una distanza di circa 20 metri mentre passeggiava sotto i portici di Recco. Anche per il teste Borelli non si ravvisano ragioni di inattendibilità: a parte la spontaneità e disinteresse di cui evidentemente sono connotate, le sue dichiarazioni appaiono ancor più credibili provenendo da persona che, anche per il ruolo di informatore della polizia, era particolarmente “attrezzata” per ricordare con precisione fatti che avrebbe poi dovuto riferire; a maggior ragione nel caso di specie, riferendosi il suo riconoscimento a una persona, il Bertoli, avente caratteristiche somatiche particolari e inconfondibili. Si osserva ancora che il Borelli ha collocato nel 1973 i due incontri di cui ha parlato, cioé in epoca in cui erano avvenuti fatti che il teste ha perfettamente ricordati e riferiti al Giudice Istruttore (ad esempio quelli relativi al viaggio in auto compiuto con l’avv. De Marchi a Brescia il 17.5.73, lo stesso giorno della strage alla Questura di Milano, confermato dall’acquisizione del relativo talloncino autostradale). E’ appena il caso di osservare che Giuseppe Borelli, pur non avendone indicato le date esatte, stando all’epoca in cui ha collocato i due episodi, vide Gianfranco Bertoli a Recco nel 1973 e ciò, ovviamente, avvenne prima del 17 maggio dato che quel giorno Bertoli fu arrestato immediatamente dopo il lancio della bomba. Martino Siciliano - collaboratore di giustizia dal 1993, inizialmente facente parte della “Giovane Italia” di Mestre-Venezia con Delfo Zorzi, quindi del movimento neofascista “Ordine Nuovo” fino a tutto il 1972 e a conoscenza delle vicende di quel movimento e di molti suoi membri - il 3 luglio 1997 aveva dichiarato al G.I. quanto segue: “Confermo di avere visto varie volte Sandro Sedona al ^Graspo de uva^ di Spinea a cavallo degli anni ’70. Vidi alcune volte Sedona con Delfo Zorzi e lo vidi anche con Gianfranco Bertoli con il quale frequentava il ^Graspo de uva^. Vidi a Spinea e in tale locale più volte il Sedona e Bertoli. Prendo atto che mi viene mostrata la fotografia di Gianfranco Bertoli, foto che ho visto più volte sulla stampa e riconosco senza alcun dubbio nella stessa il Gianfranco Bertoli di cui ho parlato oggi e nel precedente interrogatorio (G.I. 14.10.1995 – n.d.u.). Confermo di non avere mai conosciuto di persona Bertoli, nel senso che non gli ho mai parlato né l’ho mai frequentato; però l’ho conosciuto di vista nel senso che l’ho visto, come ho detto, alcune volte in compagnia di Sandro Sedona ed anche perché mi fu presentato di sfuggita al ^Graspo de uva^ da Gianni Mariga in una delle tante occasioni in cui mi trovavo in sua compagnia. Bertoli aveva un’aria triste ed era malmesso; aveva una barbetta che lo rendeva ancor più triste, appariva malandato, piuttosto magro, aveva occhi spiritati anche perché beveva parecchio....................Ribadisco di aver visto più volte Bertoli e Mariga insieme a Spinea. Tra i due vi era un rapporto di amicizia come riferitomi dallo stesso Mariga.................Sia negli anni precedenti il ’70 che in quelli immediatamente successivi stavo spessissimo in compagnia del Mariga. Ci scambiavamo confidenze e conoscevo le sue frequentazioni. Appresi dallo stesso, tra le altre cose, che Gianfranco Bertoli, la persona che avevo visto con lui a Spinea e al ^Graspo de uva^, era andato in un kibbutz in Israele. Mi disse di aver appreso dal Bertoli che egli andava e tornava da Israele e lo aveva più volte incontrato nel 1972 a Spinea. Ricordo che mi riferì quanto Bertoli gli aveva raccontato sul suo soggiorno al kibbutz. A detta del Mariga, Bertoli gli raccontò che lavorava nel kibbutz ma che nello stesso tempo veniva addestrato all’uso di armi ed esplosivi per eventuali attacchi da parte degli arabi. Sono assolutamente certo che Mariga già nel ’72, cioé prima della strage del 17.5.73, mi riferì di aver visto Gianfranco Bertoli nella nostra zona. In più di un’occasione, in epoca che colloco a cavallo del ’72-’73, Mariga mi raccontò di avere incontrato Bertoli e che questi, a sua volta, gli aveva narrato del suo soggiorno in Israele, del suo addestramento nel kibbutz all’uso di armi ed esplosivi e della frequenza con la quale lasciava il Kibbutz per venire in Italia e per tornare in Israele. Quando vi fu la strage del 17.5.73 e Bertoli venne alla ribalta della cronaca, ebbi occasione di parlare con Mariga su questa vicenda. Rimanemmo entrambi sorpresi leggendo sulla stampa che Bertoli sarebbe stato per due anni in un kibbutz. Mariga infatti lo aveva visto più volte a Spinea e a Mestre nel periodo ’71-’72 come mi aveva precedentemente raccontato. Io stesso non escludo di avere visto Bertoli a Spinea nello stesso periodo. Ricordo perfettamente il contenuto dei commenti del Mariga, il quale mi disse che Bertoli non era certamente un anarchico; d’altra parte, attese le note frequentazioni del Mariga esclusivamente con elementi di destra, lo stesso mi disse che se fosse stato un anarchico non avrebbe stretto amicizia con lui. Sempre Mariga commentò la circostanza che Bertoli andava e veniva da Israele; mi disse che in quel periodo non era facile entrare e uscire da quel Paese ed espresse la convinzione che se Bertoli con tale facilità poteva andare e venire da Israele in Italia e viceversa, ciò poteva avvenire col consenso dei servizi segreti israeliani. Oltretutto Mariga ed io, ricordando le scarse disponibilità del Bertoli, quasi sempre in bolletta, ritenemmo evidente che egli non poteva con le sue tasche sobbarcarsi le rilevanti spese di viaggio per andare e venire da Israele”. Si ritiene opportuno osservare che le dichiarazioni di Martino Siciliano sopra testualmente riportate, benché sul punto tutt’altro che laconiche, occupano ben poco spazio tra quelle, molto più ampie, rese nei citati interrogatori avanti il Giudice Istruttore, con le quali il collaboratore di giustizia ha riferito diffusamente e con dovizia di particolari in ordine alle vicende dell’organizzazione di apparteneza, a fatti attribuiti alla stessa, alle persone che ne facevano parte. A tali dichiarazioni si sono aggiunte, essendo state acquisite agli atti, tutte quelle rese dal Siciliano ad altri magistrati nel corso di indagini sull’eversione neofascista di quegli anni ’60-’70, il che ha consentito di constatare sia l’ampiezza delle conoscenze del dichiarante sia la costanza e la coerenza logica delle sue affermazioni; da ciò è derivata, sia ad avviso del G.I. che dei giudici di primo grado, una positiva valutazione di intrinseca attendibilità che questa Corte non ha ragione alcuna di disattendere. Per ciò che attiene all’argomento in questione (la conoscenza di Bertoli e la sua presenza a Spinea e Mestre nel periodo di tempo in cui, a suo dire, non si sarebbe mosso da Israele) il racconto di Martino Siciliano è apparso logico, coerente, preciso, ricco di dettagli nonché di riferimenti ambientali e di fatto ma, sopratutto, sincero. Il dichiarante ha infatti distinto puntualmente quanto stava riferendo per diretta conoscenza da ciò che aveva appreso da altri, cioè dall’amico Mariga, quando - per attribuire maggior rilevanza alla propria collaborazione ovvero per compiacere il G.I. - ben avrebbe potuto affermare di aver avuto personale conoscenza di tutti i fatti riferiti. Siciliano, invece, ha sostenuto di aver conosciuto il Bertoli (pur precisando di non avergli mai parlato) e lo ha fatto con precisi riferimenti di tempo e luogo oltre che alla persona, mentre, quanto alla presenza del Bertoli a Spinea nel 1972, ha solo riportato le confidenze del Mariga, limitandosi, dal canto suo, a non escludere un incontro con il Bertoli in quell’anno. Per tanto, le dichiarazioni di Martino Siciliano sul punto che qui interessa, di per se stesse ritenute attendibili, necessitano di elementi di conferma. Tali elementi sono puntualmente emersi dalla testimonianza dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni. Giorgio Sorteni, sentito dal Giudice Istruttore il 16.2.1975 (poco dopo lo stesso renderà la propria testimonianza avanti la Corte d’assise di Milano nel procedimento contro Gianfranco Bertoli), tra l’altro riferiva di aver conosciuto il Bertoli nel 1953, nel periodo in cui questi eseguiva rapine in dano di omosessuali. Sapendo dei suoi precedenti nel traffico di armi, gli aveva proposto di venderne una partita a una compagnia di navigazione; le armi erano state vendute a due ex appartenenti alla Repubblica Sociale, facenti parte di un fronte anticomunista, il che aveva provocato la reazione del Sorteni essendo questi di fede comunista. Il testimone descriveva il Bertoli come persona amorale, omosessuale, incapace di idee personali, succube di chiunque avesse un temperamento o un prestigio più forte del suo. Ricordava inoltre che Bertoli, nel 1970, viveva a Marghera presso un affittacamere. Giorgio Sorteni dichiarava poi di aver appreso con sorpresa dalla lettura dei giornali che Bertoli avrebbe soggiornato in Israele ininterrottamente dal febbraio 1971 al maggio 1973 ma che detta circostanza non corrispondeva al vero ricordando di avere incontrato Bertoli nei pressi della stazione ferroviaria di Mestre in un giorno compreso tra il 25 maggio e l’8 giugno 1972; il teste era certo di quel riferimento temporale perché proprio in quei giorni egli si era recato quasi quotidianamente a Mestre da Lugo di Romagna, dove si era trasferito, per concludere e perfezionare un’operazione commerciale (della quale forniva documentazione recante, appunto, la data dell’8 giugno 1972). L’incontro, di cui si diceva assolutamente certo, era durato pochi minuti e ricordava, in particolare, che Bertoli indossava una giacca sahariana color sabbia. Il Giudice Istruttore, nell’ambito di indagini sull’appartenenza di Gianfranco Bertoli al SIFAR in qualità di informatore (di cui si dirà in seguito), essendo nel frattempo deceduto Giorgio Sorteni, il 2 aprile 1992 sentiva come testimone il fratello di questi, Sorteni Tommaso il quale dichiarava quanto segue: a conoscenza della stretta amicizia esistente tra il fratello e il Bertoli fin dagli anni ’50, della loro assidua frequentazione in quegli stessi anni nonché dell’attività svolta nel SIFAR sia dal fratello che dal Bertoli, ricordava che il giorno dell’attentato alla Questura di Milano Giorgio gli aveva telefonato e aveva pronunciato la frase “hai visrto che cosa ha combinato Gianfranco ? vedrai che sono stati i Servizi”. Qualche giorno dopo, proseguiva il Sorteni, era rimasto anch’egli sorpreso leggendo sui giornali che Bertoli negli ultimi due anni era rimasto sempre in Israele ricordando perfettamente di averlo visto a Venezia, dove si era recato con il fratello dalla Romagna, nella primavera del 1972. Bertoli, che nell’occasione indossava una giacca sahariana colore beige, si era fermato in loro compagnia solo per pochi minuti ma aveva avuto modo di dire di essere “diventato anarchico”. Significativo il commento del teste in proposito: “mancò poco che ci mettessimo a ridere conoscendo i suoi precedenti rapporti con il SIFAR e gli ex repubblichini della compagnia di navigazione”. Anche Tommaso Rorteni, come il fratello, si dichiarava certo che quell’incontro era avvenuto nella primavera del 1972 dato che fin dal 1965 quella era stata l’unica volta in cui egli si era recato a Venezia con il fratello, precisando che ciò era avvenuto per un’operazione commerciale. Non sembra possano esistere dubbi circa l’attendibilità di tali testimonianze stante la loro precisione in ordine a tutte le circostanze di fatto, il disinteresse e la loro perfetta concordanza. Entrambi i fratelli Sorteni, in tempi diversi e all’insaputa delle dichiarazioni dell’altro, hanno riferito della vecchia conoscenza (di Giorgio Sorteni) con il Bertoli, dell’incontro con questi nella primavera inoltrata del 1972, dell’occasione e della durata di quell’incontro, infine del breve colloquio con Gianfranco Bertoli. Particolarmente attendibili le dichiarazioni di Giorgio Sorteni riferite al Bertoli, tenuto conto che il teste ha riferito di un incontro con una persona da lui molto ben conosciuta, e da lunga data. Solo su un punto i fratelli Sorteni non sono stati concordi: nell’indicare il luogo dell’incontro, la stazione di Mestre per Giorgio, quella di Venezia per Tommaso. Non si ritiene, tuttavia, che tale discrepanza, su un particolare di scarso rilievo (Venezia e Mestre sono assai vicine, separate da un ponte), possa incidere negativamente sul valore e rilevanza probatoria delle due testimonianze. Si consideri inoltre, in proposito, che mentre Giorgio Sorteni fu sentito dal G.I. nel febbraio 1975 (quindi poco più di tre anni dopo l’episodio riferito), Tommaso Sorteni rese la propria testimonianza nell’aprile 1992 (circa diciassette anni dopo il fratello e circa 20 dopo i fatti narrati) sicché è ben possibile che il secondo abbia avuto un ricordo impreciso circa il luogo esatto dell’incontro. Un elemento di dubbio più consistente era stato sollevato dallo stesso Giudice Istruttore il quale aveva fatto presente a Tommaso che il fratello Giorgio, a suo tempo, non lo aveva indicato presente all’incontro con il Bertoli. La Corte ritiene la risposta di Tommaso Sorteni, che si riporta testualmente, ragionevole e convincente: “ritengo che Giorgio nell’occasione non abbia voluto dire che anche io incontrai Bertoli per non coinvolgermi in questa vicenda in quanto sarei stato certamente chiamato a deporre e sarei venuto alla ribalta della cronaca come venne lui; dato che egli nell’occasione riferì i suoi pregressi rapporti con il SIFAR, ritengo che abbia voluto lasciarmi fuori da questa vicenda, anche perché io ero all’oscuro di tanti dettagli, come quello relativo al suo nome di copertura ^Sergio^ che ho appreso solo oggi. Oltretutto, se avessi saputo all’epoca tante cose, gliele avrei suonate di santa ragione”. Quanto finora osservato circa tutti gli elementi probatori di segno contrario, rispetto alla versione sostenuta da Gianfranco Bertoli di non avere mai lasciato Israele nei circa due anni precedente l’8 maggio 1973, può concludersi con le dichiarazioni di Giuseppe Albanese, alle quali tali elementi costituiscono riscontro. Costui, estremista di destra e già detenuto a lungo con il Bertoli nel carcere di Volterra, sentito dal G.I. il 20.6.1992, ha affermato che lo stesso Bertoli, parlando del suo soggiorno in Israele, tra l’altro gli aveva confidato che poteva lasciare quel Paese quando voleva, cosa che aveva fatto alcune volte per poi fare ritorno nel kibbutz. A detti elementi si oppongono in via residuale, a parte le dichiarazioni del Bertoli, gli esiti degli accertamenti compiuti dal RUS in Israele, in collaborazione con i locali organi di polizia, su incarico del P.M. di Milano in data 25.5.1973 che richiedeva di accertare, tra l’altro, i movimenti dello stesso Bertoli nel periodo di permanenza nel kibbutz di Karmia. Erano assunte le testimonianze di Rachel Vered, di Amminadav Ofer, di Noah Shusterman e di Miriam Cohen. Costoro, ognuno per quanto a propria conoscenza, riferiva circa l’assidua presenza del Bertoli (alias Massimo Magri) nel kibbutz, il suo diligente attivarsi nei lavori del pollaio, le brevi assenze (di solito un solo giorno) per lo più motivate da cure odontoiatriche. Sta di fatto che nessuno di costoro, come ovvio, è stato in grado di affermare la continua, costante e ininterrotta presenza del Bertoli. La Corte esclude che tali testimonianze possano prevalere su quelle sopra esaminate (in particolare del Serra, del Borelli e dei fratelli Sorteni): da un lato i testimoni israeliani, pur avendo riferito quanto a loro conoscenza, non potevano in alcun modo fornire la prova “in negativo” del fatto che Gianfranco Bertoli non si era mai allontanato per un periodo apprezzabile (un fatto che ben poteva sfuggire non risultando che qualcuno di loro abbia vissuto costantemente con il sedicente Magri), dall’altro, invece, vi sono testimoni che hanno riferito, questa volta “in positivo”, fatti e circostanze precisi ed esattamente collocati nel tempo, di cui si sono dimostrati assolutamente certi e che, comunque, per la loro peculiarità erano facilmente memorizzabili. Per quanto attiene alla attendibilità del personaggio Bertoli (e del suo racconto), a questo punto si ritiene di scarsa utilità analizzarne nei minimi aspetti la personalità. E’ evidente, infatti, che a fronte di risultanze di valore obiettivo quali gli elementi di prova finora esaminati sui quali si fonda il giudizio di scarsa credibilità, in taluni casi di assoltua falsità, delle dichiarazioni dell’autore dell’attentato, l’indagine sulla personalità finisce per assumere valenza del tutto marginale. L’argomento, comunque, è stato ampiamente trattato nella sentenza/ordinanza del Giudice istruttore e nella motivazione della sentenza appellata, alle quali si rimanda. E’ stato trattato, altrettanto ampiamente, dalla sentenza annullata ma, in questo caso, secondo una chiave di lettura rivolta a individuare in quella personalità non solo le autentiche ragioni dell’attentato stragista ma, sopratutto, per trarne argomenti a sostegno di una tesi presupponente la piena atendibilità della versione del Bertoli e nel quadro di una metodica svalutazione di ogni contrario elemento di prova, suggerita (secondo l’espressione usata dai giudici di legittimità) da una lettura sin dall’inizio incredula. In sostanza, tale indagine non può ritenersi risolutiva ai fini che qui riguardano, se non sotto il profilo della compatibilità, o meno, della personalità del Bertoli con l’effettiva genesi ed esecuzione del progetto stragista. E’ evidente che, attenendosi alle dichiarazioni di Bertoli e ai suoi scritti (il diario) e ritenendo veritiera la sua versione, l’esecutore materiale dell’attentato dovrebbe definirsi, a ragione, “anarchico individualista” e il suo un gesto di eclatante protesta contro le Autorità dello Stato, autonomamente deliberato e attuato. Di contro, ove si tengano presenti le affermazioni di alcuni collaboratori di giustizia e testimoni (tra questi ultimi Rossella Monaco, l’assistente sociale alla quale fu affidato il Bertoli una volta posto in regime di semilibertà), oltre alle conclusioni della perizia psichiatrica, la personalità di Gianfranco Bertoli appare delineata come quella di un uomo sostanzialmente debole, vittimista, timoroso, volubile, facilmente suggestionabile; in questo secondo caso, quella personalità dovrebbe ritenersi difficilmente compatibile con la natura e motivazioni del gesto compiuto, quali il Bertoli ha inteso accreditare. In tema di personalità (ivi comprese le scelte politico-filosofiche) si dovrebbe semmai accertare, pur nei limiti insiti nell’accertamento stesso, se Bertoli fosse veramente un idealista “puro”, un anarchico, un uomo disposto a sacrificare la propria vita o ad essere condannato all’ergastolo pur di realizzare il proprio anelito di giustizia, se in lui la spinta ad agire per realizzare fini ritenuti nobili fosse davvero tanto forte. Quanto alla fede anarchica di Gianfranco Bertoli, recente o no che fosse, taluno ha manifestato dubbi (Tommasoni Franco), altri non hanno nascosto la loro sorpresa (Giorgio e Tommaso Sorteni, Sedona Sandro), altri ancora l’hanno esclusa attribuendo a Bertoli la qualifica di “camerata”, da sempre vicino agli ambienti dell’estrema destra neofascista veneta (Ferorelli Giovanni, Rebosio Marco, Martino Siciliano, Giuseppe Albanese) ma, secondo la Corte, il dato di fatto che induce al dubbio più serio circa l’effettività della scelta anarchica è costituito dalla retribuita appartenenza del Bertoli ai Servizi segreti italiani (prima al SIFAR e poi al SID) in qualità di informatore fino ad epoca non lontana dal suo espatrio in Israele. Il dato in questione è stato accertato dal Giudice Istruttore e verificato nella fase dibattimentale di primo grado ma, stranamente, della qualifica di Bertoli come informatore dei “Servizi” non è stato riferito all’autorità giudiziaria inquirente da chi ne era a conoscenza ed era tenuto a farlo (e si che il Gen. Maletti, all’epoca a capo del SIFAR, subito dopo la strage di via Fatebenefratelli aveva inviato il cap. Di Carlo in Israele perché indagasse proprio sul Bertoli !); tutto, invece, è emerso dalla testimonianza resa da Giorgio Sorteni, prima al G.I. e poi in fase dibattimentale avanti la Corte d’assise di Milano nel procedimento penale a carico dell’autore dell’attentato. Il Sorteni, individuato dal Giudice Istruttore tra numerose persone che avevano avuto contatti con il Bertoli (come emerso dai fascicoli di vari procedimenti penali a carico dello stesso, tenutisi a Venezia, Padova e Trieste), il 16.2.1975 aveva riferito, tra l’altro, che nel 1954 Bertoli, che era informatore del SIFAR, lo aveva messo in contatto con il brigadiere dei Carabinieri Carlo Fanutza; successivamente era stato contattato da tale dr. Bonetti che gli aveva proposto di di svolgere attività informativa per tale struttura con un compenso di 50.000 lire mensili; aveva accettato e aveva svolto quell’attività con il nome di coperture “Sergio”. Quanto affermato da Giorgio Sorteni, anche alla Corte d’assise nel giudizio a carico di Gianfranco Bertoli, trovava conferma il 4 marzo 1975 quando l’allora capo del SID Ammiraglio Casardi informava per iscritto che “il Bertoli è stato fonte del SIFAR dal novembre 1954 al marzo 1960, data sotto la quale ha cessato l’attività a causa dello scarsissimo rendimento fornito. Risulta agli atti che solo fino all’agosto 1955 ha ricevuto un compenso per complessive lire 50.000. Il Sorteni ha parimenti collaborato con l’ex SIFAR, in qualità di fonte, dal 1954 al marzo 1960, data sotto la quale ha cessato qualsiasi rapporto, avendo fornito come il Bertoli scarsissimo rendimento”. Il fatto che Bertoli fosse stato collaboratore del SIFAR come informatore non è, quindi, in discussione e nessuno l’ha posto in dubbio; l’approfondimento delle indagini sul punto, di cui ha reso conto il Giudice Istruttore e di cui hanno trattato - con diverse conclusioni - la sentenza di primo grado e quella d’appello annullata, ha riguardato l’effettiva durata di quella collaborazione. Richiamato quanto in proposito si è già riferito nella parte espositiva, si ritiene sufficiente registrare i principali elementi acquisiti dal G.I.: 1) dal relativo fascicolo personale esistente negli archivi del SISMI era risultato che Bertoli aveva svolto la sua attività con il nome di copertura “Negro” tra il 1954 e il 1960; 2) sempre in detti archivi era stata rinvenuta la scheda (titolo 225, sottotitolo 4 – pratica 4bis – segreteria . anno 1966) relativa all’informatore “Negro” recate l’appunto “cessato” risultato di pugno del colonnello Viezzer; 3) il Viezzer, interrogato in proposito - premesso di essere stato segretario dell’ufficio “D” del SIFAR fino al novembre ’97, di essere tornato in quell’ufficio quattro anni dopo svolgendovi dal giugno 1971 al 30 aprile ’74 il ruolo di capo della segreteria del Reparto D – dichiarava testualmente: “ l’annotazione ^cessato^ è di mio pugno; devo averla apposta dopo il giugno 1971 in quanto alla segreteria del Reparto D passai in quella data. Posso dedurre con certezza che, se la scheda porta l’anno 1966 e se io ho scritto cessato, certamente la collaborazione dell’informatore Negro nel 1966 era ancora in atto. Non sono in grado di precisare l’epoca in cui tale collaborazione è cessata, certamente in epoca successova. Se ho scritto ^cessato^ non posso averlo scritto prima del giugno 1971”. Preso atto che la scheda in questione riguardava il Bertoli e che la stessa era stata richiesta con missiva in data 17.6.74 dal Reparto “R” al Reparto “D”, il Viezzer precisava: “se la scheda dell’informatore Negro è stata richiesta dal Reparto R, che sta a indicare ^ricerche all’estero^, ciò può voler dire solo due cose: o che l’informatore era andato all’estero, o che era in contatto con gente in grado di fornire notizie sull’estero. Poiché allegata alla missiva del 17.6.74 è allegata la scheda individuale ^Negro^ sigla IR 031, da cui si evince chiaramente che l’informatore ha operato per il SIFAR negli anni dal 1955 al 1959 e, poiché la scheda della segreteria che lei mi ha mostrato precedentemente porta l’anno 1966, deduco chiaramente che tale informatore Negro ha fornito la sua opera dal ’54 al ’59 e, successivamente, nell’anno 1966 ha ripreso la sua attività di informatore, per cui è stata impostata una nuova scheda portante l’anno 1966”. 4) Il Generale Demetrio Cogliandro, predecessore del Viezzer quale capo della segreteria del Reparto “D” fino al giugno 1971, sentito dal G.I. il 24.2.92, concordava con quanto riferito dal colonnello Viezzer deducendo inoltre che se questi aveva apposto la scritta “cessato” sulla scheda dell’informatore “Negro” nel 1971, evidentemente la collaborazione di questi era cessata dopo il giugno ’71. Sulla scorta degli elementi acquisiti si può, dunque, ritenere provato che Gianfranco Bertoli svolse la sua attività di informatore del SIFAR inizialmente negli anni tra il 1954 e il 1959 e che riprese la collaborazione a partire dal 1966 (con il SID); che, infine, la stessa era ancora in atto nel giugno 1971, vale a dire quando il Bertoli era già fuggito dall’Italia e aveva trovato riparo nel kibbutz israeliano. Il che, oltre a chiarire almeno in parte le circostanze dell’espatrio di Gianfranco Bertoli, conferma l’assunto e spiega perché nell’immediatezza della strage alla Questura di Milano l’allora capitano Vitaliano Di Carlo (in servizio al SID dal 1967) fu incaricato dal generale Maletti di recarsi in Israele per ivi svolgere sul Bertoli indagini non certo di competenza dei servizi segreti, comunque non a questi riservate. Come pure trova spiegazione l’appunto, a firma del Viezzer, allegato al rapporto del cap. Di Carlo, del seguente letterale tenore “dal cap. Di Carlo: prega di non dare all’Autorità Giudiziaria, se non importante e indispensabile, le notizie su Bertoli contenute nell’allegato 2” . Il fatto che Bertoli avesse proseguito la collaborazione con i Servizi segreti dal 1966 al giugno 1971 poteva trovare smentita esclusivamente nella ricostruzione compiuta dai precedenti giudici di appello sulla scorta della testimonianza loro resa dal generale Pollari, attualmente a capo del SISMI, ma tale ricostruzione è stata censurata dalla Corte di Cassazione (sentenza di annullamento, pagg. 13-14) che testualmente ha affermato: “La Corte di secondo grado si è preoccupata di escludere totalmente i servizi segreti italiani e israeliani dall’espatrio di Bertoli, e si è avventurata in una complicata e incerta disamina del sistema di fascicolazione e intestazione delle pratiche relative agli informatori del servizio segreto, fondata sui ragionamenti del teste Pollari. In realtà il teste, solo recentemente a capo dei servizi segreti, ha tentato di spiegare il sistema di fascicolazione delle pratiche contenenti i contributi forniti dagli informatori, vigente negli anni sessanta, attribuendo un significato logico ad annotazioni e archiviazioni di dati che sembrerebbero improntate ad approssimazione e disordine. La Corte ha dato totalmente credito al Pollari trasformando così una semplice ipotesi logica, effettuata da un funzionario che non aveva partecipato alla fascicolazione delle vecchie pratiche, in una indiscutibile verità, in grado di superare tutte le dichiarazioni fatte dai funzionari addetti al servizio”. Quanto osservato dai giudici di legittimità non consente, evidentemente, al giudice di rinvio alcun margine per confermare la tesi esposta nella motivazione della sentenza annullata, tesi per altro non condivisa; si ribadiscono, quindi, le conclusioni che questa Corte ha già formulato sul punto. Esistono valide ragioni per ritenere i Servizi segreti italiani non del tutto estranei all’espatrio di Gianfranco Bertoli, sebbene ciò non comporti alcun coinvolgimento dei Servizi stessi nella preparazione e nell’attuazione della strage (come osserva la Corte di Cassazione – sentenza di annullamento, pag. 13). Le indagini compiute o disposte dal G.I. – gli esiti delle quali sono ampiamente riferiti nella citata ordinanza in data 18.7.1998 – si rivolgevano innanzitutto a chiarire le circostanze nelle quali nel gennaio 1971 il Bertoli, sottraendosi all’ordine di cattura emesso nei suoi confronti dal P.M. di Padova il 7 ottobre di quell’anno, era riuscito a espatriare dall’Italia aiutato in ciò da chi si era attivato per procurargli il passaporto falso, intestato a Massimo Magri. Si accertò in particolare che già nel 1970, come da informativa di tale Rovelli Enrico al commissario Luigi Calabresi, alcuni anarchici milanesi, facenti capo al gruppo “Ponte della Ghisolfa”, si stavano interessando per far espatriare un individuo, un anarchico, colpito da ordine di cattura. Lo stesso Rovelli aveva fornito al commissario Calabresi una fotografia di detto individuo, identica a quella che poi sarebbe stata utilizzata per formare il passaporto falso. Dell’operazione, a detta del Rovelli, si erano interessati Del Grande Umberto e Bertolo Amedeo. Si accertava che l’anarchico che doveva espatriare era proprio Gianfranco Bertoli il quale, dopo un periodo trascorso in Valtellina, era stato accompagnato da Bonomi Aldo in Svizzera, da dove si era trasferito a Marsiglia imbarcandosi poi per Israele. Nel 1992 il G.I. accertava che all’espatrio del Bertoli aveva collaborato, con il Bonomi, un medico di Sondrio, Bevilacqua Rolando, sedicente anarchico ma informatore del SID negli anni ‘69/’72 e in contatto con i servizi segreti israeliani. Rolando Bevilacqua, già interrogato nell’ambito dell’istruttoria n. 1650/74F che vedeva imputati Del Grande Umberto e Bertolo Amedeo in relazione alla vicenda del passaporto falso procurato al Bertoli, era nuovamente sentito dal G.I. nel 1992 e nell’occasione, abbandonando l’atteggiamento reticente tenuto in precedenza, rendeva ampie dichiarazioni. Si ritiene utile fornirne una sintesi riportando stralci dell’ordinanza in data 18.7.1998 del Giudice Istruttore (pagg. 32-34): dichiarava che nel 1970/71 faceva il medico a Tresivio (Sondrio) quando era stato avvicinato dal Del Grande, anarchico del Ponte della Ghisolfa di Milano (il Bevilacqua frequentava invece il circolo “Sacco e Vanzetti”) che gli aveva chiesto la sua disponibilità ad aiutare un operaio di Marghera, tale Massimo (poi rivelatosi essere il Bertoli). Ottenuta la sua disponibilità, il Del Grande aveva condotto il Massimo nella sua abitazione a Tresivio. Da quel momento la vicenda era stata gestita sempre e completamente da Aldo Bonomi, anch’egli di Tresivio, che già conosceva il Massimo. Il Bonomi si era recato ripetutamente in quei quattro o cinque giorni a casa del Bevilacqua, appartandosi sempre con l’ospite che era ammalato. A un certo punto il Bevilacqua non aveva più voluto saperne dello strano ospite e questo era stato condotto nell’abitazione del Parolo e da lì fatto espatriare in Svizzera in base a un piano organizzato ed eseguito dal Bonomi. Il Bertoli era stato portato da questi in una pensione di Saint Moritz dove, consegnando