la fiaba - INTERPSYCHE

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la fiaba - INTERPSYCHE
LA FIABA
La fiaba costituisce un genere letterario specifico, da distinguere da altri affini. Etimologicamente il
nome deriva dal vocabolo latino fabula, termine dal quale sono scaturiti due generi letterari spesso
confusi, ma in realtà radicalmente diversi: la favola e la fiaba. La favola consiste in brevi o
brevissimi componimenti poetici che hanno come protagonisti animali dotati di connotati umani, fra
cui la parola e il ragionamento. Ogni animale incarna in modo precostituito e standardizzato un
determinato carattere, che ha, a sua volta, la fissità del typos (il lupo rappresenta la violenza, la
volpe l’astuzia, l’agnello la debolezza ecc.).
La narrazione ha un andamento dialogico, con ampio uso del discorso diretto, e vede come
protagonisti due o più animali che si affrontano vicendevolmente. Dalle premesse si passa, con il
rigore di un teorema, alle conseguenze; dalla conclusione, rapida e scontata, si traggono deduzioni
morali o filosofiche che costituiscono appunto la “morale della favola”. I vizi vengono
esemplarmente puniti e la virtù o l’intelligenza premiate. La favola ammaestra scopertamente e
istituzionalmente. Contrariamente a quanto si pensa, la favola, da cui è derivato l’aggettivo
favoloso, non contiene elementi fantastici e meravigliosi. Lo scenario e l’ambientazione fanno parte
del quotidiano, privo di effetti magici ed emozionanti. Il mondo della favola, per quanto pervaso da
soprusi, meschinità, invidie e forzature, è in fondo ordinato e prevedibile. I deragliamenti dalle
norme, per quanto ciniche e ipocrite possano essere, trovano un immediato castigo. Tutto sembra
tornare a posto, perché la società non tollera attentati ai suoi codici: le stesse trasgressioni
permettono paradossalmente il mantenimento dello status quo.
Maestri della favola sono il greco Esopo, il latino Fedro e il francese La Fontaine. Ogni letteratura
ha avuto i suoi favolisti. Il genere è andato esaurendosi durante il Settecento.
IL MITO
Altri generi con cui la fiaba è spesso confusa sono il mito, la saga e la leggenda. Ogni cultura ha
creato un nucleo di miti che hanno costituito un’area di sapere comunitario e riconosciuto,
indissolubilmente legato al fenomeno religioso. Dai miti infatti sono scaturiti i riti, azioni gestuali
che ripetono la storia sacra degli inizi. I riti hanno avuto bisogno degli officianti (sacerdoti) e del
gruppo dei partecipanti (folla) e hanno scandito in modo significativo la successione delle ore e dei
giorni della collettività. I miti sono racconti sapienziali, ossia narrazioni simboliche che hanno
l’obiettivo di scoprire il senso riposto dei fenomeni. Il linguaggio mitico è affine a quello onirico,
definito dalla psicoanalisi come inconscio. Nel mito l’elemento fantastico e miracoloso ha un ruolo
essenziale.
Le culture che hanno conosciuto la scrittura hanno trascritto i racconti delle origini; molte
letterature iniziano la loro storia con i poemi epici, ossia con racconti che narrano l’origine del
mondo, l’assetto del regno celeste, terrestre e infero, la nascita dei vari dèi, quella successiva degli
uomini e le imprese degli eroi, esseri semidivini (di padre divino e madre mortale) che hanno dato
luogo alle stirpi umane e sono divenuti capostipiti dei maggiorenti delle varie popolazioni. Studi
antropologici e di ricerca storica hanno rinvenuto tracce mitiche in molte fiabe che sembrano
riprodurre in forma degradata e popolare elementi della cosiddetta religiosità naturale (gli dèi come
forze della natura personificate). Sebbene tali ipotesi siano verosimili, la struttura fiabesca ha una
tipologia fissa (vedi sotto) molto lontana dalla straordinaria ricchezza fantastica e semantica del
mito. Non si seguiranno quindi analogie fra contenuti mitici e fiabeschi.
LA SAGA
La saga è un termine germanico (sagen = dire, raccontare), equivalente al significato della parola
greca epos, racconto, narrazione. Fra saga e mito non sussiste nessuna differenza di significato,
sebbene con saga si intenda esclusivamente la serie di racconti mitici delle culture germaniche
precristiane. Gli argomenti sono analoghi a quelli dei miti di altre culture.
LA LEGGENDA
La leggenda è un racconto cristiano edificante, permeato di elementi meravigliosi o, meglio,
miracolosi. Le leggende narrano eventi fantastici e prodigiosi, mediante i quali Dio o qualche
intercessore, si manifesta come Provvidenza che aiuta i suoi devoti e che riporta il mondo nell’alveo
della giustizia e della fede. L’intervento divino pone fine a soperchierie e atti vandalici che
vorrebbero seminare il male nel mondo. Le leggende si occupano di fatti straordinari capitati a santi
o a sante, salvàti dalle forze celesti intervenute in loro soccorso, o di miracoli che gli stessi santi
hanno operato alle persone che li pregavano con devozione, salvandole da pericoli o sciagure.
LA STRUTTURA DELLA FIABA
La fiaba è un genere letterario di tipo particolare, emarginato dalla grande letteratura e conservatosi
nei secoli a livello di tradizione e trasmissione orale. Solo tardivamente le fiabe sono state trascritte,
ottenendo un’enorme popolarità e incominciando a godere di un buon accreditamento culturale.
Prima di tale evento le fiabe erano considerate racconti vili, di nessun pregio, la cui divulgazione
era affidata perlopiù alla divulgazione che ne facevano le donne nella cerchia familiare. I racconti
fiabeschi correvano sulle bocche di donne analfabete, in ambienti prevalentemente rurali e
costituivano una forma di svago e divertimento per persone semplici, fra cui, in primo luogo, i
bambini. Erano storie che venivano diffuse attorno al focolare delle case di campagna o, d’estate,
nelle aie. Erano racconti adoperati per addormentare i bambini o per spaventarli e indurli a essere
buoni, sotto la minaccia di terribili castighi operati dai mostri, dalle streghe e talvolta anche dal
diavolo. Nei tempi andati i racconti fiabeschi non venivano spurgati dei lati più conturbanti e non
venivano addolciti da rassicurazioni materne, ma comunicati nella loro crudezza.
Nel loro lunghissimo periodo di gestazione orale, le fiabe hanno conosciuto innumerevoli varianti.
Le medesime storie venivano impercettibilmente cambiate con qualche particolare nuovo, dando
origine a infiniti racconti tutti uguali o tutti diversi a seconda dei punti di vista. Le fiabe conobbero
la loro prima fase di splendore culturale alla fine del Seicento e nella prima metà del Settecento,
quando penetrarono nella raffinatissima e colta corte del re Sole. Un letterato francese, Charles
Perrault, quasi per sfida e per scherzo, volle dilettare il suo pubblico di lettori, trasformando i vecchi
racconti di paese in piccoli gioielli letterari, smaliziati da un lato e moraleggianti dall’altro. La corte
si divertì ad ascoltare storie per bambini e avventure mirabolanti. Perrault tuttavia raccontò le fiabe
alla maniera di un nobile letterato che si prendesse gioco dei fatti narrati, quasi volesse burlarsi
dell’ingenuità e della stupidità umane. Si tratta di un’operazione culturale che si scosta parecchio
dal modello della fiaba popolare, perché manca spesso il lieto fine. L’errore non viene perdonato e
il protagonista muore prima che gli sia concessa una prova di riscatto (Cappuccetto Rosso, ad
esempio, finisce nella pancia del lupo e non conosce resurrezioni). Sulla scia di Perrault fiorirono in
Francia i famosissimi Racconti di fate. Letterati preziosi e donne amanti delle belle lettere
pubblicarono numerosissimi racconti di fate, ricchi di eventi e fatti meravigliosi che riflettevano il
gusto del meraviglioso e dello scenografico propri della corte francese e del tardo barocco. Sono
racconti inventati, distaccati dal fondo fiabesco popolare, di cui salvano soltanto il lieto fine con il
trionfo dei buoni. L’intento moraleggiante è molto forte e spesso tedioso. Le fiabe avevano il
compito di educare soprattutto le fanciulle a una vita virtuosa.
La scoperta del mondo della fiaba popolare avvenne più tardi, sotto la spinta del movimento
protoromantico e romantico. Verso la fine del Settecento nacque in Europa uno straordinario
interesse per le produzioni poetiche che non avevano mai conosciuto una versione scritta e
codificata. Furono pubblicati canti, poesie, rime, racconti cosiddetti popolari, in quanto anonimi,
frutti spontanei del genius loci. Venne finalmente l’ora del riscatto anche per le fiabe. Nel 1813, in
contemporanea con la sconfitta napoleonica di Lipsia, comparve in Germania un libro destinato a
straordinario e duraturo successo sia in patria sia all’estero: le Fiabe dei fratelli Grimm (titolo
originale: Kinder- und Hausmärchen). Si trattò di un grande evento culturale, in primo luogo perché
i curatori erano due reputatissimi filologi e storici della cultura tedesca, fondatori della
germanistica, in secondo luogo perché con il loro puntiglioso lavoro di ricerca portavano alla luce
un universo narrativo altrimenti destinato a una fine irrimediabile. I Grimm, assieme a uno stuolo di
volontari, peregrinarono nelle campagne tedesche per trascrivere racconti fiabeschi dalla bocca di
contadini che si tramandavano da secoli le stesse storie. La scomparsa della cultura contadina
avrebbe di lì a poco cancellato anche le tracce di questo patrimonio, salvato in extremis dai due
studiosi. Le loro ricerche trovarono eco in molti paesi europei, soprattutto in Russia, dove apparve
negli anni ’60 dell’Ottocento la raccolta di fiabe russe curata da Afanasiev. I fratelli Grimm
redassero le fiabe in maniera sostanzialmente fedele rispetto alla tradizione orale, sebbene
dirozzassero la lingua, ristrutturassero la consequenzialità di alcuni episodi, inventassero un
linguaggio pseudo-popolare, la cui freschezza era frutto di cultura letteraria più che del genio del
popolo. Come ultimo tocco i Grimm diedero alle fiabe una sfumatura popolar-romantica, secondo la
moda del tempo. I protagonisti avevano dimestichezza con la cultura europea, una religiosità
magica di tono cristiano, una visione morale conforme ai dettami socio-culturali della Germania del
tempo, ormai avviata verso le nostalgie della restaurazione. C’era una società conservatrice,
intimamente borghese che amava la tradizione, l’ordine sociale, gli affetti intrisi di virtù. C’era
soprattutto qualcosa di fidato e di rassicurante: una famiglia borghese dove una mamma
ottocentesca angelo del focolare raccontava ai bambini le fiabe nelle sere d’inverno. Fu
verosimilmente questa componente tenera a garantire all’opera dei fratelli Grimm l’immensa
popolarità di cui godé e gode tuttavia.
Nell’Ottocento furono composte anche numerose fiabe cólte che obbedivano a clichés diversi
rispetto a quelli delle autentiche fiabe popolari. Un po’ tutti i poeti e narratori di epoca romantica
scrissero fiabe; celeberrime quelle di Andersen, che però mise nei racconti l’humus romantico del
deraciné, che moriva solo e disperato perché non veniva accettato dalla società, e altri temi estranei
alla vera fiaba. In Germania tutti i poeti della cerchia romantica scrissero fiabe; le più suggestive
furono quelle di Clemens Brentano che compose il ciclo fiabesco delle Fiabe del Reno. Nel tardo
Ottocento fiorirono fiabe raffinate, cariche di valori decadenti e simbolistici. I nomi di Hermann
Hesse e di Oscar Wilde non hanno bisogno di presentazioni.
La fiaba è presente in ogni cultura. Gli antropologi e i linguisti, che hanno studiato le culture senza
scrittura o fatto ricerche in quelle con tradizione letteraria, hanno trovato il genere ovunque. Noi ci
occuperemo tuttavia di fiabe europee e segnatamente delle fiabe dei fratelli Grimm, che tutti
abbiamo udito da bambini e che fanno parte del nostro patrimonio culturale collettivo.
La struttura delle fiabe è rigida. Esse iniziano spesso con la nascita (o con la previsione di una
nascita) dei protagonisti in un determinato contesto familiare. Quindi “c’era una volta un bambino
(o una bambina) che aveva come genitori...”. I genitori appartengono a categorie sociali estreme: o
sono re o sono poverissimi. I piccoli protagonisti o devono affrontare un mondo di stenti e salvarsi
avventurosamente dal rischio di morire di inedia o sono figli di re, che spesso subiscono la morte di
uno o di entrambi i genitori e si trovano sùbito a dover fare i conti con le invidie e le soperchierie di
persone malfidate. In entrambi i casi sono soli, abbandonati, rifiutati; non di rado venduti o
perseguitati a morte. Conoscono vicende amarissime che li portano a esperienze di stenti; devono
fare lavori umili e faticosi, sopportare ingiustizie, calunnie, difficoltà di ogni genere. In altri casi
invece il principe o la principessa hanno conosciuto una vita felice nella loro prima infanzia, ma
all’improvviso la fortuna volta loro le spalle e subiscono ogni sorta di prove. In alcune fiabe i
protagonisti restano piccoli, ma anche in questi casi la fiaba finisce dopo che i due protagonisti
hanno superato prove terribili (Hänsel e Gretel, Fratello e sorella ecc.). Generalmente però la fiaba
segue i protagonisti nella loro adolescenza, nel loro sviluppo dalla fanciullezza alla prima
giovinezza, quando, dopo aver superato tante difficoltà e tante pene, riescono, con l’aiuto di
personaggi fantastici e di mezzi magici, a vincere le paure e a sconfiggere il male del mondo,
liberando il paese dalla schiavitù e dall’oppressione organizzata di streghe e mostri. I personaggi si
salvano dai nemici, distruggono il male e si rappacificano con la vita, dopo aver conquistato il
principe o la principessa. Il lieto fine fiabesco ha il significato profondo di far trionfare le forze
positive e quindi di sconfiggere il male e gl’incantesimi maligni. Alcuni racconti sviluppano il tema
dei rapporti fraterni, spesso intrecciati con quelli della formazione di coppia (Cenerentola), altre
fiabe svolgono argomenti più eroicomici, ma in tutte i piccoli, i deboli e gli svantaggiati per i quali
nessuno scommetterebbe trovano vie di sbocco gratificanti e positive.
I PERSONAGGI
I personaggi fiabeschi non sono più di cinque/sei e costituiscono dei tipi fissi che si ripresentano in
molti racconti, sperimentando avventure analoghe, raccontate in infinite varianti. Si possono
considerare come modelli archetipici che rappresentano sia lati essenziali della personalità (parti
buone o cattive di sé), sia situazioni emblematiche e ineludibili (pericoli, impedimenti, perdite). In
ambedue i casi, essi devono assolvere fondamentali funzioni vitali, cioè crescere, vincere le paure
infantili, la competizione con i fratelli, maturare la loro individualità, risolvere ed elaborare difficili
conflitti, interagire con l’ambiente esterno e trovarsi un compagno (o una compagna) con cui fare
famiglia e generare dei figli. I due personaggi principali delle fiabe sono infatti il principe e la
principessa, ossia due adolescenti che, dopo aver superato prove ardue, a volte addirittura mortifere,
trionfano delle difficoltà e arrivano psicologicamente pronti alla soglia della vita adulta. In alcune
fiabe i due protagonisti sono ancora bambini, legati, in questo caso, da vincoli fraterni invece che
coniugali.
Il PRINCIPE
Il principe è un personaggio quasi onnipresente. Rappresenta il prototipo dell’adolescente che deve
staccarsi dai genitori, per mostrarsi capace di superare prove di coraggio e/o di abilità. Si affranca
dalla famiglia di origine, rinunciando alla protezione dei genitori e meritandosi l’amore della
principessa. Deve, insomma, dimostrare di essere un vero uomo, che accetta la prova, affrontando
prima di tutto la paura di perdere e mettendo quindi in gioco la sua identità. Per superare le
incognite della vita, il ragazzo s’impegna a contare sulle sue sole forze. Spesso il giovane eroe si
allontana di proposito dalla famiglia e dall’ambiente protetto per mettere a cimento sé stesso.
Viaggia nel vasto mondo e cerca ostinatamente occasioni per mostrarsi all’altezza della situazione.
Spesso la prova è intrecciata con le vicende della protagonista femminile. Il principe combatte per
salvare e impalmare la principessa, prigioniera di forze oscure e nemiche (orchi, mostri, streghe
ecc.). Si sente pronto ad amare una donna, ponendosi di fronte a lei nel suo ruolo maschile.
Dimostra quindi di aver abbandonato la mamma come primo oggetto di attaccamento, di
identificarsi con il padre, perché non lo teme più. Non è più tormentato dalla gelosia; il padre ha
fatto la sua vita e lui farà la sua; la mamma non è più oggetto di contesa. Le energie attive e
combattive del principe, non più orientate verso il padre, si indirizzano verso figure esterne: i
nemici della principessa, i mostri che infestano il paese ecc. Il genitore è ormai un oggetto di
identificazione positiva che non contrasta, ma che compatta e cementa il senso di identità maschile
del giovane. La figura femminile non è soltanto la mamma della sua infanzia, ossia una figura
protettiva, ma una figura da proteggere e alla quale mostrare le sue doti di uomo adulto, capace di
impegnare la sua forza a favore delle persone più deboli. Lottando, andando alla ventura, il giovane
dimostra di avere superato le fasi di dipendenza dai genitori e di essere in grado di vivere un ruolo
di partner adulto nei confronti della principessa. Per superare la lotta contro i draghi, i mostri, i
castelli incantati, il principe riceve aiuti magici, che denotano come nessuno possa fare tutto da sé.
Senza l’intervento diretto di qualche fata o di qualche mago che gli forniscono formule magiche od
oggetti magici con cui vincere le più terribili prove e i più temibili nemici, il principe perirebbe
miseramente.
