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I N T E R V I S TA USCIRE DAL SEMINATO, ENTRARE NELLA FOLLIA? Riflessioni sull’esperienza delirante Intervista a Remo Bodei a cura di Paola Molinatto Forse dovremmo provare a cambiare prospettiva e cominciare a considerare che l’esistenza individuale non si dipana in linea retta, ma procede tra sbalzi e discontinuità. Il risultato è che ogni individuo è «dividuo», attraversato da faglie e fratture. Comporre e padroneggiare il proprio Io, mantenendolo però aperto e permeabile al mondo interno, così come al mondo esterno, è allora un compito che riguarda tutti. L’esperienza della follia e del delirio, se osservata da questo punto di vista, si differenzia allora davvero poco dalla nostra. n questi anni, come operatori sociali, ci siamo occupati di disagio e di malattia mentale, in quanto effetto e causa di importanti perdite di socialità. Abbiamo così avvicinato la follia alla nostra esperienza (supposta «normale»), finendo talvolta con l’addomesticarla e ricondurla tra noi. Ne sono derivate pratiche significative – prime tra tutte quelle legate alla de-istituzionalizzazione (ma non solo) – e un radicale cambiamento culturale, pur permanendo sofferenze e paure. Ci anche siamo chiesti: «Sarebbe bello vivere in una società senza follia?», e abbiamo risposto di no. Ma forse abbiamo continuato a pensare alla follia come a un misto di bizzarria e di creatività, come a una diversa, ma in fondo comprensibile, esperienza della vita. Probabilmente non è un caso se abbiamo parlato spesso di follia e raramente di delirio. Parlare di delirio mette in difficoltà. Significa evocare il lato meno addomesticabile e più doloroso dell’esperienza della follia. Costringe a fare i conti con un presunto deficit di razionalità che pare debba tradursi, quasi per definizione, con un deficit di socialità, che mina alla radice il nostro lavoro. I Animazione Sociale In un recente libro, Le logiche del delirio (Laterza, 2000), Remo Bodei ha provato a riflettere intorno all’esperienza delirante, contribuendo a mettere in discussione luoghi comuni e saperi consolidati intorno alla follia. Lo abbiamo intervistato all’Università di Pisa, dove insegna Storia della filosofia, e ci siamo trovati tra le mani un grappolo di interrogativi che riguardano (forse inaspettamente) le dinamiche quotidiane, individuali e collettive, di produzione del senso. Domanda. Nell’introduzione al suo libro, lei scrive che «nulla ci impedisce di parlare di una o più logiche del delirio, intendendo con ciò modalità specifiche – per quanto anomale – di articolare percezioni, immagini, pensieri, credenze, affetti o umori secondo principi propri, che non seguono cioè i criteri dell’argomentare e dell’esprimersi condivisi da una determinata società». Trovo quest’affermazione molto forte, soprattutto per le sue conseguenze pratiche. Vorrei che ci aiutasse a capirne il senso e, prima ancora, che ci spiegasse perché ha scelto di riflettere sul delirio, che è in fondo 2001 Giugno/Luglio 3 I N T E R V I S TA solo una delle esperienze in cui si esprime il disagio mentale. Risposta. Il mio interesse per il delirio nasce dal concetto di ragione ospitale che è al centro del mio lavoro e della mia ricerca. Per ragione ospitale intendo una forma di razionalità che, senza rinunciare al rigore, accoglie in sé, nell’intento di comprenderle, altre logiche. Da questo punto di vista, può essere utile ricordare che il termine logica deriva dalla radice leg, che è la stessa umile radice di legume, ossia di ciò che si raccoglie e si rumina. Parlare di logiche del delirio non significa affatto attribuire al delirio una ragionevolezza. Semplicemente, equivale a dire che il delirio procede iuxta propria principia, secondo principi propri che possono essere sconosciuti eppure comprensibili. La ragione ospitale è dunque una ragione che cerca di capire come funziona il delirio e lo fa sia nel campo della temporalizzazione, ossia di quella continua riformulazione del passato indispensabile alla vita psichica, sia nell’ambito della formazione dei concetti e dei ragionamenti, sia globalmente