il passaporto, si era qualificato come Massimo Magri. Bevilacqua dichiarava inoltre di aver fatto parte da giovane, durante la guerra, di un gruppo di resistenza contro i tedeschi nella zona dell’Appennino e aveva più volte soccorso in quel periodo ebrei in difficoltà aiutando molti di loro a passare le linee. Quando era stato creato lo Stato di Israele il 5 maggio 1948, alcuni agenti del Mossad avevano preso contatto con lui che aveva svolto per essi attività informativa (Bevilacqua forniva precise indicazioni sulle persone con cui aveva avuto contatti che avevano trovato riscontro negli accertamenti disposti). Intorno al 1969 un colonnello dei carabinieri di Sondrio (poi riconosciuto in Renzo Monico) gli aveva chiesto di svolgere attività informativa anche per il SID e aveva cominciato a frequentare costui nella caserma di Sondrio, chiedendo di lui con una frase convenzionale ogni volta che doveva fornire informazioni. Il colonnello lo aveva messo in contatto anche con un tenente appartenente al SID. Tra i compiti affidatigli quello di infiltrarsi tra gli anarchici e fornire notizie sulla loro attività. Sugli sviluppi della vicenda Magri (alias Bertoli) e sui movimenti del Bonomi egli aveva informato giorno per giorno il colonnello di Sondrio. Dell’espatrio dell’anarchico era a conoscenza il colonnello Monico; degli sviluppi della vicenda il Bevilacqua aveva tenuto anche informato il suo referente per il Mossad (servizi segreti israeliani). Il colonnello Monico (nel 1989 coinvolto, per falsa testimonianza, nell’inchiesta sulla strage di Peteano), sentito in proposito, pur trincerandosi dietro asseriti vuoti di memoria, ammetteva di aver fatto parte dei Servizi dal 1957 al 1972, di aver comandato il Gruppo Carabinieri di Sondrio dal maggio ’69 al settembre ’72, di avere avuto contatti con il capo del Mossad, di non poter escludere di aver conosciuto il Bevilacqua e che questi gli avesse fornito informazioni su gruppi anarchici nonché su un anarchico che stava per espatriare. Tenuto conto dei fatti sopra richiamati, la Corte ritiene si possa affermare con certezza non solo che Bertoli rese una versione falsa su come si procurò il passaporto e su come in effetti riuscì a lasciare l’Italia (sottraendosi all’ordine di cattura) e raggiungere Israele con facilità certamente sospetta, ma anche che l’espatrio dell’”anarchico” Bertoli, sotto le false generalità di Massimo Magri, avvenne, per così dire, sotto gli occhi dei Servizi segreti italiani (e probabilmente di quelli israeliani), se non con un aiuto concreto quanto meno con la loro connivenza. Acquistano così un rilevante grado di attendibilità le dichiarazioni di Giuseppe Albanese (G.I. 20.6.92) secondo cui Bertoli gli aveva confidato che i Servizi segreti italiani lo avevano appoggiato nel suo espatrio dall’Italia e lo avevano aiutato anche a Marsiglia per consentirgli di recarsi in Israele; che i Servizi italiani si erano rivolti a quelli israeliani per consentirgli quel lungo periodo di soggiorno in Israele; che senza questa intesa tra Servizi non avrebbe potuto fare ciò che voleva, cioé andare liberamente all’estero e poi tornare nel kibbutz. A conclusione di tutto quanto si è detto finora, questa Corte ritiene di poter affermare con certezza la totale inattendibilità della versione fornita da Gianfranco Bertoli fin dal suo primo interrogatorio (e, sui punti più significativi, sempre ribadita in seguito) posto che la stessa è apparsa spesso inverosimile e contraddittoria oltre che risultare, su temi di sicura importanza, palesemente falsa essendo stata smentita dall’emergere di validi elementi probatori di segno contrario. Bertoli ha cercato, in tutti i modi, di accreditare la sua verità, quella di aver ideato e realizzato l’attentato perché mosso da esigenze di giustizia secondo che gli suggerivano le sue scelte filosoficho-politiche di “anarchico individualista”, di propria iniziativa, senza appoggi di chicchessia, senza che vi fossero mandanti, fuori da qualsiasi organizzazione. Ha tentato di perseguire il proprio scopo tacendo alcuni fatti ovvero adattandoli alla bisogna, mentendo su altri, escogitando spiegazioni inverosimili su altri ancora. Così, ad esempio, ha rivelato solo in parte le modalità dell’espatrio e dell’ingresso in Israele tacendo sugli appoggi ricevuti da appartenenti ai Servizi segreti e su come veramente si era procurato il passaporto falso, ha mentito circa i periodi della sua permanenza a Marsiglia e sull’ininterrotto soggiorno nel kibbutz di Karmia per circa due anni fino al giorno della partenza da Haifa, ha escogitato la fantasiosa tesi sul momento e sull’occasione che lo aveva fatto decidere di compiere l’attentato. Sopratutto ha taciuto sulla sua qualità di informatore del SIFAR/SID (oltre che sulle sue frequentazioni di personaggi e ambienti dell’estrema destra eversiva, di cui si dirà in seguito) e lo ha fatto evidentemente per evitare che ciò incidesse negativamente sulla credibilità della sua scelta anarchica. Non si intende affermare che Bertoli, sia pure con scelte recenti, non avesse fatto propri gli ideali dell’anarchia (lo attesterebbero i suoi scritti e la “A” tatuata su un braccio) - il che, comunque, non esclude, anzi rende credibile, che proprio l’apparire e professarsi anarchico dovesse tornare utile agli scopi di chi di lui si era servito – ma che quella scelta non doveva né poteva essere tale, e talmente coinvolgente, da indurlo a compiere un gesto di gravità inaudita e di subirne tutte le conseguenze. Se Gianfranco Bertoli ha sostenuto una versione che la Corte ritiene non veritiera, non può che averlo fatto - come già si è detto – per coprire una verità che non voleva né poteva rivelare: l’attentato del 17 maggio 1973 non era stato frutto della sua personale iniziativa; egli era solo l’esecutore materiale di un progetto criminoso deciso e organizzato, per scopi tutt’affatto diversi, da altri e altrove. La vicenda Loredan – Dalla Torre Se Bertoli avesse realmente agito da solo e di propria esclusiva iniziativa, come sempre ostinatamente sostenuto, sopratutto se davvero la sua decisione di agire fosse stata estemporanea (meno di tre ore prima della strage alla Questura), è evidente che nessuno tranne lui sarebbe stato a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto a Milano la mattina del 17 maggio 1973. Il fatto che l’attentato fu preannunciato due giorni prima della sua esecuzione costituisce prova certa, da un lato, delle menzognere dichiarazioni del suo esecutore, dall’altro dell’esistenza di un progetto e di mandanti. Qualcuno, infatti, messo a conoscenza di quanto si stava preparando, in quei giorni si era attivato per informarne chi di dovere, indicando con precisione sorprendente sia il giorno, sia l’obiettivo dell’attentato sia il luogo (la città) in cui sarebbe avvenuto. La vicenda vede come protagonisti Ivo Dalla Costa, Pietro Loredan e Domenico Ceravolo. Queste le risultanze istruttorie: Il 21 marzo 1995 Gianfranco Bertoli, in libertà nonostante la condanna all’ergastolo inflittagli, aveva rilasciato al Corriere della Sera un’intervista nella quale, duramente e con parole sprezzanti, attaccava il G.I, colpevole, a suo dire, di insistere senza alcuna prova in un’indagine avente come presupposto che lo stesso Bertoli non avesse agito da solo ma fosse stato esecutore materiale di un piano criminoso da altri progettato e avente ben altri moventi e fini che non quelli della protesta di un anarchico individualista. La lettura di tale intervista aveva indignato il Dalla Costa il quale aveva deciso di por fine a un silenzio durato oltre vent’anni e di riferire all’autorità giudiziaria quanto a sua conoscenza. Il Dalla Costa si rivolgeva al dr. Valmassoi (Sostituto Procuratore della Repubblica a Treviso) e il 24 marzo 1995 riferiva al G.I. quanto a suo tempo confidatogli dal Conte Pietro Loredan nel corso di un colloquio, dallo stesso Loredan sollecitato, avvenuto in Treviso la mattina del 15 maggio 1973. Dell’oggetto di quel colloquio si è già fatto cenno nella parte espositiva della sentenza, ma si ritiene opportuno riferirne in modo più completo, servendosi delle parole del testimone il quale così dichiarava: ”Nel corso della mia lunga attività politica ho svolto anche servizio di informazione in ordine alla resistenza in Grecia. Durante la stagione così detta delle ^trame nere^ ho svolto, d’intesa con la Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica di Treviso, in forma spontanea e riservata, indagini sulle attività neofasciste. Nel corso di questa attività, unitamente al segretario della Federazione comunista, mi interessavo degli operai delle grosse fabbriche in zona, prendendo contatto con gli stessi, per preservarli dalle provocazioni che gli stessi potevano subire da pseudo rivoluzionari. In tale ambito ebbi modo di prendere contatti con il Conte Pietro Loredan, il quale, a mio avviso, era uno squinternato con velleità pseudorivoluzionarie; pretendeva di dirigere la rivoluzione in Italia e ciò gli è costato soldi e pericolosi contatti con elementi neofascisti tra cui anche Freda e Ventura. Nei suoi discorsi che intavolava con me mi diceva che a suo dire la sinistra aveva fallito il suo programma rivoluzionario per cui egli era costretto ad attuare un suo programma alternativo utilizzando fascisti e comunisti; in tale ambito si era collegato appunto, fra gli altri, anche con Freda e Ventura. Aveva infatti aperto un locale chiamato ^la Falconiera^ a Venegazzù di Volpato di Montello, un ristorante di lusso che era anche un luogo di ritrovo; in essi si ritrovavano provocatori di ogni tipo, prevalentemente personaggi neofascisti, compresi Freda e Ventura, strani soggetti dei quali si diceva appartenessero alla C.I.A. ovvero a Servizi segreti stranieri diversi come il Servizio Israeliano. I contatti tra me e il Loredan divennero più frequenti, cominciammo a frequentarci con una certa assiduità ed egli venne alcune volte a casa mia; mi regalò anche alcune casse di vino, che produceva. Io all’epoca cercavo di metterlo sull’avviso per evitare che egli si spingesse troppo oltre nel propagandare le sue idee rivoluzionarie; egli aveva adocchiato varie industrie della zona, come la Zoppas di Conegliano e la Confezioni Sanremo di Cairano San Marco, per fare proselitismo delle sue idee fra gli operai. Io mi attivavo nei confronti degli operai ammonendoli di stare in guardia dalle provocazioni del Conte Loredan. Il Conte, dal canto suo, cercava di conoscere circostanze relative alla mia attività politica durante gli incontri che all’epoca divennero periodici. Io ovviamente non gli dicevo nulla in ordine all’attività politica del Partito Comunista Italiano e cercavo di fargli capire la pericolosità delle idee che si era messo in testa, cioè propagandare una rivoluzione di stampo neofascista, e delle persone che frequentavano il suo locale. L’epoca in cui si svolgevano questi contatti è quella del 1968/69, immediatamente precedente alla strage di Piazza Fontana del 12.12.1969. Dopo Piazza Fontana Loredan sparì letteralmente dalla circolazione anche se il suo ritrovo fu gestito da altri; nello stesso continuarono le frequentazioni dei personaggi sopra descritti. Dopo molto tempo in cui non avevo più avuto contatti con il Conte, una mattina alle ore 6,30 improvvisamente lo stesso mi telefonò a casa. Posso essere molto preciso su tale data in quanto essa avvenne due giorni prima della strage di via Fatebenefratelli. Per tanto era il 15 maggio 1973. La telefonata mattutina mi pervenne da un telefono pubblico, a suo dire; il Conte mi apparve agitato e disse che doveva parlarmi urgentemente dicendomi di andare a Porta Santi Quaranta, un luogo del centro di Treviso. Mi recai immediatamente sul posto, salii sulla sua auto e qui, dopo esserci spostati di poco, lo stesso mi disse queste testuali parole: ^questa volta spero che mi diate un po’ di fiducia; a Milano entro 48 ore succederà un attentato contro un’alta personalità del Governo e ne parlerà l’intera Italia. Avvisa chi di competenza^. Era molto agitato e capii che mi aveva chiamato nella sincera speranza che io riuscissi ad evitare quanto di grave stava per succedere. Preciso che egli mi parlò dicendomi solo che l’attentato sarebbe avvenuto a Milano ma non mi fornì alcun altro dettaglio sulla località o la zona in cui esso sarebbe avvenuto. Egli non mi disse testualmente la matrice dell’attentato; tuttavia ciò era implicito per me date le sue frequentazioni all’epoca con i neofascisti. Il conte sapeva perfettamente che io ero al corrente delle sue frequentazioni con Freda, Ventura ed i neofascisti e che consideravo lui di estrema destra nonostante le sue coperture a sinistra, o in ogni caso i suoi tentativi di copertura a sinistra. Dopo avermi detto ciò egli si allontanò con la sua auto ed era veramente molto agitato. Io non ebbi alcun dubbio sulla sincerità della sua preoccupazione, né dubitai sulla veridicità di quanto mi era venuto a dire; naturalmente rimasi molto scosso. Dopo aver riflettuto un attimo, ritenni di non avvertire il segretario della mia Federazione di quello che mi era successo perché era molto giovane. Poiché non ho mai guidato mi recai subito alla stazione, che era poco distante, e presi il primo treno per Venezia, ove mi recai dal dirigente On. Ceravolo, del Comitato Regionale Veneto del Partito Comunista Italiano. Gli riferii tutti i dettagli dell’episodio, le parole precise dettemi dal Conte e la fonte delle mie notizie, cioè il Conte Loredan. Anche l’On. Ceravolo rimase scosso; per tanto salimmo immediatamente sulla sua auto e ci mettemmo in viaggio per Milano. Era un ottimo conducente, ricordo che corse ad alta velocità sull’autostrada; arrivammo alle ore 11 circa in via Volturno ove era la sede della Federazione Comunista. Devo a questo punto aggiungere che il colloquio fra me e l’On. Ceravolo avvenne a quattr’occhi nella sede del Comitato Regionale del P.C.I. ubicato in Corte del Remer a Venezia. Prima di partire il Ceravolo incaricò la funzionaria del Comitato Regionale di telefonare alla Direzione del Partito Comunista Italiano a Roma al fine di invitare l’On. Pajetta, o chi per esso, di salire subito a Milano per una cosa molto grave. Infatti mezz’ora dopo il nostro arrivo in via Volturno a Milano arrivarono anche Pajetta, che aveva preso un aereo, e l’On. Malagugini, Consigliere della Corte Costituzionale. Riferii testualmente quanto avvenuto e l’informazione ricevuta al Pajetta e al Malagugini. Su richiesta degli altri il Malagugini si incaricò di contattare il giudice Alessandrini per riferire l’episodio e l’informazione ricevuta dal Loredan. Dopo aver parlato con il Malagugini, io e il Ceravolo ripartimmo per Venezia. Non ho più saputo nulla dopo quel giorno, cioè quel 15 maggio 1973. Due giorni dopo appresi dalla televisione della strage. In verità appena informato della strage pensai che Loredan aveva avuto ragione; in realtà avevo pensato che avesse detto il vero sin dal 15.5.73 ed è per questo che mi ero attivato nel modo sopra descritto. Mi ero reso conto che lo scopo per cui il Loredan mi aveva avvertito era proprio quello di attivarmi”. Quanto al fatto di aver taciuto tanto a lungo, il teste dichiarava: “non ritenevo di dover propagandare un fatto segreto che mi era stato riferito e anche perché il mio intervento non aveva ottenuto i risultati che speravo”. Il 31 marzo 1995 il Giudice Istruttore sentiva Domenico Ceravolo (già deputato, dal ’58 al ’72, prima per il PSI poi per il PSIUP, nel 1980 parlamentare europeo per il PCI, nel 1973 dirigente del Comitato Regionale Veneto del Partito Comunista Italiano). Il teste inizialmente ricordava che effettivamente il Dalla Costa era giunto a Venezia, proveniente da Treviso, e gli aveva riferito di una trama eversiva in cui il Loredan era coinvolto, “poiché la trama eversiva poteva sfociare in qualcosa di grave a breve scadenza, egli era venuto a mettere in guardia il Partito. Il suo avvertimento mi parve attendibile in quanto sorretto dalle sue frequentazioni con il Loredan di cui ci mise al corrente.........Ripeto: la ricostruzione di Dalla Costa mi apparve attendibile, perché io ricordo che si parlò di un pericolo imminente e che io conseguentemente decisi di allertare subito il Centro nazionale del Partito a Roma, e cioé la Direzione Nazionale........La convinzione che io e il Dalla Costa ci formammo è che il Loredan avesse voluto sul serio, con le sue informazioni, prevenire l’attentato”. Dopo una breve sosta richiesta dallo stesso testimone “per mettere ordine” nei suoi ricordi, il Ceravolo confermava anche nei dettagli quanto riferito da Ivo Dalla Costa. Così proseguiva: “la sosta mi è stata proficua in quanto, mettendo a fuoco l’episodio, mi sono ricordato di un dettaglio apparentemente banale ma che in realtà mi ha aperto uno squarcio nei ricordi consentendomi di rievocare il viaggio e altri ricordi. Mi sono in sostanza ricordato che per la fretta di arrivare all’appuntamento, ero un po’ agitato, dopo aver percorso l’autostrada Venezia-Milano sbagliai l’accesso migliore per arrivare speditamente all’appuntamento in federazione in via Volturno; dovemmo per tanto fare un giro più lungo che ci procurò un certo ritardo. Mi sono ricordato anche che, a seguito della telefonata fatta a Venezia alla Direzione del Partito, mi era stato detto di recarci a Milano in via Volturno dove avremmo trovato gli Onorevoli Pajetta e Malagugini”. Il Ceravolo confermava quanto già riferito da Ivo Dalla Costa sul colloquio avuto con gli Onorevoli Pajetta e Malagugini e circa il fatto che il secondo si era assunto l’incarico di informare l’autorità giudiziaria (in persona del giudice Alessandrini), cosa che il teste riteneva fosse certamente avvenuta, anche perché il Malagugini si era allontanato prima ancora che la riunione terminasse. Ritiene questa Corte, come già i primi giudici, che non possano sussistere dubbi sull’attendibilità dei due testimoni: il Dalla Costa aveva svolto a Treviso una lunga attività politica nel Partito Comunista Italiano e fin dal 1950 ne era stato un funzionario, era stato consigliere Provinciale e Presidente del Comitato Regionale di Controllo; al tempo della sua testimonianza era componente del Comitato Scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza. Della sua serietà e attendibilità aveva poi garantito Domenico Ceravolo, all’epoca dei fatti dirigente nazionale del P.C.I., il quale così si esprimeva a proposito di Ivo Dalla Costa: “benché non vi fosse una frequentazione assidua tra me e il predetto, ricordo che lo stesso svolgeva attività politica nella federazione provinciale del Partito Comunista Italiano, anche se non ricordo esattamente con quali mansioni. Ribadisco che in quel periodo per motivi politici l’ho incontrato alcune volte a Treviso e anche a Venezia nel Comitato Regionale Veneto. Posso dire che considero Ivo Dalla Costa persona degna di stima, equilibrata e attendibile nelle circostanze che può averle riferito. L’attendibilità intrinseca dei due testimoni, comunque, non è stata messa in dubbio da alcuno, tenuto conto della assoluta concordanza delle loro dichiarazioni. I prospettati elementi di perplessità hanno semmai riguardato l’affidabilità della fonte di Ivo Dalla Costa nonché l’esatta natura dell’informazione dallo stesso ricevuta e riferita dopo molti anni. Occorre, quindi, dedicare la giusta attenzione al personaggio Loredan. Su questi riferiva al Giudice Istruttore il comandante della Polizia Giudiziaria dei Carabinieri presso il Tribunale di Milano con rapporto in data 18 aprile 1995: Pietro Loredan, nato a Venezia nel 1924, trasferitosi nel 1954 a Venegazzù di Volpago di Montello (TV), era persona benestante, proprietaria di case e terreni (una parte venduti nel 1970) sia a Venegazzù che a Venezia; era descritto come militante del movimento “Avanguardia Nazionale”, la stessa organizzazione di Giovanni Ventura; risultava che il Loredan e il Ventura erano cointeressati a un’impresa editoriale (la “Lerici”) e che lo stesso Ventura, nel 1972, aveva effettuato alcune operazioni bancarie garantite dai fratelli Pietro e Alvise Loredan; da un rapporto del Servizio Informazioni Difesa, di poco successivo alla strage di via Fatebenefratelli, risultava ancora che Pietro Loredan aveva fatto parte di Ordine Nuovo per un lungo periodo di tempo, che lo stesso si era poi infiltrato nel partito marxista leninista dal quale era stato espulso, che aveva alienato tutto il suo patrimonio, ricavandone oltre un miliardo di lire, recandosi poi all’estero. I rapporti tra Ventura e il conte Loredan erano confermati dal teste Giuseppe Universo (ospite del Loredan dall’autunno 1971 al luglio 1973) il quale affermava di aver conosciuto Ventura nella libreria di Treviso di cui era direttore e di averlo visto una o due volte nel ristorante “la Falconiera” di proprietà del Loredan in compagnia di questi; confermava altresì il comune interessamento del Ventura e del Loredan per una casa editrice in procinto di fallire. Stimamiglio Giampaolo - aderente a Ordine Nuovo dal 1969 ed entrato in contatto con numerosi esponenti di rilievo di quella organizzazione (Soffiati, Digilio, Massagrande, Besutti, Bizzarri, Spiazzi, Maggi, Zorzi, Neami, Portolan) - sentito dal Giudice Istruttore il 19.7.97, dichiarava di non aver conosciuto il conte Pietro Loredan, del quale però Giovanni Ventura gli aveva parlato come di una vecchia conoscenza. Fin da giovane era stato amico della famiglia Ventura, mantenendo quell’amicizio anche quando Ventura era stato arrestato per la strage di Piazza Fontana; era stato poi coinvolto nella fuga di Giovanni Ventura e si era anche recato a trovarlo in Argentina nel 1981. Quanto all’informazione relativa all’attentato della Questura, che sarebbe stata fornita dal Loredan due giorni prima della sua esecuzione, Stimamiglio rendeva dichiarazioni di notevole importanza, non tanto per l’opinione espressa su come Pietro Loredan potesse essere venuto a conoscenza dell’imminente attentato, quanto per comprendere quali fossero, all’epoca che qui interessa, le frequentazioni del Conte: “ritengo che Pietro Loredan deve aver appreso dell’attentato del 17.5.73 dall’entourage di Giovanni Ventura. Se non erro, nel ‘73 Giovanni Ventura era detenuto ed è possibile che ne abbia parlato con le persone che andavano a colloquio con lui o che qualcuno ne avesse parlato con persone che andavano a colloquio con lui. Ricordo che all’epoca andavano a colloquio con Giovanni spesso la madre e la sorella Mariangela. La mia interpretazione dell’episodio è la seguente: qualche amico della famiglia Ventura che continuava a mantenere i contatti con l’organizzazione deve avere parlato con qualcuno dei famigliari di Giovanni in occasione delle frequenti visite che tutti gli amici facevano in casa Ventura per avere notizie di Giovanni. Qualcuno di tali amici deve avere avvertito la Mariangela o qualcun’altro che il programma di attentati ideato negli anni precedenti era ancora in fase di esecuzione e che un altro attentato era in fase di realizzazione. Il Conte Pietro Loredan che, per l’amicizia con Giovanni, era abituale frequentatore di casa Ventura e deve avere appreso che stava per avvenire di lì a qualche giorno l’attentato a Milano; deve essersi preoccupato e ha cercato una persona di sua fiducia che potesse avvertire qualcuno che potesse prevenirlo. Ho sempre goduto della fiducia e delle confidenze di Giovanni Ventura (ucciso nel maggio 1989 nella zona di Campagnano Romano in occasione di una rapina) per gli stretti rapporti di amicizia. Luigi, già nel periodo settembre-novembre ‘69 mi aveva parlato del programma dell’organizzazione di porre in essere una catena di attentati successivi nel tempo da eseguire a più riprese. Mi parlò in particolare di un crescendo di attentati eclatanti che avrebbero dovuto portare a una svolta politica. Parlando di organizzazione Luigi si riferiva a una struttura che aveva ramificazioni anche negli apparati statali. In conclusione, tenuto conto dei discorsi ascoltati dal Luigi nel ‘69, riferentisi a un programma da effettuarsi nel tempo, tenuto conto dei successivi discorsi del Luigi del ‘73 indicanti che quei programmi erano ancora attuali, essendo a conoscenza dei rapporti di amicizia tra Pietro Loredan e la famiglia Ventura, ho ritenuto di formularle la mia opinione e la mia chiave di lettura dei fatti relativi a Pietro Loredan di cui mi ha testè edotto”. La vicenda in esame, definita dai primi giudici “la strage annunciata”, di cui si sono sopra indicati i punti fondamentali e gli elementi di verifica acquisiti, richiede di essere esaminata in ogni dettaglio, così come richiesto dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento, considerata la sua assoluta rilevanza - come si è detto - in ordine a un definitivo giudizio sulla credibilità delle dichiarazioni di Gianfranco Bertoli e all’individuazione della vera matrice della strage del 17 maggio 1973. Si ribadisce innanzitutto, come già fatto dai giudici di primo grado, la personale attendibilità del teste Ivo Dalla Costa: la sua fu senz’altro una testimonianza spontanea, frutto si potrebbe dire di un imperativo morale in lui risvegliato, dopo oltre vent’anni dai fatti, dalla protervia con cui Bertoli, con l’intervista rilasciata al giornalista del Corriere della Sera, per l’ennesima volta aveva ribadito di aver agito da solo, che il suo era stato il gesto di un “anarchico individualista”, di non aver mai ricevuto soldi dagli “007”, e se la prendeva con il Giudice Istruttore che non si rassegnava a recepire, una volta per tutte, quella versione. Fu per tali ragioni, come dallo stesso affermato, che Dalla Costa si rivolse al dr. Valmassoi della Procura di Treviso e, per suo tramite, entrò in contatto con il Giudice Istruttore che ancora proseguiva l’indagine sugli eventuali mandanti della strage della Questura. E’ più che giusto chiedersi perché il Dalla Costa abbia atteso tanto tempo per rivelare personalmente all’autorità giudiziaria quanto appreso dal conte Loredan due giorni prima dell’attentato. La risposta fornita dal testimone può, almeno in parte, spiegare le ragioni di quel lungo silenzio: il suo attivarsi, all’epoca, per mettere altri al corrente delle informazioni ricevute non aveva sortito effetto alcuno dato che la strage, come ben poteva essere, non era stata evitata. Ma anche altre, ad avviso di questa Corte, sono le ragioni che devono avere indotto il testimone a tacere per anni sulla vicenda: egli, diversamente da qualunque cittadino che fosse venuto a conoscenza di fatti tanto gravi che si stavano preparando, anzicché riferirne direttamente alle forze di polizia o all’autorità giudiziaria, agì da uomo politico, forse ritenendo che le notizie di cui era entrato in possesso dovessero essere prima valutate da chi si trovava, nel P.C.I., a un livello gerarchico superiore al suo, da chi, se del caso, si sarebbe assunto il compito di allertare i pubblici poteri. Dalla Costa si comportò ancora da uomo politico, anche se la sua fu una condotta umanamente comprensibile, tacendo per anni non solo su quanto appreso, al tempo, da Pietro Loredan ma anche sul fatto di averne immediatamente riferito a due importanti esponenti del Partito Comunista, cioè agli On.li Pajetta e Malagugini. Dalla Costa, come ben fa intendere con le sue dichiarazioni conclusive, riteneva, informando i due parlamentari, di aver fatto tutto quanto nelle sue possibilità per sventare l’attentato, tant’è vero che non si era più interessato se le informazioni fornite fossero state trasmesse a chi di dovere, né aveva chiesto o saputo in seguito se l’On. Malagugini avesse informato l’autorità giudiziaria così come si era impegnato a fare. E’ cosa certa, come acclarato dalle relative indagini, che l’informazione preannunciante l’attentato non pervenne mai al Dr. Emilio Alessandrini (della Procura di Milano), indicato come il magistrato che doveva essere contattato dall’On. Malagugini, sicché non si fece nulla per allertare chi avrebbe potuto prevenire e sventare la strage del 17 maggio 1973. L’attentato, purtroppo, puntualmente avvenne così come era stato preannunciato da Pietro Loredan, ed è ben comprensibile, se non scusabile, che in seguito si sia serbato assoluto silenzio sulla vicenda: si sarebbe trattato, infatti, di attribuire una gravissima responsabilità, con le immaginabili conseguenze di natura politica, a due alti esponenti del P.C.I., a chi, pur potendo e dovendolo fare, non ritenne di attivarsi. Questi, secondo la Corte, furono con tutta probabilità i motivi che indussero Ivo Dalla Costa a tacere per lunghi anni, ma di ciò non può essere fatto soverchio rimprovero al testimone posto che il vero errore, semmai, fu commesso quel giorno 15 maggio ’73 dagli On.li Pajetta e Malagugini. Gli stessi, al tempo della testimonianze di Dalla Costa, erano già deceduti sicché non è stato possibile comprendere fino in fondo le ragioni della loro inerzia del tempo. L’ipotesi più probabile, ma è solo un’ipotesi per quanto ragionevole, è che i due parlamentari (il Malagugini in particolare), analizzando meglio l’informazione loro fornita da Dalla Costa e la fonte di questi, non abbiano attribuito la giusta importanza e attendibilità all’avvertimento, anche tenuto conto che in quegli anni di tensione, non erano infrequenti simili allarmi. La testimonianza di Ivo Dalla Costa è stata precisa e perfettamente lineare per quanto attiene al punto focale delle sue dichiarazioni relative all’oggetto e alle modalità dell’informazione ricevuta dal conte Loredan: precisi i riferimenti di tempo e luogo con l’indicazione che la telefonata di Loredan gli era pervenuta alle ore 6,30 del mattino due giorni prima dell’attentato alla Questura; il teste si è dichiarato assolutamente certo che si trattasse proprio del 15 maggio ’73; l’incontro immediatamente successivo con Pietro Loredan in una zona di Treviso ben determinata (Porta Santi Quaranta). Tutti segni di un ricordo nitido dei fatti nonostante il tempo trascorso. Altrettanto preciso e lineare il racconto di Dalla Costa per quanto attiene: 1) al colloquio avuto con il conte Loredan e il letterale tenore dell’informazione/avvertimento da questi ricevuta (“Questa volta spero che mi diate un po’ di fiducia: a Milano tra 48 ore succederà un attentato contro un’alta personalità del Governo e ne parlerà l’intera Italia. Avvisa chi di competenza”), 2) all’immediata partenza in treno per Venezia, 3) all’informazione subito portata aconoscenza del Ceravolo, 4) alla telefonata fatta alla Direzione Centrale del Partito a Roma e l’invito a recarsi, la mattina stessa, a Milano per incontrarsi con gli On.li Pajetta e Malagugini, 5) il veloce viaggio a Milano sull’autovettura guidata dal Ceravolo, 6) l’incontro con i due parlamentari nella sede milanese di via Volturno. Su tutte le indicate circostanze la testimonianza di Dalla Costa ha trovato piena conferma in quella di Domenico Ceravolo (ribadita anche in fase dibattimentale, nella quale non fu sentito, con l’accordo delle parti, il