Se il significato di crescita e di autonomia è evidente e non necessita di ulteriori riflessioni, la
presenza degli elementi magici sollecita invece qualche analisi. Questi possono essere considerati
come simboli di aiuto delle forze positive materne e paterne. Il principe chiede l’indipendenza e
l’ottiene, ma dispone dentro di sé del tesoro educativo trasmesso dai genitori. Le “magie” sono il
lascito dei genitori e costituiscono la forza agente e propulsiva che conferisce forza incredibile alle
sue azioni. La bacchetta magica, la formula incantatoria e simili rituali d’aiuto sono in realtà il
sostegno psicologico fornito dai genitori al figlio, perché possa cavarsela nei pericoli. Rammentano
che nessuno ha e può per virtù intrinseca; il trionfo è, nel profondo, un dono. In un’ottica affine, si
può parlare anche degli oggetti magici come “oggetti transizionali” (Winnicott). Nel momento di
estremo pericolo ricompaiono amuleti, simili a quegli oggetti elementarmente simbolizzati
(succhiotti, pezzetti di stoffa, animaletti di peluche) che i bambini portano ovunque con sé in
rappresentanza della mamma reale. Il principe-eroe sente il bisogno di regredire, si appoggia a
qualcosa di certo, ritorna a un contatto profondo con le sue radici, dove la mamma si ripropone
come oggetto di fiducia primaria. La regressione è in funzione positiva: serve a far crescere.
LA PRINCIPESSA
Anche la principessa deve dimostrare a sé stessa e al mondo di valere, ossia di essere maturata. Da
bambina che era è diventata una vera donna, in grado di scegliersi uno sposo adeguato, perché si è
sciolta dai vincoli familiari e si è identificata in modo positivo con la propria madre. Se l’eroe deve
vincere battaglie, l’eroina deve essere in grado di gestire una famiglia al suo interno e di tenere
unito il tessuto familiare. Per fare questo, è necessario che sia saggia e avveduta, ossia che non si
lasci dominare dall’impulso. Essere saggia per lei significa non lasciarsi trattare come un oggetto,
comprendere e valutare le intenzioni altrui, porsi alla pari dell’eroe, imporre condizioni. La
principessa non è mai succube e il suo “sì” è frutto o di intuizione lungimirante o di verifica attenta.
La principessa “sceglie” lo sposo e misura se l’eroe corrisponde ai suoi valori; valùta se il principe,
che lei ha incontrato casualmente, sia veramente un uomo oppure no. Si affida a lui, dopo averlo
messo alla prova, dopo che il suo intuito le ha dato una risposta positiva. Per mettere in opera il suo
piano, la principessa può attivare le sue antenne intuitive, oppure sottoporre il principe a prove
molto impegnative mediante le quali appurare la sua affidabilità. Queste possono consistere in
azioni di natura eroica (uccisioni di orchi, draghi e via dicendo) oppure in iniziazioni più sottili
giocate sull’attesa e sul controllo degl’impulsi (mantenere il silenzio, risolvere enigmi ecc.). La
principessa studia il futuro compagno e lo accetta solo dopo che questi le ha dimostrato con i fatti di
avere non solo coraggio, ma anche pazienza. Il principe è disposto a sacrificare l’appagamento
momentaneo in vista di un bene maggiore. Lei, a sua volta, deve dimostrare a sé stessa di frenare
gl’istinti primari e brucianti che potrebbero danneggiarla. Non si concede a un uomo, patteggia un
rapporto definitivo. Per orientare il suo amore verso un uomo, la ragazza deve aver sciolto
l’attrazione edipica verso il padre e aver superato i conflitti con la madre. Solo così può vivere il
suo ruolo di donna con naturalezza. La principessa è femminile soprattutto nel senso profondo di
donna che ha superato gli attriti intrapsichici legati all’identità di genere. Ha rinunciato a invidie
verso il mondo maschile, come il principe ha superato angosce persecutorie nei confronti della
femminilità. Si è persuasa che essere donna non è un castigo o una minorità, ma uno status che le
permetterà di interagire in un libero gioco di scambi con la mascolinità. Ha elaborato un narcisismo
equilibrato, che esclude rivalse e odî deflagranti. L’invidia femminile, legata a un fortissimo
narcisismo dell’Io, viene elaborata nelle fiabe tramite le figure delle sorelle cattive, che
rappresentano la rabbia narcisistica irrisolta, persecutoria e distruttiva sia verso le rivali sia verso
l’uomo e verso la sessualità maschile.
LA MAMMA BUONA
È una presenza fuggevole, che apparentemente non lascia traccia, ma in realtà è importante, tanto
che senza di lei la fiaba non potrebbe svolgersi. Occorre notare che la mamma buona è sempre la
mamma della protagonista femminile, non dell’eroe maschile. Appena delineata, presto scompare e
ha come tratto essenziale quello della benevolenza e del legame relazionale amorevole. La mamma
buona ama la sua bambina, le inculca fiducia verso gli altri, facendole dono della possibilità di
amare. La mamma morta buona si fa interprete di una vita in cui ci sia scambio affettivo, in cui
l’una è la felicità dell’altro. Questo « altro » non è solo uno strumento per soddisfare un bisogno,
ma costituisce un affetto reale verso il quale si provano sentimenti di protezione e di benevolenza.
Esso è importante come persona totale, di cui si riconoscono i tratti, le differenze e l’unicità. Questo
è il piccolo seme che la mamma immette nel cuore della figlia. L’altro è l’oggetto per cui ci si
strugge, per la cui salute si sta in ansia, e per il cui bene ci si impegna. Tramite la mamma buona la
bambina imparerà a sua volta ad amare in modo compiuto il principe e la famiglia che formerà.
IL PADRE
Il padre è generalmente una figura molto debole e labile. Se è saggio e padre di figli maschi, lo si
incontra normalmente in punto di morte, quando consegna alla prole la responsabilità del regno o
cerca di capire quale figlio (fra i tre) sarà degno di succedergli sul trono. In questi casi si tratta di
una figura degna e responsabile, atta a fare da modello. In numerosi racconti appare invece come il
debole succubo di una moglie decisionista e spietata che gli dà ordini che a lui ripugnano, ma che
accetta di eseguire perché incapace di ribellarsi alla consorte. Quest’ultima è spesso la seconda
moglie del padre, ossia la matrigna cattiva. Il ritratto negativo e imbelle del padre (Hänsel e Gretel,
Biancaneve, Cenerentola ecc.) dipende da complesse distorsioni preedipiche ed edipiche. Nella
Bella e la Bestia compare invece la figura del padre ideale, così come lo vede la figlia.
LA MATRIGNA
La matrigna è un personaggio frequente e gioca un ruolo di primo piano in numerose fiabe.
Generalmente la protagonista femminile è orfana; la madre buona non c’è più; è solo un ricordo, per
quanto attivo, benefico e intenso questo possa essere. La bambina, futura principessa, vive un
penoso stato di orfanezza, di solitudine e d’abbandono. La mamma morta — una madre
estremamente buona, dolce e altruista — l’ha lasciata precocemente sola; è andata lontano, in cielo,
ed è diventata un fantasma benedicente. In linguaggio psicoanalitico e un oggetto buono
interiorizzato. Questa bontà è intimamente posseduta dalla bambina, ne costituisce il patrimonio
prezioso, che la rende a sua volta bella e buona. La bambina sente la vicinanza della madre morta e
s’identifica con lei, cercando in generale di amare e di non odiare. La matrigna rappresenta la madre
cattiva. Mediante lo sdoppiamento in due persone diverse la fiaba elude il problema
dell’ambivalenza affettiva della bambina verso la mamma; questa si scompone in due figure
contrapposte. La matrigna si fa portavoce dei sentimenti negativi della bambina nei confronti della
madre. Più che essere una realtà negativa effettiva, essa rappresenta il distorcimento che la bambina
fa della madre. Sussiste una figura buona e idealizzata — la madre morta — e una figura
demonizzata — la matrigna reale — che è, in sostanza, il fantasma materno negativo della bambina.
Sull’imago della regina cattiva si riversano rabbie, invidie, ritorsioni e gelosie di ogni sorta, fra cui
ha un ruolo spiccato la gelosia edipica nei confronti del padre. La matrigna ha un ruolo psicologico
essenziale: porta su di sé la cattiveria della bambina — è quello che di negativo la bambina pensa
della mamma — e attiva, per ritorsione, l’affetto della piccola per la madre morta. Pressata dalla
matrigna, la bambina ricorre alla mamma buona ossia ai sentimenti positivi verso la mamma e si
salva dalla distruttività. Le due figure mamma/matrigna sono inseparabili l’una dall’altra, perché
rappresentano le oscillazioni della bambina sul piano affettivo. Solo alla fine la matrigna, che
spesso è consustanziale alla strega, muore o si dissolve. Muore un fantasma persecutorio perché la
bambina ha superato la dicotomia primaria. È diventata più riparativa, meno esposta a sentimenti
distruttivi. Nelle fiabe non si dice che l’odio verso la matrigna, espresso a rovescio come odio della
matrigna, è in stretta correlazione edipica con il padre. La fiaba tace e preserva un tabù, ma non
possiamo privare del suo significato il fatto che la matrigna subentra alla madre amata (?) e morta.
La bambina ha desiderato disfarsi della madre per impadronirsi del padre e il senso di colpa la
punisce esemplarmente, mettendo sul suo destino una donna vessatrice e crudele che la spossessa di
tutto. Solo allora la principessina piangerà la mamma perduta e ricorrerà a lei. È sotto l’effetto della
matrigna che risorge in tutta la sua bellezza l’immagine della mamma buona, quella più vera. La
morte della matrigna, segnerà alla fine il recupero pieno e maturo dell’identificazione dell’eroina
con la madre buona. Ci sono fiabe in cui la matrigna è cattiva anche verso il bambino, ma questo
avviene in un contesto di condivisione con la sorellina.
LA FATA
Occorre distinguere le fate mitologiche da quelle delle fiabe. Le fate, il cui etimo deriva da fatum, -i
(destino), sono divinità femminili generalmente rappresentate in gruppi di tre che simboleggiano il
destino. Fate sono le Moire greche e le Parche latine. Nel foro romano era un gruppo statuario delle
tria fata (le tre dee del destino). Nel mondo cristiano le fate furono lasciate decadere. Nella cultura
celtica le fate hanno avuto un ruolo cultuale di grande rilievo. Erano le banshees, rappresentanti
dell’Altro Mondo, che assumevano spesso sembianze di cigno. Le banshees operavano magie,
avevano cioè poteri soprannaturali che esse potevano offrire in dono agli umani. Spesso compivano
magie con vari amuleti, per esempio con bacchette e pietre magiche. Il tratto caratteristico di queste
figure mitiche, che si è intrecciato inestricabilmente con il racconto fiabesco, è il potere magico. Le
fate hanno il ruolo fisso di operare prodigi, salvando l’eroe o l’eroina da sicura morte. Con il loro
intervento la vicenda s’avvia con sicurezza verso il lieto fine. L’altro ruolo di pertinenza è quello
educativo. Esse promuovono lo sviluppo morale, affettivo e intellettivo del loro protetto. Assumono
quindi sfumature squisitamente materne; sono l’emblema della mamma buona, capace di risolvere
situazioni difficilissime, di sciogliere i nodi di vicende drammatiche, di facilitare il successo dei
loro protetti (bambini), ma, al contempo, avvertono il bambino che si deve comportare secondo
principî inderogabili, di cui loro sono custodi. Nell’inconscio le fate sono la parte buona della
mamma, così come concepita e sentita dal bambino che vede in lei una potenza, un appiglio, un
oggetto di assoluta fiducia.
Un ruolo particolare hanno le fate nelle fiabe francesi del Re Sole. In tali racconti esse incarnano
una funzione spiccatamente educativa, che esige una condotta morale all’insegna della virtù,
sollecita l’eroe/eroina anche al sacrificio e si propone come modello ideale per le bambine, che
dovranno diventare gentildonne perfette. In queste fiabe il ruolo moralizzante diventa spesso
noiosamente predicatorio. Ma non si deve dimenticare che le fiabe del Re Sole non sono una
produzione popolare.
IL MAGO
In molte narrazioni fiabesche compare, anziché una fata, un mago che risolve favorevolmente le
situazioni pericolose. È evidente che il mago rappresenta un’immagine del padre positivo, in grado
di guidare a salvezza l’eroe o, più raramente, l’eroina. Il mago presta aiuti efficaci perché viene
concepito come un padre forte, dotato di mezzi e di risorse formidabili, capace di domare le forze
nemiche. Il mago può a volte vincere una strega malvagia, che fa da contraltare. Tale situazione
delinea complessi giochi relazionali fra bambini, padre e madre, mondo maschile e femminile. Il
mago incarna il padre buono che aiuta il figlio a crescere e a diventare adulto, liberandolo dalla
schiavitù della madre possessiva e incitandolo ad avere coraggio e a identificarsi nei valori
maschili. Analogamente a quanto avviene per la fata, il mago educa moralmente l’eroe, lo induce a
seguire la strada buona, a mantenere le promesse, a comportarsi in modo onorevole. Spogliato dei
suoi attributi soprannaturali, il mago è, nei fatti, quell’immagine di padre ideale che fa da modello
per il conseguimento delle virtù maschili del controllo razionale, della misura e dell’equilibrio che
si sviluppano parallelamente alla fase edipica. È quell’idea interna di padre guida e sostenitore della
legge che Freud ha individuato in Totem e tabù.
LA STREGA
La strega è il contraltare della fata. Come la prima rappresenta il bene, così la seconda incarna la
distruttività. La strega vuole il male degli altri e si serve di poteri magici potenti (analoghi, sia pure
a rovescio, a quelli delle fate) per perseguitare e dare la morte. Qui si analizza esclusivamente il
ruolo della strega nel contesto narrativo delle fiabe, tralasciando il ruolo sociale eversivo svolto
dalla strega nella cultura occidentale dalla fine del Medioevo fino all’età moderna. All’epoca la
collettività era terrorizzata e affascinata da figure di donne che operavano magie con la complicità
del diavolo, con un connubio intricato di rituali religiosi pagani supportati dal legame con Satana.
Questa figura non è presente nelle fiabe, dove tuttavia compare assai frequentemente la strega come
rappresentante peggiorativa ed estrema della mamma cattiva. Figure negative femminili sul tipo
della strega sono del resto presenti in tutte le mitologie e confermano il bisogno di protezione di cui
la collettività umana non può fare a meno. Come se la matrigna non bastasse, l’inconscio ha
provveduto a scaricare su questa figura feroce tutto il concentrato di furore, di rifiuto e di
distruttività nutrito dal bambino contro la mamma reale. La strega non è tanto la mamma cattiva,
quanto la caricatura della mamma cattiva, la cui crudeltà raggiunge livelli di estremo sadismo,
perché il bambino proietta sulla strega sensi di colpa che autorizzano questa figura a operare il
male. La strega è cattiva, perché deve punire atrocemente il bambino per le sue malefatte e,
soprattutto, per i suoi sentimenti cattivi. È cattiva, perché esercita le funzioni del senso di colpa. La
strega alla fine scompare, liberando il bambino e l’intero paese dalla sua presenza malvagia. Con la
morte della strega il paese e l’animo dei protagonisti si liberano dell’angoscia che li opprimeva.
Torna a splendere il sole, il paesaggio si fa sereno e la vita ritorna tranquilla. La morte della strega
deve essere interpretata come morte della cattiveria.
L’ ORCO
L’orco rappresenta il padre cattivo, così come lo inventa il bambino piccolissimo che vede nel padre
un rivale preedipico che gli contende l’amore della mamma. Il padre è il primo « altro », sentito
come nemico del rapporto madre/bambino. È il nemico per eccellenza. L’orco ha come
caratteristica una straordinaria forza fisica. È caratterizzato da una fame cannibalesca e insaziabile,
che lo porta a divorare tutto ciò che esiste. L’avidità è tale, che l’orco finisce per divorare sé stesso.
Esso rappresenta a rovescio l’avidità infantile, l’insaziabilità del lattante. È il bambino stesso ad
aver paura della sua bramosia e a proiettarla sul fantasma divorante dell’orco che, nel suo cieco
desiderio di fagocitare tutto, non riflette che la sua condotta lo porta a morire di fame o ad
autodivorarsi.
In questa figura si concentrano fantasie arcaiche, legate alla voglia di ingerire tutto. La fame, non
moderata e controllata, diventa una trappola di morte. L’orco non conosce le astuzie della strega. È
mosso soltanto dalla volontà di distruggere per ingoiare, per restare alla fine l’unico sopravvissuto,
così come il piccolo vorrebbe essere l’unico oggetto per la mamma. Si tratta di un personaggio
importante, perché la sua forza bruta mette in luce la sottile furberia mentale del figlio che riesce a
vincere una battaglia che sembrava perduta in partenza. Figura proiettata per eccellenza, serbatoio
di tutto il male che il bambino concentra sul padre e di tutto il male che il piccolo riversa su di lui,
l’orco alla fine perde sempre, perché esiste un bambino (che normalmente non è suo figlio), privo di
forze, ma dotato di cervello che lo raggira. Sotto questo aspetto l’orco rappresenta un’occasione di
sviluppo per il bambino che rimugina come combattere un fantasma paterno molto più grande di lui.
Va notato che l’orco, sebbene sia un mostro preedipico, non si scontri mai con bambine, ma solo
con maschietti. Si potrebbe ipotizzare che la fantasia femminile abbia espulso la rappresentazione
del padre malefico, per non turbare l’èdipo, mentre i maschietti ne hanno conservato le tracce.
LA BELLA E LA BESTIA
di Madame Leprince de Beaumont
C’era una volta un ricchissimo mercante che aveva sei figli, tre maschi e tre femmine. Siccome era
un uomo intelligente, non risparmiò nulla per educarli e dar loro ogni sorta di maestri. Le figliole
erano bellissime, ma specialmente la minore era una meraviglia: quand’era piccola, tutti la
chiamavano bellina, cosicché il nome di Bella le restò, e ciò fu causa, per le due sorelle, di
grandissima gelosia.
Questa figlia minore, ch’era più bella delle altre, era anche più buona di loro: le due maggiori erano
piene di superbia, perché si sapevano molto ricche. Si davano arie da grandi signore, non volevano
avere nulla a che fare con le figlie degli altri mercanti e ricercavano soltanto la compagnia della
gente titolata. Tutti i giorni andavano a feste da ballo, teatri, passeggiate eleganti e si burlavano
della sorella minore, perché preferiva passare il suo tempo a leggere buoni libri.
Poiché si sapeva che le tre ragazze erano ricche sfondate, parecchi grossi negozianti le chiesero in
matrimonio. Ma le due maggiori risposero che non si sarebbero mai sposate, a meno che non fosse
capitato loro un duca, o al minimo, un conte. Quanto a Bella (vi ho già detto che questo era il nome
della minore), la Bella, dico, ringraziò molto gentilmente coloro che volevano sposarla, ma rispose
che le sembrava d’essere troppo giovane e desiderava rimanere a tener compagnia a suo padre
ancora per qualche anno.
Tutt’a un tratto però il mercante fece fallimento. Dei suoi averi non gli rimase che una piccola casa
di campagna assai lontana dalla città. Con le lagrime agli occhi disse ai suoi figlioli che bisognava
rassegnarsi ad andare in quella casa dove, mettendosi a fare i contadini, avrebbero avuto almeno di
che vivere. Le due figlie maggiori gli risposero che non avevano intenzione di lasciare la città e che
i loro spasimanti sarebbero stati fin troppo felici di sposarle, anche adesso che non avevano più un
soldo. Le nostre signorine si sbagliavano della grossa: quegli spasimanti non le guardarono più in
faccia, quando le seppero povere. E siccome, data la loro superbia, nessuno le poteva vedere, la
gente diceva: « Non meritano compassione, anzi siamo contenti che abbiano dovuto abbassare la
cresta! Vadano a fare adesso le grandi signore badando alle pecore e ai montoni! ». Però, al tempo
stesso, tutti dicevano: « Quanto a Bella, ci rincresce proprio la sua disgrazia. È una così brava
ragazza! Parlava alla povera gente con tanta bontà, era così dolce, così gentile! ». Vi furono persino
parecchi gentiluomini che si offrirono di sposarla, anche così, senza un quattrino, ma lei disse che
non aveva cuore di abbandonare il suo povero padre nella disgrazia, e voleva accompagnarlo in
campagna per consolarlo e aiutarlo nel lavoro.
La povera Bella, al principio, fu molto addolorata per aver perduto tutto, ma poi disse fra sé:
« Quand’anche mi struggessi in un mare di pianto, le mie lagrime non servirebbero a restituirmi
quello che ho perduto. Meglio è cercare d’essere contenta anche così ».
Una volta sistemati nella loro casa di campagna, il mercante e i suoi tre figli si misero a lavorare la
terra. Bella si alzava alle quattro del mattino, si affaccendava a pulire la casa e a preparare il pranzo
per tutta la famiglia. Al principio dovette faticare molto, perché non era abituata a lavorare come
una serva; ma in due mesi si fece più robusta e, faticando tutto il giorno, acquistò una salute di
ferro. Quando aveva finito le sue faccende, ella leggeva, suonava il clavicembalo o cantava filando.
Le sorelle, invece, si annoiavano da morire, si alzavano alle dieci del mattino, bighellonavano tutto
il santo giorno e passavano il tempo a sospirare dietro ai loro bei vestiti e alle brillanti compagnie.
« Guarda un po’ nostra sorella » si dicevano l’un l’altra. « Che animo volgare e meschino ha!
Sembra contenta della sua disgraziata situazione! ». Il buon mercante non la pensava come le
figliole; sapeva che Bella era più adatta di loro a brillare in società; ammirava la virtù di quella
fanciulla e soprattutto la pazienza di lei, giacché le sorelle, non contente di lasciarle fare tutte le
faccende di casa, la stuzzicavano in ogni momento.
Era un anno che questa famiglia viveva ritirata in campagna, quando il mercante ricevette una
lettera nella quale gli si diceva che una nave, carica di mercanzie di sua proprietà, era arrivata
felicemente in porto. Poco mancò che tale notizia facesse girare la testa alle due figlie maggiori,
tutte liete di pensare che finalmente avrebbero potuto venir via da quella campagna dove
s’annoiavano tanto. Quando il padre fu pronto per partire, lo pregarono di portar loro al suo ritorno
bei vestiti, baveri di pelliccia, acconciature e ogni sorta di cianfrusaglie. Bella non gli chiedeva
nulla, giacché pensava che il denaro delle mercanzie arrivate per mare non sarebbe bastato ad
acquistare tutto ciò che le sorelle desideravano. « E tu non mi preghi di portarti qualcosa? » disse il
padre. « Giacché siete così buono da pensare a me » rispose lei « vi prego di portarmi una rosa: in
questi posti non ne vengono! ». Questo non vuol dire che Bella ci tenesse molto ad avere una rosa,
ma non voleva aver l’aria di biasimare con il suo esempio le richieste delle sorelle, le quali
avrebbero detto che lei non aveva domandato nulla solo per distinguersi da loro.
Il brav’uomo partì, ma quando fu arrivato al porto, i suoi creditori gl’intentarono un processo e si
presero tutte le sue mercanzie, cosicché, dopo essersi dato tanta pena, egli dovette tornarsene
indietro povero in canna com’era venuto. Non gli restavano più che trenta miglia per arrivare a casa,
e già si rallegrava del piacere di rivedere i suoi figlioli, quando, mentre attraversava un grande
bosco, s’accorse di aver perduto la strada. Nevicava da non si dire e tirava un vento tale che per ben
due volte egli fu buttato giù da cavallo. Si fece notte, e lui pensò che sarebbe morto di fame o di
freddo, o mangiato dai lupi che sentiva ululare attorno a sé. Tutt’a un tratto, guardando in fondo a
un lungo viale alberato, vide una grande luce che sembrava lontana lontana. Andò da quella parte e
vide che la luce proveniva da un grande palazzo, il quale era tutto illuminato. Il mercante ringraziò
Dio dell’aiuto che gli mandava e s’affrettò a raggiungere quell’edificio, ma rimase grandemente
stupito nel non trovarvi anima viva. Il suo cavallo, che gli andava dietro, vedendo una grande
scuderia, vi entrò e, avendo trovato fieno e avena, quel povero animale morto di fame vi si buttò
sopra con grandissima avidità. Il nostro mercante lo lasciò mangiare, legato nella stalla, e si diresse
verso il palazzo, dove non vide alcuno; ma, essendo entrato in una grande sala, vi trovò un buon
fuoco acceso e una tavola piena di qualità diverse di carne, dove non era apparecchiato che per una
persona. Poiché la neve e la pioggia lo avevano bagnato fino alle ossa, s’avvicinò al fuoco per
asciugarsi, dicendo fra sé: « Il padrone di casa o i suoi domestici mi perdoneranno la libertà che mi
sono presa e senza dubbio non tarderanno a venire ». Aspettò un bel pezzo, ma, essendo suonate le
undici senza che alcuno si fosse veduto, non poté più resistere alla fame e afferrò un pollo che
mangiò, tremando, in due bocconi. Bevve anche qualche sorso di vino e, fattosi più ardito, uscì da
quella sala e attraversò parecchie grandi stanze splendidamente arredate. Gira e rigira, trovò una
camera dove era preparato un buon letto, e poiché era ormai la mezzanotte passata, e lui non stava
più in piedi dalla stanchezza, si decise a chiudere la porta e a mettersi a dormire.
Il giorno dopo, erano le dieci del mattino quando si svegliò e fu molto stupito di trovare un abito
assai decente al posto del suo che era ridotto molto male. « Certamente » disse tra sé « questo
palazzo appartiene a qualche buona fata che si è impietosita della mia situazione ». Guardò dalla
finestra e vide che la neve era scomparsa, e che al suo posto c’erano pergolati di fiori, che erano una
festa per gli occhi. Entrò nella grande sala dove aveva cenato il giorno prima e vide un tavolinetto
con sopra una bella cioccolata calda. « Vi ringrazio, signora Fata » egli disse ad alta voce « d’aver
avuto la bontà di pensare anche alla mia condizione! ». E il brav’uomo, dopo aver bevuto la
cioccolata, uscì per andare a prendere il cavallo, ma, mentre passava sotto un pergolato di rose, si
ricordò che Bella gliene aveva chiesta una, e prese un ramo dove ve n’erano parecchie. A questo
punto, udì un orribile fragore e vide venirsi incontro una bestia così mostruosa che egli fu lì lì per
svenire.
« Quale ingratitudine è la vostra! » gli disse la Bestia con una voce terribile. « Io v’ho salvato la
vita, aprendovi le porte del mio palazzo, e come compenso rubate le mie rose, la cosa che mi piace
più di tutte al mondo! Per scontare un simile errore, dovete morire. Non vi concedo che un quarto
d’ora per chiedere perdono a Dio dei vostri peccati! ».
Il mercante si gettò alle sue ginocchia e, giungendo le mani, così disse alla Bestia: « Monsignore,
perdonatemi. Non credevo di offendervi cogliendo una rosa per una delle mie figliole che me
l’aveva domandata ».
« Io non mi chiamo Monsignore » rispose il mostro « ma Bestia. I complimenti non mi piacciono;
voglio che ognuno dica quello che pensa; quindi, non crediate di commuovermi con i vostri
salamelecchi. Ma avete detto che avete delle figlie: sono disposto a perdonarvi a patto che una di
loro venga spontaneamente qui, a morire al vostro posto. Non una parola di più. Partite e, caso mai
le vostre figlie rifiutassero di morire per voi, giuratemi che tornerete entro tre mesi ». Al brav’uomo
non passava neppure per la mente di sacrificare una delle sue figliole a quell’orribile mostro, perciò
disse: « Almeno avrò la gioia di abbracciarle ancora una volta! ». Giurò dunque di tornare, e la
Bestia gli disse che poteva partire quando voleva. « Ma » soggiunse « non voglio che partiate a
mani vuote. Tornate nella stanza dove avete dormito; vi troverete un baule vuoto ove potrete
mettere tutto quel che vi piacerà. Penserò io a farlo portare a casa vostra ». Detto questo la Bestia se
ne andò, e il brav’uomo disse fra sé: « Se devo proprio morire, almeno avrò la consolazione di
lasciare un tozzo di pane per i miei poveri figlioli! ».
Tornò nella stanza dove aveva dormito, vi trovò una grande quantità di monete d’oro e ne riempì
pieno zeppo il baule, lo chiuse e, dopo aver ripreso il suo cavallo ch’era nella scuderia, egli uscì da
quel palazzo con una tristezza non inferiore alla gioia provata nell’entrarvi. Il cavallo imboccò da sé
uno dei sentieri della foresta e, in poche ore, il buonuomo arrivò alla sua casa di campagna. I figli
gli si fecero attorno, e lui, invece d’essere contento delle feste che gli facevano, li guardava e non
poteva far a meno di piangere. Aveva ancora in mano il tralcio di rose còlto per Bella, glielo diede e
disse: « Bella mia, prendete queste rose. Voi non sapete quanto costeranno care al vostro povero
padre! ». E qui non poté trattenersi dal narrare alla famiglia la triste avventura capitatagli. A tale
racconto le due figlie maggiori cominciarono a strillare e a coprire d’ingiurie Bella, che invece non
piangeva. « Guarda un po’ a che può portare l’orgoglio di questa mocciosetta! » dicevano. « Chissà
perché lei non doveva chiedere qualche bella cosina, come abbiamo fatto noi! Figuriamoci, la
signorina voleva fare l’originale! Così adesso sarà causa della morte di nostro padre e neppure
piange! ».
« Sarebbe proprio inutile » intervenne Bella. « Perché mai dovrei piangere la morte di mio padre,
quando lui non morirà affatto? Giacché il mostro vuole accettare in cambio una di noi, andrò io ad
affrontare la sua furia e ne sarò felicissima perché, morendo, avrò la gioia di salvare la vita a mio
padre e di provargli tutto il mio affetto ».
« No, sorellina » le dissero i tre fratelli. « Voi non morirete. Andremo noi a trovare il mostro e
periremo sotto i suoi colpi, se non riusciremo ad ammazzarlo! ».
« Non lo sperate » disse il mercante. « La potenza di quella Bestia è così grande che non c’è alcun
modo di farla morire. Il buon cuore di Bella mi commuove, ma non intendo esporla alla morte. Io
sono vecchio, non mi resta che poco tempo da vivere; perderò solo qualche anno di vita che ho
motivo di rimpiangere solo per voi, miei cari figlioli ».
« E io vi assicuro, padre mio » continuò Bella « che non andrete in quel palazzo senza di me! Non
potrete impedire che io vi segua. Sono giovane, è vero, ma non tengo molto alla vita e preferisco
mille volte essere divorata da quel mostro che morire di crepacuore pensando che non ci sarete
più ».
Bella volle assolutamente partire anche lei con suo padre alla volta del palazzo, e alle sorelle non
parve vero, perché le doti della sorellina minore le facevano morire di gelosia. Il povero mercante
era così frastornato dal dolore di perdere la sua bambina, che non pensava più al baule pieno di
monete d’oro. Ma non appena egli si fu ritirato nella sua cameretta per mettersi a dormire ebbe la
lieta sorpresa di trovarselo accanto al letto. Decise però di non dire ai figli ch’era diventato così
ricco, perché era sicuro che le figlie avrebbero voluto tornarsene in città ed egli aveva invece deciso
di chiudere i suoi giorni in quella campagna. Tuttavia confidò a Bella il suo segreto e lei gli disse
che, durante la sua assenza, erano venuti alcuni gentiluomini a trovarle, e due di essi si erano
innamorati delle sorelle. Pregava quindi il padre di volerle maritare, giacché ella era così buona che
voleva bene a tutte e due e perdonava loro di tutto cuore i dispetti che sempre le avevano fatto.
Quando Bella partì assieme a suo padre, quelle cattivacce dovettero strofinarsi gli occhi con una
cipolla per aver l’aria di piangere. I fratelli, invece, piangevano sul serio, e non meno del vecchio
mercante. Soltanto Bella non piangeva, per non inasprire il dolore degli altri. Il cavallo prese la via
del palazzo e, verso sera, essi lo scorsero, tutto illuminato come la prima volta. Il cavallo andò da
solo nella scuderia, e il buonuomo entrò con la figliola nella grande sala, ove essi trovarono una
tavola splendidamente imbandita per due. Il mercante aveva il cuore così stretto che non gli riusciva
di mangiare, ma Bella, studiandosi di apparire tranquilla, si mise a tavola e gli riempì il piatto. In
cuor suo però diceva: « La Bestia vuol farmi ingrassare prima di mangiarmi: lo si vede da come mi
tratta! ». Quando ebbero cenato, si udì un grande fracasso. Il mercante disse addio a sua figlia con le
lagrime agli occhi, giacché sapeva che la Bestia stava per arrivare. Bella si sentì gelare da capo a
piedi quando scorse quell’orribile mostro, ma fece di tutto per dominarsi e, quando egli le chiese se
era venuta spontaneamente, lei, tremando, gli rispose di sì.
« Siete stata molto buona » disse la Bestia. « Ve ne sono assai grato. Quanto a voi, brav’uomo,
partirete domattina e non vi farete più rivedere da queste parti. Addio, Bella ». « Addio, Bestia »
rispose lei. E il mostro sparì. « Ah, figlia mia! » disse il mercante stringendosi a Bella. « Sono già
mezzo morto di paura per voi! Datemi retta, vi prego, lasciatemi qui ». « No, padre mio » gli rispose
Bella con grande fermezza. « Voi partirete domattina e mi abbandonerete all’aiuto del cielo. Forse il
cielo avrà pietà di me! ».
Andarono a dormire. Credevano di non poter chiudere occhio tutta la notte e invece, non appena
furono a letto, s’addormentarono profondamente. Bella, mentre dormiva, vide in sogno una dama
che le disse: « Sono contenta, Bella, del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando la vita
per salvare quella di vostro padre, non rimarrà senza ricompensa ». Bella, al risveglio, raccontò a
suo padre questo sogno e, quantunque esso li consolasse un poco, non impedì al padre di mettersi a
piangere e singhiozzare, quando venne il momento di separarsi dalla figlia.
Quando egli fu andato via, Bella si sedette nella grande sala e scoppiò anche lei a piangere. Ma,
essendo piena di coraggio, si raccomandò a Dio e decise di pensarvi su il meno possibile, durante
quel po’ di tempo che le rimaneva da vivere, giacché era fermamente convinta che la Bestia
l’avrebbe divorata la sera stessa.
Intanto, mentre aspettava, decise di fare un giretto e di visitare il palazzo. Non poteva fare a meno
di ammirarne la bellezza, e fu moto stupita nel trovare una porta sulla quale era scritto:
Appartamento di Bella. Aprì precipitosamente quella porta e rimase abbagliata dalla sontuosità che
vi regnava. Quello che però la colpì maggiormente fu il vedere una grande biblioteca, un
clavicembalo e parecchi libri di musica. « Non vogliono che mi annoi » disse tra sé. E pensò sùbito
dopo: « Se avessi un giorno solo da restare qui, non m’avrebbero preparato tante belle cose ».
Questo pensiero la rincuorò. Ella aprì la biblioteca e vide subito un libro, ov’era scritto a lettere
d’oro: Desiderate e comandate: voi siete qui signora e padrona! « Povera me! » pensò. « Che altro
posso desiderare se non di vedere mio padre e sapere che cosa fa in questo momento? ». Lo disse
fra sé, e quale non fu la sua sorpresa quando, nel posare gli occhi su un grande specchio, vide la sua
casetta, ove il padre arrivava con un viso triste da non si dire! Le sorelle gli andavano incontro ma,
nonostante tutte le loro smorfie per sembrare afflitte, il piacere che avevano per essersi liberate della
sorella, traspariva sui loro volti. Un attimo dopo la visione sparì, ma Bella non poté fare a meno di
osservare che la Bestia, in fondo, era molto gentile, e quindi lei non aveva nulla da temere.
A mezzo giorno trovò la tavola apparecchiata e, durante, il pranzo, fu allietata da un’ottima musica,
quantunque non si vedesse nessuno. La sera, al momento di mettersi a tavola, udì il fracasso che la
Bestia era solita fare e, anche questa volta, il sangue le si gelò nelle vene.
« Bella! » disse il mostro. « Siete contenta se resto qui a guardarvi mentre cenate? ».
« Non siete forse voi il padrone? » rispose Bella tremando.
« No » disse la Bestia. « Qui non c’è altra padrona che voi. Ditemi pure di andar via, se
v’importuno, ed io me ne andrò subito. Adesso, ditemi una cosa: non è vero che vi sembro molto
brutto? ».
« È vero » rispose Bella « giacché io non dico bugie. Credo però che siate buono ».
« Avete ragione » continuò la Bestia. « Ma oltre a essere brutto, sono anche stupido: so benissimo
di essere una bestia ».
« Non si è mai una bestia » disse Bella « quando si crede di essere stupidi. Uno sciocco non ha mai
pensato di esserlo ».