Dalla Costa stante l’età avanzata e le precarie condizioni di salute) il quale, come si è detto, dopo iniziali esitazioni, reso edotto dal G.I. delle dichiarazioni di Ivo Dalla Costa e chiesta una breve pausa “per riordinare i ricordi”, riferiva sostanzialmente negli stessi termini la vicenda in esame. Il teste rendeva ancor più credibile il rinnovato ricordo dei fatti riferendo un particolare apparentemente privo di rilievo: percorsa l’autostrada Venezia-Milano ( a tutta velocità secondo Dalla Costa), al momento di dirigersi verso il centro città aveva sbagliato strada, il che aveva comportato un certo ritardo del loro arrivo in via Volturno. E’ superfluo sottolineare che se il Ceravolo ricordò, tra l’altro, quel particolare è evidente che egli non solo aveva perfetta memoria del viaggio ma che ricordava anche l’estrema urgenza e necessità di quella trasferta nel capoluogo lombardo per recarsi all’appuntamento con il Pajetta e il Malagugini. Su un solo punto le due testimonianze non hanno concordato pienamente, ma si tratta di particolare di poco conto, questo si passibile di un ricordo non perfetto: secondo Dalla Costa la telefonata fatta da Venezia alla Direzione Centrale del P.C.I. avrebbe determinato l’immediata partenza da Roma per Milano degli On. Pajetta e Malagugini mentre, secondo il Ceravolo i due parlamentari erano già presenti a Milano nella locale sede del Partito, dove poi sarebbe avvenuto l’incontro. Tenuto conto della accertata attendibilità dei due testimoni non si ritiene possa essere messo in dubbio che Dalla Costa ebbe l’infomazione dell’imminente attentato proprio dal conte Pietro Loredan. Lo stesso testimone ha ampiamente illustrato le ragioni della conoscenza e della frequentazione del Loredan, sicchè appare del tutto verosimile che quest’ultimo, ritenendo di informare qualcuno di propria fiducia il quale a sua volta avrebbe dovuto avvertire “chi di competenza”. D’altro canto è altrettanto credibile che Dalla Costa abbia prestato fede a quanto gli aveva detto il Loredan considerato che questi non era certo una persona qualsiasi (il che avrebbe destato perpressità e probabilmente incredulità nell’interlocutore) ma era quel personaggio che il testimone ha descritto in modo esauriente: uno “squinternato” (vale a dire un individuo singolare e strano nei propri comportamenti) con velleità rivoluzionarie che sperava di far leva, per conseguire i suoi scopi eversivi, sia sull’estrema destra neofascista sia su frange estreme opposte. Sta di fatto che Dalla Costa non lo aveva del tutto sottovalutato se è vero che lo stesso aveva cercato di convincere Loredan a non fare più certi discorsi, a non frequentare certi ambienti e persone, a rinunciare ai suoi propositi tanto velleitari quanto pericolosi, se è vero infine che Dalla Costa, come da lui stesso affermato, si era attivato per mettere in guardia gli ambienti operai vicini al Partito da provocatori del tipo, appunto, del conte Loredan. E’ probabile che il testimone, stante il giudizio poco lusinghiero sul Conte, non fosse portato ad attribuire troppo credito alle parole di Loredan ma quella mattina del 15 maggio ’73, a Treviso - evidentemente turbato dalla telefonata giuntagli in ora tanto mattutina – non solo aveva immediatamente accolto l’invito ad incontrarsi ma aveva prestato fede alle parole di Pietro Loredan sia per l’assoluta gravità dell’informazione sia perché l’interlocutore aveva cercato in tutti i modi di essere creduto iniziando il suo dire con la frase “spero che questa volta mi diate un po’ di fiducia” (a dimostrazione che Loredan sapeva di non essere, normalmente, preso troppo sul serio ma confidava che, almeno in quella occasione, si credesse alle sue parole; il che implica che egli fosse certo di quanto diceva e che lo scopo del colloquio era quello di far si che l’attentato fosse sventato). E’ del tutto credibile che Pietro Loredan, stanti le sue conoscenze e frequentazioni, fosse in possesso dell’informazione trasmessa al Dalla Costa: come accertato dalle indagini, egli frequentava per lo più ambienti dell’estrema destra veneta, aveva fatto parte di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo, si incontrava, per lo più nel ristorante già di sua proprietà a Vengazzù, con personaggi che facevano parte di quelle organizzazioni, in particolare manteneva assidui contatti con la famiglia di Giovanni Ventura, all’epoca detenuto in relazione alla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969. Le indagini non hanno consentito di accertare come, quando e da chi il Loredan abbia appreso dell’imminente attentato a Milano ma non sembra di essere lontani dal vero ritenendo molto verosimile l’opinione di Giampaolo Stimamiglio (persona ben inserita negli ambienti dell’estrema destra neofascista veneta) secondo cui Pietro Loredan poteva avere ricevuto, nell’entourage della famiglia di Giovanni Ventura, l’informazione che a breve sarebbe stato eseguito l’attentato nel quadro di un programma da tempo ideato e ancora, all’epoca, attuale. Su quale fosse stata la fonte di Pietro Loredan, o meglio su come lo stesso si fosse convinto che era imminente l’attentato al punto di avvertire il Dalla Costa, è stata prospettata un’ipotesi alternativa, già esaminata dal Giudice Istruttore oltre che dalla Corte d’assise e senz’altro scartata, nonché dai giudici di appello i quali, invece, l’hanno ritenuta idonea a spiegare esaustivamente come e in quale occasione il conte Loredan era venuto a conoscenza di ciò che, secondo la sua convinzione, si stava preparando a Milano. In sintesi, questi avrebbe partecipato a una cena nella propria villa a Venegazzù con Giuseppe Universo (scrittore, suo ospite con la moglie per circa due anni), Sergio D’Asnash (giornalista dell’ANSA) e Sergio Saviane (anch’egli giornalista). Nell’occasione, come riferito dal teste Universo, tutti avevano ecceduto in libagioni e si era parlato della situazione politica e dell’ordine pubblico, considerata esplosiva. Sergio Saviane in seguito aveva scritto un articolo, dal titolo “domani salta in aria Milano”, pubblicato dall’Espressso il 12 agosto 1973. A seguito di quell’articolo il D’Asnash aveva temuto di perdere il posto di lavoro (evidentemente se ritenuto in possesso di notizie non riferite), e aveva querelato per diffamazione sia il Saviane sia Zanetti (direttore dell’Espresso), ottenendo la condanna di entrambi, anche grazie alla testimonianza di Giuseppe Universo. Nel corso dell’istruttoria di quel processo era stato sentito anche il conte Loredan il quale aveva minimizzato i fatti, pur ammettendo che la cena era avvenuta e che gli argomenti toccati erano quelli cui aveva fatto riferimento il teste Universo. Si annota, per inciso, che poco tempo dopo il Loredan alienerà tutte le sue proprietà e sparirà dalla circolazione emigrando all’estero (si avranno sue tracce in Italia solo nel 1994 quando lo stesso, a seguito di un incidente stradale e di un tumore, morirà in quel di Campagnano Romano, per singolare coincidenza lo stesso luogo dove nel 1989 Giovanni Ventura era stato ucciso nel corso di una rapina). La fuga del Loredan - da porsi senz’altro in relazione con lo stato di estrema agitazione in lui notato da Giuseppe Universo nei giorni successivi all’attentato di via Fatebenefratelli (condizione che, oltre agli strani atteggiamenti del Conte, avevano indotto Universo a lasciare la villa di Venegazzù) - così può essere ragionevolmente spiegata: Pietro Loredan ben sapeva di aver confidato a Dalla Costa quanto appreso sull’attentato; se il fatto fosse in qualche modo emerso è ovvio che egli avrebbe corso gravi rischi; quei rischi dovevano essergli apparsi concreti quando il suo nome era stato associato, a causa dell’articolo del Saviane e al processo che ne era seguito, con i fatti del 17 maggio 1973. L’ipotesi alternativa di cui si è detto, che - se adeguatamente accertata dimostrerebbe che quanto riferito a Dalla Costa da Pietro Loredan null’altro era che una elaborazione di discorsi generici avvenuti nel corso della menzionata cena e delle relative libagioni, è stata ritenuta insussistente dalla Suprema Corte la quale (pag. 10 della sentenza di annullamento), censurando sullo specifico punto la motivazione dei giudici di appello, ha affermato: “La ricostruzione fatta dalla Corte di merito, oltre che poco credibile, appare contraddittoria, perché contrasta con il fatto che Dalla Costa ha riferito di avere ricevuto la telefonata da Loredan alle ore 6,30 del giorno 15.5.1973, mentre la cena con D’asnash è stata dalla stessa Corte indicata nella sera dle giorno 15.5.73, quindi Loredan, quando ha parlato con Dalla Costa non avrebbe avuto ancora dal D’Asnash le informazioni sull’attentato in preparazione. Appare invece maggiormente credibile che il Loredan nel corso della cena abbia detto qualcosa di quanto aveva saputo e che il D’Asnash (rectius: il Saviane, n.d.u.) abbia elaborato la notizia a suo modo. Ma, prescindendo per un momento dalla testé riportata affermazione della Corte di Cassazione, che già di per se stessa sarebbe sufficiente a stabilire che - lungi dall’essere l’elaborazione fantasiosa di chiacchiere da ristorante - l’infomazione trasferita al Dalla Costa dal Conte Loredan fu ricevuta da quest’ultimo altrove e da altri, la su accennata spiegazione alternativa non regge a un esame sorretto da un minimo di logica: occorrerebbe, in vero, un grande sforzo di immaginazione per ipotizzare, nella vicenda in questione, il realizzarsi di una incredibile coincidenza, rappresentata dal fatto che Loredan, elaborando per conto suo e a suo piacimento discorsi generici e frutto di un uso eccessivo di bevande alcoliche, si sia convinto (al punto di informarne con urgenza il Dalla Costa, alle 6,30 del mattino) che nel giro di 48 ore a Milano vi sarebbe stato un attentato di estrema gravità, avente come bersaglio un importante membro del Governo (alla cerimonia in memoria del commissario Calabresi era presente il Ministro degli Interni On. Mariano Rumor) e dal fatto che l’attentato si verificò esattamente, per tempo e luogo, come previsto. E’ allora evidente che la notizia in possesso di Pietro Loredan era assolutamente precisa e attendibile e che la stessa non poteva che provenire dagli ambienti e dalle persone frequentate dallo stesso Loredan. E’ infine da escludere categoricamente la lontanissima ipotesi che Loredan abbia riferito a Dalla Costa qualcosa di più generico (e se così fosse stato, perché farlo con tanta urgenza ?): a parte la serietà e l’attendibilità di questo testimone, è semplicemente assurdo pensare che lo stesso, a fronte di generiche informazioni, abbia reagito, come in effetti fece, prendendo il primo treno per Venezia, informando il Ceravolo di quanto aveva appreso, abbia ritenuto di informare la Direzione Centrale del P.C.I, si sia precipitato a Milano con il Ceravolo per riferire l’informazione ricevuta a due altissimi esponenti del Partito. Tutto ciò avvenne perché quanto riferito da Pietro Loredan non solo era stato estremamente preciso ma era apparso del tutto credibile all’interlocutore. Da ultimo, a conforto delle considerazioni che precedono, si ritiene utile richiamare alcuni punti della sentenza di annullamento. Sulla “vicenda Loredan” la Corte di Cassazione ha, tra l’altro, osservato: “La Corte d’assise di Appello ha concluso la disamina degli elementi di prova acquisiti con un giudizio perentorio sintetizzato nella frase ^Orbene, anche attraverso gli elementi acquisiti nel corso della rinnovazione parziale del dibattimento nel giudizio d’appello, si deve ritenere incontestabilmente accertato che la strage compiuta da Bertoli non è stata in alcun modo preannunciata da Pietro Loreda^. L’indicata affermazione, per quanto concerne l’episodio Loredan, va considerata frutto di un travisamento dei fatti, che ha determinato una motivazione illogica perché non coerente con gli elementi obiettivamente accertati”. Esaminati i punti più significativi delle testimonianze di Ivo Dalla Costa e di Domenico Ceravolo, i giudici di legittimità così proseguono: “Da questa ricostruzione in fatto non può escludersi il significato indiziario dell’episodio riferito. Infatti non si può escludere che l’episodio si sia verificato o che il contenuto della comunicazione sia stato tale da aver allarmato il Dalla Costa e il Ceravolo.............Dalla Costa conosceva bene il conte Pietro Loredan che era suo buon amico e sapeva che era in contatto continuo con elementi di Ordine Nuovo del Veneto, aveva quindi personalmente dato credito alla notizia, successivamente rivelatasi coincidente, o almeno molto simile, con l’attentato di via Fatebenefratelli. La Corte di merito avrebbe dovuto ritenere valida la preoccupazione del Dalla Costa, dato che agli atti vi erano elementi di prova idonei a confermare i rapporti fra Loredan ed elementi di Ordine Nuovo. Il teste Universo aveva affermato di aver incontrato più volte Giovanni Ventura nel ristorante denominato La Falconiera di proprietà del conte Loredan. La sentenza ha inoltre omesso di valutare (sul punto) le dichiarazioni del teste Stimamiglio”. Richiamate le dichiarazioni di quest’ultimo, la Suprema Corte ha ancora osservato: “Pur potendo la Corte d’Appello tranquillamente ritenere che il Loredan aveva appreso la notizia del prossimo attentato negli ambienti di Ordine Nuovo, ha preferito avventurarsi in una complicata e incerta costruzione logica che l’ha condotta ad affermare che Pietro Loredan aveva appreso, il 15 maggio 1973, dal giornalista Sergio D’Asnash la notizia (generica) di gravi fatti che stavano per accadere a Milano. Deve quindi ritenersi che, sul punto, la Corte di merito abbia effettuato una analisi non esauriente delle risultanze probatorie acquisite, che ha inciso sul processo di libero convincimento del giudice di Appello, condizionandolo fino a produrre gli effetti negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto delle prove esistenti in atti, con conseguenze non coerenti sul piano logico”. Per tali ragioni la Suprema Corte ha annullato la sentenza d’appello sul punto, rinviando a questa Corte la corretta rilettura delle prove esistenti, per accertare “se vi sia stato un collegamento fra Loredan e il gruppo di Ordine Nuovo diretto da Carlo Maria Maggi e se la notizia sia scaturita da informazioni ricollegabili all’attività degli imputati”. Si ritiene, nel limite del possibile e degli elementi probatori disponibili, di avere compiuto il riesame richiesto. Quale conclusione si può ribadire che l’informazione fornita da Pietro Loredan a Ivo Dalla Costa fu estremamente precisa e attendibile e che la stessa provenne senz’altro dagli ambienti e personaggi dell’estrema destra veneta all’epoca frequentati dal Loredan; difficile dire, invece, se l’infomazione ebbe come fonte il gruppo di Ordine Nuovo del Maggi, o personalmente dallo stesso, pur potendosi ritenere verosimile tale eventualità, per quanto si dirà nel prosieguo della motivazione. Due fatti sono, comunque, certi al di là di ogni dubbio: la strage di via Fatebenefratelli fu annunciata, due giorni prima del suo verificarsi, dall’informazione fornita da Pietro Loredan. Gianfranco Bertoli ha sicuramente mentito attribuendo a se stesso, come “anarchico individualista” la decisione e l’esecuzione dell’attentato. Questo fu studiato, deliberato e organizzato da altri (che, infatti, ne erano a conoscenza) e a Bertoli fu affidato il compito di compiere la strage. A conclusione di questa parte della sentenza, merita un cenno l’interrogativo che la Corte si è posta: il motivo per cui Bertoli non abbia mai mutato versione, nelle linee essenziali, e perché si sia ostinato a mentire. Lo si tratta per completezza ma il tema, a questo punto, è di assai scarso rilievo. Tenuto conto della difficoltà dell’argomento stante la complessità del personaggio Bertoli, quale appare dalle sue stesse dichiarazioni, dalla perizia psichiatrica e dalla testimonianza dell’assistente sociale Rossella Monaco (alle quali si rimanda) nonché dall’indagine sulla sua personalità compiuta dal Giudice Istruttore (si veda l’apposita nota), si può solo tentare una risposta: Gianfranco Bertoli, probabilmente prescelto per compiere l’attentato sia perché facilmente suggestionabile sia per le proprie conclamate (ma assai dubbie) scelte politico/ideologiche, aveva messo in conto che, a seguito del suo gesto (si noti, una bomba da lanciare contro un ben preciso bersaglio, un’azione che, a differenza di altri gesti terroristici, richiedeva la palese partecipazione del suo autore) sarebbe stato ucciso o quanto meno arrestato e condannato a una lunga pena detentiva; in questa seconda ipotesi egli non avrebbe dovuto fare i nomi dei suoi mandanti, sicché l’unico modo per non fare quei nomi era quello di negare in radice l’appartenenza a un’organizzazione e l’esistenza di persone che avevano ideato/organizzato l’attentato e che lo avevano incaricato della sua esecuzione. Così Bertoli avrebbe conseguito lo scopo, che si ritiene primario: evitare gravissime ritorsioni da parte dei mandanti, quali il rischio di essere ucciso che lo stesso Bertoli - stando alle dichiarazioni dello Shusterman e di Rossella Monaco – apertamente temeva (sembra, in proposito, fornire conferma la messinscena del tentato suicidio proprio in concomitanza con l’arresto di Carlo Maria Maggi e degli altri).. Altra ipotesi, ma molto meno verosimile, è che Bertoli, una volta individuato e arrestato, con la versione resa intendesse attribuirsi la “gloria” di un gesto da lui stesso insistentemente indicato come nobile e giusto. Al termine di questa parte della motivazione e per introdurre il tema che sarà ora trattato, è opportuno evidenziare che uno dei punti più significativi dell’informazione che Pietro Loredan affidò all’amico Dalla Costa, nel colloquio tra loro avvenuto a Treviso all’alba del 15 maggio 1973, oltre all’annuncio dell’attentato che sarebbe stato compiuto a Milano quarantotto ore dopo (puntualmente verificatosi la mattina del 17 maggio), fu l’indicazione secondo cui bersaglio dell’attentato sarebbe stato un importante esponente del Governo. Anche sotto tale profilo l’informazione si rivelò assolutamente esatta perché, il giorno dell’anniversario dell’uccisione del commissario Calabresi, per assistere alla cerimonia nel cortile della Questura era presente l’allora Ministro degli Interni On. Mariano Rumor. Gianfranco Bertoli, dopo avere affermato che il suo gesto era diretto non certo contro innocenti cittadini ma (per i noti motivi) contro le Autorità presenti alla cerimonia, in particolare contro Ufficiali della Polizia, nel prosieguo degli interrogatori ha gradualmente ammesso che il Ministro Rumor era tra i suoi obiettivi e che certamente non gli sarebbe dispiaciuto se questi fosse stato colpito e ucciso. Nonostante lo scarso credito che le dichiarazioni del Bertoli meritano, per tutto quanto finora esposto, tuttavia tale ammissione, benché parziale, appare senz’altro in sintonia con le precise informazioni in possesso del conte Loredan e rende, per tanto, credibile che l’autore materiale dell’attentato fosse perfettamente al corrente della presenza dell’On. Rumor, e non certo per averlo appreso all’ultimo momento, quella stessa mattina, dalla lettura del Corriere della Sera. Si può, quindi, affermare con certezza che l’attentato, che per la carica pubblica rivestita dalla vittima designata doveva essere eclatante (“ne parlerà tutta Italia”), fu diretto contro il Ministro degli Interni. I progetti di attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor Il Giudice Istruttore ha condotto lunghe e laboriose indagini per individuare chi - soggetti, organizzazioni o gruppi politici professanti teorie eversive - avesse “buone ragioni” o comunque un interesse ad attentare alla vita dell’On Rumor. Di seguito si riferirà degli esiti di dette indagini, il cui punto più significativo è rappresentato da quella che può chiamarsi “vicenda Orlandini/Labruna”, alla quale la Corte di Cassazione non ha attribuito il significato di “strage annunciata” ma che, senza dubbio, appare rilevante perché disvelante trame che, appunto, contemplavano l’eliminazione dell’On. Mariano Rumor. Il capitano Antonio Labruna, in servizio nel SID dal 1966, era stato dirigente del N.O.D. (Nucleo Operativo Diretto) dal 1970, con superiori diretti il Generale Gian Adelio Maletti e il colonnello Romagnoli; aveva svolto attività di indagine per il tentato o mancato golpe di Junio Valerio Borghese dell’8 dicembre 1970, conducendole in particolare con l’instaurazione di rapporti diretti con Remo Orlandini, considerato braccio destro di Borghese e per il ruolo rilevante avuto in quella vicenda. In proposito si legge nella motivazione della sentenza appellata: “egli figurava fra i costitutori – insieme allo stesso Borghese e a Mario Rosa – di un Fronte Nazionale, cioè di un’organizzazione di massa di intonazione anticomunista nata nel 1968 con il proposito di sovvertire le Istituzioni dello Stato attraverso un golpe. L’anno successivo alla sua costituzione, il Fronte Nazionale partecipava a riunioni di vari movimenti per coagulare tutte le forze di destra, tentando in particolare di agganciare Avanguardia Nazionale e dotandosi altresì di una nuova organizzazione nella quale, in ciascuna unità territoriale, accanto a gruppi palesi destinati al proselitismo, erano previsti gruppi occulti di tipo militare destinati all’approntamento di strumenti operativi: essenzialmente, raccolta e conservazione di armi, acquisizione di personale valido per azioni violente, approntamento di ^santuari^; parallelamente, a livello centrale, si provvedeva alla costituzione di un nucleo speciale con a capo Remo Orlandini e alle dirette dipendenze di Borghese. Orlandini faceva parte del Direttivo Nazionale”. Osservano i giudici di prima istanza che “già da questi sommari rilievi risulta assolutamente evidente che Labruna avesse perfetta conoscenza delle caratteristiche del proprio interlocutore allorquando, così come egli ha riferito al G.I., egli ottenne dal generale Maletti l’autorizzazione a stabilire quel contatto con l’Orlandini”. Con lo stesso Orlandini il capitano Labruna, nella prima metà del 1973, aveva avuto numerosi colloqui, parte dei quali registrati e trascritti. L’ordinanza di rinvio a giudizio, consente di ricostruire tutti i passaggi del tortuoso iter investigativo che porterà il G.I. ad acquisire i nastri (tranne uno) e le relative trascrizioni di quei colloqui (undici in tutto). L’operazione era stata convenzionalmente denominata “Furiosino” e i colloqui registrati all’insaputa dell’Orlandini, secondo Labruna, erano stati sei o sette (ma inizialmente lo stesso aveva parlato di soli due colloqui registrati); i nastri e le relative trascrizioni, effettuate da sottufficiali dipendenti, erano stati sempre consegnati al colonnello Romagnoli e da questi al generale Maletti. Il Labruna non sapeva se il tutto fosse stato trasmesso o meno all’Autorità Giudiziaria nell’ambito del procedimento penale per il tentato golpe Borghese. Tramite la collaborazione del giornalista Norberto Valentini che, per la stesura di un libro (“La notte della Madonna”, altra denominazione del tentato golpe) era in possesso di nastri e trascrizioni, il G.I. acquisiva dieci degli undici nastri che dovevano essere stati registrati secondo le informazioni fornite dal Valentini. Il capitano Labruna, nell’interrogatorio del 5 novembre 1991, ammetterà di aver registrato in tutto dieci o quindici nastri dei quali solo tre o quattro, quelli riferiti al colloquio con il Lercari (di cui si dirà) e a quello con l’Orlandini del giugno 1974 a Lugano, erano stati trasmessi all’autorità giudiziaria. Il 7 novembre 1991 il Labruna consegnava al G.I. una borsa contenente dieci nastri affermando che negli stessi erano registrati tutti i colloqui avuti con Remo Orlandini. Non sapeva, ma non escludeva, che i nastri registrati potessero, in effetti, essere undici. Al fine di accertare quale effettivamente fosse stato l’oggetto dei colloqui tra il capitano Labruna e Remo Orlandini, il G.I. provvedeva allora a sentire come testimoni i marescialli Paolo Di Gregorio e Nicola Giuliani, cioè i sottufficiali ai quali era stato affidato il compito di ascoltare e trascrivere il contenuto dei colloqui registrati dal Labruna. Entrambi, pur non essendo in grado di ricordare con esattezza la data della registrazione, affermavano (riferendo anche i rispettivi commenti) che in uno dei colloqui l’Orlandini aveva parlato espressamente e ripetutamente di un attentato alla vita dell’On. Rumor, che doveva essere compiuto. In Particolare il M.llo Di Gregorio, parlando con il collega, aveva fatto intendere che di quel progetto si parlava anche in altri colloqui registrati, di cui aveva personalmente curato la trascrizione. Si condividono le conclusioni dei primi giudici sulla piena attendibilità delle testimonianze dei due sottufficiali: “gli evidenti accenti di sincerità del Di Gregorio e del Giuliani esaltano quanto concordemente essi hanno dichiarato al riguardo degli espliciti riferimenti compiuti dall’Orlandini a progetti per attentare alla vita di Mariano Rumor. Persino il Labruna, posto di fronte alle dichiarazioni dei testimoni, aveva dovuto arrendersi ammettendo che il maresciallo Giuliani è una degnissima persona e certamente aveva detto il vero”. Da condividere anche il giudizio di segno contrario espresso sul capitano Labruna nonché la descrizione delle attività di questi: “lo stesso ha pervicacemente mistificato la verità in tutte le dichiarazioni di cui la Corte ha notizia, fin che la situazione processuale glielo ha consentito, e anche oltre. Nel lontano 1974 ha dichiarato al G.I. di Padova che solo alcuni incontri erano stati registrati, perché alcune registrazioni soltanto erano state consegnate all’autorità giudiziaria che procedeva per i fatti delittuosi del dicembre 1970; ha conservato fino al 7 novembre 1991 molte altre registrazioni, che consegnava all’autorità giudiziaria milanese solo allorquando quest’ultima ne era venuta in possesso per altra via, affermando tranquillamente che quei nastri erano sempre stati in suo possesso dal momento dello scioglimento del Reparto N.O.D., da lui diretto presso il S.I.D., dopo aver dichiarato reiteratamente di ignorare la sorte di dette bobine che lui aveva trasmesso, secondo il suo dovere, ai suoi superiori. Ha negato fino all’ultimo, e cioè fino a quando due suoi subalterni dell’epoca si sono decisi a parlare, dell’esistenza di altri nastri contenenti gravissime affermazioni dell’Orlandini a proposito di progettati attentati alla vita dell’On. Mariano Rumor, e tale comportamento, alla luce dei fatti del 17 maggio 1973, è la migliore riprova della veridicità delle affermazioni di Di Gregorio e di Giuliani, che Labruna non ha osato smentire, senza per altro confermare le loro dichiarazioni, come se non fosse stato lui l’unico interlocutore di Remo Orlandini, come se tali affermazioni Orlandini non le avesse profferite in conversazioni intrattenute con lui. Conscio della assoluta inverosimiglianza di tale arretrato bastione difensivo – così prosegue la motivazione della sentenza appellata – il mistificatore Labruna ha tentato di dipingere se stesso come un semplice esecutore di ordini, un subalterno che del tutto informalmente, e non già per ragioni del proprio ufficio, conversava con una persona senza darsi cura di elaborare le informazioni ricevute. E’ tuttavia la struttura stessa del N.O.D., che egli era stato chiamato a dirigere, che smentisce tali assurde prospettazioni: l’ufficio era stato costituito per essere posto alle dirette dipendenze del Capo del reparto D, al quale soltanto il capo del N.O.D. rispondeva dell’espletamento delle missioni ricevute, non predeterminate, come per altre sezioni delle quali il reparto D era composto, ma assegnate di volta in volta dal generale Maletti il quale, dunque, per ciò solo, non poteva non nutrire la massima fiducia nella persona che aveva scelto per un compito tanto delicato. E infatti Di Gregorio e Giuliani hanno descritto una realtà del tutto diversa: l’operazione Furiosino era un’operazione come tante altre espletate dal Servizio, che aveva acquisito, per la connessione ad altre delicate vicende via via manifestatesi, semprer maggiore rilevanza, tanto da essere seguite praticamente da tutti gli ufficiali superiori che dipendevano dal capo del reparto D, vale a dire Romagnoli, Genovesi, Viezzer. Era stato formato un regolare fascicolo che era diventato sempre più ponderoso e che era custodito negli uffici del reparto, tanto che i due sottufficiali si meravigliavano che non fosse stato consegnato alla magistratura milanese. Nonostante i complicati scenari connessi (golpe Borghese, Rosa dei Venti) Labruna aveva mantenuto il controllo delle operazioni il cui articolarsi ed evolversi non mancava di commentare con i subalterni incaricati non solo delle trascrizioni ma anche degli accertamenti che di volta in volta si rendevano necessari in ordine alle dichiarazioni di Orlandini, secondo la valutazione dello stesso Labruna. Ha affermato Labruna che lentamente era stato emarginato dall’operazione Furiosino, ancora una volta essendo per altro smentito dai fatti, giacché proprio lui sarebbe stato incaricato, tra il 1973 e il 1974, di contattare il Lercari. Tutte queste menzogne si sono rese necessarie per nascondere la verità, e cioè la vera natura dei rapporti intrattenuti da Labruna, per conto dei Servizi di informazione, con Orlandini, che non solo ha riferito al suo interlocutore dei progetti di attentato a Rumor, ma anche al conseguimento dei quali erano finalizzate quelle azioni di forza tra le quali doveva essere annoverato l’attentato al Ministro degli Interni: il sovvertimento delle Istituzioni democratiche. Labruna ha dichiarato in più occasioni al G.I. di non sapersi spiegare la fiducia in lui riposta dall’Orlandini, che gli confidava segreti così pericolosi, sebbene egli facesse parte, con elevate responsabilità, di strutture dello Stato incaricate che gli scopi di Orlandini, quelli tattici e quelli strategici, fossero conseguiti. Deve constatare la Corte che invece la ricostruzione che precede documenta inequivocabilmente che Remo Orlandini nutriva una fiducia assoluta in Antonio Labruna e che si trattava di una fiducia ben riposta: posto a conoscenza dei delittuosi e gravissimi progetti che il suo interlocutore coltivava, non mosse un dito per impedirne la realizzazione, sebbene ciò costituisse proprio il principale dei doveri del suo ufficio e sebbene egli avesse curato di verificare attraverso i suoi collaboratori la capacità criminale di Orlandini; successivamente alla strage di via Fatebenefratelli che aveva sfiorato quel bersaglio, da lui conosciuto come primario per Orlandini ed i suoi accoliti, nulla fece per indirizzare le indagini delle competenti Autorità. Anzi, occultò i nastri che fornivano la prova delle macchinazioni di Orlandini, neppure citate, naturalmente, nei tre rapporti inviati all’autorità giudiziaria