« Mangiate, vi prego, Bella » le disse il mostro « e cercate di non annoiarvi troppo in questa vostra
casa; giacché tutto quel ch’è qui v’appartiene, e mi dispiacerebbe assai che non foste contenta ».
« Come siete buono! » disse Bella. « Vi confesso che il vostro buon cuore mi piace. A pensarci
bene, non mi sembrate più tanto brutto ».
« Ah questo sì! » rispose la Bestia. « Ho il cuore buono, ma sono sempre un mostro ».
« Conosco tanti uomini che sono più mostruosi di voi » disse Bella « e, quanto a me, mi piacete più
voi con questo vostro aspetto che coloro i quali, sotto un sembiante umano, nascondono un cuore
falso, ingrato e corrotto.
« Se avessi un po’ di spirito » disse la Bestia « vi farei un bel complimento per ringraziarvi. Ma
sono uno stupido e tutto quello che so dirvi è che vi sono molto riconoscente ».
Bella cenò con appetito. Non aveva quasi più paura del mostro, ma si sentì mancare il fiato quando
costui le disse: « Bella, volete diventare mia moglie? ». Ella rimase qualche minuto senza
rispondere. Aveva paura di svegliare la collera del mostro rifiutandolo, ma alla fine gli disse
tremando come una foglia: « No, Bestia ».
A questo punto il mostro volle emettere un sospiro, ma gli uscì di bocca un fischio così spaventoso,
che tutto il palazzo ne rintronò. Bella fu però ben presto rassicurata, giacché la Bestia, dopo averle
detto tristemente Allora addio, Bella!, uscì da quella camera, voltandosi di quando in quando per
guardarla ancora. Rimasta sola, Bella fu presa da una grande compassione per quel povero mostro.
« Ahimè » disse tra sé. « È un gran peccato che sia così brutto; è così buono! ».
Bella trascorse tre mesi in quel palazzo abbastanza tranquillamente. Tutte le sere, la Bestia veniva a
trovarla e le teneva compagnia durante la cena intrattenendola con discorsi pieni di buon senso, ma
privi di quello che nella buona società viene chiamato “spirito”. Ogni giorno la nostra Bella
scopriva nuove doti di bontà in quel mostro. L’abitudine di vederlo l’aveva assuefatta alla sua
bruttezza e, invece di attendere con timore l’ora della sua visita serale, ella guardava spesso
l’orologio per vedere quanto mancasse ancora alle nove, giacché la Bestia non tralasciava mai di
apparire a quell’ora. Una sola cosa rattristava Bella: il mostro, prima di andare a letto, continuava a
chiederle ogni sera se voleva essere sua moglie, e sembrava addoloratissimo nel sentirsi rispondere
di no. Un giorno lei gli disse:
« Bestia, voi mi fate molto dispiacere. Vorrei potervi sposare, ma sono troppo sincera per farvi
sperare una cosa impossibile. Sarò sempre vostra buona amica. Accontentatevi di questo ».
« Per forza! » rispose la Bestia. « Mi rendo conto d’essere orrendo, ma vi amo moltissimo. Tuttavia
mi ritengo fortunato se resterete volentieri qui. Promettetemi di non lasciarmi mai ».
Bella arrossì a queste parole: nello specchio aveva visto che suo padre si era ammalato per la pena
di averla perduta, ed ella aveva una grande voglia di rivederlo. « Vi potrei promettere di non
lasciarvi mai più » disse. « Ma ho un tale desiderio di rivedere mio padre, che morirei di crepacuore
se mi rifiutaste questa grazia ».
« Preferirei morire io stesso » disse il mostro « piuttosto che darvi un dispiacere. Vi manderò da
vostro padre. Voi resterete lì, e la vostra povera Bestia morirà di dolore! ».
« No! » disse Bella piangendo. « Vi voglio troppo bene per voler causare la vostra morte. Vi
prometto di tornare fra otto giorni. Voi m’avete fatto vedere che le mie sorelle si sono sposate e i
miei fratelli sono andati sotto le armi. Mio padre adesso è solo. Lasciatemi stare una settimana con
lui! ».
« Domattina sarete a casa » disse la Bestia. « Ma ricordatevi della vostra promessa; quando vorrete
tornare, posate il vostro anello sopra il tavolino prima d’andare a letto. Addio, Bella! ».
Nel dire queste parole la Bestia sospirò secondo il suo solito, e Bella andò a letto tutta triste per
avergli dato quel dispiacere.
Quando si svegliò il mattino dopo, si ritrovò nella casa di suo padre e, dopo aver tirato il
campanello che era accanto al suo letto, vide arrivare la servetta che, scorgendola, lanciò un urlo di
sorpresa. A sentire quell’urlo il brav’uomo accorse e fu lì lì per morire dalla gioia nel rivedere la
sua cara bambina. Rimasero abbracciati per un bel po’.
Dopo le prime tenerezze, Bella non sapeva come fare ad alzarsi dal letto, perché pensava che non
aveva neppure un vestito, ma la servetta le disse che, nella camera vicina, ella aveva trovato un
grande baule pieno d’abiti tutti d’oro e adorni di brillanti. Bella ringraziò in cuor suo la Bestia di
tante attenzioni, poi prese per sé la meno ricca di quelle vesti e disse alla servetta di riporre le altre.
Le voleva regalare alle sorelle, ma non aveva neppure finito di pensarlo che il baule era scomparso.
Il padre le spiegò che certamente la Bestia voleva che lei tenesse per sé tutte quelle belle cose; e
sùbito abiti e baule tornarono al loro posto. Bella si vestì, e nel frattempo furono avvertite le sorelle,
le quali arrivarono di corsa assieme ai loro mariti. Erano tutte e due molto infelici: la prima aveva
sposato un cavaliere bello come un Adone; ma egli era tanto innamorato della propria persona che
non pensava ad altro dal mattino alla sera; e tanto meno si curava della bellezza di sua moglie
ch’egli disprezzava. La seconda aveva sposato un uomo pieno di spirito; ma di questo spirito egli
non si serviva che per fare disperare tutti quanti, a cominciare dalla moglie.
Le sorelle di Bella, quando la videro vestita come una principessa e più scintillante del sole, mancò
poco che non scoppiassero dalla bile. Ella ebbe un bell’accarezzarle, ma non poté soffocare la loro
gelosia, che raddoppiò quando seppero che la sorella era felice. Le due invidiose scesero in
giardino, per poter sfogare la loro rabbia, e dicevano l’una all’altra: « Chissà perché mai quella
mocciosa è più felice di noi? Non siamo forse più graziose di lei? ». « Sorella mia » disse la
maggiore « mi viene un’idea. Cerchiamo di trattenerla qui per più di otto giorni; quella sua stupida
Bestia salirà su tutte le furie nel vedere che lei non ha mantenuto la sua parola, e finalmente se la
mangerà! ». « Dici bene, sorella mia » rispose l’altra. « Ma allora bisogna che le facciamo un
mucchio di moine.
Dopo aver preso questa decisione, esse salirono in casa e fecero a Bella tante feste, che questa ne
pianse per la gioia. Quando gli otto giorni furono passati, le sorelle cominciarono a strapparsi i
capelli e a fingersi così addolorate, che Bella promise di restare altri otto giorni. Si rimproverava
però il dispiacere che in tal modo dava alla sua povera Bestia, alla quale voleva molto bene, tanto
che, adesso, ella sentiva la sua mancanza. La decima notte che ella trascorse in casa di suo padre
sognò di trovarsi nel giardino del palazzo e di vedere la Bestia sdraiata sull’erba e quasi morente,
che le rinfacciava la sua ingratitudine. Bella si svegliò all’improvviso e le venne da piangere.
« Non sono forse cattiva » disse tra sé « a dare tanto dispiacere a un mostro che è stato così gentile
con me? È colpa sua se è brutto e così poco spiritoso? È buono, e questo conta più di tutto il resto.
Perché non ho voluto sposarlo? Sarei più felice io con lui che le mie sorelle con i loro mariti. Non è
né la bellezza né lo spirito del marito a rendere la moglie contenta: è la bontà del carattere, la virtù,
le buone maniere; e il mostro ha tutte queste buone qualità. Non ne sono innamorata, è vero, ma lo
stimo e ho per lui sentimenti d’amicizia e di riconoscenza. Suvvia, non è giusto ch’io lo renda
infelice. Per tutta la vita non potrei perdonarmi di essere stata ingrata ».
Nel dir così Bella s’alzò, andò a mettere il suo anello sul tavolino e se ne tornò a letto. Non appena
fu sotto le coltri, s’addormentò di colpo e fece tutt’un sonno fino al mattino. Svegliandosi, vide con
piacere ch’era di nuovo nel palazzo della Bestia. Si vestì con grande cura per piacergli di più e tutta
la giornata si annoiò da morire aspettando che si facessero le nove; ma l’orologio ebbe un bel
suonare: la Bestia non si fece vedere. Bella allora temette di aver provocato la sua morte. Si diede a
correre per tutto il palazzo piangendo e chiamandolo a gran voce. Era proprio disperata.
Dopo aver cercato da tutte le parti, le tornò alla mente il suo sogno e corse in giardino, dalla parte
del canale, dove l’aveva visto dormendo: la povera Bestia era là, stesa a terra, priva di sensi. Bella
credette che fosse morta, si gettò sul suo corpo senza provare alcun ribrezzo per la sua persona e,
accorgendosi che il suo cuore batteva ancora, prese un po’ d’acqua e le bagnò la testa.
La Bestia aprì gli occhi e disse a Bella: « Avete dimenticato la vostra promessa. Il dolore di avervi
perduta mi ha spinto a lasciarmi morire di fame, ma adesso muoio contento, perché ho avuto il
piacere di rivedervi ancora una volta ».
« No, mia cara Bestia, voi non morrete! » gli disse Bella. « Voi dovete vivere per diventare mio
marito. Fin da questo istante vi do la mia mano e giuro che non sarò d’altri che vostra. Ahimè!
Credevo di provare per voi soltanto una buona amicizia, ma il dolore che sento mi fa capire che non
potrei vivere senza vedervi! ».
Appena Bella ebbe detto queste parole, ecco che tutto il palazzo si diede a brillare di mille luci,
fuochi d’artificio e musica. Tutto le annunciava una grandissima festa. Ma tante meraviglie non
trattennero a lungo i suoi occhi. Ella si voltò sùbito verso la sua cara Bestia, il cui stato la teneva
ancora in agitazione. Ma quale fu la sua sorpresa? La Bestia era sparita, e ai suoi piedi ella non vide
più che un principe bello come il dio Amore, che la ringraziava per aver rotto l’incantesimo di cui
era vittima. Quantunque un principe cosiffatto meritasse tutta la sua attenzione, ella gli chiese dove
fosse la Bestia.
« È qui, ai vostri piedi » rispose il Principe. « Una cattiva fata m’aveva condannato a restare sotto
quell’orribile sembiante sino a quando una bella fanciulla non avesse acconsentito a sposarmi, e mi
aveva anche vietato di mostrarmi intelligente. E così, in tutto il mondo, non c’eravate che voi così
buona da potervi innamorare della bontà del mio carattere. Offrendovi la mia corona, non posso
certo sdebitarmi di tutta la riconoscenza che provo per voi ».
Bella, gradevolmente sorpresa, porse la mano a quel bel principe perché si rialzasse. Insieme essi
raggiunsero il palazzo, e Bella credette di morire dalla gioia, quando nella grande sala vide suo
padre e tutta la sua famiglia, ch’era stata trasportata là da quella bella dama che un giorno le era
apparsa in sogno.
« Bella » le disse quella dama che era una potente fata « venite a ricevere il premio di quell’ottima
scelta che avete fatta. Voi avete preferito la virtù alla bellezza e anche allo spirito. Meritate di
trovare tutte queste doti riunite in una sola persona. Inoltre diverrete una grande regina, ma ho
fiducia che il trono non distruggerà le vostre virtù! ».
« Quanto a voi, signore mie » disse la Fata alle due sorelle di Bella « conosco bene il vostro cuore e
tutta la malizia che v’è dentro. Diverrete due statue, pur conservando tutto il vostro intendimento
sotto la pietra che vi avvolgerà. Starete mute e immobili alla porta del palazzo di vostra sorella, e
non vi do altra pena che quella di dover assistere alla sua felicità. Non potrete tornare al vostro
primitivo stato che allorquando riconoscerete pienamente tutti i vostri torti. Ma ho una grande paura
che dobbiate rimanere statue per sempre! L’orgoglio, l’ira, la gola e la pigrizia si possono
correggere, ma è un miracolo la conversione di un cuore cattivo e invidioso! ».
A questo punto la Fata toccò tutti quelli ch’erano nella sala con la sua bacchetta magica e li
trasportò nel reame del Principe. I suoi sudditi lo rividero con gioia, e lui sposò la sua Bella, con la
quale visse lungamente in felicità perfetta, basata sulla virtù.
CENERENTOLA
La moglie di un ricco si ammalò e, quando sentì avvicinarsi la fine, chiamò al capezzale la sua
unica figlioletta e le disse: « Bimba mia, sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti
guarderò dal cielo e ti sarò vicina ». Poi chiuse gli occhi e morì. La fanciulla andava ogni giorno
sulla tomba della madre, piangeva ed era sempre docile e buona. Quando venne l’inverno, la neve
coprì la tomba di un suo bianco drappo, e quando il sole di primavera l’ebbe tolto, l’uomo prese
moglie di nuovo.
La donna portò in casa due figlie belle, bianche di viso, ma nere di cuore. Cominciarono brutti
giorni per la povera figliastra. « Quella stupida oca » esse dicevano « dovrebbe stare in salotto con
noi? Chi mangia pane deve guadagnarselo. Fuori, sguattera! ». Le tolsero i suoi bei vestiti, le fecero
indossare una vecchia palandrana grigia e le diedero un paio di zoccoli. « Guardate la principessa,
com’è agghindata! » esclamarono ridendo e la condussero in cucina. Là doveva sgobbare da mane a
sera, alzarsi prima dell’alba, portare l’acqua, accendere il fuoco, cucinare e lavare. Per giunta le
sorelle gliene facevano di tutti i colori, la schernivano. E le versavano ceci e lenticchie nella cenere,
sicché doveva raccoglierli uno a uno. La sera, dopo tante fatiche, non andava a letto, ma si coricava
nella cenere, accanto al focolare. E siccome era sempre sporca e impolverata, la chiamarono
Cenerentola.
Una volta il padre, prima di andare alla fiera, chiese alle due figliastre cosa dovesse portar loro.
« Bei vestiti » disse la prima. « Perle e gemme » disse la seconda. « E tu, Cenerentola, » egli chiese
« che vuoi? ». « Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno, coglietelo per
me ». Egli comprò bei vestiti, perle e gemme per le due figliastre; e sulla via del ritorno, mentre
cavalcava per un verde boschetto, un ramo di nocciòlo lo sfiorò e gli fece cadere il cappello. Allora
egli colse il rametto e se lo portò via. Giunto a casa, diede alle figliastre quel che avevano
desiderato, e il ramo di nocciòlo a Cenerentola. Cenerentola lo ringraziò, andò sulla tomba della
madre, piantò il rametto e pianse tanto che le lagrime vi caddero sopra e lo innaffiarono. Il ramo
crebbe e divenne una bella pianta. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava, e
ogni volta si posava sulla pianta un uccellino bianco che, se ella esprimeva un desiderio, le gettava
quel che aveva desiderato.
Ora avvenne che il re diede una festa che doveva durare tre gironi e invitò tutte le belle ragazze del
paese, perché suo figlio potesse scegliersi la sposa. Le due sorellastre, quando seppero che
dovevano parteciparvi anche loro, tutte contente chiamarono Cenerentola e dissero: « Pettinaci,
spazzola le scarpe e assicura le fibbie: andiamo a nozze al castello del re ». Cenerentola ubbidì, ma
pianse, perché anche lei sarebbe andata volentieri al ballo, e pregò la matrigna di accordarle il
permesso. « Tu, Cenerentola, » esclamò quella « sei così sporca e impolverata e vuoi andare a
nozze? Non hai vestiti né scarpe e vuoi danzare? ». Ma Cenerentola insisteva e la matrigna finì col
dirle: « Ho versato nella cenere un piatto di lenticchie. Se in due ore le sceglierai tutte, potrai andare
anche tu ». La fanciulla andò nell’orto, dietro casa, e chiamò: « Colombelle mie, e voi, tortorelle, e
voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie,
le buone nel pentolino,
le cattive nel gozzino.
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle e in fine,
frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono attorno alla cenere. E le
colombelle accennarono di sì con le testine e ci si misero, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero
anche tutti gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nel piatto. Non passò un’ora che
avevano già finito e volarono tutti via. Allora la fanciulla, tutta contenta, portò il piatto alla
matrigna e credé di poter andare a nozze anche lei. Ma la matrigna disse: « No, Cenerentola; non
hai vestiti, non sai ballare, saresti soltanto derisa ». Ma Cenerentola si mise a piangere, e quella
disse: « Se in un’ora riesci a raccogliere dalla cenere e scegliere due piatti pieni di lenticchie, verrai
anche tu ». E pensava: « Non ci riuscirà mai ». Quando la matrigna ebbe versato i due piatti pieni di
lenticchie nella cenere, la fanciulla andò nell’orto dietro casa e gridò: « Colombelle mie, e voi,
tortorelle, e voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie,
le buone nel pentolino,
le cattive nel gozzino.
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle e in fine,
frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono attorno alla cenere. E le
colombelle accennarono di sì con le testine e ci si misero, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero
anche tutti gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero i grani buoni nei piatti. E non passò mezz’ora che
avevano già finito e volarono via. Rimasta sola, Cenerentola andò sulla tomba della madre e gridò:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
Allora l’uccello le gettò un abito d’oro e d’argento e scarpette trapunte d’argento e di seta. In fretta
ella indossò l’abito e andò a nozze. Ma le sorelle e la matrigna non la riconobbero e credevano fosse
una principessa sconosciuta, tant’era bella nell’abito d’oro. A Cenerentola non pensavano affatto e
credevano se ne stesse a casa nel sudiciume a raccogliere lenticchie dalla cenere. Il principe le
venne incontro, le prese la mano e ballò con lei. E non volle ballare con nessun’altra, non le lasciò
mai la mano, e se un altro la invitava, diceva: « È la mia ballerina ». Cenerentola danzò fino a sera,
poi volle andare a casa. Ma il principe disse: « Vengo ad accompagnarti » perché voleva vedere da
dove venisse la bella fanciulla. Ma ella scappò e balzò nella colombaia. Il principe aspettò che
tornasse il padre e gli disse che la fanciulla sconosciuta era saltata nella colombaia. Il vecchio
pensò: « Che sia Cenerentola? » e si fece portare un’accétta e un piccone per buttar giù la
colombaia. Ma dentro non c’era nessuno. E quando tornarono a casa, Cenerentola giaceva sulla
cenere nella sue vesti sporche e un lumino a olio ardeva a stento nel focolare. Da un’apertura
superiore ella era saltata prontamente fuor dalla colombaia ed era corsa sotto il nocciòlo; là s’era
tolta le belle vesti e le aveva deposte sulla tomba e l’uccello le aveva riprese; ed ella, nella sua
palandrana grigia, si era stesa sulla cenere, in cucina.