dal generale Maletti dopo la strage, ed anzi (lungi dall’essere esautorato, come egli ha più volte affermato) ha continuato almeno per tutto il 1973 a incontrare Orlandini, dal quale poi si faceva presentare ad Attilio Lercari e ad altri pericolosissimi appartenenti all’ambiente del Fronte Nazionale e, più in generale, della destra eversiva”. A completamento del quadro relativo al cap. Labruna si ritiene utile richiamare la testimonianza di Torquato Nicoli: questi ebbe modo di assistere alla telefonata fatta dal Labruna all’Orlandini, da un ristorante sito a Roma all’altezza del 12° chilometro della Via Aurelia, per consigliarlo di “andarsi a prendere una cioccolata”, chiaro invito riparare in Svizzera, quando risultava imminente la trasmissione alla magistratura, da parte dell’On. Andreotti, del dossier sul golpe con la registrazione del colloquio di Lugano, e quando appariva certa l’emissione di ordine di cattura nei confronti dello stesso Orlandini. Quanto al contenuto dei colloqui tra l’Orlandini e il capitano Labruna, così come risultanti dalla trascrizione dei nastri registrati finiti nella disponibilità del G.I., se ne può riferire solo in estrema sintesi: in quei colloqui Orlandini affermava la necessità di riportare l’ordine in Italia, in tutti i campi, con l’eliminazione di tutti i partiti politici (definiti ladri), con l’abolizione degli scioperi (agli operai non deve mancare nulla ma devono lavorare), con la promulgazione di leggi emergenziali che consentissero, dal Capo dello Stato a certa magistratura e alle Forze Armate di agire in forza di leggi e quindi negli ambiti della Costituzione. Secondo l’Orlandini, per conseguire tali scopi – che sarebbero stati accettati senz’altro da un’opinione pubblica preoccupata dell’ordine pubblico nonché in campo internazionale con aumentato credito dell’Italia – era necessario creare condizioni di tensione mediante atti eclatanti come una serie di attentati. Orlandini, in quei colloqui, aveva parlato esplicitamente di persone oneste e per bene, sia delle Forze armate sia civili, costituenti una grande ed estesa organizzazione, pronti ad assumere il potere al momento opportuno, ciascuno secondo le proprie specifiche competenze. Infine Orlandini aveva parlato espressamente di qualcosa che sarebbe dovuto accadere con certezza nell’aprile o, al massimo, nel maggio 1973, alludendo a un attentato o a un colpo di Stato; un colpo di Stato che, quindi, a suo avviso, era in preparazione e doveva essere attuato da gruppi dell’estremismo di destra oltre che da elementi dei Servizi di sicurezza e di informazione (secondo Labruna l’Orlandini aveva anche indicato i nomi di alcuni ufficiali ma i nastri erano stati manipolati perché quei nomi non risultassero). Questa Corte ritiene che dall’esame delle risultanze delle indagini relative ai numerosi colloqui (e al loro oggetto) avvenuti nel 1973 tra il capitano Labruna e l’Orlandini possano trarsi le medesime conclusioni alle quali sono giunti i giudici di legittimità (pag. 12 della sentenza di annullamento): “dalla dichiarazione resa dal Di Gregorio non si evince che vi sia stato un nastro nel quale si parlava espressamente di un attentato al ministro Rumor. Il teste ha riferito di ricordare che ^il contenuto dei colloqui era alquanto fantasioso perché si parlava più volte di attentati da eseguire^, con molti nomi, fra i quali ha ricordato quello di Rumor. L’oggetto dei colloqui riguardava l’attività eversiva, che qualche tempo dopo avrebbe determinato lo scioglimento di Ordine Nuovo, è quindi logico che nei nastri si parlasse di attentati, di colpi di Stato e di possibili atti rivoluzionari, e che tra le persone prese di mira vi fosse il Ministro Rumor, che era considerato un nemico degli estremisti di destra. Questo non comporta l’esistenza di un nastro che preannunziasse l’attentato verificatosi. Non vi è in atti, quindi, alcuna prova o serio indizio dell’esistenza di un preciso riferimento all’attentato di via Fatebenefratelli. Gli elementi acquisiti confermano soltanto l’esistenza di una fervente attività eversiva nell’ambiente dell’estremismo di destra, che cretamente non basta a creare un collegamento con l’attentato oggetto del giudizio e un riferimento operativo al gruppo di Carlo Maria Maggi. La Corte d’assise di Appello avrebbe potuto escludere la rilevanza probatoria dell’episodio, senza tentare di negare in radice l’attendibile testimonianza del Di Gregorio. Il teste infatti non ha mai parlato di uno specifico nastro che si riferisse a un attentato in preparazione a Rumor, ma del generico contenuto di tutti i nastri da lui trascritti”. Quanto affermato dalla Corte di Cassazione, dunque, pur escludendo che dai colloquio Orlandini/Labruna possa essere desunta la prova di uno specifico progetto di uccidere l’On. Rumor e di espliciti riferimenti all’attentato del 17 maggio 1973, attribuisce piena attendibilità al teste Di Gregorio circa il contenuto di quei colloqui, conferma implicitamente il giudizio espresso dai primi giudici sulla condotta del capitano Labruna, attribuisce pieno credito al fatto che all’epoca negli ambienti dell’estrema destra eversiva (di cui l’Orlandini era esponente di rilievo), in particolare di Ordine Nuovo, era - per così dire - normale che si parlasse di colpi di Stato, di possibili atti rivoluzionari, di attentati che ben potevano avere come bersaglio l’allora Ministro degli Interni. In tale quadro si inseriscono, quali elementi di conferma, le numerose e significative dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia sentiti dal Giudice Istruttore: sulla traccia del rapporto in data 19.1.1974 dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano, con cui si riferiva di rapporti tra Gianfranco Bertoli ed esponenti del gruppo veneto di Ordine Nuovo (Sandro Sedona, Eugenio Rizzato e Sandro Rampazzo), il 4.6.1992 era sentito l’Appuntato Toniolo Angelo della squadra di polizia Giudiziaria presso il Tribunale di Padova; questi, confermando e meglio precisando quanto già detto nel 1974, così dichiarava: “Confermo di avere riferito che l’attentato alla Questura di Milano fu preparato da più persone per far fuori Rumor. Confermo che tale notizia mi fu riferita dall’avvocato Brancalion. Mi disse in particolare che sapeva ciò con certezza per averlo appreso da più persone facenti parte di gruppi eversivi di destra con cui era in contatto. Io sapevo dei suoi contatti con Rizzato, Rampazzo e altri e capii che tale notizia fornitami proveniva da quel gruppo. La circostanza che l’attentato alla Questura di Bertoli era stato organizzato da altre persone per eliminare Rumor fu riferita al Brancalion dai vari Rizzato e Rampazzo come egli mi disse esplicitamente. Ricordo le parole precise riferitemi dall’avvocato Brancalion: furono, come ho già riferito nel ’74, ^nell’attentato di Milano volevano la testa di Rumor^. Escludo che l’avvocato Brancalion mi abbia riferito ciò come sue opinione personale. Mi disse invece che tale notizia gli era stata riferita con certezza dalle persone che ho indicato”. Dal canto suo l’avvocato Giangaleazzo Brancalion, quando era stato sentito il 23.2.74, aveva dichiarato: “ammetto di avere parlato amichevolmente con l’Appuntato dei CC. Toniolo, mentre bevevamo un bicchiere di vino in compagnia, di alcune circostanze sapute dal Negriolli senza dire per altro la mia fonte di informazione e pregandolo se gli fosse possibile di controllare alcune circostanze. Ho riferito che l’attentato di Milano era stato preparato per far fuori la persona dell’On. Rumor esprimendo però solo una pura opinione personale”. Il riferimento al Negriolli, fatto dall’avv. Brancalion, si collega con quanto dichiarato da Gianfrancesco Belloni (già collaboratore del SID): questi ricordava che, in un’occasione successiva alla strage compiuta da Bertoli, il Negriolli gli aveva mostrato una foto di un settimanale (anno 1975) raffigurante lo stesso Bertoli in atteggiamento confidenziale con Freda nel carcere di San Vittore; nella medesima occasione Negriolli gli aveva detto, a seguito di accertamenti svolti per conto del SID, che Bertoli era legato a Ordine Nuovo, che egli non era altro che un burattino manovrato da altri e che l’attentato di via Fatebenefratelli era stato preparato per eliminare l’On. Rumor. Il 10 febbraio 1974 Giampaolo Portacasucci riferiva al G.I. di contatti avuti con Rizzato, Rampazzo, Cavallaro e Camillo Virginio che erano andati ad incontrarlo nella sua abitazione a Ortonovo. In particolare ricordava che Rampazzo gli aveva detto di disporre di un gruppo ben addestrato per compiere azioni eversive e attentati. Lo stesso Rampazzo, in successivi incontri, gli aveva pure detto di aver partecipato all’esecuzione di importanti attentati, ma senza specificare quali. Rampazzo gli aveva anche mostrato un foglietto in cui erano indicate le persone da eliminare e, tra i nomi di quelle persone, egli aveva visto anche quello di Rumor. Di particolare interesse, sul punto in esame, quanto affermato da Roberto Cavallaro nel contesto di ampie dichiarazioni rese al Giudice Istruttore in più riprese a partire dal 23.11.1974. Tra le registrazioni eseguite dal cap. Labruna, in quella relativa al colloquio avvenuto a Lugano il 29.3.74 con il Lercari (quando quest’ultimo aveva riferito i discorsi fatti nel corso di un incontro avvenuto nel luglio ’73 nel ristorante Savini a Milano), il Lercari, tra l’altro, aveva aveva detto “attendevamo l’attentato a Rumor e non c’è stato nessun attentato a Rumor”. Informato di quanto sopra dal G.I., Cavallaro aveva commentato: “poiché il discorso è riferito alla fine di giugno 1973 è evidente che l’operazione richiamata dal Lercari, che non è avvenuta, è certamente precedente. Sinceramente non escludo che la frase del Lercari si riferisse all’attentato di Bertoli alla Questura di Milano in cui l’attentatore manifestò l’intenzione di colpire Rumor non riuscendovi. Non mi meraviglierei se l’organizzazione (Ordine Nuovo, n.d.u.) non fosse estranea a questa azione in quanto ricordo perfettamente il clima in cui operavamo; tutta l’organizzazione era tesa perché qualche cosa di grosso di determinasse; un attentato ad una personalità politica era nell’aria; vivevamo in un clima di follia; l’attentato a Rumor era proprio l’episodio classico che poteva legittimare un’azione di forza di presa del potere o di rafforzamento del potere”. Giuseppe Albanese, nel riferire le confidenze fattegli in carcere nel periodo di comune detenzione da Gianfranco Bertoli, dichiarava che quest’ultimo tra l’altro gli aveva detto che, dopo l’attentato a Rumor, mancato per l’errore nel lancio della bomba, avrebbe dovuto fuggire grazie all’azione di copertura di “camerati” del Veneto i quali avrebbero dovuto creare un diversivo che poi non era stato attuato; Bertoli non aveva specificato chi fossero quei camerati ma che questi appartenevano a un gruppo facente capo ad Amos Spiazzi, esponente di rilievo di Ordine Nuovo. Marco Affatigato, facente parte dal ’71 al ’73 della struttura legale di Ordine Nuovo e fino al settembre ’76 della struttura clandestina nonché successivamente informatore dei Servizi Segreti francesi (SDECE) e della CIA, il 23.6.95 riferiva al Giudice Istruttore di avere avuto contatti, tra gli altri, con Luigi Falica (nel 1973 dirigente di contatto di Ordine Nuovo per tutto il Nord, che teneva contatti tra Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale) il quale gli aveva detto che nel 1973 era in programma un attentato contro l’On. Rumor da parte del gruppo di Ordine Nuovo di Verona; Falica però si era mostrato incerto circa la fonte dell’informazione non ricordando se l’aveva appresa in una riunione di Ordine Nuovo alla quale aveva partecipato con lo Spiazzi o se il fatto gli era stato riferito dal Massagrande. Il 31 gennaio e il 5 febbraio 1992 il Giudice Istruttore sentiva Vincenzo Vinciguerra - dichiaratosi responsabile della “strage di Peteano” e del dirottamento aereo di Ronchi dei Legionari – il quale, per sua stessa affermazione nè pentito né dissociato ma per una scelta di leale e responsabile collaborazione, riferiva di progetti di un attentato contro l’On. Rumor, espressamente attribuiti a Ordine Nuovo, nelle persone di Carlo Maria Maggi e di Delfo Zorzi. Il Vinciguerra, tra l’altro, dichiarava “confermo integralmente quanto dichiarato il 14.8.84 al G.I. di Venezia e il 2.8.84 al G.I. di Bologna in ordine alla proposta fattami fuori dal ristorante Diana, tra Udine e Tricesimo nel settembre o comunque nell’estate del 1971, poi ancora a Udine nell’autunno dello stesso anno ed ancora nel febbraio/marzo 1972, da Maggi e Delfo Zorzi di compiere un attentato contro Rumor. Ricordo che mi telefonò Maggi dandomi appuntamento al ristorante Diana sulla strada che da Udine va a Tricesimo. Mi recai all’appuntamento in macchina accompagnato da un camerata friulano che non intendo indicare; per altro il predetto non partecipò al colloquio. Su posto trovai Maggi e Zorzi i quali chiesero di parlarmi da solo e mi dissero che c’era un progetto destabilizzante da porre in atto, volto alla eliminazione fisica di vari uomini politici di primo piano. A me fecero il nome di Mariano Rumor alla cui eliminazione avrei dovuto provvedere io. Dissero che potevano darmi tutte le informazioni sulla villa in cui abitava Rumor e, testualmente, che non avrei avuto problemi con la scorta, nel senso che sarei potuto entrare tranquillamente nella villa di Rumor, eliminarlo e me ne sarei andato. Mi dissero che tutti i particolari dell’attentato erano già stati studiati perché avevano la possibilità di fornirmi tutte le indicazioni necessarie per eseguirlo; la localizzazione della villa di Rumor, la maniera di entrarvi e il modo di andarmene indisturbato, perché testualmente mi dissero che non ci sarebbero stati problemi con la scorta. Non accolsi la proposta, che respinsi senza esitazioni per due ordini di motivi. In primo luogo il contesto politico del fatto mi sembrava fumoso e privo di senso. Non comprendevo il senso politico dell’attentato poiché non mi era chiaro che cosa sarebbe avvenuto dopo e per quali scopi reali esso sarebbe stato fatto. In secondo luogo il cenno fatto all’atteggiamento della scorta mi insospettiva lasciando pensare a un’azione torbida coordinata all’interno stesso delle Forze di Polizia. Mi formai l’idea che l’attentato potesse corrispondere più a una logica di conflitto di potere all’interno degli apparati statali che ad una azione politica rivoluzionaria. L’incontro cessò avendo io detto loro che potevo prendere in considerazione la cosa solo se mi fosse stato rivelato il motivo reale. Risposi dunque di no riservandomi comunque di pernsarci. Nell’autunno dello stesso anno 1971 incontrai ancora a Udine il Maggi che mi chiese se ci avevo ripensato. Risposi nuovamente di no. Tornarono alla carica per la terza volta in Udine, in ora serale, sia Maggi che Zorzi a fine febbraio/marzo 1972. Mi telefonò Maggi dicendo che si trovavano alla birreria Osoppo di Udine. Mi dissero che avevano saputo dai giornali dell’attentato a De Michieli Vitturi e mi dissero che con soddisfazione avevano pensato che avessi recepito le loro idee. Mi chiesero se ero disposto per l’eliminazione di Rumor. Negai di essere stato io il responsabile dell’attentato a Vitturi e dissi che non accettavo la loro proposta. Questa volta rifiutai definitivamente avendo cominciato a nutrire dubbi sulle figure di Maggi e di Zorzi e sul loro inquadramento nei Servizi di Sicurezza. Dopo quel terzo incontro alla birreria Osoppo, pur avendo reincontrato sia Maggi che Zorzi, non si parlò dell’attentato a Rumor. Quando dunque nel febbraio/marzo ’72 per la terza volta Maggi mi fece la proposta di eliminare Rumor mi fece comprendere, senza possibilità di dubbio, che egli aveva stretti rapporti operativi con elementi di alto livello delle forze di Polizia. A quel punto non avevo una visione chiara del contesto in cui si muovevano certe operazioni; fu nell’ottobre ’72, cioè dopo il dirottamento dell’aereo di Ronchi dei Legionari, che ebbi coscienza dell’esistenza di una vera e propria strategia, ispirata, diretta e condotta da persone inserite negli apparati pubblici che, per raggiungere i propri scopi politici, prevedevano di servirsi di attentati, o facendoli eseguire da persone inconsapevoli, o eseguendoli direttamente o comunque istigando e dando di fatto copertura a coloro che li eseguivano quando ciò fosse stato funzionale al perseguimento dei fini strategici da loro individuati.” Dalle dichiarazioni rese al G.I. da Martino Siciliano (inserito in Ordine Nuovo fin che non era stato sospeso alla fine del 1972, pur senza perdere i contatti con quell’organizzazione) nell’ambito di una scelta di collaborazione con l’autorità giudiziaria emergono ulteriori elementi di collegamento dell’attentato all’On. Rumor con l’attività eversiva del gruppo di Ordine Nuovo facente capo all’imputato Carlo Maria Maggi. Nel corso dei suoi interrogatori Martino Siciliano tra l’altro dichiarava: “Circa quindici/venti giorni dopo la strage del 17 maggio 1973 passò per Mestre Zorzi e mi incontrai con lui, non ricordo se in palestra o in un altro locale. Zorzi, parlando della situazione politica in Italia, mi disse ^l’episodio Bertoli è inquadrato nella nostra strategia^ e mi confermò che Bertoli era un camerata, che era sempre stato attestato su posizioni di estrema destra ed era conosciuto molto bene dal dr. Maggi con il quale si era frequentato per lungo tempo. Voglio riferire che sentii più volte, in occasione di discorsi nell’ambiente di Ordine Nuovo e in particolare nell’ambito della cellula di O.N. di Mestre, negli anni dal 1970 al 1973, parlare della necessità di eliminare un bersaglio politico importante, sempre nell’ottica della strategia del gruppo. In colloqui prima singoli e poi con Zorzi, Maggi e Molin, con i quali ero direttamente in contatto, sentii più volte dire esplicitamente dagli stessi che l’obiettivo da colpire era l’On. Rumor: era infatti necessario colpire lo Stato nella persona del Ministro dell’Interno nell’ambito della strategia tesa a destabilizzare lo Stato. L’uccisione del Ministro dell’Interno era un fatto capace di impressionare di più l’opinione pubblica in quanto colui che avrebbe dovuto proteggere gli altri non era stato capace di proteggere se stesso. Il nome esplicito di Rumor fu più volte fatto in quelle discussioni direttamente da Zorzi, Maggi e Molin fin dal 1972. Rumor era anche della nostra zona in quanto abitava nel Vicentino, zona di cui era originario Zorzi nato ad Arzignano provincia di Vicenza. In sintesi: nel 1972 si discuteva tra i predetti Maggi, Zorzi e Molin di un progetto di attentato a Rumor; tuttavia, considerata la mia sospensione da Ordine Nuovo, avvenuta alla fine del 1972, non mi furono forniti dettagli operativi su questo progetto. Prendo atto che mi dite che il Vinciguerra le ha parlato diffusamente di tre proposte in tempi diversi a lui fatte da Maggi e Zorzi negli anni 1971 e 1972 di compiere un attentato contro Rumor. Non so nulla di questa proposta specifica fatta al Vinciguerra”. Il 19 novebre 1985 era sentito l’On. Mariano Rumor il quale, riferitegli le dichiarazioni del Vinciguerra circa proposte ricevute di attentare alla vita del Ministro degli interni, affermava di non avere mai saputo nulla di tutto ciò. Del resto, precisava il testimone, non aveva mai ricevuto minacce e l’attentato di via Fatebenfratelli era stato per lui del tutto inaspettato. Di poi dichiarava: “posso anche comprendere tali intenzioni di personaggi dell’estrema destra in quanto quando ero Ministro degli Interni mi detti da fare attivamente per contrastare le violenze della destra. Tra l’altro presentai un esposto alla Magistratura romana nei confronti di Ordine Nuovo in relazione alla legge Scelba. Sulla base di tale esposto, quando già ero Presidente del Consiglio dei Ministri, si giunse allo scioglimento ex lege del movimento Ordine Nuovo. Sono stato Ministro degli Interni dal febbraio 1972 fino ai primi di luglio del 1973. Da tale data fui Presidente del Consiglio dei Ministri fino a novembre 1974”. Premesso che effettivamente il decreto di scioglimento di Ordine Nuovo era stato firmato nell’autunno ’73 dal Ministro degli Interni dell’epoca, On. Taviani, il giudice Istruttore osserva nella propria sentenza/ordinanza (pagg.114,115) “Le dichiarazioni rese da Rumor nel 1985 e gli accertamenti svolti sono molto indicativi sui moventi dell’attentato a Rumor, ostinatamente più volte programmato dagli elementi di Ordine Nuovo. Il Parlamentare vicentino, già sostenitore di una politica di contrasto nei confronti dei gruppi di estrema destra, aveva infatti prima del ’72 chiesto l’applicazione della legge Scelba nei confronti di tali organizzazioni e poi disposto ex lege lo scioglimento di Ordine Nuovo quando, dopo il luglio ’73, divenne Presidente del Consiglio” Infine la testimonianza del Senatore Paolo Emilio Taviani, che nel novembre 1972, come Ministro degli Interni, aveva firmato il decreto di scioglimento di Ordine Nuovo. Sentito dal G.I. il 19 marzo 1992, dichiarava quanto segue: “Che il Bertoli fosse un personaggio non di due, ma di tre o quattro facce, a me risultava anche dalle informazioni del capo della Polizia Zandaloy. Quando ero ancora Ministro del Mezzogiorno io vidi l’episodio di via Fatebenefratelli sopratutto come un attentato a Rumor. Questo episodio presentava troppi collegamenti con la linea della strategia della tensione; ogni residuo dubbio al riguardo mi è caduto dopo avere letto la sentenza istruttoria su Bertoli. Bertoli era un uomo che viveva alle spalle di chi poteva dargli del denaro, era stato a lungo in Israele. Escludo che potesse essere al servizio dei servizi israeliani; tutte le esperienze mi confermano che i servizi israeliani compiono operazioni mirate nel loro diretto, preciso, esclusivo interesse. Fin da allora mi posi la domanda se Bertoli sia stato utilizzato da chi aveva interesse a mantenere la pista di sinistra circa la soluzione del caso di Piazza Fontana. La risposta non può essere no”. Dai fatti e dalle testimonianze di cui si è detto sopra, La Corte ritiene possano trarsi le seguenti conclusioni: all’epoca del fatto per cui si procede, anche in tempi di non molto precedenti, negli ambienti e organizzazioni dell’estrema destra neofascista veneta, in particolare nell’ambito di Ordine Nuovo e dei suoi gruppi, era in corso una fervente attività, quanto meno a livello programmatico, intesa a creare - mediante attentati, anche contro importanti uomini politici - le condizioni di caos e di tensione tali da giustificare un colpo di Stato o comunque una svolta autoritaria della politica italiana. Tra gli uomini politici che potevano o dovevano essere colpiti quello indicato con maggiore insistenza è risultato essere l’On. Mariano Rumor, al tempo Ministro degli Interni. Poco rileva che lo si volesse eliminare per rappresaglia in quanto ritenuto primo responsabile delle misure che si stavano attuando contro Ordine Nuovo, ovvero che colpendo il Ministro degli Interni si sarebbero ottenuti, almeno nelle speranze di chi meditava piani eversivi, più facilmente gli effetti tesiderati. La strategia della tensione Nel corso della sua testimonianza il Sen. Paolo Emilio Taviani, succeduto nell’autunno del 1973 a Mariano Rumor nella carica di Ministro degli Interni, nel commentare l’attentato di via Fatebenfratelli, aveva accennato alla “strategia della tensione”, servendosi della definizione con cui un noto giornalista aveva inquadrato il complesso degli attentati stragisti che si andavano ripetendo in quegli anni, rilevando che l’attentato compiuto dal Bertoli presentava “troppi collegamenti” con la linea di detta strategia. Va da sé che nell’occasione il Sen. Taviani espresse una propria opinione ma non certo un’opinione qualsiasi non potendosi trascurare il fatto che egli, all’epoca, era il massimo responsabile della sicurezza e dell’ordine pubblico. Meno di due mesi prima, il 31 gennaio 1992, sentito dal Giudice Istruttore, della “strategia della tensione” aveva ampiamente riferito Vincenzo Vinciguerra. Se ne è già accennato per sommi capi, ma ora è opportuno riportarne testualmente le dichiarazioni più significative: “Ho inteso assumermi le mie responsabilità in merito all’attentato di Peteano e riferire altri episodi e circostanze che hanno fatto parte della mia storia politica in quanto intendevo, non da pentito o da dissociato, dimostrare la responsabilità di strutture dello Stato che, attraverso i suoi apparati di sicurezza ha gestito gruppi e strumentalizzato ambienti politici sia di destra che di sinistra al fine di destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico. Mi sono proposto di dimostrare che la linea stragista non è stata seguita da alcuna formazione di estrema destra in quanto tale, ma soltanto da elementi mimetizzati, ma in realtà appartenenti ad apparati di sicurezza o comunque legati a questi da rapporti di collaborazione. Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. Il fine massimo era quello di giungere alla promulgazioni di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quella operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto ovviamente inserito in un contesto internazionale, nel quadro dell’inserimento italiano nel sistema delle allenze occidentali. Ho sottolineato la natura difensiva della strategia della tensione, che si può riassumere nella formula ^destrabilizzare per stabilizzare il Paese^. Era necessario creare incertezza, disordine e senso di pericolo e di urgenza per produrre una richiesta di ordine e di autorità, premessa per il rafforzamento dello Stato e degli uomini che lo controllavano. Giudicati nel loro insieme o separatamente i gruppi della destra extraparlamentare appaiono incapaci di costituire una minaccia politica, sono nati quali formazioni fiancheggiatrici di forze capaci per potenza di giungere a una soluzione del caso italiano, le Forze Armate, destinate a fare da supporto alla azione altrui. Essi vivono nella speranza messianica dell’intervento risolutore delle Forze Armate, fede abitualmente ispirata ed alimentata dall’azione psicologica degli ufficiali incaricati di operare in tali ambienti. E’ in questo modo, unito dall’avversione al comunismo e dalla fiducia nelle Forze Armate, che gli uomini dei Servizi, appoggiati e coadiuvati da ufficiali dei Carabinieri e da funzionari della Polizia Politica, selezionano e reclutano gli uomini che per caratteristiche appaiono più idonei a trasformarsi in loro collaboratori permanenti, ai quali affidare il compito di creare gruppi d’azione, proporre attentati, svolgere attività informativa. Mentre non esiste la prova che in Italia si sia mai ipotizzato un colpo di Stato, esistono tutte le prove che in più occasioni, a partire dal 1969 ad oggi, negli ambienti politici e militari detentori del potere si è adombrato, suggerito, cercato il provvedimento di necessità, cioè quel particolare colpo di Stato che temporaneamente sospende le garanzie costituzionali e permette l’emissione di provvedimenti eccezionali contro le forze politiche che minacciano la sicurezza e la stabilità delle istituzioni. Solo in questo caso le Forze Armate avrebbero potuto intervenire nel rispetto di precise norme costituzionali e il loro operato, legittimato dal potere politico ed istituzionale, avrebbe assunto il significato difensivo dello stato e della democrazia. Politici e militari avrebbero giustificato il loro agire invocando lo stato di necessità provocato dall’attacco eversivo della sinistra, prima, di destra poi, avrebbero così ristabilito legge e ordine in un Paese turbato dagli scioperi, dagli scontri di piazza, dagli attentati e dalle stragi, riscuotendo il plauso della maggioranza della popolazione e, internazionalmente, il rispetto e il consenzo dei Paesi della NATO. Ruolo delle Forze Armate negli anni ‘60 fu quello di creare lo stato di necessità attraverso i Servizi di sicurezza. La strategia della tensione, che ha attraversato un ventennio della nostra storia, trova così la sua logica e la sua ragion d’essere; insieme trovano spiegazione logica e coerente le coperture che ancora oggi vengono date a coloro che, civili e militari, hanno contribuito al successo di tale strategia, eversiva nei metodi e difensiva nei fini, che non possono essere sconfessati da un potere politico e militare che dal loro operato ha tratto solo vantaggio e che dall’emergere della verità può ricavare solo danno. come hanno creato lo stato di necessità ? Operando lungo due linee direttrici: l’azione diretta e l’omissione, ovvero la copertura: l’azione diretta affidata ai civili inseriti in una struttura mista o reclutati per la bisogna negli ambienti politici più fervidamente anticomunisti o predisposti all’azione. L’omissione e la copertura affidate ai centri C.S., agli ufficiali preposti all’ordine pubblico. Il potere politico è l’unico beneficiario della strategia della tensione e non potrà mai abbandonare i suoi generali che l’hanno organizzata e costoro, a loro volta, non possono lasciare che i loro subalterni paghino per avere eseguito i loro ordini, né possono abbandonare al loro destino i civili che, a loro volta, devono tacere anche a costo di farsi qualche decina di anni di carcere. Così i tre livelli, politico-ideativo, militare-organizzativo e civileesecutivo, sono fermamente uniti da un irrescindibile filo di omertà. Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia appartengono a un’unica matrice organizzativa. L’unico episodio che organizzativamente è riferibile a persone non appartenenti alla medesima struttura, l’attentato di Peteano, tuttavia nella struttura predetta ha trovato copertura. Tale struttura organizzativa obbedisce a una logica secondo cui le direttive partono da apparati inseriti nelle istituzioni e per l’esattezza in una struttura parallela e segreta, comprendenti elementi del Ministero dell’Interno e Carabinieri. La strage di via Fatebenfratelli a Milano rappresenta uno dei momenti più interessanti per cogliere la strategia complessiva del fenomeno”. La Corte si riserva di valutare in modo più approfondito quanto affermato da Vincenzo Vinciguerra, osservando fin d’ora che non si può dubitare della serietà (volutamente non si usa il termine “attendibilità”), per altro già positivamente valutata dai giudici di primo grado e in altri procedimenti penali, considerato che il Vinciguerra si è accusato (nonostante le coperture ricevute, ma non richieste) di fatti gravissimi, uno per tutti l’attentato di Peteano in cui - attirati in un trabocchetto perirono alcuni Carabinieri, riportando la condanna alla pena dell’ergastolo. Nella specie, comunque, non si pone il problema di verifica d’attendibilità intrinseca e di riscontri posto che il Vinciguerra non ha formulato accuse specifiche ma si è limitato a fornire una chiave di interpretazione ai fatti criminosi della specie di quello in esame, a quella che fu definita giustamente “strategia della tensione”. Per il momento ci si dovrà soffermare solo su alcuni punti delle sue dichiarazioni rilevando come alcuni dei più significativi dati forniti dal Vinciguerra, lungi dall’essere frutto di elaborazione puramente logica, trovino perfetta e singolare corrispondenza in elementi concreti emersi anche nel presente processo. Innanzitutto la natura e il bersaglio dell’attentato: escluso, per quanto si è detto, che questo fosse stato frutto di scelta e iniziativa autonoma di una (sedicente) anarchico, deve ritenersi certo che si attentò alla vita dell’On. Rumor essendo questi un importante esponente del Governo, anzi il responsabile della sicurezza e dell’ordine pubblico. Colpendo Rumor è evidente che si sarebbe attinto il culmine di un crescendo di attentati perché in questo caso non si sarebbe colpito alla cieca (si pensi ad altri attentati, per tutti alla strage di Piazza Fontana) ma in modo “mirato”; un esito positivo sarebbe stato senz’altro idoneo a provocare sconcerto e allarme nell’opinione pubblica, ne avrebbe parlato tutto l’Italia (secondo quanto preannunciato dal conte Pietro Loredan), avrebbe creato le condizioni necessarie, se non per un colpo di Stato, per più subdole soluzioni (leggi speciali, finanche la proclamazione dello stato di emergenza) dirette a imprimere una decisa svolta autoritaria alla Nazione. Lo scopo non fu conseguito, non solo perché l’attentato fallì ma perché gradualmente le forze politiche e quelle della società più consapevole e attenta finirono per sventare i progetti di eversione, da qualunque parte provenissero, ma non si può negare che in quel tempo, negli ambienti della destra eversiva neofascista e nei gruppi veneti di Ordine Nuovo quello scopo fosse senz’altro perseguito mediante scelte organizzative e operative che avevano, appunto, come finalità la creazione di uno stato di tensione da conseguire mediante attentati e stragi. La “mimetizzazione”: la sterzata in senso autoritario della conduzione politica del Paese poteva essere ottenuta solo attribuendo la responsabilità di attentati e stragi alla parte politica avversa, e ciò poteva avvenire con la rivendicazione, espressa o implicita (si pensi a neofascista Nico Azzi al quale fu trovata addosso copia della pubblicazione “Lotta Continua” quando, nei pressi di Genova, rimase ferito dal scoppio casuale del detonatore con cui intendeva provocare un’esplosione sul direttissimo Torino-Roma), ovvero con la scelta di esecutori, come Gianfranco Bertoli, apparentemente schierati con l’anarchia o le forze della sinistra. Una “mimetizzazione” che, come necessario corollario, avrebbe poi determinato, da un lato omertà e dall’altro “copertura” che avrebbe legato con un filo irrescindibile (secondo l’espressione usata dal Vinciguerra) tra esecutore materiale, organizzatori e mandanti. Anche così si può comprendere, secondo una deduzione esclusivamente logica ma pienamente verosimile e attendibile, l’ostinata affermazione di Bertoli di avere, contro ogni evidenza, agito da solo come “anarchico individualista” e di avervi insistito tenacemente per tanti anni. Così pure si spiega, in modo altrettanto logico e verosimile, come fu possibile spacciare per anarchico un informatore prima del SIFAR e poi del SID tacendo, anche all’autorità giudiziaria (si rammenti l’annotazione sulla scheda dell’informatore “Negro”, alias Gianfranco Bertoli) il ruolo, ancorché marginale, svolto nell’ambito dei Servizi dall’esecutore dell’attentato, tra l’altro attribuendo al Bertoli una collocazione politica di estrema sinistra, vale a dire esattamente l’opposto di quanto emergerà in seguito, “accertata” pochi giorni dopo la strage dal capitano Di Carlo appositamente spedito in Israele dal generale Maletti (lo stesso di Carlo che attribuirà, contro ogni l’evidenza, la medesima collocazione politica ai fratelli Jemmy, amici del Bertoli nel kibbutz, risultati appartenere invece all’organizzazione neofascista francese “Ordre Nouveau”) Infine l’effettiva corrispondenza dell’attentato del 17 maggio 1973 agli scopi perseguiti dalle organizzazioni eversive della destra neofascista, in quanto a pieno titolo inserito in un ampio disegno di destabilizzazione. Ne è piena conferma il contenuto di alcuni colloqui tra il capitano Labruna e Remo Orlandini, registrati e trascritti, di assoluta rilevanza per comprendere quali fossero all’epoca i propositi, i piani, le speranze di chi tramava contro le Istituzioni democratiche. Si è detto di come le registrazioni e trascrizioni di quei colloqui siano stati acquisiti dal Giudice Istruttore dopo molte vicissitudini, tra ostacoli di ogni genere, come lo stesso Labruna avesse tentato in tutti i modi prima di negarne l’esistenza e poi di sminuirne l’importanza, come infine si sia accertato che in almeno in uno di essi si parlava, sia pur genericamente di attentati aventi come bersaglio, tra gli altri, l’On. Rumor. La Suprema Corte non ha affatto ritenuto irrilevante il contenuto dei colloqui Labruna/Orlandini ma si è limitata ad affermare la loro inidoneitàa fornire la prova che l’attentato alla Questura di Milano fosse stato, per quella via, “annunciato”. Essi, per tanto, costituiscono valida fonte di conoscenza dei fatti che interessano lo specifico punto in questione e forniscono prova inoppugnabile che quanto affermato da Vincenzo Vinciguerra non può essere attribuito a personali elaborazioni di tipo ideologico o politico. Nei colloqui con il capitano Labruna, Remo Orlandini attribuiva a se stesso un ruolo primario nella preparazione di un colpo di Stato che auspicava imminente, per altro rivendicando analogo ruolo anche in precedenti tentativi golpisti (“Piano Solo” e c.d. “golpe Borghese”). Più specificamente e con riferimento al tempo e alla situazione in cui si svolgevano i suoi colloqui con Antonio Labruna, di cui si riportanto i brani più significativi, affermava la necessità dell’intervento delle Forze Armate (“non è possibile fare una cosa del genere senza il loro appoggio” coll. 13.3.73) e che a ciò dovesse essere preparata l’opinione pubblica: “questi stanno aspettando il momento di un colpo militare, ma che sia giustificato sia di fronte alla nazione che di fronte al mondo” (coll. 18.1.73). Il 13.3.73 Orlandini insisteva sul punto: “una specie di piano operativo si fa sempre perché è una cosa che lei non può attuarla da un momento all’altro. E una cosa di preparazione, preparazione dell’opinione pubblica, preparazione di atti, atti tali che debbano galvanizzare.....la preparazione dell’opinione pubblica è la chiave”. Tali esigenze l’Orlandini ricollegava alla situazione socio-politica del Paese: (coll. 16.1.73) “quello che sta succedendo e al punto che hanno postato l’economia del Paese è una cosa che fa vomitare, perché tutto quello che avviene fa vomitare. Dove arriveremo ? All’estero come siamo considerati ? Qui un risanamento penso che sia un dovere di ogni buon italiano di arrivare a sanare....., qui non si vuole far niente a nessuno ma saniamo questa situazione. Leviamo di mezzo questo branco di ladroni ! Vediamo di mettere, prima di tutto, un po’ d’ordine.......che la gente lavori, che produca, che guadagni”. Questo il progetto da realizzare, rozzo, populista e permeato del più vieto qualunquismo: (coll. 18.1.73) “noi quello che vogliamo, e vediamo se ci riesce, se è possibile, è ridare l’Italia in mano agli italiani, insomma ! Che siano persone perbene, capaci e oneste, ecco solo questo chiediamo. Il nostro programma non so se lei (Labruna, n.d.u.) lo conosce, verte in dieci punti ed è quello di riportare l’ordine e mettere a posto le cose. Le persone devono mangiare, è vero, ma anche lavorare e non scioperare. Togliere di mezzo tutti i partiti perché sono il cancro della Nazione; non avere altra bandiera che quella tricolore; riaffratellare gli italiani perché i partiti hanno messo l’uno contro l’altro e stanno creando odio fra italiano e italiano, così per l’Italia non se ne trova uno (disposto) a rischiare tanto così, per il partito si ammazzano, sono pronti a scannarsi. I partiti hanno le mani in tutto e per tutto. Questi sono proprio ladri, quando arrivano a fare lo stanziamento per le Forze Armate fanno i pidocchiosi, tutti addosso e le fanno morire di fame, non possono fare niente, perché non bastano, quello che gli danno non basta nemmeno per le pratiche amministrative, però per i partiti, quelli non gli bastano mai, per quelli lì i miliardi ci sono. Insomma è tutto un insieme di cose che, secondo me, per uno che vuol bene alla Patria, questa gente non va bene. Io credo che sia dovere sacrosanto di ogni buon italiano di levarli di mezzo. Non si dice ammazzarli, ma che se ne vadano via. Hanno rubato abbastanza, se ne vadano. Questo credo sia il minimo che si possa pretendere”. Secondo Remo Orlandini al colpo di Stato sarebbero dovute immediatamente seguire leggi eccezionali che sicuramente il Capo dello Stato avrebbe promulgato, perché in caso contrario lo avrebbero costretto (coll. 21.3.73 in cui il riferimento al Presidente della Repubblica è esplicito). Si contava, per il progettato e auspicato colpo di Stato, su alcuni ufficiali disponibili allo scopo, dei quali Orlandini faceva i nomi come risultante dalla perizia di trascrizione dei colloqui disposta dal G.I.; in questa non mancava neppure il nome di un alto ufficiale dei Servizi e al riguardo puntualmente osservano i giudici di primo grado “non è un caso che lo stesso Labruna abbia ammesso che quei nastri furono manipolati almeno per cancellare quel nominativo inserendo un rumore di tintinnio di bicchieri; ma non vale delibare incidentalmente la attendibilità dell’Orlandini in proposito, essendo già stata ampiamente documentata l’incredibile complicità che a Orlandini il Servizio Informazioni Difesa garantì, e il tenore delle conversazoni a sua volta convalida l’assunto”. Si contava anche sulla collaborazione di molti civili coinvolti nel progetto eversivo: “siamo organizzati benissimo. Noi siamo organizzati in tutta Italia nel campo civile, cioé abbiamo dei professionisti, degli uomini in gamba, ognuno destinato per la propria materia perché è capace, e soprattutto galantuomini. Questo lo abbiamo fatto in tutta Italia, con il nostro arresto poi il Fronte Nazionale si è ramificato in modo che non le dico” (coll. 16.1.73). Infine il riferimento ad accordi con Servizi segreti stranieri (in specie, americani): (coll. 12.2.73) “abbiamo un filo diretto, abbiamo fatto delle richieste, loro hanno fatto delle richieste a noi, ci sono delle trattative e ci siamo accordati”. La Corte non può che condividere il commento dei primi giudici (pag. 93): “Questi accenni documentano come la trama disegnata da Vinciguerra a proposito dei legami fra alcuni settori della Forze Armate, i Servizi di sicurezza ed altre forze interessate alla destabilizzazione stabilizzante, non appare del tutto avulsa dalla realtà: non deve essere dimenticato che le conferme che emergono dalle parole di orlandini provengono da persona che ha avuto un ruolo di notevole rilievo nei fatti che narra al suo interlocutore, e che di tale interlocutore egli si fida, come è dimostrato al di là di ogni dubbio dai dettagli che fornisce a Labruna (anche dal punto di vista dei nomi delle persone a vario titolo coinvolte nel progetto che in quel momento egli stava coltivando per imprimere una svolta autoritaria al Paese)”. A scanso di qualsiasi fraintendimento, lo stesso Labruna, avuta lettura delle frasi dell’Orlandini, tratte dalle registrazioni dei colloqui, ammetterà che lo stesso faceva “chiaro riferimento all’opera di destabilizzazione dello Stato che il suo gruppo stava preparando” precisando che “Orlandini era un infatuato e diceva verità ma anche millanterie. Ma anche tale discorso va interpretato nell’ottica del programma di destabilizzazione”. Il discorso di riferimento erano le parole pronunciate da Orlandini (trascr. 21.3.73. pag. 4) “penso che sia arrivato il momento, non si può più perdere tempo, bisogna agire, bisogna muoversi e soprattutto avere il coraggio di agire”. Davvero inquietanti e più direttamente riferibili all’attentato le frasi di Orlandini, allusive a qualcosa che sarebbe dovuto accedere a breve scadenza “io credo che maggio non passerà, può darsi anche in aprile, ma comunque maggio non passerà sicuramente. Lei (Labruna, n.d.u.) tenga presente che sappia un po’ tutto quello che può fare, tenga presente lei, lo faccia con i dovuti modi, guardi come inserirsi, lei tenga presente che farà parte dll’organo, qui, quel gruppo di uomini, militari, civili, che sono quelli che devono guidare, quella è la guida, risolvere i problemi, ma risolverli immediatamente, non discuterne sei mesi, poi quando arriva il momento non devono essere risolti, rimandarli e via di seguito. No, no, qui le cose vanno, bisogna avere le idee chiare e risolvere immediatamente”. Si era al 6 aprile 1973 ! Quanto all’efficienza operativa Orlandini mostrava di avere idee semplici e chiare, oltre alla convinzione che certi metodi sarebbero stati sicuramente accettati: (stesso colloquio del 6.4.73) “il più delle volte nasce una determinata cosa a Milano, uno, il più qualificato, parte e va a risolvere quel problema, come in Sicilia, come a Trieste, come da qualunque parte. Le disposizioni che partono per i vari organi devono essere chiare e precise, e si devono risolvere (i problemi, n.d.u.) volta per volta. Almeno in questo e in quello sarà il lavoro, quelle che saranno, che si presenteranno delle situazioni. Tenga presente che l’80 % degli operai andrà a lavorare, nel le sembrerà vero. Saluteranno questa cosa perché non ci sarà più picchettaggio, non ci saranno più preoccupazioni, non avranno paura ! Comunque potrebbero nascere delle questioni del genere: c’è da risolvere con Piaggio di Genova una situazione, perché tra operai e lui, e via di seguito. C’è qualcosa che non va ? Il più qualificato parte e va. E poi siccome sarà inquadrato tutto a mezzo di leggi, sarà la magistratura che tutela gli interessi dei lavoratori, ma saranno degli organi speciali della magistratura con degli uomini scelti perché sono capaci di risolvere. L’operaio avrà tutto quello che deve avere, non dovrà avere preoccupazione che gli manchi il pezzo di pane, però dovrà anche lavorare. Si, bisogna mettere ordine in tutto ! Adesso le ho detto questo nel campo del lavoro, ma è un po’ in tutti i campi”. Quale prima conclusione da quanto detto da Remo Orlandini nei suoi colloqui con il capitano Labruna può dirsi senz’altro che lo stesso aveva come riferimento della sua “linea programmatica” il verificarsi di un colpo di Stato che considerava, oltre che necessario, imminente; per far si che questo divenisse possibile in concreto, e si realizzasse con l’accettazione da parte dei cittadini (o da una gran parte di essi) occorreva che l’opinione pubblica fosse adeguatamente “preparata”, vale a dire che la popolazione fosse non solo disposta ad accettare, ma anche a ritenere inevitabile l’avvento di un potere forte che garantisse l’ordine. Solo accadimenti eccezionali, eclatanti anche per i bersagli colpiti, potevano essere i mezzi con cui l’opinione pubblica doveva essere condizionata e convinta. Insomma, nelle parole di Orlandini, la piena conferma e riscontro della teoria (“destabilizzare per stabilizzare”) illustrata da Vincenzo Vinciguerra. Il colpo di Stato, o qualcosa di molto simile, secondo Orlandini era previsto per l’aprile o, al massimo, per il maggio 1973 e, tenuto conto che la tanto desiderata svolta autoritaria doveva essere preceduta e resa possibile dalla tensione provocata da attentati e stragi, è ancor più inquietante che in almeno in uno dei colloqui (il nastro non è stato reperito ma del contenuto hanno attendibilmente riferito i testi Di Gregorio e Giuliani) si faceva riferimento a uno dei possibili bersagli, all’On. Mariano Rumor. Significativo, al riguardo, il tenore del seguente passo dell’interrogatorio di Antonio Labruna (G.I. 16.11.91): “Il Giudice Istruttore fa presente che dalle trascrizioni emerge che in quella del 3.5.73 l’Orlandini appare abbattuto (^non si può continuare perdendo tempo, corriamo troppo rischio - siamo tutti pronti: l’operazione va solo fatta^), mentre il 26.5.73 l’Orlandini appare di buon umore, quasi euforico (^le avevo telefonato cinquanta volte. Le cose vanno bene. Io credo che questa sia l’ultima carta, che bisogna giocarla molto bene^) - Labruna: anche io mi ero reso conto di questo mutamento dell’Orlandini e volevo fare accertamenti per capire cosa c’era di vero o era successo che aveva fatto cambiare il suo atteggiamento”. Unico commento possibile: l’aprile 1973 era trascorso senza che nulla accadesse e il 3 maggio, infatti, Orlandini appariva abbattuto e sfiduciato mentre il 26 maggio il suo umore sarà completamente diverso, euforico ed eccitato. E’ superfluo osservare che tra le date dei due colloqui, il 17 maggio, vi era stato l’attentato di via Fatebenefratelli contro l’On Rumor. Che dall’attentato ci si attendesse qualcosa di importante risulterà confermato dal successivo colloquio dell’Orlandini con il Capitano Labruna (di cui si è detto) in occasione del quale il primo riferirà dell’incontro di Milano, nel ristorante Savini, quando il Lercari aveva constatato che si attendeva l’attentato a Rumor, ma “non c’era stato nessun attentato a Rumor”, evidentemente riferendosi al fatto che l’azione di Gianfranco Bertoli aveva mancato il bersaglio e non aveva, quindi, prodotto gli effetti desiderati. La sicura attribuibilità della “strategia della tensione” a gruppi determinati dell’estrema destra eversiva era già emersa nelle indagini del Giudice Istruttore con l’audizione di Torquato Nicoli e le sue dichiarazioni al riguardo venivano contestate a Remo Orlandini (2.1.2.91) senza la citazione della fonte. Orlandini le respingeva definendole “tutte falsità” dichiarandosi inoltre completamente estraneo all’organizzazione di “qualsiasi fatto eversivo e, tanto meno, all’episodio del 17 maggio 1973 alla Questura di Milano” ed escludendo che nell’ambito del Fronte Nazionale vi fosse stata una struttura occulta. Torquato Nicoli, interrogato il 2.12.74 dal G.I. di Padova dopo essere stato colpito da mandato di cattura per partecipazione all’attività dell’associazione eversiva “avente varie denominazioni tra le quali quella di Rosa dei Venti”, aveva reso le seguenti dichiarazioni: “fin dal 1948 aderii ad alcune attività o associazioni che, senza essere fasciste, potevano essere orientate a destra. In particolare ero Vice Presidente dei Marinai d’Italia quando, nel ‘68, venni avvicinato dal rappresentante spezzino del fronte Nazionale il quale, pur senza conoscermi, mi invitò ad aderire a quel movimento. Ricordo che la prima riunione alla quale partecipai, nel novembre 1969 a Fiesole, vide l’afflusso di un migliaio di persone, che ascoltarono un discorso del comandante Borghese, il quale prospettò le finalità del Fronte come dirette a costituire una forza che in Italia potesse contrastare un certo decadimento e potesse rinsaldare dei valori morali che sembravano minacciati. Il tono del discorso e il carattere della riunione mi convinsero che si trattava di un’attività lecita e pubblica; mi ricordo che fuori e dentro della sala gremita erano presenti militari dell’Arma in servizio. Successivamente per altro, e precisamente in una riunione tenutasi intorno al 15 gennaio 1971 a Roma, in via XXI Aprile, venni a sapere che pochi giorni prima c’era stato un tentativo di colpo di Stato da parte di elementi del Fronte Nazionale. Lì per lì questo tentativo mi apparve una buffonata, tutavia pensai che fosse opportuno allontanarmi dal fronte perché non mi fidavo più di avere a che fare con persone serie. Per tanto detti le dimissioni e non partecipai all’attività del Fronte, alle quali non venni più invitato. Dopo di allora, pur abbandonando il Fronte, conservai una serie di conoscenze: seppi che Borghese scappò in Spagna, dell’arresto dell’Orlandini. Conservai un rapporto amichevole con De Marchi. Anche a me De Marchi propose di entrare a far parte del suo gruppo, assumendo che era imminente un colpo di Stato. Nel chiedermi di partecipare all’operazione il De Marchi disse che la situazione era matura, che avevano tanti soldi, che c’era l’adesione di militari del Nord, ed anzi che tutte le truppe dell’Italia settentrionale erano controllabili. Mi disse in particolare che c’erano dei generali e vari ufficiali superiori. Successivamente nei numerosi incontri da me avuti in Svizzera con Orlandini, Lercari, Massa e altri del gruppo che stavano muovendosi, ho potuto ricostruire che era stata fissata altresì un’epoca per il colpo di Stato, intorno al settembre 1973”. Lo stesso Nicoli, poco prima (il 4.11.74), aveva dichiarato al G.I. di Torino che negli ambienti del Fronte nazionale, che aveva continuato a frequentare, “si era parlato dell’utilizzazione di elementi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale per atti violenti”. Molto tempo dopo (29.3.91 al G.I. del presente processo) confermerà che De Marchi era legato da amicizia con Zagolin, del gruppo veneto, fin da prima del 1973 e che il De Marchi, il Lercari e lo Zagolin avevano riunioni con rappresentanti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale; nell’occasione dichiarava inoltre: “tra Fronte Nazionale ed Avanguardia Nazionale/Ordine Nuovo negli anni 1972/73 era avvenuta una sostanziale fusione in quanto i giovani che erano iscritti al Fronte si iscrivevano anche a Ordine Nuovo e ad Avanguardia Nazionale. Confermo quanto verbalizzato a pagina 4 dell’interrogatorio del 4.11.1974 al G.I. di Torino, che cioè più volte nelle riunioni del Fronte, presenti Orlandini, De Marchi e altri, si parlò di elementi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale da utilizzare per azioni violente a persone. A tal fine devo aggiungere che sentii in alcune occasioni anche il Pavia dire che aveva sottomano alcuni uomini adatti da utilizzare per compiere attentati a persone fisiche e in particolare a uomini politici. Pavia faceva parte del Fronte Nazionale ed era responsabile del Piemonte” A conferma merita citazione quanto, tra l’altro, riferito da Roberto Cavallaro già il 28.2.75 al G.I. di Roma: Amos Spiazzi (ufficiale superiore dell’Esercito, inizialmente imputato nel presente procedimento penale) gli aveva detto in più occasioni che egli “subordinava l’intervento delle Forze Armate a uno stato di particolare tensione” e che, nel contesto di quei discorsi, lo Spiazzi si era riferito espressamente a Ordine Nuovo come l’unica organizzazione che, in quel momento, era da ritenersi capace di compiere “fatti concreti”. Queste le conclusioni cui la Corte ritiene di pervenire sulla scorta di quanto finora detto, con la premessa doverosa che quanto teorizzato dal Vinciguerra non può essere del tutto condiviso, specialmente quando questi tende a una ingiusta generalizzazione, quasi che all’epoca che qui interessa Forze Armate, Carabinieri, Servizi di sicurezza fossero occupati unicamente nel tramare contro le Istituzioni democratiche, al fine di sovvertirle. Sembra, tra l’altro, di poter cogliere nelle sue dichiarazioni l’intento di sminuire l’effettiva pericolosità delle formazioni eversive dell’estrema destra, escludendone l’iniziativa nell’ideazione di attentati, attribuendo loro un mero ruolo esecutivo di decisioni assunte altrove e da altri. E’ ben vero che lo stesso Vinciguerra finisce per fare riferimento a singoli soggetti e a settori deviati di quelle strutture statali, tuttavia è giusto sottolineare che solo una parte del tutto minoritaria mantenne equivoci rapporti con organizzazioni eversive di estrema destra, mentre un gran numero di “servitori” dello Stato fu leale con le Istituzioni e fedele al giuramento prestato. Detto ciò, non si può negare che in taluni casi, scheggie deviate e devianti, in specie dei Servizi di sicurezza ma anche dell’Esercito, furono quanto meno conniventi o solidali con i propositi eversivi di organizzazioni che, per ideologia e origine storica, avevano in odio il sistema democratico, le sue regole e i suoi esponenti. Scopo di tali organizzazioni (ormai lo si può affermare con certezza) era quello di creare artificiosamente, con attentati stragisti da attribuire alla parte politica avversa, uno stato di tensione nell’opinione pubblica per renderla non solo succube ma desiderosa di una svolta autoritaria che fosse in grado di garantire al Paese ordine e “legalità”, che riservasse il governo del Paese ai “più qualificati”, chiamati a risolvere con efficienza i problemi che si fossero di volta in volta presentati e, soprattutto, a difendere determinati “valori” dall’attacco di forze considerate antinazionali. Che quello, e non altro, fosse lo scopo ultimo perseguito è un dato che trova conferma nella natura degli attentati che, in quegli anni, insanguinarono molte città italiane: seminare terrore con bombe e stragi (anonime ma spesso attribuite, anche con idonee coperture, ad anarchici o schieramente della sinistra) non ha senso alcuno se fine a se stesso; il terrorismo ha un “senso” se con esso si persegue il fine di ingenerare nella popolazione il timore per la propria incolumità, sempre e ovunque, oltre alla sfiducia verso le Istituzioni e gli uomini che non appaiono in grado di assicurare il tranquillo e ordinato svolgersi della vita sociale; allora il terrore trova il suo naturale sbocco nell’auspicio e nell’accettazione di uno “Stato forte”, con le relative leggi emergenziali e conseguente limitazione di diritti costituzionalmente garantiti. La “strategia della tensione” aveva, appunto, quegli scopi perché essa avrebbe permesso di realizzare finalmente, con la tanto desiderata svolta autoritaria, i disegni di chi intende il potere non come servizio alla Nazione e ai cittadini ma come prerogativa personale e a favore di pochi privilegiati. I punti più qualificanti di questi disegni erano l’eliminazione dei partiti politici, l’esautoramento delle organizzazioni sindacali mediante l’abolizione del diritto di sciopero (far ‘si che agli operai non “mancasse il pane” ma che in cambio lavorassero), l’emanazione di leggi adeguate (anche in materia di lavoro) e la loro applicazione da parte di una Magistratura selezionata (cioè condizionata), l’affidamento della gestione della pubblica amministrazione a persone “perbene” a “galantuomini” accuratamente prescelti negli ambiti delle rispettive professioni e competenze. Il tutto all’evidente scopo di impedire, possibilmente per sempre, l’avvento al governo della cosa pubblica di rappresentanti delle classi in quel momento escluse e che tali dovevano restare. In altri e più crudi termini: si perseguiva, teorizzandola, la negazione del principio fondamentale della Democrazia che, in ultima analisi, consiste nella concreta possibilità di tutte le parti sociali, se legalmente organizzate e rappresentate, di aspirare e, se del caso, accedere al governo della Nazione. Quelle “idee” non conseguirono, se non in minima parte, i risultati desiderati, ma non furono e non rimasero isolate; anzi, troveranno proseliti, anche in tempi più recenti, in coloro che, promotori o associati, tentarono di favorire l’avvento di una forma di Stato non dissimile da quella già auspicata dalle organizzazioni eversive, sia pure con metodi certamente meno cruenti ma, non per questo, meno insidiosi. La strage di via Fatebenfratelli del 17 maggio 1973 - per le caratteristiche personali dell’esecutore materiale (sedicente anarchico e, come tale, ideale per la così detta “mimetizzazione”), per l’ambiente politico/eversivo in cui fu concepita e dal quale derivò il mandato, per il bersaglio che si intendeva colpire, per la sua collocazione temporale (cioè proprio nel periodo in cui negli ambienti dell’eversione neofascista si attendeva quel fatto eclatante che avrebbe dovuto determinare l’auspicato colpo di Stato), infine per le “coperture” di cui si è detto - ad avviso della Corte deve essere inserita a pieno titolo nella linea di quelle attività terroristiche nel che si sostanziò la così detta “strategia della tensione”. L’ideazione e organizzazione di quell’attentato, sulla scorta di tutti gli elementi di prova fino ad ora esaminati, non possono che essere attribuite all’organizzazione che è stata indicata da più fonti come la più interessata e l’unica, all’epoca, capace in concreto di atti violenti, vale a dire a Ordine Nuovo, in particolare ai gruppi di quel movimento attivi nel Veneto. Ordine Nuovo: sue attività eversive e ruolo di Carlo Maria Maggi Si può senz’altro affermare che, almeno per quanto qui riguarda, la storia dell’organizzazione di estrema destra “Ordine Nuovo” è la storia giudiziaria di quel movimento, atteso che i principali suoi dirigenti e adepti sono stati indagati e condannati per delitti connessi alle attività eversive dei gruppi di appartenza: ricostituzione del Partito Fascista, attentati stragisti o dimostrativi, detenzione illegale di esplosivi, armi e munizioni. Le vicende di Ordine Nuovo possono essere qui ripercorse solo a grandi linee, rimandando alla completa trattazione fornita dai giudici di primo grado (pagg. 109-169 della sentenza impugnata); una storia protrattasi per l’arco di poco meno di vent’anni, dalla sua costituzione come “Centro Studi Ordine Nuovo” nel 1956 previa scissione dal M.S.I., al suo scioglimento alla fine del 1973 in conformità della legge Scelba essendo stato ravvisato, da parte di quel movimento, la ricostituzione del disciolto partito fascista, di cui ha riferito con la propria testimonianza il sen. Paolo Emilio Taviani, cioè del Ministro degli Interni pro tempore che, appunto nel novembre 1973, decretò lo scioglimento di Ordine Nuovo. L’origine e la natura di tale organizzazione, le ideologie propugnate ed i progetti eversivi perseguiti, sono stati approfonditi e descritti nella acquisita sentenza del Tribunale di Roma, che si pronunciò sulla ricostituzione del partito fascista, in cui furono individuati aspetti qualificanti di Ordine Nuovo, quali la denigrazione della democrazia e delle sue istituzioni, l’esaltazione dei principi, dei simboli e dei metodi propri del disciolto partito fascista. Uno dei passi più significativi, richiamato testualmente anche nella motivazione della sentenza appellata, merita di essere anche qui considerato: “........e del resto questa discendenza diretta dal fascismo è rivendicata chiaramente in un dattiloscritto sequestrato a casa di Graziani e che questi attribuisce a Pino Rauti: ^ma sapete da dove veniamo ? Sapete che cosa abbiamo alle spalle, quali sono le nostre origini? Noi veniamo come origine vicina e immediata da quel nazionalismo di Corradini che agli italiani ristretti nella politica del piede di casa seppe additare la visione immensa e fascinosa dell’impero, dell’espansione oltremarina. Noi veniamo dal futurismo di Martinetti che nell’Europo ancora della Belle Epoque del XIX secolo che non voleva morire, gridava alle conformiste platee atterrite: vogliamo uccidere anche la luna e urlava provocando tafferugli: guerra, sola igiene del mondo. Noi veniamo da quei sindacalisti rivoluzionari alla Corridoni che innalzavano il mito di Sorel contro Marx con lo stesso orgoglio con cui si alza la bandiera contro uno straccio stinto. Noi veniamo dall’interventismo, dalla beffa di Buccari, noi veniamo anche, camerati, da quel grande fenomeno politico che fu lo squadrismo del primo dopoguerra, dallo squadrismo che sapeva inneggiare alle donne e alla vita, ma sapeva rischiare la vita, un’esaltazione di sangue giovane e della bella morte^. Va citata anche la sentenza in data 12 ottobre 1993 della Corte di Cassazione. Questa rendeva definitivi gli accertamenti della Corte d’assise e della Corte d’assise di Appello di Roma le quali, in un procedimento a carico di numerosi imputati e all’esito della disamina e della valutazione di fatti successivi allo scioglimento di Ordine Nuovo (disposto con il citato decreto in data 23.11.1973), avevano ravvisato la formazione di strutture di riaggregazione di militanti dell’estrema destra extra-parlamentare, snodatasi in successione temporale all’interno di un contesto eversivo, sostanzialmente unitario, di sodalizi caratterizzati dalla opzione per la lotta armata, da una progettualità eversiva contro lo Stato e le Istituzioni democratiche, da attività delinquenziali e da un ampio programma criminoso. Altre sentenze definitive hanno attribuito a elementi del gruppo romano di Ordine Nuovo atti criminali (l’uccisione del giudice Occorsio, che per primo aveva denunciato il movimento per ricostituzione del partito fascista) e numerosi episodi di violenza quali aggressioni a sedi del P.C.I., partecipazione alla rivolta di Reggio Calabria nonché aggressioni a militanti di partiti politici. Infine, con sentenze emesse dall’Autorità giudiziaria romana, passate in giudicato, è stato accertato che, anche dopo il decreto di scioglimento, l’attività di Ordine Nuovo era continuata in un contesto eversivo, caratterizzato dalla opzione per la lotta armata. Di particolare importanza le sentenze in data 9.12.88 della Corte d’assise e 8.11.91 della Corte d’assise di Appello di Venezia, in particolare nelle motivazioni dedicate alla ricostruzione organica delle attività delittuose del gruppo ordinovista che operava nel Triveneto. Con quelle sentenze Carlo Maria Maggi era stato dichiarato responsabile del delitto di ricostituzione del disciolto partito fascista dal 1969 al 1982 e condannato alla pena della reclusione per anni sei e giorni 15. Nel processo di primo grado Carlo Maria Maggi – con Soffiati, Spiazzi, Digilio, Malcangi, Quaderni, Cinzia De Lorenzo, Giuseppina Gobbi, Claudio Bressan e Paolo Fasoli – era stato chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 270bis C.P. (associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico) per aver costituito, organizzato e diretto un’associazione realizzata con denaro proveniente dal disciolto Ordine Nuovo, che si tentava di ricostituire con le medesime finalità nell’intero territorio nazionale, riuscendovi in parte nel Veneto; quella associazione, attiva in Venezia, Verona, Colognola ai Colli e in altre zone tra il 1977 e il 1982, aveva come finalità l’esecuzione di atti di violenza a scopo di eversione dell’ordine democratico, attraverso il collegamento con bande armate alle quali procurava armi; l’associazione disponeva di armi, esplosivi e detonatori, procurava o formava falsi documenti di identità, ospitava latitanti, promuoveva la stampa e la diffusione di giornali con contenuti di eversione neofascista, teneva schedari di partecipanti a organizzazioni neofasciste in vista del compimento di azioni eversive terroristiche. I fatti di che trattasi, pienamente accertati, erano qualificati come “riorganizzazione del partito fascista”. Secondo la Corte d’assise di Venezia era stata raggiunta la prova che Ordine Nuovo “nato come movimento unitario in contrapposizione al Movimento Sociale Italiano, aveva mantenuto una unitarietà di impostazione ideologica anche dopo il rientro nel M.S.I. e che coloro che all’operazione rientro avevano aderito lo avevano fatto per motivi meramente strumentali, mantenendo una loro identità ideologica sicuramente non coincidente con quella del partito al quale avevano dato la loro formale adesione”. Inoltre era stata ritenuta inesistente la pretesa. radicale e assoluta incompatibilità della contemporanea appartenenza ai Centri Studi Ordine Nuovo (rientrati nel M.S.I.) e al movimento politico Ordine Nuovo. Nel giudizio di appello si operava la riunione di altro processo nel quale era imputata al Maggi la riorganizzazione del partito fascista dal 1969 al 1980 per avere, unitamente a Carlo Digilio e Delfo Zorzi, partecipato con funzioni organizzative, in Venezia, al sodalizio criminoso armato denominato Ordine Nuovo, sodalizio operante nel Triveneto; il Maggi, il Digilio e lo Zorzi, in particolare, sovrintendendo ai rapporti fra il gruppo veneto e il gruppo friulano, alle forniture di armi e materiale bellico, alla fabbricazione, riparazione, custodia delle stesse nonché alla preparazione di attentati contro persone e cose. Carlo Digilio, imputato in entrambi i procedimenti, ritenuta per lui la sola qualifica di partecipe, fu condannato alla pena di anni 5, mesi 2 e gg. 15 di reclusione. Oltre a Maggi e Digilio, in relazione a tali fatti-reato, sono stati definitivamente condannati Mario Quaderni, Cinzia De Lorenzo e Claudio Bressan. Convenendo con i giudici di primo grado del presente processo, la Corte ritiene che dalle sentenze definitive delle AA.GG. di Roma e Venezia si debba desumere: 1) che ben prima dello scioglimento disposto dal ministro Taviani, Ordine Nuovo, nel timore che la propria attività determinasse una dura repressione, decise per ragioni puramente strumentali un fittizio rientro nel M.S.I.; nonostante che le ragioni dell’originaria scissione (1956) permanessero e anzi si fossero accresciute nel frattempo, fu ordinato ai militanti di attenuare i contrasti con i missini, ancora vivissimi nel 1968 a pochi mesi dalla riunione, al solo scopo di poter contare sulla protezione di un partito politico che sedeva in Parlamento e per tentare nel contempo di eroderne la base, soprattutto giovanile; 2) proprio in attuazione di quella strategia del doppio binario adottata da Ordine Nuovo, si posero in essere più sigle, tutte di facciata, permanendo in ogni sede, dotata di ampia autonomia decisionale e operativa, sia un nucleo che svolgeva attività eversiva sia uno che svolgeva attività politica, in parte o totalmente coincidenti nei soggetti. Dall’analisi delle risultanze e delle acquisizioni processuali deve essere posto in rilievo il grande interesse che le decisioni delle Corti veneziane assumono nel presente processo avendo affrontato specificamente l’operatività dei gruppi di Ordine Nuovo nel Triveneto e, in particolare, di quello di Venezia. In dette sentenze, segnatamente nella motivazione di quella emessa in grado di appello, sono stati indicati gli elementi più rilevanti relativi al ruolo di Carlo Maria Maggi. Questi negli anni sessanta ricopriva il ruolo di ispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto e sin dai primi anni settanta era stato il principale referente del gruppo ordinovista di Udine, facente capo ai fratelli Vincenzo e Gaetano Vinciguerra, a Carlo Cicuttini, a Cesare Turco, a Giancarlo Flaugnacco; quel gruppo era attivo sul piano militare e operativo avendo compiuto una serie di azioni violente tra le quali il dirottamento aereo di Ronchi dei Legionari del 6.10.72, l’attentato all’abitazione dell’On. De Michieli Vitturi e la strage di Peteano del 31.5.1972. Vincenzo Vinciguerra aveva affermato che i suoi rapporti con Maggi erano proseguiti anche dopo il 1969, epoca in cui era stato sciolto il Centro Studi Ordine Nuovo. Giancarlo Vianello, a sua volta, aveva dichiarato che Maggi era amico di Marcello Soffiati, che a Trieste esisteva un nucleo molto forte di Ordine Nuovo o comunque di un movimento estremista di destra facente riferimento a Ordine Nuovo del quale facevano parte Neami, Portolan e Forziati; che a Mestre le riunioni degli ordinovisti si tenevano nello studio di un medico tricologo che lavorava con la copertura del Maggi. In quello studio, nel quale il Maggi aveva avuto la disponibilità di un locale tra il 1966 e il 1974, era avvenuta una serie di incontri tra ordinovisti veneti (tra i quali il Maggi) e ordinovisti friulani, tra i quali il Vinciguerra. Carlo Maria Maggi era al vertice del gruppo di ordinovisti veneti e, come tale, aveva mantenuto rapporti con Massimiliano Fachini, Roberto Raho, Franco Freda, Paolo Signorelli e Giancarlo Rognoni. Una prova indiretta della rilevanza del ruolo del Maggi nell’associazione era rappresentata dal fatto che egli, benché coinvolto in tutte le attività poste in essere dal gruppo, per così dire “conservava le mani pulite”, cioè che mai le armi, le munizioni, i detonatori, i documenti falsi passavano per le sue mani. Quanto ad armi ed esplosivi la sentenza della Corte d’assise di Venezia aveva evidenziato il rinvenimento in data 4.6.82, presso l’abitazione di Carlo Digilio a Venezia, di oltre tremila cartucce (anche per armi da guerra), di tre giubbotti antiproiettile, di due fucili e di una carabina; inoltre, su indicazione di Claudio Bressan, erano stati rinvenuti una pistola e un revolver occultati nel cimitero di San Zeno, nonché detonatori nascosti nel tiro a segno di Venezia Lido. Occorre ora soffermarsi su quanto, dagli elementi probatori documentali e testimoniali acquisiti, è risultato circa l’attività eversiva di Carlo Maria Maggi e dei suoi accoliti nel periodo precedente al 17 maggio 1973 nell’ambito dell’organizzazione Ordine Nuovo e nel gruppo specificamente facente capo al Maggi, quello di Venezia-Mestre. In proposito, assumono particolare rilievo i dati di fatto compendiati nella sintesi che segue: in un rapporto della DIGOS presso la Questura di Venezia, datato 25.6.86 e diretto al Giudice Istruttore del locale Tribunale, è stata dettagliatamente ricostruita la storia di Ordine Nuovo nel Veneto, a partire dall’aprile 1957, tempo in cui a Venezia Gian Riccardo Romani aveva costituito una sezione del Centro Studi Ordine Nuovo. Da tale rapporto si possono trarre elementi utili per ciò che attiene ai fatti per cui si procede, vale a dire: nel 1958, nella direzione del Centro Studi Ordine Nuovo, il Romani era stato sostituito da Carlo Maria Maggi il quale, nel 1961, aveva costituito a Verona un’altra sezione di quel Centro Studi. Nel 1963 una sezione era stata costituita a Padova con a capo Franco Freda, mentre nel 1964 Marcello Soffiati era stato nominato responsabile del Centro Studi Ordine Nuovo di Verona. Nell’aprile 1966 erano state eseguite perquisizioni domiciliari nei confronti di Besutti Roberto, Massagrande Elio e Soffiati Marcello, con rinvenimento e sequestro di numerose armi e munizioni; a seguito delle loro dichiarazioni in un appartamento di Reverè Veronese (preso in affitto dal Besutti sotto falso nome) era rinvenuto un ingente quantitativo di armi e munizioni tra cui quindici mitra, quattro fucili mitragliatori, quindicimila cartucce e quattordici chili di tritolo, a riprova dell’ampia disponibilità, da parte del gruppo veronese, di armi, munizioni ed esplosivo. Il 16 novembre 1968 personale della Questura di Padova arrestava Mariga Giampiero, trovato in possesso di armi da guerra. Questi, residente a Mestre, risultava in stretti rapporti con Delfo Zorzi, facente parte del Centro Studi Ordine Nuovo di Venezia, nell’abitazione del quale, il giorno successivo, erano rinvenute e sequestrate tre pistole nonché due sacchetti contenenti esplosivo. Nel febbraio 1971 Martino Siciliano era stato indiziato come autore di un attentato all’Università di Milano dove era stato fatto esplodere un ordigno che aveva prodotto solo danni a cose. Nell’aprile 1971 il G.I. di Treviso aveva emesso mandati di cattura nei confronti di Franco Freda e di Trinco Aldo, imputati di associazione sovversiva anche in relazione ad attentati dinamitardi commessi su treni nel 1969. Nel 1973 la segreteria del M.S.I. di Venezia aveva espulso Martino Siciliano e Giampiero Mariga e sospeso a tempo indeterminato Carlo Maria Maggi, Andreatta Pietro, Pasetto Carlo Maria, Delfo Zorzi, Romani Gian Gastone, Carnet Giampiero, Centenni Mario e Molin Paolo. Meritano di essere richiamate, sia pure in estrema sintesi, ulteriori informazioni sulle vicende dell’organizzazione Ordine Nuovo nel Triveneto fornite dalla DIGOS della Questura di Venezia con il citato rapporto: nell’estate del 1963 “Molin partecipava al convegno indetto dalla federazione nazionale degli ex-combattenti della R.S.I., tenutosi a Milano, con altri esponenti di Ordine Nuovo di altre province”; nel dicembre 1964 “a seguito del riordinamento ed ampliamento del quadro dirigente di Ordine Nuovo, entravano a far parte del direttivo nazionale Carlo Maria Maggi e Gian Gastone Romani. Veniva costituito, inoltre, per il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e l’Alto Adige, un Ispettorato alle dipendenze dei soprascritti Maggi e Romani”; il 27 giugno 1965 “al convegno nazionale di Ordine Nuovo, tenutosi a Roma presso il Palazzo Brancaccio, veniva segnalata la partecipazione dei veneziani Maggi, Molin, Romani e Carlet. A detto convegno si notava la partecipazione di militanti di Avanguardia Nazionale Giovanile, capeggiati da Stefano Delle Chiaie; nel novembre 1966 “in Mestre si teneva il congresso interprovinciale del Centro Studi Ordine Nuovo, organizzato dai già citati Maggi Carlo Maria e Molin Paolo, cui prendevano parte, tra gli altri, Gino Rosoleni e Giovanni Cavarzere i quali, nel 1962, avevano partecipato all’attentato alla sede veronese del P.C.I., risultando condannati a mesi sei di reclusione”; il 27 marzo 1967 e nel giugno dello stesso anno, a Milano e a Torino si erano tenuti convegni di Ordine Nuovo con la partecipazione di Carlo Maria Maggi; nel marzo 1968 “in Milano aveva luogo una riunione di dirigenti di Ordine Nuovo per l’Alta Italia, presieduta dal noto Pino Rauti. Come sede di riunione veniva utilizzata la sede della federazione nazionale Combattenti Repubblica Sociale Italiana. Fra i partecipanti venivano segnalati Maggi Carlo Maria e Romani Gian Gastone”; il 28 marzo 1971 “i Carabinieri di Verona, su mandato di cattura di quel Tribunale, procedevano all’arresto di Massagrande Elio, di Besutti Roberto e di Rocchini Pietro per aggressione contro occupanti della facoltà di Magistero con il ferimento di tre persone (21.1.71), incendio doloso dell’autovettura del senatore Adelio Albarello del P.S.I.U.P. (6.12.69), attentato dinamitardo contro il negozio Alta Moda sito in Mantova (1.5.69); nel dicembre 1971 “la Procura della Repubblica di Roma rinviava a giudizio, ai sensi degli articoli 1 e 2 della legge n.645, unitamente ad altri, Besutti Roberto, Massagrande Elio, Bizzarri Claudio, Simone Walter e Mazzeo Leone. In quel periodo Carlo Maria Maggi avrebbe avuto frequenti contatti con esponenti di Ordine Nuovo veronesi e soprattutto con il noto Elio Massagrande. Risulta infatti che il Maggi aveva alloggiato in Verona il 20.4.1973 presso l’Hotel Accademia, il 25.6.72 presso l’Hotel AGIP, il 31.3.1973 e il 14.4.73 presso l’Hotel Rossi”. Dalle notizie raccolte dalla DIGOS era risultato infine che gli stessi uomini che avevano gestito i Centri Studi di Ordine Nuovo avevano pure gestito l’attività eversiva di Ordine Nuovo, come del resto sarà confermato dalle dichiarazioni testimoniali rese al G.I. da Dario Persic il 24 aprile 1997. Di tali dichiarazioni si fornisce, di seguito, una sintesi rimandando alla nota in calce per un resoconto più completo. Il Persic, simpatizzante all’epoca dell’estrema destra e in rapporti con esponenti di Ordine Nuovo nel Veneto, benché mai coinvolto in attività eversive, dichiarava di essere stato, fin dall’inizio del 1968, amico di Marcello Soffiati tramite il quale aveva avuto modo di conoscere Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio, Sergio Minetto e altri, persone che aveva poi frequentato fino al 1981/82; considerava Marcello Soffiati come figura di rilievo del gruppo veronese di Ordine Nuovo mentre il Maggi, a Venezia, era secondo soltanto a Sergio Minetto il quale però non poteva considerarsi membro organico del gruppo; affermava il teste che Maggi era sempre in compagnia di Carlo Digilio quando li vedeva nel ristorante del Soffiati in Colognola ai Colli. Secondo il Persic, Marcello Soffiati si recava spesso nell’abitazione di Amos Spiazzi, persona che aveva visto anche nel ristorante dello stesso Soffiati; ricordava anche che il Soffiati si era sposato il 28 aprile 1973 e che i testimoni erano stati lui stesso Persic e Carlo Digilio; al banchetto avevano partecipato anche Maggi e Minetto. Il Persic dichiarava inoltre che Marcello Soffiati teneva e custodiva nella propria abitazione, a Verona in via Stella, armi in gran numero ed esplosivo; ricordava in particolare un mitra MP40, due silenziatori, una pistola cecoslovacca calibro 9 nonché delle bombe a mano, di quelle in uso all’esercito italiano; secondo quanto riferitogli dal Soffiati, era Digilio che, all’occorrenza, procurava le armi; lo stesso era anche in grado di ripararle ed era considerato l’armiere del gruppo; precisava il Persic che aveva avuto modo di vedere le armi nell’abitazione di via Stella nel periodo dal 1972 al 1974, quindi anche nel periodo in cui era andata ad abitare in quella casa la moglie del Soffiati; ricordava inoltre che nell’appartamento esisteva un piccolo vano nel corridoio, munito di mensole sulle quali c’era un po’ di tutto ma, sul pavimento, erano conservate le armi. Il Persic aveva infine riferito di una riunione a casa sua, avvenuta nel 1970/71, alla quale avevano partecipato il Maggi, il Minetto, Digilio, Marcello Soffiati e un uomo con i baffi “che faceva il croupier al Casinò di Venezia”; ricordava, in particolare, che nel corso della riunione si era parlato di una rivoluzione che si prospettava imminente e che sarebbe stata appoggiata dagli americani. In proposito il Persic ricordava di aver visto spesso, parcheggiate nei pressi della trattoria del Soffiati, autovetture con targa americana. Quanto alla disponibilità di armi da parte di Ordine Nuovo del Veneto si richiamano le dichiarazioni di Marco Pasetto, di Martino Siciliano, di Vincenzo Vinciguerra, di Marzio Dedemo e di Pietro Battiston: secondo Pasetto il Boffelli (guardaspalle di Carlo Maria Maggi) disponeva di una carabina calibro 22 e di altre armi; lo stesso gli aveva mostrato una penna-pistola (di quella strana arma aveva riferito anche Martino Siciliano); Vinciguerra aveva visto nel 1973, nella casa di Delfo Zorzi, due valigie di munizioni; Dedemo aveva visto un silenziatore a casa del Maggi; Battiston aveva dichiarato che Carlo Digilio gli aveva confidato di essere in grado di ricavare dell’esplosivo da ordigni bellici recuperati in laguna; Digilio gli aveva anche detto che dell’esplosivo, del tipo gelignite, di cui disponeva Ordine Nuovo si stava deteriorando, infine che Maggi gli aveva chiesto di trasformare detonatori tradizionali in detonatori elettrici. Quanto al ruolo ricoperto da Carlo Maria Maggi nel gruppo ordinovista le testimonianze assunte lo hanno descritto come quello di un capo militare, tra l’altro provvisto di un servizio di tutela armata compiuto dal Dedemo, dal Tettamanzi e dal Boffelli. Il Maggi (da tutti chiamato “dottore” essendo un medico ed esercitando tale professione) rivestiva una posizione di assoluto rilievo non solo a Venezia ma anche in tutta l’Italia del Nord, e ciò secondo dichiarazioni tutte concordanti sul punto. Quella, ad esempio, resa da Marzio Dedemo al Giudice Istruttore il 21.2.1997, sia sul ruolo che sull’importanza del Maggi nell’ambito di Ordine Nuovo, nonché sulle idee politiche e progetti rivoluzionari del “dottore”: nel suo ruolo di accompagnatore/guardaspalle del Maggi aveva svolto alcuni incarichi da questi affidatigli; ricordava in particolare che nei primi anni ’70 si era recato a Milano per recare un suo messaggio a giovani appartenenti al gruppo “La Fenice” con l’ordine di non reagire all’aggressione subita dalla moglie del Rognoni dato che, in quel momento, una vendetta sarebbe stata controproducente; nell’occasione i destinatari del messaggio avevano accettato senza obiezioni quanto richiesto da Carlo Maria Maggi. Sempre su incarico di Maggi aveva portato in Spagna, dove si era recato in viaggio di nozze, carte di identità e patenti destinate al latitanti. Ricordava infine di aver fatto da autista e guardaspalle in alcuni viaggi a Milano dove Maggi si incontrava, in una trattoria, per riunioni con exrepubblichini, riunioni alle quali partecipava anche Pio Battiston (padre di Pietro o Piero). Questi, in seguito, gli aveva riferito che in quelle riunioni Maggi aveva sostenuto la necessità della strategia di attentati dimostrativi, la cui responsabilità doveva essere attribuita alla sinistra, ritenendo la strage uno strumento della politica. Sulla posizione ideologica e politico-strategica di Carlo Maria Maggi si citano ancora le dichiarazioni rese al P.M. di Brescia il 6.10.1995 da Pietro Battiston (ospitato dal Maggi nel periodo di latitanza trascorso a Venezia tra la fine del ’73 e il ’74): “a livello ideologico Maggi, nel periodo della mia latitanza a Venezia, sosteneva la necessità di utilizzare lo strumento degli attentati e delle stragi come punto essenziale di una strategia che mirava a creare il caos, cioè nell’ottica di costituire in tal modo il terreno sul quale potesse attecchire una vera e propria rivoluzione di destra da realizzarsi, nella sua ottica, senza l’intervento delle Forze Armate, e a prescindere da esso. Non faceva mistero di tale sua ideologia, tanto da destare stupore anche nel nostro ambiente. Le riunioni a livello interregionale degli aderenti alla struttura ufficialmente disciolta di Ordine Nuovo venivano organizzate, per quanto a mia conoscenza, da Signorelli. Anch’io ho preso parte a diverse di queste riunioni a Roma, Genova, Treviso e Milano; il Maggi, nell’ambito di queste riunioni, si faceva promotore della linea di cui ho appena parlato. La posizione più vicina al Maggi era rappresentata da Rognoni e dal gruppo di quest’ultimo. A livello centrale direi che non incontravano grossi consensi, tanto che ho sentito giudizi negativi pronunziati dal Signorelli e dallo stesso Massagrande”. Infine le dichiarazioni di Ettore Malcangi (al G.I. 3.7.95) il quale riferiva, secondo quanto confidatogli da Carlo Digilio, della partecipazione di Maggi a una riunione di estremisti di destra avvenuta a Verona, in cui si era parlato di un colpo di Stato: “la riunione avvenne nei primi mesi del 1973, cioè prima della morte di Giancarlo Esposti avvenuta il 30.4.73; uno degli scopi della riunione era la ricerca di armi per 40.000 uomini e Giancarlo Esposti era stato incaricato di reperire armi e la sua morte avvenne proprio mentre stava eseguendo tale incarico........ Io ero già a conoscenza di tale riunione di Verona avendomene parlato nel 1973 Giuliano Bovolato anche se non mi indicò tutti i presenti alla riunione. Bovolato all’epoca era il dirigente delle vecchie S.A.M. (Squadre d’azione Mussolini – n.d.u.). Posso dire ciò in quanto tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973 fui presentato a Bovolato per essere arruolato nelle S.A.M. Restai a disposizione per qualche tempo e l’unico incarico che mi fu dato fu quello di esplorare la possibilità di trovare armi. Dopo la morte di Esposti avvenuta alcuni mesi dopo io continuai a frequentare il Bovolato fino a settembre-ottobre ’73 e poi cominciai a prendere le distanze da quel gruppo”. Carlo Maria Maggi, in conclusione, sulla scorta di tutti i dati acquisiti e, in particolare, delle dichiarazioni di Dario Persic, di Pietro Battiston, di Marzio Dedemo e di Ettore Malcangi – che hanno riferito delle opinioni dallo stesso espresse e dei contatti avuti con personaggi che propugnavano un colpo di Stato – deve essere ritenuto parte e protagonista, a tutti gli effetti, della strategia della tensione di cui si è trattato. Infine, quanto all’attività eversiva di Ordine Nuovo di Venezia-Mestre ispirata dal Maggi, meritano di essere citate le dichiarazioni di Giancarlo Vianello secondo il quale gli aspetti organizzativi del gruppo di Ordine Nuovo di Venezia erano di competenza di Carlo Maria Maggi, che questi era gerarchicamente sovraordinato a Delfo Zorzi, che il gruppo disponeva di armi e di esplosivi, che il livello clandestino dell’organizzazione faceva capo a Maggi, Digilio e Zorzi. Dal canto suo Martino Siciliano ha indicato altri attentati attribuibili al gruppo ordinovista di Venezia-Mestre (oltre a quelli indicati dal Vianello, vale a dire gli attentati alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine a Gorizia compiuti nel 1969) nonché il possesso, da parte di quel gruppo, di numerose armi; Delfo Zorzi era il responsabile della sezione di Mestre e aveva come suo referente il Maggi il quale, a sua volta, aveva come riferimento, a Roma, Paolo Signorelli. Per completezza di trattazione non si possono trascurare alcune azioni eversive, inquadrabili nella strategia della tensione propugnata dal Maggi, benché non direttamente riferibili al suo gruppo, compiute dai gruppi di Giancarlo Rognoni e di Vinciguerra negli anni immediatamente precedenti al 1973. A quello facente capo al primo (di Milano, denominato “La Fenice”) il mancato attentato dinamitardo compiuto sul treno Torino-Roma il 7 aprile 1973, fatto per cui furono condannati dalla Autorità Giudiziaria di Genova Nico Azzi (autore materiale, nell’occasione ferito dallo scoppio di un detonatore) Giancarlo Rognoni, Mauro Marzorati e Francesco De Min. Al gruppo ordinovista di Udine la strage di Peteano commessa il 31 maggio 1972. Per quel gravissimo attentato, risoltasi con la generale assoluzione di appartenenti alla malavita (inizialmente incriminati), nel 1978 fu, infine, seguita la pista politica che portò ad attribuire la strage al gruppo di Ordine Nuovo di Udine del quale facevano parte Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini, già autori con Ivano Boccaccio del dirottamento aereo di Ronchi dei Legionari avvenuto il 7.10.72, entrambi poi condannati per i fatti di Peteano alla pena dell’ergastolo. La vicenda di quella strage, la complessa indagine che ne era seguita con i relativi tentativi di sviamento, meriterebbero una trattazione a parte, rivestendo la stessa un particolare significato in ordine alle attività criminose propugnate e compiute da appartenenti a Ordine Nuovo. Si ritiene però sufficiente richiamare, condividendole, le conclusioni formulate in proposito dai giudici di primo grado i quali hanno esaminato a fondo detta vicenda, e non solo: “in epoca immediatamente precedente la strage di via Fatebenefratelli il gruppo ordinovista di Udine, geograficamente collocato in quel Triveneto da sempre posto sotto l’influenza assoluta ed esclusiva di Carlo Maria Maggi, senza distinzione tra partecipanti a Centri Studi o Movimenti Politici di sorta, organizzava ed eseguiva sotto la guida di Vincenzo Vinciguerra una serie di attentatti che, con una progressione incredibile di pericolosità, trascorreva dall’aggressione a un parlamentare missino al dirottamento di un aeromobile, all’uccisione di Carabinieri del Gruppo di Gorizia attirati in una trappola mortale. Per la consumazione di tali delitti il gruppo di Ordine Nuovo di Udine si avvaleva di un micidiale arsenale, sulla provenienza almeno di parte del quale la Corte d’assise di Appello di Venezia ha avanzato inquietanti ipotesi, tanto inquietanti quanto quelle avanzate dal Tribunale di Milano sulla provenienza di parte almeno dell’arsenale sequestrato qualche anno prima a Besutti, Massagrande, Soffiati e Morin, già sin da allora iscritti a Ordine Nuovo. Viceversa, così come per la responsabilità penale e per la matrice ordinovista degli attentati di cui si è occupata la Corte d’assise di Venezia, è certo che gli ordinovisti godettero di protezioni e coperture non solo da parte del loro amico e sodale Morin, ma anche e soprattutto da parte di quegli apparati dello Stato che avrebbero dovuto prevenire, prima ancora che reprimere, l’azione” (Il riferimento è alla strage di Peteano, all’iniziale sviamento delle relative indagini per il quale fu imputato il colonnello Monico, proprio quello che aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Sondrio all’epoca dell’espatrio di Gianfranco Bertoli - n.d.u.). I rapporti di Bertoli con ambienti e personaggi della destra eversiva veneta e con Carlo Maria Maggi Nel corso della presente motivazione, trattando del personaggio Bertoli e dell’inattendibilità della sua versione relativa all’ideazione e all’esecuzione della strage di via Fatebenefratelli, in più occasioni si è osservato come debba ritenersi scarsa, per non dire nulla, l’attendibilità della sua asserita qualità di “anarchico”; una fede ideologico-politica apparsa, tra l’altro, in contrasto irriducibile con l’attività di informatore svolta da Gianfranco Bertoli, almeno fino al momento del suo espatrio alla volta di Israele (febbraio 1971), al servizio del S.I.F.A.R. prima e del S.I.D. poi, consistita per lo più nell’infiltrarsi in sezioni del Partito Comunista Italiano per raccogliere notizie sull’attività di quella formazione politica. I già fondati dubbi sul suo collocamento politico-ideologico e sulla genuinità della pretesa scelta anarchica hanno trovato puntuale e ampia conferma in numerose risultanze processuali che hanno indicato il Bertoli come individuo in stretti rapporti con ambienti e personaggi dell’estrema destra neofascista veneta, in particolare con appartenenti a gruppi di Ordine Nuovo, in primis con Carlo Maria Maggi, vale a dire il personaggio di maggior spicco nell’ambito di quei gruppi e propugnatore di strategie rivoluzionarie violente. Quello che segue è l’elenco delle dichiarazioni rese da testimoni e collaboratori di giustizia come acquisite nel corso dell’istruttoria (in parte ribadite in fase dibattimentale): quelle di Martino Siciliano (della cui scelta di collaborazione con l’autorità giudiziaria si è già detto) il quale - dopo aver riferito circa il proprio percorso politico, prima nella Giovane Italia, poi in Ordine Nuovo (gruppo di Venezia-Mestre) fino a che non era stato sospeso alla fine del 1972 – nel contesto di lunghe ha così dichiarato: “ricordo che uno o due giorni dopo la strage del 17.5.1973 ebbi un lungo colloquio con il dottor Maggi in un incontro all’ospedale geriatrico Giustinian dove lavorava............Maggi per motivi di sicurezza non parlava mai di argomenti di Ordine Nuovo per telefono, nella sua abitazione o nella sede di O.N.; mi chiedeva infatti di parlare di tali argomenti solo di persona o sul luogo di lavoro dove non poteva essere controllato. Tale colloquio avvenne pertanto nell’ambulatorio dell’ospedale senza la presenza di alcuno..........Maggi mi disse in modo esplicito che conosceva