Il giorno dopo, quando ricominciò la festa e i genitori e le sorellastre furono di nuovo usciti,
Cenerentola andò sotto il nocciòlo e gridò:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
Allora l’uccello le gettò un abito ancora più superbo del primo. E quando, così abbigliata, comparve
a nozze, tutti si meravigliarono della sua bellezza. Ma il principe, che l’aveva aspettata, la prese per
mano e ballò solo con lei. Quando gli altri la invitavano, diceva: « Questa è la mia ballerina ». La
sera ella se ne andò e il principe la seguì per veder dove andasse. Ma ella fuggì d’un balzo nell’orto
dietro casa. Là c’era un bell’albero alto da cui pendevano magnifiche pere; ella s’arrampicò fra i
rami svelta come uno scoiattolo e il principe non sapeva dove fosse sparita. Ma aspettò che
arrivasse il padre e gli disse: La fanciulla forestiera mi è scappata e credo si sia arrampicata sul
pero. Il padre pensò: « Che sia Cenerentola? ». Si fece portare l’ascia e abbatté l’albero, ma sopra
non c’era nessuno. E quando entrarono in cucina, Cenerentola giaceva sulla cenere come al solito:
era saltata giù dall’altra parte dell’albero, aveva riportato le belle vesti dell’uccello sul nocciòlo e
indossato la sua palandrana grigia.
Il terzo giorno, quando i genitori e le sorelle se ne furono andati, Cenerentola tornò sulla tomba di
sua madre e disse alla pianticella:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
E l’uccello le gettò un abito sfarzoso e rilucente come non ne aveva ancora avuti; e le scarpette
erano tutte d’oro. Quando ella comparve a nozze con quell’abito, non ebbero più parole per la
meraviglia. Il principe ballò solo con lei; e se qualcuno la invitava, egli diceva: « Questa è la mia
ballerina ». Quando fu sera, Cenerentola se ne andò e il principe volle accompagnarla, ma ella fuggì
via così rapida che non riuscì a seguirla. Il principe però era ricorso a un’astuzia e aveva fatto
spalmare tutta la scala di pece. Quando la fanciulla corse via, la sua scarpetta sinistra vi rimase
appiccicata. Il principe la raccolse: era piccola, elegante e tutta d’oro. La mattina andò dal padre di
Cenerentola e disse: « Sarà la mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa scarpa d’oro ».
Allora le due sorelle si rallegrarono perché avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa
in camera sua e volle provarla davanti a sua madre. Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era
troppo piccolina. Allora la madre le porse un coltello e le disse: « Tàgliati il dito. Quando sarai
regina, non avrai più bisogno di andare a piedi ». La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella
scarpa, contenne il dolore e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con
lei. Ma dovevano passare davanti alla tomba. Due colombelle posate sul cespuglio del nocciòlo
gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
c’è sangue nella scarpa.
Strettina è la scarpetta.
La vera sposa è ancor nella casetta.
Allora egli le guardò il piede e ne vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa
fidanzata e disse che non era quella vera e che l’altra sorella provasse a infilare la scarpa. Essa andò
nella sua camera e riuscì facilmente a infilare le dita, ma il calcagno era troppo grosso. Allora la
madre le porse un coltello e disse: « Tàgliati un pezzo di calcagno. Quando sarai regina, non avrai
più bisogno di andare a piedi ». La fanciulla si tagliò un pezzo di calcagno, serrò il piede nella
scarpa, contenne il dolore e andò dal principe. E questi la mise sul cavallo e andò via con lei.
Quando passarono accanto al nocciòlo, le due colombelle gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
c’è sangue nella scarpa.
Strettina è la scarpetta.
La vera sposa è ancor nella casetta.
Egli le guardò il piede e vide il sangue che sgorgava dalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze
bianche. Allora voltò il cavallo e riportò a casa la falsa fidanzata. « Neppure questa è la vera. Non
avete altre figlie? ». « No » disse l’uomo. « C’è soltanto una piccola Cenerentola tristanzuola, della
moglie che mi è morta. È impossibile che sia la sposa ». Il principe gli disse di mandarla a prendere,
ma la matrigna rispose: « Ah no! È troppo sporca, non può farsi vedere ». Ma egli lo volle
assolutamente e dovettero chiamar Cenerentola. Ella prima si lavò ben bene le mani e il volto, poi
andò a inchinarsi davanti al principe, che le porse la scarpa d’oro. Allora ella si mise a sedere sullo
sgabello, tolse il piede dal pesante zoccolo e l’infilò nella scarpetta: le stava a pennello. E quando si
alzò, e il re la guardò in viso, egli riconobbe la bella fanciulla con cui aveva danzato e gridò:
« Questa è la vera sposa! ». La matrigna e le due sorellastre impallidirono dall’ira, ma egli mise
Cenerentola sul cavallo e se ne andò con lei. Quando passarono accanto al nocciòlo, le due
colombelle bianche gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
non c’è sangue nella scarpa,
che non è troppo piccina.
Porti a casa le vera sposina
Poi scesero a volo, si posarono sulle spalle di Cenerentola e lì rimasero, l’una a destra, l’altra a
sinistra.
Quando stavano per essere celebrate le nozze, arrivarono le sorellastre, che volevano ingraziarsi
Cenerentola e partecipare alla sua fortuna. E mentre gli sposi andavano in chiesa, la maggiore era a
destra e la minore a sinistra di Cenerentola. Le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi,
all’uscita, la maggiore era a sinistra e la minore a destra. Le colombe cavarono a ciascuna l’altro
occhio. Così furono punite con la cecità per tutta la vita, perché erano state false e malvagie.
BIBLIOGRAFIA
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ERICH NEUMANN, Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo, trad. it. di Vittorio
Tamaro, Collana “Psiche e coscienza”, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1989.
Miranda Barisone
Bologna, 25 ottobre 2009.
LA BELLA E LA BESTIA
di Madame Leprince de Beaumont
C’era una volta un ricchissimo mercante che aveva sei figli, tre maschi e tre femmine. Siccome era
un uomo intelligente, non risparmiò nulla per educarli e dar loro ogni sorta di maestri. Le figliole
erano bellissime, ma specialmente la minore era una meraviglia: quand’era piccola, tutti la
chiamavano bellina, cosicché il nome di Bella le restò, e ciò fu causa, per le due sorelle, di
grandissima gelosia.
Questa figlia minore, ch’era più bella delle altre, era anche più buona di loro: le due maggiori erano
piene di superbia, perché si sapevano molto ricche. Si davano arie da grandi signore, non volevano
avere nulla a che fare con le figlie degli altri mercanti e ricercavano soltanto la compagnia della
gente titolata. Tutti i giorni andavano a feste da ballo, teatri, passeggiate eleganti e si burlavano
della sorella minore, perché preferiva passare il suo tempo a leggere buoni libri.
Poiché si sapeva che le tre ragazze erano ricche sfondate, parecchi grossi negozianti le chiesero in
matrimonio. Ma le due maggiori risposero che non si sarebbero mai sposate, a meno che non fosse
capitato loro un duca, o al minimo, un conte. Quanto a Bella (vi ho già detto che questo era il nome
della minore), la Bella, dico, ringraziò molto gentilmente coloro che volevano sposarla, ma rispose
che le sembrava d’essere troppo giovane e desiderava rimanere a tener compagnia a suo padre
ancora per qualche anno.
Tutt’a un tratto però il mercante fece fallimento. Dei suoi averi non gli rimase che una piccola casa
di campagna assai lontana dalla città. Con le lagrime agli occhi disse ai suoi figlioli che bisognava
rassegnarsi ad andare in quella casa dove, mettendosi a fare i contadini, avrebbero avuto almeno di
che vivere. Le due figlie maggiori gli risposero che non avevano intenzione di lasciare la città e che
i loro spasimanti sarebbero stati fin troppo felici di sposarle, anche adesso che non avevano più un
soldo. Le nostre signorine si sbagliavano della grossa: quegli spasimanti non le guardarono più in
faccia, quando le seppero povere. E siccome, data la loro superbia, nessuno le poteva vedere, la
gente diceva: « Non meritano compassione, anzi siamo contenti che abbiano dovuto abbassare la
cresta! Vadano a fare adesso le grandi signore badando alle pecore e ai montoni! ». Però, al tempo
stesso, tutti dicevano: « Quanto a Bella, ci rincresce proprio la sua disgrazia. È una così brava
ragazza! Parlava alla povera gente con tanta bontà, era così dolce, così gentile! ». Vi furono persino
parecchi gentiluomini che si offrirono di sposarla, anche così, senza un quattrino, ma lei disse che
non aveva cuore di abbandonare il suo povero padre nella disgrazia, e voleva accompagnarlo in
campagna per consolarlo e aiutarlo nel lavoro.
La povera Bella, al principio, fu molto addolorata per aver perduto tutto, ma poi disse fra sé:
« Quand’anche mi struggessi in un mare di pianto, le mie lagrime non servirebbero a restituirmi
quello che ho perduto. Meglio è cercare d’essere contenta anche così ».
Una volta sistemati nella loro casa di campagna, il mercante e i suoi tre figli si misero a lavorare la
terra. Bella si alzava alle quattro del mattino, si affaccendava a pulire la casa e a preparare il pranzo
per tutta la famiglia. Al principio dovette faticare molto, perché non era abituata a lavorare come
una serva; ma in due mesi si fece più robusta e, faticando tutto il giorno, acquistò una salute di
ferro. Quando aveva finito le sue faccende, ella leggeva, suonava il clavicembalo o cantava filando.
Le sorelle, invece, si annoiavano da morire, si alzavano alle dieci del mattino, bighellonavano tutto
il santo giorno e passavano il tempo a sospirare dietro ai loro bei vestiti e alle brillanti compagnie.
« Guarda un po’ nostra sorella » si dicevano l’un l’altra. « Che animo volgare e meschino ha!
Sembra contenta della sua disgraziata situazione! ». Il buon mercante non la pensava come le
figliole; sapeva che Bella era più adatta di loro a brillare in società; ammirava la virtù di quella
fanciulla e soprattutto la pazienza di lei, giacché le sorelle, non contente di lasciarle fare tutte le
faccende di casa, la stuzzicavano in ogni momento.
Era un anno che questa famiglia viveva ritirata in campagna, quando il mercante ricevette una
lettera nella quale gli si diceva che una nave, carica di mercanzie di sua proprietà, era arrivata
felicemente in porto. Poco mancò che tale notizia facesse girare la testa alle due figlie maggiori,
tutte liete di pensare che finalmente avrebbero potuto venir via da quella campagna dove
s’annoiavano tanto. Quando il padre fu pronto per partire, lo pregarono di portar loro al suo ritorno
bei vestiti, baveri di pelliccia, acconciature e ogni sorta di cianfrusaglie. Bella non gli chiedeva
nulla, giacché pensava che il denaro delle mercanzie arrivate per mare non sarebbe bastato ad
acquistare tutto ciò che le sorelle desideravano. « E tu non mi preghi di portarti qualcosa? » disse il
padre. « Giacché siete così buono da pensare a me » rispose lei « vi prego di portarmi una rosa: in
questi posti non ne vengono! ». Questo non vuol dire che Bella ci tenesse molto ad avere una rosa,
ma non voleva aver l’aria di biasimare con il suo esempio le richieste delle sorelle, le quali
avrebbero detto che lei non aveva domandato nulla solo per distinguersi da loro.
Il brav’uomo partì, ma quando fu arrivato al porto, i suoi creditori gl’intentarono un processo e si
presero tutte le sue mercanzie, cosicché, dopo essersi dato tanta pena, egli dovette tornarsene
indietro povero in canna com’era venuto. Non gli restavano più che trenta miglia per arrivare a casa,
e già si rallegrava del piacere di rivedere i suoi figlioli, quando, mentre attraversava un grande
bosco, s’accorse di aver perduto la strada. Nevicava da non si dire e tirava un vento tale che per ben
due volte egli fu buttato giù da cavallo. Si fece notte, e lui pensò che sarebbe morto di fame o di
freddo, o mangiato dai lupi che sentiva ululare attorno a sé. Tutt’a un tratto, guardando in fondo a
un lungo viale alberato, vide una grande luce che sembrava lontana lontana. Andò da quella parte e
vide che la luce proveniva da un grande palazzo, il quale era tutto illuminato. Il mercante ringraziò
Dio dell’aiuto che gli mandava e s’affrettò a raggiungere quell’edificio, ma rimase grandemente
stupito nel non trovarvi anima viva. Il suo cavallo, che gli andava dietro, vedendo una grande
scuderia, vi entrò e, avendo trovato fieno e avena, quel povero animale morto di fame vi si buttò
sopra con grandissima avidità. Il nostro mercante lo lasciò mangiare, legato nella stalla, e si diresse
verso il palazzo, dove non vide alcuno; ma, essendo entrato in una grande sala, vi trovò un buon
fuoco acceso e una tavola piena di qualità diverse di carne, dove non era apparecchiato che per una
persona. Poiché la neve e la pioggia lo avevano bagnato fino alle ossa, s’avvicinò al fuoco per
asciugarsi, dicendo fra sé: « Il padrone di casa o i suoi domestici mi perdoneranno la libertà che mi
sono presa e senza dubbio non tarderanno a venire ». Aspettò un bel pezzo, ma, essendo suonate le
undici senza che alcuno si fosse veduto, non poté più resistere alla fame e afferrò un pollo che
mangiò, tremando, in due bocconi. Bevve anche qualche sorso di vino e, fattosi più ardito, uscì da
quella sala e attraversò parecchie grandi stanze splendidamente arredate. Gira e rigira, trovò una
camera dove era preparato un buon letto, e poiché era ormai la mezzanotte passata, e lui non stava
più in piedi dalla stanchezza, si decise a chiudere la porta e a mettersi a dormire.
Il giorno dopo, erano le dieci del mattino quando si svegliò e fu molto stupito di trovare un abito
assai decente al posto del suo che era ridotto molto male. « Certamente » disse tra sé « questo
palazzo appartiene a qualche buona fata che si è impietosita della mia situazione ». Guardò dalla
finestra e vide che la neve era scomparsa, e che al suo posto c’erano pergolati di fiori, che erano una
festa per gli occhi. Entrò nella grande sala dove aveva cenato il giorno prima e vide un tavolinetto
con sopra una bella cioccolata calda. « Vi ringrazio, signora Fata » egli disse ad alta voce « d’aver
avuto la bontà di pensare anche alla mia condizione! ». E il brav’uomo, dopo aver bevuto la
cioccolata, uscì per andare a prendere il cavallo, ma, mentre passava sotto un pergolato di rose, si
ricordò che Bella gliene aveva chiesta una, e prese un ramo dove ve n’erano parecchie. A questo
punto, udì un orribile fragore e vide venirsi incontro una bestia così mostruosa che egli fu lì lì per
svenire.
« Quale ingratitudine è la vostra! » gli disse la Bestia con una voce terribile. « Io v’ho salvato la
vita, aprendovi le porte del mio palazzo, e come compenso rubate le mie rose, la cosa che mi piace
più di tutte al mondo! Per scontare un simile errore, dovete morire. Non vi concedo che un quarto
d’ora per chiedere perdono a Dio dei vostri peccati! ».
Il mercante si gettò alle sue ginocchia e, giungendo le mani, così disse alla Bestia: « Monsignore,
perdonatemi. Non credevo di offendervi cogliendo una rosa per una delle mie figliole che me
l’aveva domandata ».
« Io non mi chiamo Monsignore » rispose il mostro « ma Bestia. I complimenti non mi piacciono;
voglio che ognuno dica quello che pensa; quindi, non crediate di commuovermi con i vostri
salamelecchi. Ma avete detto che avete delle figlie: sono disposto a perdonarvi a patto che una di
loro venga spontaneamente qui, a morire al vostro posto. Non una parola di più. Partite e, caso mai
le vostre figlie rifiutassero di morire per voi, giuratemi che tornerete entro tre mesi ». Al brav’uomo
non passava neppure per la mente di sacrificare una delle sue figliole a quell’orribile mostro, perciò
disse: « Almeno avrò la gioia di abbracciarle ancora una volta! ». Giurò dunque di tornare, e la
Bestia gli disse che poteva partire quando voleva. « Ma » soggiunse « non voglio che partiate a
mani vuote. Tornate nella stanza dove avete dormito; vi troverete un baule vuoto ove potrete
mettere tutto quel che vi piacerà. Penserò io a farlo portare a casa vostra ». Detto questo la Bestia se
ne andò, e il brav’uomo disse fra sé: « Se devo proprio morire, almeno avrò la consolazione di
lasciare un tozzo di pane per i miei poveri figlioli! ».
Tornò nella stanza dove aveva dormito, vi trovò una grande quantità di monete d’oro e ne riempì
pieno zeppo il baule, lo chiuse e, dopo aver ripreso il suo cavallo ch’era nella scuderia, egli uscì da
quel palazzo con una tristezza non inferiore alla gioia provata nell’entrarvi. Il cavallo imboccò da sé
uno dei sentieri della foresta e, in poche ore, il buonuomo arrivò alla sua casa di campagna. I figli
gli si fecero attorno, e lui, invece d’essere contento delle feste che gli facevano, li guardava e non
poteva far a meno di piangere. Aveva ancora in mano il tralcio di rose còlto per Bella, glielo diede e
disse: « Bella mia, prendete queste rose. Voi non sapete quanto costeranno care al vostro povero
padre! ». E qui non poté trattenersi dal narrare alla famiglia la triste avventura capitatagli. A tale
racconto le due figlie maggiori cominciarono a strillare e a coprire d’ingiurie Bella, che invece non
piangeva. « Guarda un po’ a che può portare l’orgoglio di questa mocciosetta! » dicevano. « Chissà
perché lei non doveva chiedere qualche bella cosina, come abbiamo fatto noi! Figuriamoci, la
signorina voleva fare l’originale! Così adesso sarà causa della morte di nostro padre e neppure
piange! ».
« Sarebbe proprio inutile » intervenne Bella. « Perché mai dovrei piangere la morte di mio padre,
quando lui non morirà affatto? Giacché il mostro vuole accettare in cambio una di noi, andrò io ad
affrontare la sua furia e ne sarò felicissima perché, morendo, avrò la gioia di salvare la vita a mio
padre e di provargli tutto il mio affetto.
« No, sorellina » le dissero i tre fratelli. « Voi non morirete. Andremo noi a trovare il mostro e
periremo sotto i suoi colpi, se non riusciremo ad ammazzarlo! ».
« Non lo sperate » disse il mercante. « La potenza di quella Bestia è così grande che non c’è alcun
modo di farla morire. Il buon cuore di Bella mi commuove, ma non intendo esporla alla morte. Io
sono vecchio, non mi resta che poco tempo da vivere; perderò solo qualche anno di vita che ho
motivo di rimpiangere solo per voi, miei cari figlioli ».
« E io vi assicuro, padre mio » continuò Bella « che non andrete in quel palazzo senza di me! Non
potrete impedire che io vi segua. Sono giovane, è vero, ma non tengo molto alla vita e preferisco
mille volte essere divorata da quel mostro che morire di crepacuore pensando che non ci sarete
più ».
Bella volle assolutamente partire anche lei con suo padre alla volta del palazzo, e alle sorelle non
parve vero, perché le doti della sorellina minore le facevano morire di gelosia. Il povero mercante
era così frastornato dal dolore di perdere la sua bambina, che non pensava più al baule pieno di
monete d’oro. Ma non appena egli si fu ritirato nella sua cameretta per mettersi a dormire ebbe la
lieta sorpresa di trovarselo accanto al letto. Decise però di non dire ai figli ch’era diventato così
ricco, perché era sicuro che le figlie avrebbero voluto tornarsene in città ed egli aveva invece deciso
di chiudere i suoi giorni in quella campagna. Tuttavia confidò a Bella il suo segreto e lei gli disse
che, durante la sua assenza, erano venuti alcuni gentiluomini a trovarle, e due di essi si erano
innamorati delle sorelle. Pregava quindi il padre di volerle maritare, giacché ella era così buona che
voleva bene a tutte e due e perdonava loro di tutto cuore i dispetti che sempre le avevano fatto.
Quando Bella partì assieme a suo padre, quelle cattivacce dovettero strofinarsi gli occhi con una
cipolla per aver l’aria di piangere. I fratelli, invece, piangevano sul serio, e non meno del vecchio
mercante. Soltanto bella non piangeva, per non inasprire il dolore degli altri. Il cavallo prese la via
del palazzo e, verso sera, essi lo scorsero, tutto illuminato come la prima volta. Il cavallo andò da
solo nella scuderia, e il buonuomo entrò con la figliola nella grande sala, ove essi trovarono una
tavola splendidamente imbandita per due. Il mercante aveva il cuore così stretto che non gli riusciva
di mangiare, ma Bella, studiandosi di apparire tranquilla, si mise a tavola e gli riempì il piatto. In
cuor suo però diceva: « La Bestia vuol farmi ingrassare prima di mangiarmi: lo si vede da come mi
tratta! ». Quando ebbero cenato, si udì un grande fracasso. Il mercante disse addio a sua figlia con le
lagrime agli occhi, giacché sapeva che la Bestia stava per arrivare. Bella si sentì gelare da capo a
piedi quando scorse quell’orribile mostro, ma fece di tutto per dominarsi e, quando egli le chiese se
era venuta spontaneamente, lei, tremando, gli rispose di sì.
« Siete stata molto buona » disse la Bestia. « Ve ne sono assai grato. Quanto a voi, brav’uomo,
partirete domattina e non vi farete più rivedere da queste parti. Addio, Bella ». « Addio, Bestia »
rispose lei. E il mostro sparì. « Ah, figlia mia! » disse il mercante stringendosi a Bella. « Sono già
mezzo morto di paura per voi! Datemi retta, vi prego, lasciatemi qui ». « No, padre mio » gli rispose
Bella con grande fermezza. « Voi partirete domattina e mi abbandonerete all’aiuto del cielo. Forse il
cielo avrà pietà di me! ».
Andarono a dormire. Credevano di non poter chiudere occhio tutta la notte e invece, non appena
furono a letto, s’addormentarono profondamente. Bella, mentre dormiva, vide in sogno una dama
che le disse: « Sono contenta, Bella, del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando la vita
per salvare quella di vostro padre, non rimarrà senza ricompensa ». Bella, al risveglio, raccontò a
suo padre questo sogno e, quantunque esso li consolasse un poco, non impedì al padre di mettersi a
piangere e singhiozzare, quando venne il momento di separarsi dalla figlia.
Quando egli fu andato via, Bella si sedette nella grande sala e scoppiò anche lei a piangere. Ma,
essendo piena di coraggio, si raccomandò a Dio e decise di pensarvi su il meno possibile, durante
quel po’ di tempo che le rimaneva da vivere, giacché era fermamente convinta che la Bestia
l’avrebbe divorata la sera stessa.
Intanto, mentre aspettava, decise di fare un giretto e di visitare il palazzo. Non poteva fare a meno
di ammirarne la bellezza, e fu moto stupita nel trovare una porta sulla quale era scritto:
Appartamento di Bella. Aprì precipitosamente quella porta e rimase abbagliata dalla sontuosità che
vi regnava. Quello che però la colpì maggiormente fu il vedere una grande biblioteca, un
clavicembalo e parecchi libri di musica. « Non vogliono che mi annoi » disse tra sé. E pensò sùbito
dopo: « Se avessi un giorno solo da restare qui, non m’avrebbero preparato tante belle cose ».
Questo pensiero la rincuorò. Ella aprì la biblioteca e vide subito un libro, ov’era scritto a lettere
d’oro: Desiderate e comandate: voi siete qui signora e padrona! « Povera me! » pensò. « Che altro
posso desiderare se non di vedere mio padre e sapere che cosa fa in questo momento? ». Lo disse
fra sé, e quale non fu la sua sorpresa quando, nel posare gli occhi su un grande specchio, vide la sua
casetta, ove il padre arrivava con un viso triste da non si dire! Le sorelle gli andavano incontro ma,
nonostante tutte le loro smorfie per sembrare afflitte, il piacere che avevano per essersi liberate della
sorella, traspariva sui loro volti. Un attimo dopo la visione sparì, ma Bella non poté fare a meno di
osservare che la Bestia, in fondo, era molto gentile, e quindi lei non aveva nulla da temere.
A mezzo giorno trovò la tavola apparecchiata e, durante, il pranzo, fu allietata da un’ottima musica,
quantunque non si vedesse nessuno. La sera, al momento di mettersi a tavola, udì il fracasso che la
Bestia era solita fare e, anche questa volta, il sangue le si gelò nelle vene.
« Bella! » disse il mostro. « Siete contenta se resto qui a guardarvi mentre cenate? ».
« Non siete forse voi il padrone? » rispose Bella tremando.
« No » disse la Bestia. « Qui non c’è altra padrona che voi. Ditemi pure di andar via, se
v’importuno, ed io me ne andrò subito. Adesso, ditemi una cosa: non è vero che vi sembro molto
brutto? ».
« È vero » rispose Bella « giacché io non dico bugie. Credo però che siate buono ».
« Avete ragione » continuò la Bestia. « Ma oltre a essere brutto, sono anche stupido: so benissimo
di essere una bestia ».
« Non si è mai una bestia » disse Bella « quando si crede di essere stupidi. Uno sciocco non ha mai
pensato di esserlo ».
« Mangiate, vi prego, Bella » le disse il mostro « e cercate di non annoiarvi troppo in questa vostra
casa; giacché tutto quel ch’è qui v’appartiene, e mi dispiacerebbe assai che non foste contenta ».
« Come siete buono! » disse Bella. « Vi confesso che il vostro buon cuore mi piace. A pensarci
bene, non mi sembrate più tanto brutto ».
« Ah questo sì » rispose la Bestia. « Ho il cuore buono, ma sono sempre un mostro ».
« Conosco tanti uomini che sono più mostruosi di voi » disse Bella « e, quanto a me, mi piacete più
voi con questo vostro aspetto che coloro i quali, sotto un sembiante umano, nascondono un cuore
falso, ingrato e corrotto.
« Se avessi un po’ di spirito » disse la Bestia « vi farei un bel complimento per ringraziarvi. Ma
sono uno stupido e tutto quello che so dirvi è che vi sono molto riconoscente ».
Bella cenò con appetito. Non aveva quasi più paura del mostro, ma si sentì mancare il fiato quando
costui le disse: « Bella, volete diventare mia moglie? ». Ella rimase qualche minuto senza
rispondere. Aveva paura di svegliare la collera del mostro rifiutandolo, ma alla fine gli disse
tremando come una foglia: « No, Bestia ».
A questo punto il mostro volle emettere un sospiro, ma gli uscì di bocca un fischio così spaventoso,
che tutto il palazzo ne rintronò. Bella fu però ben presto rassicurata, giacché la Bestia, dopo averle
detto tristemente Allora addio, Bella!, uscì da quella camera, voltandosi di quando in quando per
guardarla ancora. Rimasta sola, Bella fu presa da una grande compassione per quel povero mostro.
« Ahimè » disse tra sé. È un gran peccato che sia così brutto; è così buono! ».
Bella trascorse tre mesi in quel palazzo abbastanza tranquillamente. Tutte le sere, la Bestia veniva a
trovarla e le teneva compagnia durante la cena intrattenendola con discorsi pieni di buon senso, ma
privi di quello che nella buona società viene chiamato “spirito”. Ogni giorno la nostra Bella
scopriva nuove doti di bontà in quel mostro. L’abitudine di vederlo l’aveva assuefatta alla sua
bruttezza e, invece di attendere con timore l’ora della sua visita serale, ella guardava spesso
l’orologio per vedere quanto mancasse ancora alle nove, giacché la Bestia non tralasciava mai di
apparire a quell’ora. Una sola cosa rattristava Bella: il mostro, prima di andare a letto, continuava a
chiederle ogni sera se voleva essere sua moglie, e sembrava addoloratissimo nel sentirsi rispondere
di no. Un giorno lei gli disse:
« Bestia, voi mi fate molto dispiacere. Vorrei potervi sposare, ma sono troppo sincera per farvi
sperare una cosa impossibile. Sarò sempre vostra buona amica. Accontentatevi di questo ».
« Per forza! » rispose la Bestia. « Mi rendo conto d’essere orrendo, ma vi amo moltissimo. Tuttavia
mi ritengo fortunato se resterete volentieri qui. Promettetemi di non lasciarmi mai ».
Bella arrossì a queste parole: nello specchio aveva visto che suo padre si era ammalato per la pena
di averla perduta, ed ella aveva una grande voglia di rivederlo. « Vi potrei promettere di non
lasciarvi mai più » disse. « Ma ho un tale desiderio di rivedere mio padre, che morirei di crepacuore
se mi rifiutaste questa grazia ».
« Preferirei morire io stesso » disse il mostro « piuttosto che darvi un dispiacere. Vi manderò da
vostro padre. Voi resterete lì, e la vostra povera Bestia morirà di dolore! ».
« No! » disse Bella piangendo. « Vi voglio troppo bene per voler causare la vostra morte. Vi
prometto di tornare fra otto giorni. Voi m’avete fatto vedere che le mie sorelle si sono sposate e i
miei fratelli sono andati sotto le armi. Mio padre adesso è solo. Lasciatemi stare una settimana con
lui! ».
« Domattina sarete a casa » disse la Bestia. « Ma ricordatevi della vostra promessa; quando vorrete
tornare, posate il vostro anello sopra il tavolino prima d’andare a letto. Addio, Bella! ».
Nel dire queste parole la Bestia sospirò secondo il suo solito, e Bella andò a letto tutta triste per
avergli dato quel dispiacere.
Quando si svegliò il mattino dopo, si ritrovò nella casa di suo padre e, dopo aver tirato il
campanello che era accanto al suo letto, vide arrivare la servetta che, scorgendola, lanciò un urlo di
sorpresa. A sentire quell’urlo il brav’uomo accorse e fu lì lì per morire dalla gioia nel rivedere la
sua cara bambina. Rimasero abbracciati per un bel po’.
Dopo le prime tenerezze, Bella non sapeva come fare ad alzarsi dal letto, perché pensava che non
aveva neppure un vestito, ma la servetta le disse che, nella camera vicina, ella aveva trovato un
grande baule pieno d’abiti tutti d’oro e adorni di brillanti. Bella ringraziò in cuor suo la Bestia di
tante attenzioni, poi prese per sé la meno ricca di quelle vesti e disse alla servetta di riporre le altre.
Le voleva regalare alle sorelle, ma non aveva neppure finito di pensarlo che il baule era scomparso.
Il padre le spiegò che certamente la Bestia voleva che lei tenesse per sé tutte quelle belle cose; e
sùbito abiti e baule tornarono al loro posto. Bella si vestì, e nel frattempo furono avvertite le sorelle,
le quali arrivarono di corsa assieme ai loro mariti. Erano tutte e due molto infelici: la prima aveva
sposato un cavaliere bello come un Adone; ma egli era tanto innamorato della propria persona che
non pensava ad altro dal mattino alla sera; e tanto meno si curava della bellezza di sua moglie
ch’egli disprezzava. La seconda aveva sposato un uomo pieno di spirito; ma di questo spirito egli
non si serviva che per fare disperare tutti quanti, a cominciare dalla moglie.
Le sorelle di Bella, quando la videro vestita come una principessa e più scintillante del sole, mancò
poco che non scoppiassero dalla bile. Ella ebbe un bell’accarezzarle, ma non poté soffocare la loro
gelosia, che raddoppiò quando seppero che la sorella era felice. Le due invidiose scesero in
giardino, per poter sfogare la loro rabbia, e dicevano l’una all’altra: « Chissà perché mai quella
mocciosa è più felice di noi? Non siamo forse più graziose di lei? ». « Sorella mia » disse la
maggiore « mi viene un’idea. Cerchiamo di trattenerla qui per più di otto giorni; quella sua stupida
Bestia salirà su tutte le furie nel vedere che lei non ha mantenuto la sua parola, e finalmente se la
mangerà! ». « Dici bene, sorella mia » rispose l’altra. « Ma allora bisogna che le facciamo un
mucchio di moine.
Dopo aver preso questa decisione, esse salirono in casa e fecero a Bella tante feste, che questa ne
pianse per la gioia. Quando gli otto giorni furono passati, le sorelle cominciarono a strapparsi i
capelli e a fingersi così addolorate, che Bella promise di restare altri otto giorni. Si rimproverava
però il dispiacere che in tal modo dava alla sua povera Bestia, alla quale voleva molto bene, tanto
che, adesso, ella sentiva la sua mancanza. La decima notte che ella trascorse in casa di suo padre
sognò di trovarsi nel giardino del palazzo e di vedere la Bestia sdraiata sull’erba e quasi morente,
che le rinfacciava la sua ingratitudine. Bella si svegliò all’improvviso e le venne da piangere.
« Non sono forse cattiva » disse tra sé « a dare tanto dispiacere a un mostro che è stato così gentile
con me? È colpa sua se è brutto e così poco spiritoso? È buono, e questo conta più di tutto il resto.
Perché non ho voluto sposarlo? Sarei più felice io con lui che le mie sorelle con i loro mariti. Non è
né la bellezza né lo spirito del marito a rendere la moglie contenta: è la bontà del carattere, la virtù,
le buone maniere; e il mostro ha tutte queste buone qualità. Non ne sono innamorata, è vero, ma lo
stimo e ho per lui sentimenti d’amicizia e di riconoscenza. Suvvia, non è giusto ch’io lo renda
infelice. Per tutta la vita non potrei perdonarmi di essere stata ingrata ».
Nel dir così Bella s’alzò, andò a mettere il suo anello sul tavolino e se ne tornò a letto. Non appena
fu sotto le coltri, s’addormentò di colpo e fece tutt’un sonno fino al mattino. Svegliandosi, vide con
piacere ch’era di nuovo nel palazzo della Bestia. Si vestì con grande cura per piacergli di più e tutta
la giornata si annoiò da morire aspettando che si facessero le nove; ma l’orologio ebbe un bel
suonare: la Bestia non si fece vedere. Bella allora temette di aver provocato la sua morte. Si diede a
correre per tutto il palazzo piangendo e chiamandolo a gran voce. Era proprio disperata.
Dopo aver cercato da tutte le parti, le tornò alla mente il suo sogno e corse in giardino, dalla parte
del canale, dove l’aveva visto dormendo: la povera Bestia era là, stesa a terra, priva di sensi. Bella
credette che fosse morta, si gettò sul suo corpo senza provare alcun ribrezzo per la sua persona e,
accorgendosi che il suo cuore batteva ancora, prese un po’ d’acqua e le bagnò la testa.
La Bestia aprì gli occhi e disse a Bella: « Avete dimenticato la vostra promessa. Il dolore di avervi
perduta mi ha spinto a lasciarmi morire di fame, ma adesso muoio contento, perché ho avuto il
piacere di rivedervi ancora una volta ».
« No, mia cara Bestia, voi non morrete! » gli disse Bella. « Voi dovete vivere per diventare mio
marito. Fin da questo istante vi do la mia mano e giuro che non sarò d’altri che vostra. Ahimè!
Credevo di provare per voi soltanto una buona amicizia, ma il dolore che sento mi fa capire che non
potrei vivere senza vedervi! ».
Appena Bella ebbe detto queste parole, ecco che tutto il palazzo si diede a brillare di mille luci,
fuochi d’artificio e musica. Tutto le annunciava una grandissima festa. Ma tante meraviglie non
trattennero a lungo i suoi occhi. Ella si voltò sùbito verso la sua cara Bestia, il cui stato la teneva
ancora in agitazione. Ma quale fu la sua sorpresa? La Bestia era sparita, e ai suoi piedi ella non vide
più che un principe bello come il dio Amore, che la ringraziava per aver rotto l’incantesimo di cui
era vittima. Quantunque un principe cosiffatto meritasse tutta la sua attenzione, ella gli chiese dove
fosse la Bestia.