molto bene Gianfranco Bertoli, che era un camerata che aveva frequentato a lungo prima a Padova e poi a Venezia. Si erano frequentati da molto tempo ed avevano continuato a frequentarsi fino a poco tempo prima, escluso naturalmente il periodo in cui il soggetto non era stato in Italia. Maggi e Bertoli si conoscevano dai tempi in cui Maggi era giovane studente all’Università di Padova e, frequentando gli ambienti di destra, aveva avuto l’opportunità di stringere amicizia con Gianfranco Bertoli........Maggi, in quel colloquio durato circa un’ora, mi disse inequivocabilmente che Bertoli non era un anarchico di sinistra ma che aveva continuato ad essere un camerata, un simpatizzante dell’estrema destra in quanto aveva continuato a frequentarlo, come ho già detto, fino a poco tempo prima, escluso il periodo in cui era stato all’estero. Maggi mi disse che aveva continuato a mantenere contatti con Bertoli anche durante il suo soggiorno all’estero e che li manteneva ancora. Voglio riferire che un po’ noi tutti ordinovisti e camerati di Mestre ci facevamo curare sul piano medico dal dr. Maggi che era anche il medico della palestra (il teste si riferisce alla palestra di Mestre, abituale luogo di ritrovo degli appartenenti al locale gruppo di O.N. e dove per un certo tempo aveva vissuto stabilmente Delfo Zorzi – n.d.u.) Pertanto non escludo, ma questa è solo una mia opinione, che anche Bertoli possa aver usufruito a Mestre delle prestazioni professionali mediche del dr. Maggi presso l’ospedale geriatrico Giustinian o anche presso l’ospedale psichiatrico ove prima il Maggi prestava servizio (Bertoli, dopo l’arresto del Maggi, ammetterà di essersi fatto fare qualche ricetta dallo stesso – n.d.u.).........Confermo anche quanto verbalizzato a foglio 3 al P.M. circa i rapporti di conoscenza tra Molin e Bertoli per le frequentazioni avute dal Molin con il Bertoli quando studiava giurisprudenza a Padova. Anch’egli, frequentando ambienti di estrema destra, ebbe modo di conoscere e frequentare Bertoli. Tale circostanza mi fu riferita da Zorzi nel colloquio di cui ho parlato prima, nel quale mi precisò che oltre Maggi anche Molin aveva conosciuto e frequentato Bertoli a Padova. Successivamente mi parlarono dei rapporti tra Bertoli, Maggi e Molin anche Roberto Lagna, detto Bobo, e Tringali Stefano, ultimo responsabile della palestra, amico intimo di Zorzi. Comunque voglio aggiungere che nell’ambiente di Ordine Nuovo di Mestre tutti sapevano dei rapporti di conoscenza e dei collegamenti stretti tra Maggi e Molin con Bertoli. In verità in quel periodo io mi vidi anche con il Molin a Venezia subito dopo aver parlato con Zorzi (il riferimento è a un colloquio avvenuto verso la fine del maggio 1973 – n.d.u.) e gli domandai se aveva conosciuto Gianfranco Bertoli come si diceva in giro. Molin non smentì né confermò i suoi pregressi rapporti con Bertoli e mi rispose ^perché me lo domandi ? non sono fatti tuoi^. Devo aggiungere che era voce ampiamente diffusa nell’ambiente di Ordine Nuovo ed oggetto di frequenti discorsi tra le persone che ho citato e altri ordinovisti, che Bertoli era un ^anarchico bidone^ e che in realtà era un camerata...........Confermo di aver visto varie volte Sandro Sedona al Graspo de Uva di Spinea a cavallo degli anni ’70. Vidi alcune volte Sedona con Delfo Zorzi e lo vidi anche con Gianfranco Bertoli con il quale frequentava il Graspo de Uva. Vidi a Spinea e in tale locale più volte il Sedona e Bertoli”. Si deve solo aggiungere che le dichiarazioni rese da Martino Siciliano - rese in qualità di testimone, nell’ambito di una leale scelta collaborativa, spontanee e disinteressate, confermate da altre fonti di prova - debbono ritenersi pienamente attendibili. Una delle più significative conferme alle dichiarazioni di Martino Siciliano circa le frequentazioni del Bertoli è provenuta dalla testimonianza di Gallo Rosa, moglie separata di Giampiero Mariga. La teste riferiva che negli anni ’60 e ’70 il marito frequentava assiduamente il locale “Graspo de Uva” sito in Spinea e vi andava in compagnia di due amici, all’epoca inseparabili, cioè Siciliano e Foscari; ricordava altresì che Mariga, prima di trasferirsi a Spinea, aveva abitato a Mestre dove aveva frequentato persone che spesso portava a casa; tra dette persone la Gallo riconosceva in fotografia Siciliano, Foscari, Delfo Zorzi, Sandro Sedona e Boffelli. Individuava anche nell’album fotografico (foto nn. 5 e 6) una persona da lei ben concosciuta e che ricordava perfettamente: “trattasi di persona che ho conosciuto in compagnia di Giampiero, anche se non so chi sia. Può darsi che sia anche venuto a casa mia perché ricordo bene questo viso; l’ho visto alcune volte con Giampiero quando ero a Spinea. Sono certa di avere visto tale persona in alcune occasioni; infatti l’ho riconosciuto subito come un uomo visto in compagnia di mio marito in più occasioni”. La teste, solo dopo tali affermazioni, apprendeva dal Giudice Istruttore (come lo stesso dava atto) che quelle foto raffiguravano Gianfranco Bertoli. Giuseppe Albanese (G.I. 20.6.92) ricordava che Bertoli, nel periodo di comune detenzione in carcere, gli aveva confidato tra l’altro che se fosse stato catturato dopo aver compiuto l’attentato avrebbe dovuto dichiararsi anarchico, di essere legato a camerati veneti appartenenti a un gruppo facente capo ad Amos Spiazzi, persona che Bertoli ben concosceva; poiché Albanese gli aveva detto di essere stato in passato a Marsiglia per sottrarsi alle ricerche e che ivi era stato ospitato da un’organizzazione di destra denominata “la Catena”, Bertoli gli aveva risposto di conoscere tale organizzazione, dimostrando di conoscere anche l’ubicazione del relativo ufficio. Che Carlo Maria Maggi conoscesse il Bertoli e lo considerasse un “buon camerata” è stato concordemente confermato da Carlo Digilio e da Pietro Battiston i quali lo avevano sentito usare quell’espressione in una riunione a casa dello stesso Maggi. Testualmente il Battiston: “mi ricordo che in un’occasione, mentre mi trovavo all’interno della sua (di Maggi – n.d.u.) abitazione per una partita a poker, l’ho sentito commentare che Bertoli era un buon camerata. La cosa ovviamente mi rimase impressa in quanto a quel tempo dai mass media veniva rappresentato come anarchico individualista”. Singolare concordanza con l’incredulità dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni nel sentire il Bertoli (nella primavera del 1972) che si dichiarava anarchico. Si è detto di Gianfranco Belloni, (G.I. ’74 e ’92), già informatore del S.I.D., e circa la foto pubblicata su un settimanale, mostratagli dal Negriolli, foto che ritraeva in atteggiamento confidenziale con Franco Freda nel carcere milanese di San Vittore (ovviamente dopo la strage alla Questura); Negriolli (anch’egli informatore del S.I.D.) gli aveva anche detto, nella medesima occasione, che Bertoli era legato a Ordine Nuovo avendo avuto anche contatti con Clemente Graziani. Giovanni Ferorelli, detenuto nel carcere di San Vittore con Bertoli, ricordava che referente di questi era Franco Freda, precisando: “quando Freda ci disse che bisognava portare rispetto a Bertoli perché era un uomo da considerare di destra, noi ci uniformammo” . L’avv. Giangaleazzo Brancalion (G.I. 23.2.74), con riferimento a quanto in precedenza affermato dall’appuntato dei Carabinieri Angelo Toniolo, pur attribuendo a chiacchiere da bar quanto da questi riferito, dichiarava: “nego di aver fatto altre confidenze al Toniolo se non quella che il Sedona conosceva Bertoli molto bene come mi aveva riferito il Negriolli”. Crisetig Giovanna (G.I. 19.12.74 e successivo verbale di confronto), convivente nel 1973 di Camillo Virginio, nell’ambito di ampie dichiarazioni con cui riferiva dei rapporti del Camillo con lo Spiazzi, con il Rizzato e con il Rampazzo nonché dei comportamenti sospetti e minacciosi di questi ultimi ai quali aveva avuto modo di assistere e del terrore di Camillo che aveva finito per fuggire in Nigeria (perché a conoscenza di troppe cose), quanto a Gianfranco Bertoli riferiva quanto segue: “Mi ricordo perfettamente che nel 1973 ci fu un attentato alla Questura di Milano per una bomba lanciata da tale Bertoli. Seguii la vicenda all’epoca per televisione e sui giornali. Tale episodio fu oggetto di commenti nell’officina del Camillo nelle riunioni cui partecipavano Rizzato, Rampazzo e Zoia. Sentii che nei loro commenti davano per certo che si trattava di un attentato fascista. Devo far presente che quando facevano questi discorsi io non partecipavo e solo occasionalmente sentivo qualche parola. Ricordo comunque che.........il Rizzato e il Rampazzo in particolare davano per certo che l’attentatore era un fascista. Mi sembrò di capire che Rizzato e Rampazzo lo conoscessero, nel senso che l’avevano conosciuto alcuni anni prima. Non saprei dire se entrambi avessero conosciuto Bertoli o soltanto uno di loro due”. Anche Liardo Filippo (sentito più volte dal G.I.), dopo aver precisato di essere residente a Spinea, confermava che Sedona gli aveva parlato della sua amicizia con Bertoli; personalmente ricordava di avere visto Bertoli in più occasioni negli anni ’68 e ’69 nella pizzeria “da Gigino”; Sandro Sedona gli aveva detto di essere stato lui a presentare Gianfranco Bertoli al Rizzato e al Rampazzo. Anche nel periodo di permanenza nel kibbutz di Karmia, Gianfranco Bertoli aveva intrattenuto rapporti con appartenenti all’estrema destra, nella specie con i fratelli Jemmy, entrambi inseriti nell’organizzazione francese “Ordre Nouveau” e condannati per affissione illegale di manifesti di tale movimento. Sandro Sedona e Sandro Rampazzo (sentiti dal G.I. rispettivamente il 16.12 e il 3.12.1974) confermavano la reciproca conoscenza e frequentazione; il primo, in particolare, dichiarava di avere conosciuto il Bertoli in carcere a Venezia nel 1963 e lo descriveva come persona che non gli risultava si occupasse di politica o fosse un idealista, incapace di decisioni proprie e in grado di agire solo se suggestionato o stimolato da altri. Lo aveva visto per l’ultima volta nel 1970 a San Tomà (VE). Analoga descrizione del Bertoli è stata fornita da Franco Tommasoni, padovano, estremista di destra in contatto con la malavita comune. Prescindendo dalle opinioni personali da costoro espresse sul Bertoli, il dato rilevante delle loro dichiarazioni è che le stesse, anche in questo caso, confermano quali fossero i personaggi, e quale fosse la loro collocazione politica, conosciuti dallo stesso Bertoli in epoca precedente, ma non lontana, l’attentato del 17 maggio 1973. Infine deve essere rammentata l’amicizia di Gianfranco Bertoli con Rodolfo Mersi, cioé con la persona che l’autore dell’attentato incontrò la sera del 16 maggio ’73 recandosi a fargli visita nella sua abitazione di via Pericle a Milano. Anche Mersi, sindacalista della C.I.S.N.A.L., era uomo di destra e per tanto ben lontano dalle asserite idee anarchiche del Bertoli. ********************** La Corte ritiene che, sulla scorta di tutto quanto detto nella parte della motivazione che precede, si possano ora trarre le seguenti conclusioni, qui richiamate quelle già partitamente assunte a chiusura dei vari e specifici temi trattati: l’attentato compiuto da Gianfranco Bertoli a Milano il 17 maggio 1973 mediante il lancio di una bomba a mano in direzione dell’ingresso del palazzo della Questura in via Fatebenefratelli, attentato che cagionò la morte di quattro persone (oltre a numerosi feriti) e da cui derivò l’imputazione di strage, non fu ideato, deciso e organizzato dal suo autore. Bertoli non agì perché mosso dalla propria scelta ideologicopolitica di “anarchico Individualista”, come lo stesso ha sempre sostenuto, bensì fu solo l’esecutore materiale dell’attentato, in attuazione di un incarico da altri affidatogli. Sicché, come inevitabile deduzione, si deve ritenere che egli fornì la sua falsa versione allo scopo di non svelare il retroscena del suo gesto e i nomi dei suoi mandanti. Lo si può affermare con certezza essendo stata constatata e dimostrata l’assoluta inattendibilità della versione fornita dallo stesso Bertoli, risultata senz’altro falsa su alcuni punti significativi, infine totalmente smentita dalla precisa informazione di ciò che sarebbe avvenuto a Milano il 17 maggio ’73 fornita da Pietro Loredan a Ivo Dalla Costa, a dimostrazione che altri erano a conoscenza dell’imminente attentato; il che si pone in contrasto irriducibile con l’affermazione del suo autore di avere agito per propria esclusiva scelta e iniziativa. Verificata la piena attendibilità di quella informazione e della sua fonte, si deve affermare con altrettanta certezza che l’attentato, come preannunciato, fu diretto contro un importante membro del Governo e che questi altri non poteva essere se non il Ministro degli Interni On. Mariano Rumor, presente quella mattina nel cortile della Questura per assistere alla commemorazione del commissario Calabresi nel primo anniversario della sua uccisione. Al di là della significativa provenienza delle informazioni in possesso del Loredan (che, per ideologia, progetti e frequentazioni, era strettamente legato ad ambienti e personaggi dell’estrema destra veneta, neofascista ed eversiva), in forza di plurime testimonianze e dichiarazioni di collaboratori di giustizia è stata raggiunta piena prova che l’attentato alla vita dell’On. Rumor costituiva, se non il più importante, uno dei principali progetti eversivi di appartenenti a cellule o gruppi dell’organizzazione veneta di Ordine Nuovo, diretto a “punire” Mariano Rumor per essere stato questi, nella sua qualità di Ministro degli Interni, a promuovere lo scioglimento di quell’organizzazione (per ricostituzione del partito fascista) in applicazione della “legge Scelba”, ovvero - come effetto mediato - per determinare, con l’attentato, quello stato di caos e di tensione che avrebbe resa necessaria e infine possibile una svolta autroritaria nel governo della Nazione e l’emanazioni di leggi di emergenza. Il progetto di sovvertire le istituzioni democratiche doveva essere perseguito proprio mediante attentati e stragi, vale a dire attuando quella che è stata definita “strategia della tensione” che pure, per quanto si è detto nella parte della motivazione ad essa dedicata, ha trovato numerosi e validi elementi di conferma. Negli ambienti dell’estrema destra neofascista, all’epoca dei fatti che qui interessano, l’unica formazione in grado di agire concretamente, di compiere attentati, era senz’altro quella di Ordine Nuovo, in particolare i gruppi attivi nel Veneto, tenuto conto della documentata virulenza dell’ideologia politica dei suoi aderenti e dei loro accertati programmi operativi, della effettiva esecuzione di azioni terroristiche nonché della disponibilità di veri e propri arsenali di armi, munizioni ed esplosivi. E’ stato accertato, infine, il ruolo coperto nell’ambito di Ordine Nuovo da Carlo Maria Maggi, principale imputato nel presente processo, un ruolo di assoluto rilievo, di capo carismatico e “militare” per quanto attiene al gruppo di Venezia-Mestre, di supervisore e di coordinatore degli altri gruppi dell’organizzazione operanti nel Nord-Italia. Così pure è stato verificato, per gran numero di coincidenti dichiarazioni, l’inserimento di Gianfranco Bertoli in quegli ambienti di estremismo ed eversione, consistito in conoscenze e frequentazioni anche in epoca recente, rispetto ai fatti in esame - di personaggi che a detti ambienti erano strettamente legati e che in quel contesto operavano. Con il che il cerchio si chiude, atteso che tali collegamenti consentono di affermare con adeguato grado di certezza che proprio in quegli ambienti e da quei personaggi, per più ragioni interessati a colpire l’On. Rumor, Bertoli ricevette l’incarico ( e le relative istruzioni) di compiere l’attentato. Al dunque: esaurito il completo riesame di tutto il materiale probatorio a disposizione, secondo quanto richiesto dai giudici di legittimità con la sentenza di annullamento, riservata al prosieguo la verifica delle personali responsabilità di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami, è ferma e motivata convinzione di questa Corte che, senza alcun possibile dubbio, la strage compiuta da Gianfranco Bertoli fu ideata e decisa, e per loro conto eseguita, da appartenenti ai gruppi veneti di Ordine Nuovo, con buona probabilità a quello di Venezia facente capo al Maggi. Le posizioni di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami Compito conclusivo di questo Giudice di rinvio, come richiesto dalla Corte di Cassazione, è quello di stabilire se - in base agli elementi probatori acquisiti, riferiti specificamente agli imputati, oltre a quelli inerenti al quadro generale in cui si verificarono i fatti - la strage di via Fatebenefratelli possa essere attribuita con certezza al gruppo veneziano di Ordine Nuovo e, sul piano delle personali responsabilità, a Carlo Maria Maggi e a Francesco Neami, come ideatori, organizzatori e mandanti, secondo il ruolo loro rispettivamente assegnato nel capo di imputazione. La Suprema Corte ha indicato, per ciascuno, i principali elementi di prova risultanti dalla sentenza annullata, dai quella di primo grado e dai ricorsi: A carico di Carlo Maria Maggi: 1) le ripetute proposte dello stesso e dello Zorzi, fatte a Vincenzo Vinciguerra tra l’estate del 1971 e il febbraio-marzo ’72, di uccidere l’On. Rumor, essendo state ritenute attendibili, al riguardo, le dichiarazioni del Vinciguerra perché confermate da quelle di Roberto Cavallaro e di Dario Persic; quest’ultimo, tra l’altro, aveva riferito che nell’ambiente di Ordine Nuovo si nutriva profondo risentimento nei confronti di Rumor perché ritenuto essere stato uno dei principali artefici di scioglimento di quell’organizzazione con la richiesta dell’applicazione della legge Scelba. 2) quanto risultato dal già citato rapporto della DIGOS presso la Questura di Venezia in data 25.6.86 relativo alla storia e alle vicende di Ordine Nuovo nel Veneto e al ruolo di Carlo Maria Maggi. 3) Dalle notizie raccolte dalla DIGOS era emerso che gli stessi uomini che avevano gestito i Centri Studi di Ordine Nuovo avevano anche tirato le fila dell’attività eversiva di quel movimento, come risultato anche dalle dichiarazioni rese da Dario Persic al Giudice Istruttore. Persic, simpatizzante dell’estrema destra e in contatto con esponenti di Ordine Nuovo del Veneto era amico di Marcello Soffiati fin dal 1968; tramite questi aveva conosciuto il Maggi, il Digilio e il Minetto; Maggi gli era stato descritto dal Soffiati come personaggio di spicco nel gruppo veneziano di O.N., secondo solo al Minetto; sempre secondo Dario Persic, il Soffiati teneva nell’appartamento di via Stella a Verona un gran numero di armi e grosse quantità di esplosivo (tra cui anche bombe a mano) che aveva avuto modo di vedere dal 1972 al 1974 e anche dopo che in via Stella era andata ad abitare Anna Maria Bassan; sempre secondo quanto riferitogli dal Soffiati, era Carlo Digilio a procurare tali armi ed esplosivi. Il Persic aveva preso parte ad alcune riunioni in una delle quali, nel 1970/71, presenti Maggi-Minetto-Soffiati e Digilio, si era parlato di una imminente rivoluzione che sarebbe avvenuta con l’appoggio degli americani. 4) Maggi aveva svolto un ruolo di primo piano nella strategia della tensione: oltre a quelle del Persic, sono richiamate le dichiarazioni di Pietro Battiston ( Maggi, nel periodo successivo al dicembre 1973, sosteneva la necessità di utilizzare lo strumento degli attentati e delle stragi per costituire il terreno sul quale potesse attecchire una vera e propria rivoluzione di destra) nonché quelle di Marzio Dedemo secondo cui Maggi, in riunioni tenutesi a Milano e precedenti alla prima metà del 1973, alle quali avevano partecipato anche ex-repubblichini, aveva proposto di attuare una strategia di attentati dimostrativi la cui responsabilità si doveva far ricadere sulla sinistra. 5) La lettera in data 17.12.79, ritenuta significativa dalla Corte di primo grado, spedita da Maggi all’amico e camerata Miriello nella quale, riferendosi a Giancarlo Rognoni Che era stato ritenuto responsabile anche dell’attentato del 7.4.73 al treno direttissimo Torino-Roma) si affermava che Rognoni “per una serie di disavventure – chi non è senza peccato scagli la prima pietra – si è beccato un certo numero di anni di galera che sta scontando nel supercarcere di Cuneo”. Questa Corte ha individuato e preso in esame anche altri elementi di giudizio relativi al diretto coinvolgimento di Carlo Maria Maggi nella vicenda che ci occupa e secondo il ruolo indicato, elementi che di seguito si espongono: Piero Battiston, esponente milanese di Ordine Nuovo, in stretti contatti con Maggi e, latitante, da questi ospitato a Venezia in periodo successivo al dicembre 1973, aveva dichiarato al Giudice Istruttore, tra l’altro “ho rivisto Digilio nel corso della sua latitanza in Venezuela nel 1984 circa. Ricordo che durante un discorso, alla presenza di Raho, Digilio riteneva di essere stato incastrato dal Maggi e disse che era a conoscenza della sua implicazione in fatti estremamente gravi; più specificamente ci disse che egli sapeva della bomba”. Sentito in proposito, Carlo Digilio, rispondeva: “sinceramente ricordo di avere incontrato in Venezuela Raho e Battiston e di avere parlato con gli stessi di molte cose. Sinceramente non ricordo le specifiche frasi dette nell’occasione anche perché si trattavano vari argomenti. Comunque se, come mi dite, Battiston ha dichiarato che io gli avrei detto che sapevo della bomba riferendomi al Maggi e della sua implicazione in fatti estremamente gravi, certamente dice il vero anche se non ricordo il discorso specifico. Come lei sa (si rivolge al G.I. – n.d.u.) ho parlato di responsabilità di Maggi sia per l’episodio di piazza Fontana che per la bomba di Bertoli alla Questura di Milano. Se ho detto effettivamente della bomba riferendomi a Maggi, due sono le ipotesi per cui posso aver fatto riferimento alla sua responsabilità: o per piazza Fontana o per la bomba alla Questura”. In merito alle dichiarazioni su riportate la Corte osserva: è noto come Carlo Digilio abbia attribuito a Carlo Maria Maggi un ben preciso ruolo nella ideazione e preparazione dell’attentato di via Fatebenefratelli ma quelle sue specifiche dichiarazioni, costituenti a tutti gli effetti chiamata in correità, non possono essere utilizzate perché così stabilito dalla Suprema Corte (se ne tratterà più avanti); limitando quindi l’esame alle sole dichiarazioni del Digilio, rese a risposta e a chiarimento di quelle del Battiston, il riferimento alla responsabilità del Maggi appare del tutto generico, privo di specifici ragguagli di tempo, luogo e modalità, tali da consentire la ricerca e individuazione di elementi di riscontro. Più articolate, ma tutt’altro che decisive, le dichiarazioni rese al Giudice Istruttore da Martino Siciliano sullo specifico punto. Si ritiene opportuno richiamarle testualmente: “Oltre che con gli altri militanti si Ordine Nuovo ho avuto spesso contatti con Carlo Maria Maggi, l’ultimo dei quali nel maggio del 1995 quando gli telefonai dalla Colombia. L’ultima volta che sono stato a Venezia è stato nel 1993 e l’ultima volta che ho visto Maggi credo sia stato nel 1992. Andai a trovarlo nell’ospedale geriatrico Giustinian di Venezia dove egli esercita..........Maggi era responsabile operativo di O.N. per il Triveneto e successivamente per la Lombardia quando si costituì il gruppo di Rognoni.........” Dopo aver riferito le confidenze del dr. Maggi circa la vecchia conoscenza di questi con Gianfranco Bertoli, Siciliano aggiungeva: “Circa quindici-venti giorni dopo la strage del 17.5.73 passò per Mestre Zorzi e mi incontrai con lui.....Zorzi parlando della situazione politica in Italia mi disse ^l’episodio Bertoli è inquadrato nella nostra strategia ^ e mi confermò che Bertoli era un camerata, che era stato sempre attestato su posizioni di estrema destra ed era conosciuto molto bene dal dr. Maggi, con il quale si era frequentato per lungo tempo...........sentii più volte , in occasione di discorsi nell’ambiente di Ordine Nuovo, e in particolare nell’ambito della cellula di Ordine Nuovo di Mestre, negli anni dal 1970 al 1973, parlare della necessità di eliminare un bersaglio politico importante, sempre nell’ottica della strategia del gruppo. In colloqui prima singoli e poi insieme con Zorzi, Maggi e Molin, con i quali ero direttamente in contatto, sentii più volte dire espressamente dagli stessi che l’obiettivo da colpire era l’On. Rumor........In sintesi: nel 1972 si discuteva tra i predetti Maggi, Zorzi e Molin di un progetto di attentato a Rumor; tuttavia, considerata la mia sospensione da O.N. avvenuta alla fine del 1972, non mi furono forniti dettagli operativi su questo progetto”. Giuseppe Albanese, riferendo quanto appreso in carcere da Gianfranco Bertoli, con il quale era entrato in confidenza, ha affermato che, a detta dello stesso Bertoli, questi aveva compiuto l’attentato contro Rumor confidando sul promesso appoggio di non meglio indicati “camerati del Veneto”, con i quali era legato, appartenenti a un gruppo facente capo allo Spiazzi. A parte quelli richiamati dalla Corte di Cassazione e quelli testé indicati, non sono stati individuati altri elementi indiziari o probatori riferiti al thema decidendi della personale e diretta partecipazione di Carlo Maria Maggi ad uno specifico progetto di attentato nei confronti dell’allora Ministro degli Interni, né tanto meno all’ideazione, deliberazione e organizzazione dell’attentato alla Questura di Milano. L’imponente quantità di elementi raccolti nel corso della lunga istruttoria, sia di natura documentale che testimoniale, di cui sono stati citati ed esaminati quelli di maggior rilievo, hanno consentito di individuare con certezza, come si è detto, il contesto politico-eversivo in cui ebbe origine il gravissimo episodio stragista del 17 maggio 1973 nonché di attribuirlo ad appartenenti all’organizzazione di Ordine Nuovo che operava in quel contesto, secondo metodi e finalità ormai noti. Ha consentito inoltre di attribuire a Carlo Maria Maggi un ruolo di sicuro rilievo nell’ambito di quell’organizzazione, che lo vedeva a capo del gruppo Ordinovista veneziano e, per la sua qualifica di ispettore per il Triveneto, in costante contatto con tutti i più importanti componenti dei vari gruppi. Maggi era quindi al vertice dell’organizzazione, secondo solo al Minetto e – in campo nazionale – al Signorelli; egli era inoltre uno tra i più accesi teorizzatori e propugnatori della linea stragista, della violenza come metodo di lotta politica, del conseguimento degli scopi di Ordine Nuovo – anche la realizzazione di un colpo di Stato – mediante attentati. Maggi, inoltre, era in stretto contatto con persone che, facenti parte dell’organizzazione, detenevano per conto dei gruppi di Ordine Nuovo arsenali di armi, munizioni ed esplosivi. Infine, Carlo Maria Maggi - con Zorzi e Molin – in un tempo di poco precedente alla strage di via Fatebenefratelli, aveva apertamente parlato dei suoi progetti, con particolare riferimento alla necessità di colpire un importante uomo politico e indicato come bersaglio proprio l’On. Rumor. E’ dunque ragionevole, e corrispondente a una valutazione logica dei dati di fatto accertati, ritenere probabile che l’attentato per cui si procede sia stato deciso e organizzato proprio nell’ambito del gruppo ordinovista facente capo al Maggi. Ma il giudizio di probabilità non è sufficiente per affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto a lui ascritto. Non soccorre, in proposito, quanto dichiarato da Vincenzo Vinciguerra circa le proposte, fattegli da Maggi e Zorzi, di compiere un attentato alla vita dell’On. Rumor: la Corte di Cassazione, pur riferendo le proprie considerazioni all’inadeguatezza di quelle dichiarazioni come riscontro al racconto del Digilio circa i fatti di via Stella, ha implicitamente ritenuto di scarso rilievo probatorio tali proposte perché relative a un fatto diverso, “progettato in epoca antecedente e con modalità nettamente diverse”. Al fatto in questione, per i fini che qui riguardano, può attribuirsi solo il valore indiziario, dimostrativo, al più, dei progetti eversivi dell’imputato. Vale a dire lo stesso valore delle dichiarazioni con cui Martino Siciliano ha riferito, anch’egli in modo generico, di progetti del Maggi di attentare alla vita del Ministro degli Interni. Si deve dare e prendere atto che nel caso in esame il ruolo di organizzatore e mandante, attribuito dall’accusa a Carlo Maria Maggi, non trae fondamento da precise e riscontrate chiamate in reità o correità, in testimonianze o in altri mezzi di prova idonei a stabilire con certezza l’effettivo collegamento tra il presunto mandante ed l’esecutore materiale della strage. Dal Giudice Istruttore e dai giudici di primo grado quel collegamento era stato individuato nelle dichiarazioni di Carlo Digilio. Se ne è riferito diffusamente nella parte espositiva della motivazione: in sintesi, Digilio aveva sostenuto che uno o forse due mesi prima della strage del 17.5.73 Gianfranco Bertoli era stato ospitato, o meglio custodito, per circa una settimana nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona (via Stella) su richiesta di Maggi; ivi, anche in presenza del Digilio e dello stesso Maggi, Bertoli era stato convito e preparato a compiere l’attentato, prima dal Neami e poi dal Boffelli. Per i primi giudici tali dichiarazioni dovevano ritenersi intrinsecamente attendibili e fornite di riscontri. Non così per i giudici di appello che avevano evidenziato l’interesse del dichiarante alla chiamata in correità, contraddizioni nel suo racconto, inattendibilità dello stesso Digilio per via delle sue sopravvenute condizioni fisiche e psicologiche. Il punto (cioé il giudizio di attendibilità di quanto dichiarato da Carlo Digilio) è stato oggetto delle critiche formulate dal Procuratore Generale con il ricorso per cassazione. La Suprema Corte, esaminate le argomentazioni del ricorrente e gli elementi di riscontro indicati, ha confermato quanto deciso dai giudici di appello dichiarando “non utilizzabili” le dichiarazioni del Digilio nel riesame dell’impianto accusatorio rilevando che “gli elementi indicati come riscontro, in realtà, consistono in elementi autonomi di prova che servono certamente a incrinare la credibilità di Bertoli, come anarchico individualista lontano da qualsiasi contatto con gruppi associati o eversivi, ma nulla aggiungono o chiariscono in ordine alla sua presenza in Verona nella casa di via Stella”. A questo giudice di rinvio non resta che adeguarsi alla precisa statuizione della Corte regolatrice. Le dichiarazioni di Carlo Digilio rimangono utilizzabili, perché ritenute attendibili e riscontrate (Cass. sentenza di annullamento, pag. 31) solo sui seguenti punti: 1) può ritenersi certo che Digilio ben conoscesse la casa di via Stella a Verona e sapeva che il gruppo di O.N. del Veneto la utilizzava