« È qui, ai vostri piedi » rispose il Principe. « Una cattiva fata m’aveva condannato a restare sotto
quell’orribile sembiante sino a quando una bella fanciulla non avesse acconsentito a sposarmi, e mi
aveva anche vietato di mostrarmi intelligente. E così, in tutto il mondo, non c’eravate che voi così
buona da potervi innamorare della bontà del mio carattere. Offrendovi la mia corona, non posso
certo sdebitarmi di tutta la riconoscenza che provo per voi ».
Bella, gradevolmente sorpresa, porse la mano a quel bel principe perché si rialzasse. Insieme essi
raggiunsero il palazzo, e Bella credette di morire dalla gioia, quando nella grande sala vide suo
padre e tutta la sua famiglia, ch’era stata trasportata là da quella bella dama che un giorno le era
apparsa in sogno.
« Bella » le disse quella dama che era una potente fata « venite a ricevere il premio di quell’ottima
scelta che avete fatta. Voi avete preferito la virtù alla bellezza e anche allo spirito. Meritate di
trovare tutte queste doti riunite in una sola persona. Inoltre diverrete una grande regina, ma ho
fiducia che il trono non distruggerà le vostre virtù! ».
« Quanto a voi, signore mie » disse la Fata alle due sorelle di Bella « conosco bene il vostro cuore e
tutta la malizia che v’è dentro. Diverrete due statue, pur conservando tutto il vostro intendimento
sotto la pietra che vi avvolgerà. Starete mute e immobili alla porta del palazzo di vostra sorella, e
non vi do altra pena che quella di dover assistere alla sua felicità. Non potrete tornare al vostro
primitivo stato che allorquando riconoscerete pienamente tutti i vostri torti. Ma ho una grande paura
che dobbiate rimanere statue per sempre! L’orgoglio, l’ira, la gola e la pigrizia si possono
correggere, ma è un miracolo la conversione di un cuore cattivo e invidioso! ».
A questo punto la Fata toccò tutti quelli ch’erano nella sala con la sua bacchetta magica e li
trasportò nel reame del Principe. I suoi sudditi lo rividero con gioia, e lui sposò la sua Bella, con la
quale visse lungamente in felicità perfetta, basata sulla virtù.
CENERENTOLA
F.lli Grimm
La moglie di un ricco si ammalò e, quando sentì avvicinarsi la fine, chiamò al capezzale la sua
unica figlioletta e le disse: « Bimba mia, sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti
guarderò dal cielo e ti sarò vicina ». Poi chiuse gli occhi e morì. La fanciulla andava ogni giorno
sulla tomba della madre, piangeva ed era sempre docile e buona. Quando venne l’inverno, la neve
coprì la tomba di un suo bianco drappo, e quando il sole di primavera l’ebbe tolto, l’uomo prese
moglie di nuovo.
La donna portò in casa due figlie belle, bianche di viso, ma brutte e nere di cuore. Cominciarono
brutti giorni per la povera figliastra. « Quella stupida oca » esse dicevano « dovrebbe stare in salotto
con noi? Chi mangia pane deve guadagnarselo. Fuori, sguattera! ». Le tolsero i suoi bei vestiti, le
fecero indossare una vecchia palandrana grigia e le diedero un paio di zoccoli. « Guardate la
principessa, com’è agghindata! » esclamarono ridendo e la condussero in cucina. Là dovette
sgobbare da mane a sera, alzarsi prima dell’alba, portare l’acqua, accendere il fuoco, cucinare e
lavare. Per giunta le sorelle gliene facevano di tutti i colori, la schernivano. E le versavano ceci e
lenticchie nella cenere, sicché doveva raccoglierli uno a uno. La sera, dopo tante fatiche, non
andava a letto, ma si coricava nella cenere, accanto al focolare. E siccome era sempre sporca e
impolverata, la chiamarono Cenerentola.
Una volta il padre, prima di andare alla fiera, chiese alle due figliastre cosa dovesse portar loro.
« Bei vestiti » disse la prima. « Perle e gemme » disse la seconda. « E tu, Cenerentola » egli chiese
« che vuoi? ». « Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno, coglietelo per
me ». Or egli comprò bei vestiti, perle e gemme per le due figliastre; e sulla via del ritorno, mentre
cavalcava per un verde boschetto, un ramo di nocciòlo lo sfiorò e gli fece cadere il cappello. Allora
egli colse il rametto e se lo portò via. Giunto a casa, diede alle figliastre quel che avevano
desiderato, e il ramo di nocciòlo a Cenerentola. Cenerentola lo ringraziò, andò sulla tomba della
madre, piantò il rametto e pianse tanto che le lagrime vi caddero sopra e lo innaffiarono. Il ramo
crebbe e divenne una bella pianta. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava, e
ogni volta si posava sulla pianta un uccellino bianco che, se ella esprimeva un desiderio, le gettava
quel che aveva desiderato.
Ora avvenne che il re diede una festa che doveva durare tre gironi e invitò tutte le belle ragazze del
paese, perché suo figlio potesse scegliersi la sposa. Le due sorellastre, quando seppero che
dovevano parteciparvi anche loro, tutte contente chiamarono Cenerentola e dissero: « Pettinaci,
spazzola le scarpe e assicura le fibbie: andiamo a nozze al castello del re ». Cenerentola ubbidì, ma
pianse, perché anche lei sarebbe andata volentieri la ballo, e pregò la matrigna di accordarle il
permesso. « Tu, Cenerentola » esclamò quella « sei così sporca e impolverata e vuoi andare a
nozze? Non hai vestiti né scarpe e vuoi danzare? ». Ma Cenerentola insisteva e la matrigna finì col
dirle: « Ho versato nella cenere un piatto di lenticchie. Se in due ore le sceglierai tutte, potrai andare
anche tu ». La fanciulla andò nell’orto, dietro casa, e chiamò: « Colombelle mie, e voi, tortorelle, e
voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie,
le buone nel pentolino,
le cattive nel gozzino.
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle e in fine,
frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono attorno alla cenere. E le
colombelle accennarono di sì con le testine e ci si misero, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero
anche tutti gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nel piatto. Non passò un’ora che
avevano già finito e volarono tutti via. Allora la fanciulla, tutta contenta, portò il piatto alla
matrigna e credé di poter andare a nozze anche lei. Ma la matrigna disse: « No, Cenerentola; non
hai vestiti, non sai ballare, saresti soltanto derisa ». Ma Cenerentola si mise a piangere, e quella
disse: « Se in un’ora riesci a raccogliere dalla cenere e scegliere due piatti pieni di lenticchie, verrai
anche tu ». E pensava: « Non ci riuscirà mai ». Quando la matrigna ebbe versato i due piatti pieni di
lenticchie nella cenere, la fanciulla andò nell’orto dietro casa e gridò: « Colombelle mie, e voi,
tortorelle, e voi, uccellini tutti del cielo, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie,
le buone nel pentolino,
le cattive nel gozzino.
Allora dalla finestra della cucina entrarono due colombe bianche e poi le tortorelle e in fine,
frullando e svolazzando, entrarono tutti gli uccellini del cielo e si posarono attorno alla cenere. E le
colombelle accennarono di sì con le testine e ci si misero, pic, pic, pic, pic, e allora ci si misero
anche tutti gli altri, pic, pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nei piatti. E non passò mezz’ora
che avevano già finito e volarono via. Rimasta sola, Cenerentola andò sulla tomba della madre e
gridò:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
Allora l’uccello le gettò un abito d’oro e d’argento e scarpette trapunte d’argento e di seta. In fretta
ella indossò l’abito e andò a nozze. Ma le sorelle e la matrigna non la riconobbero e credevano fosse
una principessa sconosciuta, tant’era bella nell’abito d’oro. A Cenerentola non pensavano affatto e
credevano se ne stesse a casa nel sudiciume a raccogliere lenticchie dalla cenere. Il principe le
venne incontro, le prese la mano e ballò con lei. E non volle ballare con nessun’altra, non le lasciò
mai la mano, e se un altro la invitava, diceva: « È la mia ballerina ». Cenerentola danzò fino a sera,
poi volle andare a casa. Ma il principe disse: « Vengo ad accompagnarti » perché voleva vedere da
dove venisse la bella fanciulla. Ma ella scappò e balzò nella colombaia. Il principe aspettò che
tornasse il padre e gli disse che la fanciulla sconosciuta era saltata nella colombaia. Il vecchio
pensò: « Che sia Cenerentola? » e si fece portare un’accétta e un piccone per buttar giù la
colombaia. Ma dentro non c’era nessuno. E quando tornarono a casa, Cenerentola giaceva sulla
cenere nella sue vesti sporche e un lumino a olio ardeva a stento nel focolare. Da un’apertura
superiore ella era saltata prontamente fuor dalla colombaia ed era corsa sotto il nocciòlo; là s’era
tolta le belle vesti e le aveva deposte sulla tomba e l’uccello le aveva riprese; ed ella, nella sua
palandrana grigia, si era stesa sulla cenere, in cucina.
Il giorno dopo, quando ricominciò la festa e i genitori e le sorellastre furono di nuovo usciti,
Cenerentola andò sotto il nocciòlo e gridò:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
Allora l’uccello le gettò un abito ancora più superbo del primo. E quando, così abbigliata, comparve
a nozze, tutti si meravigliarono della sua bellezza. Ma il principe, che l’aveva aspettata, la prese per
mano e ballò solo con lei. Quando la invitavano gli altri, diceva: « Questa è la mia ballerina ». La
sera ella se ne andò e il principe la seguì per veder dove entrasse. Ma ella fuggì d’un balzo nell’orto
dietro casa. Là c’era un bell’albero alto da cui pendevano magnifiche pere; ella s’arrampicò fra i
rami svelta come uno scoiattolo e il principe non sapeva dove fosse sparita. Ma aspettò che
arrivasse il padre e gli disse: La fanciulla forestiera mi è scappata e credo si sia arrampicata sul
pero. Il padre pensò: « Che sia Cenerentola? ». Si fece portare l’ascia e abbatté l’albero, ma sopra
non c’era nessuno. E quando entrarono in cucina, Cenerentola giaceva sulla cenere come al solito:
era saltata giù dall’altra parte dell’albero, aveva riportato le belle vesti dell’uccello sul nocciòlo e
indossato la sua palandrana grigia.
Il terso giorno, quando i genitori e le sorelle se ne furono andati, Cenerentola tornò sulla tomba di
sua madre e disse alla pianticella:
Piantina, scuotiti, scròllati,
d’oro e d’argento coprimi.
E l’uccello le gettò un abito sfarzoso e rilucente come non ne aveva ancora avuti; e le scarpette
erano tutte d’oro. Quando ella comparve a nozze con quell’abito, non ebbero più parole per la
meraviglia. Il principe ballò solo con lei; e se qualcuno la invitava, egli diceva: « Questa è la mia
ballerina ». Quando fu sera, Cenerentola se ne andò e il principe volle accompagnarla, ma ella fuggì
via così rapida che non riuscì a seguirla. Il principe però era ricorso a un’astuzia e aveva fatto
spalmare tutta la scala di pece. Quando la fanciulla corse via, la sua scarpetta sinistra vi rimase
appiccicata. Il principe la raccolse: era piccola, elegante e tutta d’oro. La mattina andò dal padre di
Cenerentola e disse: « Sarà la mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa scarpa d’oro ».
Allora le due sorelle si rallegrarono perché avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa
in camera sua e volle provarla davanti a sua madre. Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era
troppo piccolina. Allora la madre le porse un coltello e le disse: « Tàgliati il dito. Quando sei regina,
non hai più bisogno di andare a piedi ». La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella scarpa,
contenne il dolore e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con lei. Ma
dovevano passare davanti alla tomba. Due colombelle posate sul cespuglio del nocciòlo gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
c’è sangue nella scarpa.
Strettina è la scarpetta.
La vera sposa è ancor nella casetta.
Allora egli le guardò il piede e ne vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa
fidanzata e disse che non era quella vera e che l’altra sorella provasse a infilare la scarpa. Essa andò
nella sua camera e riuscì facilmente a infilare le dita, ma il calcagno era troppo grosso. Allora la
madre le porse un coltello e disse: « Tàgliati un pezzo di calcagno. Quando sei regina, non hai più
bisogno di andare a piedi ». La fanciulla si tagliò un pezzo di calcagno, serrò il piede nella scarpa,
contenne il dolore e andò dal principe. E questi la mise sul cavallo e andò via con lei. Quando
passarono accanto al nocciòlo, le due colombelle gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
c’è sangue nella scarpa.
Strettina è la scarpetta.
La vera sposa è ancor nella casetta.
Egli le guardò il piede e vide il sangue che sgorgava dalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze
bianche. Allora voltò il cavallo e riportò a casa la falsa fidanzata. « Neppure questa è la vera. Non
avete altre figlie? ». « No » disse l’uomo. « C’è soltanto una piccola Cenerentola tristanzuola, della
moglie che mi è morta. È impossibile che sia la sposa ». Il principe gli disse di mandarla a prendere,
ma la matrigna rispose: « Ah no! È troppo sporca, non può farsi vedere ». Ma egli lo volle
assolutamente e dovettero chiamar Cenerentola. Ella prima si lavò ben bene le mani e il volto, poi
andò a inchinarsi davanti al principe, che le porse la scarpa d’oro. Allora ella si mise a sedere sullo
sgabello, tolse il piede dal pesante zoccolo e l’infilò nella scarpetta: le stava a pennello. E quando si
alzò, e il re la guardò in viso, egli riconobbe la bella fanciulla con cui aveva danzato e gridò:
« Questa è la vera sposa! ». La matrigna e le due sorellastre si spaventarono e impallidirono dall’ira,
ma egli mise Cenerentola sul cavallo e se ne andò con lei. Quando passarono accanto al nocciòlo, le
due colombelle bianche gridarono:
Volgiti, volgiti, guarda:
non c’è sangue nella scarpa,
che non è troppo piccina.
Porti a casa le vera sposina
Poi scesero a volo, si posarono sulle spalle di Cenerentola e lì rimasero, l’una a destra, l’altra a
sinistra.
Quando stavano per essere celebrate le nozze, arrivarono le sorellastre, che volevano ingraziarsi
Cenerentola e partecipare alla sua fortuna. E mentre gli sposi andavano in chiesa, la maggiore era
destra e la minore a sinistra di Cenerentola. Le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi,
all’uscita, la maggiore era a sinistra e la minore a destra. Le colombe cavarono a ciascuna l’altro
occhio. Così furono punite con la cecità per tutta la vita, perché erano state false e malvagie.
Miranda Barisone
Bologna, 25 ottobre 2009.
CAPPUCCETTO ROSSO
C’era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna,
che no sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso,e poiché
le donava tanto ch’essa non voleva più portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso.
Un giorno sua madre le disse: —Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una
bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Mettiti in via prima che
faccia troppo caldo; e, quando sei fuori, va’da brava, senza uscir di strada; se no, cadi e rompi la
bottiglia e la nonna resta a mani vuote. E quando entri nella sua stanza, no dimenticare di dir
buon giorno invece di curiosare in tutti gli angoli. — Farò tutto per bene — disse Cappuccetto
Rosso alla mamma e le diede la mano. Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz’ora dal
villaggio. E quando giunse nel bosco, Cappuccetto Rosso incontrò il lupo. Ma non sapeva che
fosse una bestia tanto cattiva e non ebbe paura. — Buon giorno, Cappuccetto Rosso, — egli
disse. Grazie, lupo. —Dove vai così presto, Cappuccetto Rosso? –Dalla nonna. —Cos’hai sotto il
grembiule? —Vino e focaccia; ieri abbiamo cotto il pane; così la nonna, ch’è debole e malata, se
la godrò un po’ e si rinforzerà. — dove abita la tua nonna, cappuccetto Rosso? — A un buon
quarto d’ora da qui., nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c’ì la sua casa, è sotto la macchia dei
noccioli, lo saprai già, — disse Cappuccetto Rosso. Il lupo pensava: “Questa bimba tenerella è
un grasso boccone, sarà più saporita della vecchia; se sei furbo, le acchiappi tutte e due.” Fece un
p pezzetto di strada vicino a cappuccetto Rosso, poi disse: — Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti
bei fiori? Perché non ti guardi intorno? Credo che non senti neppure come cantano dolcemente
gli uccellini! Te ne vai tutta contegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel
bosco!
Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi di sole danzare attraverso gli alberi, e
tutto introno pieno di bei fiori, pensò: “Se porto alla nonna alla nonna un mazzo fresco, le farà
piacere; è tanto presto, ce arrivo ancora in tempo.” Dal sentiero corse nel bosco in cerca di fiori.
E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno più bello ancora e ci correva
e si addentrava sempre più nel bosco.
Ma il lupo andò difilato alla casa della nonna e bussò alla porta — Chi è? — Cappuccetto Rosso,
che ti porta vino e focaccia; apri. —Alza il saliscendi, — gridò la nonna: — io sono troppo
debole e non posso levarmi.—. Il lupo alzò il saliscendi, la porta si spalancò e, senza dir motto,
egli andò dritto al letto della nonna e E tirò le cortine.
Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, r quando n’ebbe raccolti tanti, che più non
poteva portare, si ricordò della nonna e s’incamminò. Si meravigliò che la porta fosse spalancata ed
entrando nelal stanza ebbe un’impressione così strana che pensò: “Oh, Dio mio, oggi, che paura! E
di solito sto così volentieri con la nonna! Esclamò: — Buon giorno, nonna! Ma non ebbe risposta.
Allora s’avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata, con la cuffia abbassata sulla
faccia e aveva un aspetto strano. — Oh, nonna, che orecchie grosse! — Per sentirti meglio. — Oh,
nonna, che grosse mani! — Per meglio afferrarti. — Ma, nonna, che bocca spaventosa Per meglio
divorarti!. — E subito il lupo balzò dal letto e ingoiò il povero Cappuccetto Rosso.
Saziato il suo appetito, si rimise a letto, s0addormentò, e cominciò a russare sonoramente. Proprio
allora passò lì davanti il cacciatore e pensò: “Come russa la vecchia! Devo darle un’occhiata,
potrebbe star male”. Entrò nella stanza e, avvicinatosi al letto, vide il lupo. — Eccoti qua, vecchio
impenitente! — disse, — è un pezzo che ti cerco —. Stava per puntare lo schioppo, ma gli venne in
mente che il lupo avesse mangiato la nonna e che si potesse ancora salvarla.: no sparò, ma prese un
paio di forbici e cominciò a tagliare la pancia del lupo. Addormentato. Dopo due tagli, vide brillare
il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando.. — Che paura ho avuto!
Com’era buio nel ventre del lupo! — Poi venne fuori anche la vecchia nonna, ancor viva, benché
respirasse a stento. E Cappuccetto Rosso
Corse a prender dei pietroni, con cui riempirono la pancia del lupo; e quando egli si svegliò fece per
correr via, ma le pietre erano così pesanti che subito s’accasciò e cadde morto.
Erano contenti tutti e tre: il cacciatore scuoiò il lupo e si portò via la pelle; la nonna mangiò la
focaccia e bevve il vino che aveva portato Cappuccetto Rosso, e si rianimò; ma Cappuccetto Rosso
pensava: — “Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te l’ha
proibito.
Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia
nonna, e un altro lupo volle indurla a deviare. Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene e andò
dritta per la sua strada, e disse alla nonna di aver incontrato il lupo, che l’aveva salutata, ma l’aveva
guardata male.:— Se no fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiato. — Vieni, —disse la
nonna — Chiudiamo la porta, perché no entri. —. Poco dopo il lupo bussò ed gridò.— Apri, nonna,
sono Cappuccetto Rosso e ti porto la focaccia.—. Ma quelle, zitte, non aprirono; allora testa Grigia
gironzolò un po’ attorno e infine saltò sul tetto, per aspettare che cappuccetto Rosso, la sera,
prendesse la via del ritorno. L’avrebbe seguita di soppiatto, per mangiarsela al buio. Ma la nonna si
accorse di quel che tramava. Davanti »alla casa c’era un grosso truogolo di pietra ed ella disse alla
bambina.— Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l’acqua
dove han bollito —. Cappuccetto Rosso portò l’acqua, finché il grosso trogolo fu pieno. Allora il
profumo delle salsicce salì alle nari del lupo, egli si mise a fiutare e a sbirciare in giù, e alla fine
allungò tanto il collo che no poté più trattenersi e cominciò a sdrucciolare; e sdrucciolò dal tetto
proprio nel grosso trogolo e affogò, Invece cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le
fece del male.
BIANCANEVE
Una volta nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina
cuciva, seduta accanto a una finestra dalla cornice d’ebano. E così, cucendo e alzando gli occhi, per
guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su
quel candore, ch’ella pensò: «Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai
capelli neri come il legno della finestra! « Poco dopo diede alla luce una figlioletta bianca come la
neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come l’ebano; e la chiamarono Biancaneve. E quando
nacque la regina morì.
Dopo un anno il re prese un’altra moglie; era bella, ma superba e prepotente, e non poteva
sopportare che qualcuno la superasse in bellezza. Aveva uno specchio magico, e nello specchiarsi
diceva:
Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
E lo specchio rispondeva:
— Nel regno, maestà, tu sei la più bella.
Ed ella era contenta,perché sapeva che lo specchio diceva la verità.
Ma Biancaneve cresceva, diventava sempre più bella e a sette anni era belal come la luce del
giorno e ancor più bella della regina. Una volta la regina chiese allo specchio
—Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
—Regina, la più bella qui sei tu,
ma Biancaneve lo è molto di più.
La regina allibì e diventò verde e gialla d’invidia. Da quel momento la vista di Biancaneve
la sconvolse, tanto ella odiava la bimba. E invidia e superbia crebbero come le male erbe, così che
ella non ebbe più pace né giorno né notte. Allora chiamò un cacciatore e disse_ — Porta la bambina
nel bosco, non la voglio più vedere. Uccidila e mostrami i polmoni e il fegato come prova della sua
morte. —. Il cacciatore obbedì e condusse la bimba lontano; ma quando estrasse il coltello per
trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse: — Ah! Caro cacciatore lasciami
vivere! Correrò nella foresta selvaggia e non tornerò mai più. —. Ed era tanto bella che il
cacciatore disse, impietosito:— Va’ pure povera bambina —. «Le bestie feroci faran presto a
divorarti:» pensava; ma sentiva che gli si era levato un gran peso dal cuore, a non doverla uccidere.
E siccome arrivò proprio allora un cinghaletto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò
alla regina come prova. Il cuoco dovette salarli e cucinarli e la perfida regina li mangiò, credendo di
mangiare i polmoni e il fegato di Biancaneve.
Ora la povera bambina era tutta sola nel gran bosco e aveva tanta paura che badava anche
alle foglie degli alberi e non sapeva che fare. Si mise a correre e corse sulle pietre aguzze e fra le
spine, le bestie feroci le passavano accanto, ma senza farle alcun male. Corse finché le ressero le
gambe; era quasi sera, quando vide una casettina ed entrò per riposarsi. Nella casetta tutto era
piccino, ma lindo e leggiadro oltre ogni dire. C’era una tavola apparecchiata con sette piattini: ogni
piattino col suo cucchiaino, e sette coltellini, sette forchettone e sette bicchierini. Lungo la parete,
l’uno accanto all’altro, c’erano sette lettini, coperti di candide lenzuola. Biancaneve aveva tanta
fame e tanta sete, che mangiò un po’ di verdura da ogni piattino, e bevve una h goccia di vino da
ogni bicchierino, perché no voleva portar via tutto a uno solo. Poi era così stanca che si sdraiò in un
lettino, ma non ce n’era uno che le andasse bene: o troppo lungo o troppo corto, finché il settimo era
quello giusto. Ci si coricò, si raccomandò a Dio e si addormentò.
A buio, arrivarono i padroni di casa: erano i sette nani, che scavavano i minerali dei monti.
Accesero le loro sette candeline e, quando la casetta fu illuminata, videro che era entrato qualcuno;
perché non tutto era in ordine, come l’avevan lasciato. Il primo disse: — Chi si è seduto sulla mia
seggiolina? — Il secondo:— Chi ha mangiato dal mio piattino? —Il terzo ©hi ha preso un po’ del
mio panino? —Il quarto — Chi ha mangiato un po’ della mia verdura? —Il quinto Chi ha usato la
mia forchettina? — Il sesto – Chi ha tagliato col mio coltellino?— Il settimo: — Chi ha bevuto dal
mio lettino ? Poi il primo si guardò attorno, vide che il suo letto era un po’ ammaccato e disse: —
Chi mi ha schiacciato il lettino? — Gli altri accorsero e gridarono: — Anche nel mio c’è stato
qualcuno Ma il settimo scorse nel suo letto Biancaneve addormentata. Chiamò gli altri che
accorsero e gridando di meraviglia presero le loro sette — o — candeline e illuminarono
Biancaneve. — Ah, Dio mio! Ah, Dio mio! — esclamarono —: — che bella bambina! – Ed erano
così felici che non la svegliarono e la lasciarono dormire nel lettino. Il settimo nano dormì coni suoi
compagni, un’ora con ciascuno e così passò la notte..
Al mattino, Biancaneve si svegliò e s’impaurì vedendo i sette nani. Ma essi le chiesero
gentilmente: : — Come ti chiami? — Mi chiamo Biancaneve, — rispose —. — Come sei venuta in
casa nostra ? — dissero i nani. Ella raccontò che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il
cacciatore le aveva lasciato la vita ed ella aveva corso tutto, il giorno, finché aveva trovato la casina.
I nani dissero: — Se vuoi curare la nostra casa cucinare, fare i letti, lavare, cucire, far la calza, e
tener tutto in ordine e ben pulito, puoi rimanere con noi, e non ti mancherà nulla.. —Sì, — disse
Biancaneve — di gran cuore —. E rimase con loro. Teneva in ordine la casa, al mattino essi
andavano nei monti, in cerca di minerali e d’oro, la sera tornavano e la cena doveva esser pronta. Di
giorno la fanciulla era sola. I nani l’ammonivano affettuosamente, dicendo. — Guardati dalla tua
matrigna; farà presto a sapere che sei qui: non lasciar entrare nessuno.
Ma la regina, persuasa di aver mangiato i polmoni e il fegato di Biancaneve, non pensava ad
altro, se non ch’ella era di nuovo la più bella; andò davanti allo specchio e disse:
— Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
E lo specchio rispose:
— Regina, la più bella qui sei tu,
ma al di là dei monti e della collina
Biancaneve è molto più bella di te.
La regina inorridì, perché sapeva che lo specchio non mentiva mai, e si accorse che il cacciatore
l’aveva ingannata e Biancaneve era ancor viva. E allora pensò di nuovo come fare ad ucciderla;
perché se ella non era la più bella di tutte, l’invidia non le dava requie. Pensa e ripensa finalmente
si tinse la faccia e si travestì da vecchia merciaia, in modo da rendersi del tutto irriconoscibile. Così
trasformata, passò i sette monti, fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò: — Roba
bella, chi compra, chi compra! — Biancaneve diede un’occhiata alla finestra e gridò: — Buon
giorno, brava donna, cos’avete da vendere? — Roba buona, roba bella, — rispose la vecchia —
stringhe di tutti i colori —. E ne tirò fuori una, di seta variopinta. « Questa brava donna posso
lasciarla entrare », pensò Biancaneve; aprì la porta e si comprò la bella stringa. — Bambina disse la
vecchia — come sei conciata! Vieni, per una volta voglio allacciarti io come si deve —. La
fanciulla le si mise davanti fiduciosa e si lasciò allacciare con la stringa nuova: ma la vecchia strinse
tanto e così rapidamente che a Biancaneve mancò i l respiro e cadde come morta. — ormai lo sei
stata la più bella, — disse la regina, e corse via.
Presto si fece sera e tornarono i sette nani: come si p spaventarono vedendo la loro cara Biancaneve
stesa a terra, rigida, come se fosse morta! La sollevarono e, vedendo che era troppo stretta alla vita,
tagliarono la stringa. Allora ella cominciò a respirare liberamente e a poco a poco si rianimò.
Quando i nani udirono l’accaduto, le dissero. — Sta’ in guardia, e non lasciar entrare nessuno, se
non ci siamo anche noi.
Ma la cattiva regina, appena arrivata a casa, andò davanti allo specchio e chiese:
— Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
Come al solito lo specchio rispose:
— Regina, la più bella qui sei tu,
ma al di là dei monti e della collina
Biancaneve è molto più bella di te.
A queste parole il sangue le affluì tutto al cuore per lo spavento, perché vide che Biancaneve era
tornata in vita.
« Ma adesso pensò, — troverò qualcosa che sarà la tua rovina »; e, siccome s’intendeva di
stregoneria, preparò un pettine avvelenato. Poi si travestì e prese l’aspetto di un’altra vecchia. Passò
i sette monti fino alla casetta dei sette nani, bussò alla porta e gridò: —, Roba bella, roba bella!
Biancaneve guardò fuori e disse: — Andate pure, non posso lasciar entrare nessuno. — — Ma
guardare ti sarà permesso, — disse la vecchia; tirò fuori il pettine avvelenato e lo sollevò. Alla
bimba piacque tanto che si lasciò sedurre e aprì la porta. Conclusa la compera, la vecchia disse: –
Adesso voglio pettinarti per bene . La povera Biancaneve, di nulla sospettando, lasciò fare; ma non
appena quella le mise il pettine nei capelli, il veleno agì e la fanciulla cadde priva di sensi. —
Portento di bellezza! — disse la cattiva matrigna: — è finita per te ! — e se ne andò.
Ma per fortuna era quasi sera e i sette nani stavano per tornare. Quando videro Biancaneve giacer
morta, sospettarono subito della matrigna, cercarono e trovarono il pettine avvelenato; appena
l’ebbero tolto; Biancaneve tornò in sé e narrò quel che era accaduto. Di nuovo l’ammonirono che
stesse in guardia e non aprisse la porta a nessuno.
A casa la regina si mise davanti allo specchio e disse:
— Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
Come al solito lo specchio rispose:
— Regina, la più bella qui sei tu,
ma al di là dei monti e della collina
Biancaneve è molto più bella di te.
A tali parole ella rabbrividì, e tremò di collera.. — Biancaneve morirà — gridò dovesse costarmi la
vita—. Andò in una stanza segreta, dove non entrava nessuno e preparò una mela velenosissima. Di
fuori era bella. Bianca e rossa, che invogliava solo a vederla; ma chi ne mangiava un pezzetto,
doveva morire. Quando la mela fu pronta, ella si tinse il viso e si travestì da contadina,e così passò i
sette monti fino alla casa dei sette nani. Bussò, Biancaneve si affacciò alla finestra e disse. — Non
posso lasciar entrare nessuno, i sette nani me l’han proibito. — Non importa, — rispose la
contadina, — le mie mele le vendo lo stesso. Prendi, voglio regalartene una. — No, — rispose
Biancaneve — non posso accettar nulla. — Hai paura del veleno? — disse la vecchia — Guarda, la
divido a metà, tu mangerai quella rossa, io quella bianca. —. Ma la mela era fatta con tanta arte che
soltanto la metà rossa era avvelenata. Biancaneve mangiava con gli occhi la bella mela, e quando
vide la contadina morderci dentro, no poté più resistere, stese al mano e prese la metà avvelenata.
Ma al primo boccone cadde a terra morta. La regina l’osservò ferocemente e scoppiò a ridere,
dicendo: — Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano! Stavolta i nani non ti
sveglieranno più! —. A casa, domandò allo specchio:
— Specchio delle mie brame
chi è la più bella del reame?
Come al solito lo specchio rispose:
—Nel regno, maestà, tu sei quella.
Allora il suo cuore invidioso ebbe pace, se ci può essere pace per un cuore invidioso.
I nani, tornando a casa, trovarono Biancaneve, che giaceva a terra, e non usciva respiro dalle sue
labbra ed era morta. La sollevarono, cercarono se mai ci fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono
le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino ma inutilmente, la cara bambina era
morta e non si ridestò. La misero su un cataletto, la circondarono tutti e sette e la piansero, l
piansero per tre giorni. Poi volevano sotterrarla; ma in viso con le sue belle guance rosse, ella era
ancor fresca, come se fosse viva. Dissero: — Non possiamo seppellirla dentro la nera terra, — w
fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero e vi misero
sopra il suo nome, a lettere d’oro, e scrissero che era figlia di re. Poi esposero la bara sul monte, e
uno di loro vi restò sempre a guardia. E anche gli animali venivano a piangere Biancaneve: prima
era una civetta, poi un corvo e infine una colombella.
Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma no imputridì: sembrava che dormisse, perché
era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano. Ma un bel giorno capitò nel
bosco un principe e andò a pernottare nella casa dei nani. Vide la bara sul monte e la bella
Biancaneve e lesse quel che era scritto a lettere d’oro. Allora disse ai a nani: — lasciatemi la bara;
in compenso vi darò quel che volete. —. Ma i nani risposero: — Non la cediamo per tutto l’oro del
mondo. — Regalatemela, allora, — egli disse — non posso vivere senza vedere Biancaneve: voglio
onorarla ed esaltarla come la cosa che mi è più cara al mondo —. A sentirlo, i buoni nani
ss’impietosirono e gli donarono la bara. Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora
avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa quel pezzo di mela avvelenata, che
Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola. E poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il
coperchio e si rizzò nella bara: era tornata in vita —. Ah Dio, dove sono? — gridò. Il principe disse,
pieno di gioia:— Sei con me, — e le raccontò quel che era avvenuto, aggiungendo: — Ti amo sopra
ogni cosa al mondo, vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa —. Biancaneve
acconsentì e andò con lui, e furono ordinate le nozze con gran pompa e splendore.
Ma alla festa invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. Indossate le sue belle vesti, elal
andò allo specchio e disse:
— Dal muro, specchietto favella:
— Nel regno chi è la più bella?
Lo specchio rispose:
—Regina, la più bella qui sei tu;
ma la sposa lo è molto di più.
La cattiva donna imprecò e il suo affanno era così grande che non poteva più dominarsi. Dapprima
non voleva assistere alle nozze; ma non trovò pace e dovette andare a veder la giovane regina.
Entrando, riconobbe Biancaneve, e impietrì dallo spavento e dall’orrore. Ma sulla brace eran già
pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette
calzare le scarpe roventi e ballare, finché cadde a terra, morta.
QUESTIONARIO
1. Nei ricordi della tua infanzia che posto hanno le fiabe?
Fondamentale
importante
neutro
nessuno
2. Tua mamma ti leggeva o raccontava fiabe prima di addormentarti?
Sì
No
3. Qualche volta ti facevi raccontare fiabe dalla mamma, per esempio quando facevi merenda?,
quando eri annoiato, quando avevi qualche paura?
Sì
No
4. Ti hanno regalato libri di fiabe?
Sì
No
5. Molto illustrati?
Sì
No
6. Che reazione avevi di fronte alle illustrazioni?
Molto intense
piacevoli
neutre
negative
7. Ci sono fiabe che ricordi con terrore? Quali?
__________________________________________________________________________
8. Con trasporto?______________________________________________________________
9. Con quale personaggio ti sei identificato?
10. Quale personaggio ti ha spaventato di più?_______________________________________
11. Quale è stato il tuo personaggio preferito?________________________________________
12. Improvvisamente ghignava la strega____________________________________________
13. ….si profilava l’ombra dell’orco______________________________________________
14. ….risplendeva la luminosità di una fata_________________________________________
15. …dal profondo di un bosco si profilava un lupo_____________________
16. Hai sperato nella vita di avere aiuti magici (una vincita straordinaria, un successo insperato,
un incontro con una donna/uomo meraviglioso?)
Sì
No
17. Hai sperato in un happy ending meraviglioso? Credi ancora che il destino un giorno ti
bacerà perché sei il più amato?
Sì
No
18. Provi un’avversione istintiva contro le fiabe perché promettono una gioia e un trionfo
regolarmente smentiti dalla vita? Perché non sei l’amato delle fate?
Sì
No
19. Sei preso da un’invidia radicale per i personaggi fiabeschi in quanto vincitori?
Sì
No
20. Ti rifugi nelle fiabe di qualsiasi tipo (magari romanzi rosa e racconti fantascientifici) per
consolarti delle amarezze della vita?
Sì
No
21. Rifletti che gli eroi delle fiabe hanno superato tutti prove durissime?
Sì
No
22. Rifiuti il lato magico, perché ti sembra illusorio e infantile, qualcosa da disprezzare?
Sì
No
23. Rifiuti il mondo delle fiabe perché è pieno di male azioni e di violenza?
Sì
No