come base per attività di vario genere; 2) l’appartenenza al gruppo degli odierni imputati, con i rapporti gerarchici indicati e la loro dedizione all’attività eversiva; 3) i rapporti di conoscenza fra Bertoli e alcuni esponenti del gruppo Ordine Nuovo. Il che, se costituisce ulteriore conferma a un quadro già ben delineato, nulla aggiunge circa il personale e diretto coinvolgimento del Maggi. Rimangono da esaminare due dati indiziari, sotto certi aspetti inquietanti ma – è bene dirlo subito – di scarso valore probatorio. Il primo riguarda la frase attribuita dal teste Mazzari a Rodolfo Mersi; il secondo l’oggetto e il contenuto della conversazione avvenuta a Venezia, nel ristorante “lo Scalinetto”, tra Maggi, Boffelli e Digilio due o tre giorni dopo la strage della Questura. Il Mazzari, cameriere nello stesso ristorante milanese dove all’epoca lavorava Rodolfo Mersi, ha ricordato e riferito che la sera del 16 maggio 1973, verso le ore 23, aveva sentito il Mersi pronunciare la seguente frase al telefono: “pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra 35/40 minuti”; ha ricordato inoltre che Mersi, per la telefonata, aveva usato un solo gettone. Di quella frase è stata prospettata la seguente interpretazione: Mersi doveva essersi messo in contatto telefonico con Carlo Maria Maggi dato che questi era chiamato da tutti “dottore” e, infatti, Mersi aveva usato quel titolo rivolgendosi al suo interlocutore; lo scopo della telefonata sarebbe stato quello di informare Maggi dell’arrivo di Bertoli, con l’espressione, per così dire in codice, “è già arrivato il treno”. Una siffatta interpretazione di quella telefonata sarebbe senz’altro fantasiosa se non fosse che il Mersi, tentando di fornirne una improbabile spiegazione, ha finito per attribuirle un qualche significato indiziante. Rodolfo Mersi ha affermato di avere telefonato alla moglie verso le 22,30 per preannunciarle il proprio ritorno a casa, come era solito fare, e anche perché in precedenza, sempre per telefono, la moglie lo aveva informato della visita e della presenza del Bertoli; aveva pronunciato la parola “dottore” in modo scherzoso riferendosi proprio al Bertoli; aveva parlato del treno ritenendo che Bertoli, come poi effettivamente avvenuto, dovesse recarsi alla stazione ferroviaria. E’ evidente come la spiegazione del Mersi sia tortuosa e inverosimile, ma per affermare che lo stesso si fosse messo in contatto proprio con Maggi, per avvertirlo dell’arrivo di chi avrebbe eseguito l’attentato la mattina successiva, è altrettanto evidente che si dovrebbe ricorrere a una pura illazione. Del resto è non si può escludere che il Mazzari non abbia sentito bene o che non abbia riferito esattamente quanto sentito, ovvero ancora che il Mersi (il quale, si badi, si presentò spontaneamente in Questura poche ore dopo l’attentato per riferire quanto sapeva su Bertoli) abbia tentato la sua improbabile spiegazione perché preoccupato a causa del contatto avuto con l’autore della strage proprio la sera precedente al fatto. Carlo Digilio, nelle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore, aveva tra l’altro riferito: “Quando appresi dagli organi di informazione radiotelevisiva della strage alla Questura di Milano, che mi dite essere avvenuta il 17.5.73, mi ritrovai a cena al ristorante Lo Scalinetto in modo del tutto casuale. Questa cena avvenne qualche giorno dopo il 17.5.1973 ma non so precisare il giorno esatto. Maggi ci offrì la cena ma lo vidi poco loquace, era abbattuto e l’atmosfera era brutta. Si parlò pochissimo. Ricordo che Maggi chiedeva ripetutamente a Boffelli come mai Bertoli avesse sbagliato e le cose non fossero andate secondo il programma, come mai non era stato colpito Rumor. La risposta di Boffelli fu stizzosa e disse ^siamo tutti esseri umani e tutti possiamo sbagliare^. Il dottore disse a Boffelli che loro mercenari non davano affidamento. Boffelli, ricordo, si risentì anche dicendo che un errore nel lancio poteva accadere a tutti”. Anche in questo caso, più che i commenti di Maggi e di Boffelli, inducono perplessità proprio i tentativi di quest’ultimo di spiegare diversamente la risposta che aveva dato circa il fallimento dell’attentato: aveva inteso dire che l’attentatore aveva sbagliato non nel lancio della bomba ma ad aver commesso quel fatto. E’ chiaro che tale spiegazione non regge, sicché deve ritenersi certo che Boffelli, con il suo commento, si riferì alle errate modalità dell’azione, tentando di giustificare l’imperizia di Bertoli. Detto questo, però, la Corte non ritiene che i discorsi di Maggi e di Boffelli allo “Scalinetto” possano costituire indizio univoco del coinvolgimento dell’imputato (e dello stesso Boffelli), come mandante, nell’attentato di via Fatebenefratelli. Questa è solo una delle possibili interpretazioni dell’episodio in questione, ma nulla si oppone a far ritenere che lo stesso riguardasse semplicemente il commento al fatto, espresso da persone che, in quei tempi, si può ben dire non facessero altro se non parlare di attentati e colpi di Stato. Il riferimento ai “mercenari” può essere alternativamente spiegato con il passato del Boffelli e con i trascorsi Israeliani dell’autore della strage, del quale furono subito rese note identità e provenienza. L’accenno al “programma”, in base al quale Bertoli doveva compiere l’attentato, si ricollega alla parte più significativa, non utilizzabile, delle dichiarazioni del Digilio Si tratta, comunque, di un dato indiziario di scarso rilievo in quanto non connotato dai requisiti di gravità e di concordanza con altri indizi univocamente valutabili a carico dell’imputato. La mancanza di specifiche dichiarazioni di contenuto accusatorio (testimonianze o chiamate in reità/correità) così come di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (secondo quanto richiesto dall’art. 192.2 C.p.p.) non può essere sopperita dall’attribuzione, con buon grado di probabilità, dell’ideazione e organizzazione dell’attentato al gruppo veneziano di Ordine Nuovo e, di conseguenza, al Maggi che di quel gruppo era il capo. Essere a capo di un’organizzazione che persegue finalità criminose, eversive nella specie, non può costituire di per sé prova che di tutte le azioni delittuose a questa riferibili sia penalmente responsabile chi riveste un ruolo di vertice nell’organizzazione. Tale condizione personale, come nel caso di Carlo Maria Maggi, costituisce un dato di fatto idoneo, semmai, a confermare e ad attribuire valore di prova a un valido quadro indiziario acquisito, integrandolo sul piano logico, ovvero a fornire risconto (sempre sotto il profilo logico) a chiamate in reità o correità precise e attendibili. Secondo questa Corte l’attentato del 17 maggio 1973 deve essere attribuito, con certezza, all’organizzazione Ordine Nuovo, in specie ai gruppi del Veneto - con probabilità a quello di Venezia-Mestre – ma, in presenza di elementi di prova insufficienti, non ritiene si possano individuare precise e personali responsabilità essendo ragionevolmente possibile che il mandato ad eseguire l’attentato sia stato conferito al Bertoli da altri esponenti di gruppi ordinovisti veneti che, come si è accertato, all’epoca condividevano la “linea stragista”, meditavano attentati, auspicavano un colpo di Stato e disponevano di consistenti quantità di armi, munizioni ed esplosivi. Per Francesco Neami la Corte di Cassazione ha richiamato i seguenti elementi valutati nelle precedenti sentenze, sostanzialmente gli unici a disposizione di questo Giudice di rinvio: Neami era stato responsabile del Centro triestino di Ordine Nuovo; rientrato nel M.S.I., ne era stato espulso nel 1973 per indisciplina; manteneva contatti con Maggi e Digilio; aveva ammesso la propria partecipazione nell’episodio dell’avv. Forziati. Il Neami conosceva bene il covo di via Stella a Verona ancor prima che Digilio riferisse dell’episodio Forziati; infine la necessità del Maggi di servirsi di elementi del gruppo di Trieste dato che nel 1973 la cellula di Mestre era praticamente smantellata. Tali elementi probatori, come si vede, attengono alla collocazione politica dell’imputato, alla sua adesione a Ordine Nuovo (gruppo di Trieste), ai suoi contatti con il Maggi e il Digilio; nulla dicono circa gli specifici fatti a lui attribuiti nel capo di imputazione (avere cioé partecipato all’organizzazione dell’attentato del 17.5.73). Tale imputazione si fondava, e traeva i suoi elementi di prova, sulle dichiarazioni di Carlo Digilio relative alla permanenza di Gianfranco Bertoli nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona, dove il Bertoli sarebbe stato “convinto” e addestrato proprio dal Neami ad eseguire l’attentato. La statuita inutilizzabilità di dette dichiarazioni ha fatto venir meno l’unica risultanza probatoria a carico del Neami il quale per tanto, in riforma della sentenza appellata, deve essere assolto dall’imputazione di strage ascrittagli per non avere commesso il fatto, a sensi dell’art. 530.1 C.p.p. Stante l’insufficienza degli elementi di prova a suo carico, tale essendo la valenza dei dati raccolti e residuati a seguito dell’impossibilità di utilizzare la chiamata in correità formulata dal Digilio, anche Carlo Maria Maggi deve essere assolto dalla imputazione di strage per non avere commesso il fatto, ma a sensi dell’art. 530, secondo comma, C.p.p.””” =================== Come la stessa Corte di Cassazione ha rilevato, gli elementi acquisiti a carico di Giorgio Boffelli sono i sguenti: è risultato che lo steso aveva sempre frequentato a Venezia ambienti si estrema destra, che tra il 1966 e 1967 era stato mercenario nel Congo, che fino al 1977 aveva frequentato la trattoria “lo Scalinetto” dove si incontrava con Maggi, Digilio e Soffiati; aveva fatto da guardaspalle al Maggi e aveva intrattenuto rapporti di amicizia con Giampiero Mariga il quale, secondo Martino Siciliano, si accompagnava con Gianfranco Bertoli. Il Boffelli, qualche giorno dopo l’attentato, rispondendo al Maggi che voleva spiegazioni, aveva tentato di giustificare il Bertoli sostenendo che a tutti poteva accadere di sbagliare. Boffelli, nei suoi interrogatori, aveva ammesso di aver pronunciato quella frase ma le aveva attribuito un diverso significato. Infine il Boffelli aveva mostrato di sapere che Bertoli parlava la lingua ebraica; aveva spiegato di aver appreso quel particolare dalla lettura di un quotidiano ma, come giustamente osservato dalla Corte d’assise, quel riferimento il Boffelli lo aveva fatto al G.I. quando la notizia che Bertoli conosceva l’ebraico non era stata ancora pubblicata. Osserva questa Corte che, come per il Neami, anche per Giorgio Boffelli l’imputazione di concorso nella strage compiuta da Gianfranco Bertoli il 17 maggio 1973 era esclusivamente fondata, e ne traeva unico ma decisivo elemento di prova, sulle dichiarazioni rese da Carlo Digilio secondo cui il Boffelli aveva preso parte alla “custodia” del Bertoli nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona,in via Stella. Ivi l’autore materiale della strage, a detta del Digilio, era rimasto per circa una settimana, uno o due mesi prima dell’attentato alla Questura di Milano, ed era stato convinto e addestrato, sia dal Neami che dal Boffelli, proprio in vista dell’esecuzione di detto attentato. La Suprema Corte, con la motivazione della sentenza di annullamento, ha statuito la non utilizzabilità delle dichiarazioni del Digilio sullo specifico punto di cui sopra stante la carente attendibilità intrinseca del dichiarante e la mancanza. comunque, di adeguati elementi di riscontro ai fatti riferiti. Esclusa, dunque, la chiamata in correità formulata da Carlo Digilio, a carico del Boffelli residuano solo elementi del tutto generici, riferibili alla sua appartenenza al gruppo veneziano di Ordine Nuovo, alla sua assidua frequentazione di personaggi che a quel gruppo facevano capo all’epoca dei fatti, in particolare di Carlo Maria Maggi al quale l’imputato faceva da guardaspalle, infine la conoscenza con Gianfranco Bertoli, probabilmente da lui incontrato anche nel periodo in cui lo stesso Bertoli ha sostenuto di non avere mai lasciato lo Stato di Israele. E’ ovvio che l’accertata appartenenza del Boffelli a quel gruppo, avente finalità eversive, nulla prova in ordine alla specifica imputazione di avere concorso nell’organizzazione dell’attentato di via Fatebenefratelli. Nè tale prova può essere ravvisata nell’unico episodio, per così dire indiziante, relativo al colloquio avuto dal Boffelli con il Maggi (presente il Digilio e da questi riferito) nel ristorante “lo Scalinetto” a Venezia due o tre giorni dopo la strage del 17 maggio 1973. Al riguardo si richiamano le considerazioni fatte nella sentenza in data 1.12.2004 riportata integralmente e le si ribadiscono con riferimento all’imputato: il tentativo di questi di spiegare o giustificare l’errore compiuto da Bertoli nel lancio della bomba (“tutti possono sbagliare”), sollecitato in proposito da una domanda di Carlo Maria Maggi, deve ritenersi dato indiziario irrilevante sia di per sé (è ben possibile che Maggi e Boffelli si fossero limitati acommentare l’attentato - cosa tutt’altro che eccezionale visto che nell’ambiente non si parlava che di attentati e di colpi di Stato - il che non prova in alcun modo che fossero stati proprio loro gli organizzatori e i mandanti) sia perché non correlato con altri indizi gravi, precisi e concordanti a Carico del Boffelli. L’imputato, per tanto, in riforma della sentenza appellata, deve essere assolto dalla imputazione di strage a lui in concorso ascritta per non avere commesso il fatto. P.Q.M. la Corte, visto gli artt. 88 e 479 C.p.p. 1930, decidendo in sede di rinvio - e nei limiti stabiliti dalla sentenza di parziale annullamento della decisione di secondo grado emessa il 27 settembre 2002 dalla Corte d’assise di Appello di Milano - sull’appello proposto da Boffelli Giorgio contro la sentenza in data 11 marzo 2000 dalla Corte d’assise di Milano, in riforma della sentenza appellata, assolve Boffelli Giorgio dall’imputazione di strage ascrittagli per non avere commesso il fatto. Indica il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza. Milano 22 febbraio 2005. ll Consigliere estensore Il Presidente (dr.Ferdinando Pincioni) (Dr.Camillo Passerini) INDICE L’istruttoria.........................................................................pag. La sentenza di primo grado...............................................pag. Gli atti di appello................................................................pag. Il processo e la sentenza in grado di appello.....................pag. 2 23 40 46 Motivi della decisione............................................pag. 66 La versione di Gianfranco Bertoli.......................................pag. 83 La vicenda Loredan-Dalla Costa.......................................pag. 132 I progetti di attentato alla vita dell’On. Rumor................ pag. 155 La strategia della tensione...............................................pag. 172 Ordine Nuovo:sue attività eversive e ruolo di Carlo Maria Maggi............................................pag. 190 I rapporti di Bertoli con ambienti e personaggi della destra eversiva veneta e con C. M. Maggi............. pag. 209 Le posizioni di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami.........................................................pag. 219 Si ritiene opportuno riportare alcuni passi dell’ordinanza del G.I., tratti a loro volta da quella relativa al rinvio a giudizio di Gianfranco Bertoli avanti la Corte d’assise di Milano: “L’imputato è stato riconosciuto dai consulenti psichiatrici perfettamente capace di intendere e di volere al momento dei fatti; le sue facoltà intellettive, ad avviso dei periti, appaiono grandemente sviluppate. Il suo discorso è sempre infiorato di citazioni degli autori più vari; a volte egli assume durante gli interrogatori un tono profetico (^Ho ucciso per amore degli uomini e della libertà; ho buttato la bomba per comunicare con gli altri uomini^); a volte ambiguo, come quando tende a eludere le domande insidiose rifugiandosi in frasi d’autore ripetute a memoria. Va poi sottolineato questo: mentre a volte l’imputato è precisissimo, altre volte è evasivo, e quando su tali punti si riesce a fargli fornire particolari, viene smentito dalle risultanze processuali. Il fulcro della personalità di Bertoli è caratterizzato da una incapacità assoluta di inserirsi nella società, che si risolve fin dagiovane nel desiderio di andare contro le norme. Diviene abituale frequentatore dell’ambiente della malavita e colleziona una serie impressionante di denunce e condanne per reati contro la persona e contro il patrimonio. A Mestre, Padova, in Israele egli si qualifica anarchico, ma la sua adesione all’ideologia anarchica appare più una reazione viscerale alla incapacità di inserimento nel sistema, anziché avere un fondamento razionale. Non si spiegherebbero altrimenti i suoi stretti legami con la malavita, la sua propensione ad atti delinquenziali, la facilità di intesa con personaggi di ideologia del tutto opposta.Si pensi al Mersi sindacalista della CISNAL, a Sandro Sedona implicato in un’inchiesta contro un gruppo neofascista, agli elementi di destra cui in passato vendette armi,agli Jemmy in Israele simpatizzanti per ^Ordre Nouveau^. La tesi individualista contrasta sul piano logico e sul piano probatorio con la realtà dei fatti, come evidenziato dalle numerose contraddizioni del suo racconto. Tale tesi non regge neppure a un attento vaglio delle sue attitudini personali: ^per incapacità di trasformare in azione le sue idee e per mancanza di mezzi aveva sempre la necessità di appoggiarsi a qualcuno; era in realtà un gregario che si faceva facilmente suggestionare ad agire^ dice di lui il Coser, tipico esponente della malavita padovana con idee nazionalsocialiste. Il suo desiderio di far qualcosa di dimostrativo che avesse significato di rivolta contro la società probabilmente ha costituito però solo il terreno fertile su cui altri ha seminato, lo ha solo agevolato sul piano psicologico nel risolversi a compiere l’attentato.Confortano tale convincimento le reticenze dell’imputato, le suaccennate contraddizioni sul luogo dove asportò la bomba, sui contatti avuti in Israele e a Marsiglia, sull’ora di arrivo in via Fatebenefratelli, sul momento in cui venne a conoscenza della manifestazione. Avvalorano tale tesi la sua abituale necessità di appoggiarsi a qualcuno per agire, la sua disponibilità a compiere atti criminosi per altri, i suoi contatti con elementi di ideologia contrapposta.Sintomatiche sono poi le sue risposte a precise domande nell’interrogatorio del 17.1.1974 ^sono un anarchico individualista e non avrei alcuna difficoltà, per attuare un’azione di rivolta, ad utilizzare mezzi e occasioni che mi fossero offerti da ambienti ideologicamente del tutto diversi (forze di destra, polizia). Per esempio al tempo dell’attentato ad August Vaillant, avvenuto verso la fine del secolo scorso nel parlamento francese, si disse che era stata la polizia ad armare la mano dell’attentatore e che lo stesso, pur sospettandolo, ugualmente effettuò l’attentato. Non ho nessuna obiezione di principio su tale fatto^. L’accenno al Vaillant è particolarmente calzante per inquadrare la contraddittoria personalità dell’imputato; un anarchico disponibile, pronto a utilizzare e sfruttare mezzi e occasioni, fornitigli anche da ambienti a lui lontanissimi sul piano sociale e ideologico, magari miranti ad altri obiettivi, pur di realizzare qualcosa di clamoroso, anche un atto terroristico che evidenziasse la sua non adesione al sistema. Si prospetta dunque la inquietante ipotesi che Bertoli sia stato manovrato. Certo è che la pregressa disponibilità ad atti criminosi, per la sua facile suggestionabilità ad agire, per la sua fin troppo evidente etichetta di anarchico per fede conclamata, il Bertoli appare elemento veramente idoneo ad essere strumentalizzato. Indubbiamente l’imputato difficilmente potrebbe ammettere una tale versione dei fatti. Lo ha fatto solo in linea di ipotesi astratta riferendosi all’anarchico francese............Analizzando la personalità contraddittoria dell’imputato, tenute presenti le sue posizioni ideologiche, il suo comportamento prima della strage e le contraddizioni negli interrogatori, nasce dunque il sospetto che qualcuno dietro Bertoli abbia mosso le fila, qualcuno che magari lo abbia agevolato in passato valutandone il potenziale eversivo, riservandone poi l’utilizzo al momento opportuno. Certo l’imputato può avere anche mentito in qualche occasione per non coinvolgere nella vicenda individui estranei ai fatti, ma non appare infondata l’ipotesi che egli voglia coprire corresponsabili”. Analoghi concetti si rinvengono in un articolo pubblicato nel primo numero del periodico “Per Noi”: “quando parliamo di fascismo noi non ci riferiamo soltanto a una particolare dottrina dello Stato, ma ci riferiamo a una precisa Weltanschunung che è propria di un tipo d’Uomo che è negli antipodi dell’attuole uomo-massa. Il Fascista capisce la vita come una dura lotta e si prepara ad affrontarla intrepidamente. La vita è per lui una missione verso la propria società per il miglioramento di essa e consiste nel salvare e conservare per i discendenti la civiltà tramandataci dai padri, una civiltà fondata sugli eterni valori eroici e spirituali. Il fascista è, proprio per questa sua mistica concezione della vita, caratterizzato da un particolare stile: lo stile del legionario”. E ancora (memoria difensiva di Clemente Graziani): “la violenza, come la guerra, che ne è l’espressione ultima e totale, può essere giusta e ingiusta, santa o criminale, borghese, proletarie e rivoluzionaria. I veri movimenti rivoluzionari, proprio perché lottano per realizzare una rivoluzione, fin quando possono mirano ad affermare la loro idea in modo pacifico. Solo quando le idee portate avanti dalla rivoluzione cominceranno a far presa, viene a esplodere da un lato la repressione, dall’altro la volontà della rivoluzione di sopravvivere e la consapevolezza della stessa del diritto alla contro-violenza. E questa contro-violenza, nelle rivoluzioni autentiche, è ristabilizzatrice di un ordine più alto di valori” dal rapporto del S.I.S.M.I. in data 12.6.95 con cui, a seguito di ordine di esibizione, trasmetteva il Rapporto del Centro C.S. di Verona datato 8.5.1966 ed allegati verbali di sequestro: 18 pistole di marche e calibro diversi – 29 detonatori al fulminato di mercurio e T4 del 22° Stabilimento del Genio militare di Pavia – un silenziatore per pistola Mauser – 8 caricatori per moschetto mitragliatore automatico Beretta – 621 pallottole di vario calibro – 9 fondine di vario tipo in cyoio – (nell’abitazione livornese del Massagrande): 4 razzi da segnalazione, 7 rotoli di miccia detonante – tre pistole di cui una P38 e 2 Beretta – 39 saponette di tritolo – una scatola di detonatori elettrici – tre barattoli di gelatinizzante israelianoM.C. 13 – 2000 pallottole di vario calibro; (nell’appartamento di Reverè Veronese): 15 moschetti automatici Beretta di vari modelli – 4 “machine pistole” – 3 pistole mitragliatrici Sten – 5 moschetti 91/38 – 3 fucili Garand – un fucile mitragliatore Browning - 2 fucili mitragliatori di marca straniera – un fucile mitragliatore Breda con due canne – una pistola lanciarazzi – 134 saponette di tritolo per complessivi 26,800 chilogrammi – 23 rotoli di miccia detonante – 4 artifici lacrimogeni di tipo R - 3 bombe a mano M.K. 2 – 55 capsule elettriche – 55 detonatori al fulminato di mercurio – 8 mine antiuomo – 2 barattoli di gelatinizzante israeliano M.C.13 da grammi 900 caduno – 50 caricatori per armi automatiche – circa 20.000 cartucce per le armi di cui sopra, e altro materiale ! Il Persic dichiarava, tra l’altro: “voglio precisare che mi sono indotto a rivelare ogni elemento a mia conoscenza sul Soffiati e le altre persone che ho conosciuto a partire dal 1968/69, avendo preso coscienza della gravità dei fatti riconducibili a tali persone. Non sono mai stato iscritto a nessun partito né ho mai avuto la tessera di nessun gruppo politico. Non ho mai subito procedimenti penali per appartenenza a gruppi della estrema destra, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale o altri. Ho qualche precedente per reati comuni e cioè per bancarotta a seguito di un fallimento. Prima dei verbali che ho reso ai R.O.S. ed ai magistrati suddetti non ero mai stato sentito da altri magistrati su Soffiati e i suoi amici....In ordine ai miei rapporti con il gruppo di Ordine Nuovo di Verona, devo precisare che non sono mai stato iscritto al gruppo di Ordine Nuovo di Verona e ho solo conosciuto e frequentato diversi membri di tale organizzazione condividendo l’ideologia di tale gruppo di persone, anche se sono sempre stato contrario a ogni forma di violenza. I contatti con tali soggetti hanno origine con la conoscenza del Soffiati Marcello, avvenuta verso l’inizio del 1968 quando io avevo il ristorante a Feltre e lui, che era un rappresentante della Bovis, veniva a mangiare al mio ristorante. Successivamente anche io entrai a far parte della Bovis e mi trovai a lavorare a fianco del Soffiati e a frequentarlo assiduamente. Attraverso il Soffiati ho conosciuto Carlo maria Maggi, Carlo Digilio, Sergio Minetto e gli altri personaggi indicati nelle mie precedenti deposizioni. Preciso che sono venuto a conoscenza di tutte le circostanze di cui ho parlato avendo frequentato il Soffiati e gli altri personaggi dal periodo 1968/69 fino al 1981/82 quando vendetti il ristorante di Colognola ai Colli che era attaccato a quello del Soffiati. Dopo la scarcerazione del Soffiati del 1976, rendendomi conto che costui continuava a perseguire gli antichi obiettivi, mi sono progressivamente distaccato da questo gruppo di persone” Il Persic aveva fatto parte del gruppo di O.N. di Verona tra il 1968/69 e il 1977/78, precisando: “per quanto riguarda la mia partecipazione al gruppo, faccio rilevare che, mentre con il Soffiati vi era un rapporto stretto e di reciproca fiducia, Minetto, Maggi e anche lo stesso Digilio non si fidavano completamente di me, mantenevano le distanze ed evitavano di fare alcuni discorsi in mia presenza. Dopo aver riferito circa il possesso di armi da parte di Marcello Soffiati, nella sua abitazione di via Stella a Verona, il Persic spiegava che “le armi e l’esplosivo venivano da Venezia ed era Carlo Digilio a fornirgliele, secondo quello che mi è stato riferito dal Marcello. Ricordo comunque che il Soffiati era solito trafficare con le armi, vendendole e comprandole. Mi pare che avesse dei contatti con la malavita locale per questo tipo di traffici. Il periodo in cui vidi le armi in via Stella va dal 1972 al 1974. Quanto al Digilio: “preciso (verbale 9.2.1995) che quello che ho capito in quegli anni, Digilio era l’uomo che quando serviva un’arma era in grado di procurarla, che quando c’erano problemi con fucili o pistole era in grado di risolverli”. Lo aveva sentito parlare con il Soffiati di timer estratti da lavatrici e dei problemi che avevano per funzionare: “in ordine al discorso dei timer, preciso che io ho sentito Digilio parlare di questa cosa con il Soffiati; Digilio diceva a Soffiati che per il loro scopo potevano essere adeguati i timer normalmente impiegati nel funzionamento delle lavatrici; l’affermazione di Digilio sembrava diretta a sollecitare Soffiati a procurare timers del tipo richiesto; questo discorso è certamente avvenuto prima che Soffiati venisse arrestato per le detenzione delle armi sequestrategli nel 1974”. Dario Persic riferiva altresì di un episodio terroristico di cui era venuto a conoscenza per la sua amicizia e frequentazione del Soffiati: “dopo circa sei mesi che lo conoscevo (il Soffiati), ci recammo a lavorare a Trento in quanto entrambi svolgevamo l’attività di rappresentanti per la ditta Bovis di Pedavena (Belluno). Eravamo alloggiati presso l’Hotel Bowling di Laives. La sera ci recammo a giocare a bowling sotto l’albergo. Verso mezzanotte io e gli altri rappresentanti siamo saliti in camera mentre il Soffiati ci disse che sarebbe andato a bere un bicchiere. La mattina successiva uscimmo per la nostra attività e il Soffiti ci disse di salire in auto con lui. Si diresse verso il centro di Trento dove sorgeva il palazzo della Regione. Qui vi erano le Forze dell’ordine che delimitavano l’edificio non facendo avvicinare nessuno. Il Soffiati si fermò nei pressi di un poliziotto per chiedergli cosa fosse successo. Questi spiegò che durante la notte vi era stato un attentato nei confronti del palazzo della Regione. Il Soffiati chiese chi poteva essere stato e il poliziotto rispose che si trattava quasi sicuramente di fascisti. Detto questo ripartì e si diresse verso una via isolata. Scese dall’auto, aprì il cofano e mi mostrò circa due o tre metri di miccia di colore bianco che cercava di arrotolare. Mentre faceva questo mi chiese ridendo: chi credi che possa essere stato ? Io rimasi sbalordito e capii che l’autore era stato senz’altro lui insieme al gruppo di Bolzano. Sapevo infatti che a Bolzano vi era un gruppo di ordinovisti capeggiati da un uomo che aveva un’edicola in centro a Bolzano, nella via centrale di questa città. Questo gruppo di Bolzano era a contatto con Soffiati che ogni volta che si recava in Alto Adige andava ad incontrarli. Il Soffiati infatti teneva i contatti tra Venezia, Bolzano e Udine. Per Venezia il suo referente era il dottor Carlo Maria Maggi”. Significativo il brano delle dichiarazioni di Dario Persic relativo alle attività illecite e clandestine di Ordine Nuovo di Venezia e Verona, da lui conosciute proprio per la frequentazione dei dirigenti dei due gruppi. Il riferimento di tempo e luogo è alla riunione tenutasi nella sua abitazione nel 1970/71, presenti il Maggi, Marcello Soffiati, Bruno Soffiati e la moglie, oltre a Sergio Minetto: “.....tornando ai discorsi che fecero, ricordo che non li compresi bene tutti, ma parlavano di una certa rivoluzione intesa come accadimento che doveva avvenire a breve. L’uomo con i baffi (indicato dal dichiarante come croupier al casinò di Venezia, n.d.u.) disse che in Piemonte-Valle d’Aosta erano pronte le Brigate Savoia ma non so a cosa si riferisse, mentre i presenti capirono bene. Ricordo che qualcuno dei presenti gli chiese quanti dossero gli uomini, ma la risposta che ebbe fu evasiva. Al termine della riunione, alla quale assistetti passivamente, l’uomo con i baffi mi disse davanti a tutti che non sovevo assolutamente parlare con alcuno e che se fosse venuto fuori qualcosa sapevano già chi era il delatore”..........”dopo quella volta, anche in altre occasioni, le suddette persone hanno parlato di rivoluzione o di colpo di Stato”. Persic ricordava anche il commento fatto dal Soffiati, quasi certamente dopo l’attentato di piazza della Loggia a Brescia: “finalmente si fa sul serio; io ho messo questo commento in relazione con tutti i discorsi sentiti in precedenza relativi all’imminente colpo di Stato”.