con riferimento al rapporto, o meglio all’innesto, della logica cognitiva sulla logica affettiva che caratterizza i primi passi dello sviluppo del bambino. I vissuti dell’infanzia sono dotati da una forte carica emotiva e tuttavia vengono risignificati solo a posteriori, e dunque in ritardo, grazie al faticoso lavoro di traduzione in una logica cognitiva che subentra solo successivamente. Il problema è che la sutura, ossia l’integrazione tra queste due dimensioni dell’esistenza individuale, non avviene sempre bene. Alcune forme di schizofrenia rappresentano infatti lo scucirsi del lato affettivo e del lato cognitivo. Una delle tesi fondamentali che io sostengo nel libro è che, dal punto di vista analitico, noi non possiamo in nessun caso scindere questi due aspetti, come fa una certa psichiatria che parla di psicosi legate all’umore, dovute a un’affettività «separata», e di psicosi legate invece a problemi specificamente cognitivi. Al contrario, io ritengo invece che sia molto importante tenere insieme questo dispositivo, e che 4 Giugno/Luglio 2001 sia necessario farlo soprattutto se vogliamo capire perché si delira e, ancor più, perché, nella maggior parte dei casi, si continua invece a ragionare normalmente. Ma c’è anche un secondo aspetto su cui vorrei fermare l’attenzione. Se mi sono concentrato sullo studio delle passioni è perché mi preme rivalutare, a fronte di una linea iper razionalista della tradizione filosofica e anche di quella medica, non l’irrazionalità, bensì quegli aspetti che sono stati trascurati da chi pensa che la ragione abbia che fare con la matematica, abbandonando di conseguenza ampie e decisive zone della nostra esistenza individuale e sociale (in cui dominano errori, incoerenze e fai da te) all’ignoranza e all’insignificanza ed escludendole, per ciò stesso, dai processi di produzione e riproduzione del senso. Personalmente ho cercato di seguire l’indicazione di Leopardi, contenuta nello Zibaldone, il quale suggeriva, a chi non intendesse essere un filosofo dimezzato, di usare la ragione per capire le passioni, le illusioni, e quindi anche i deliri, non facendo una mistura, bensì «mettendo ciascuno al suo posto, con la freddissima ragione». Il filosofo usa la freddissima ragione per capire le passioni, come diceva Leopardi, per inserirsi nei ragionamenti, restando tuttavia nel campo della ragione. Dare senso al paesaggio interno Un simile atteggiamento mentale comporta, tra l’altro, la possibilità di prendere le distanze da almeno due tentazioni divergenti, anche se speculari, nell’interpretazione del delirio. La prima è quella di impronta colonialistica, impegnata nell’intento di svuotare il mare del delirio e di trasformarlo in qualcosa di immediatamente assorbibile nella razionalità, potendo così dichiarare il delirio interamente traducibile in termini razionali. La seconda è invece quella caratterizzata dal fatto di ritenere il delirio del tutto incomprensibile. Intendiamoci. Non è che io abbia voluto tenere una posizione mediana tra queste due interpretaAnimazione Sociale I N T E R V I S TA zioni. Il mio sforzo è stato piuttosto quello di mostrare come il delirio possieda una sua organizzazione logica, come costituisca un tentativo (talvolta disperato) di rendere vivibile e sensata la propria esperienza o, come dice Minkowski, di «dare senso al paesaggio interno» (anche se personalmente ritengo che il delirio sia più strutturato di come emerge dalla riflessione di Minkowski). Domanda. Forse è proprio per questo motivo che i pensieri deliranti sono così perturbanti. Per il fatto di sembrare sensati, verosimili e in qualche modo ragionevoli, tanto da essere difficilmente attaccabili. Risposta. Il delirio è spesso molto difficile da combattere. Innanzi tutto perché il malato si affeziona al suo capolavoro delirante. E poi perché il delirio mette al suo servizio le capacità razionali; ed è questa la ragione per cui è così sfuggente all’analisi razionale. Il punto è che le capacità razionali non scompaiono del tutto, ma neppure rimangono intatte. Di fatto assistiamo alla loro perversione e al loro sviamento, in senso etimologico, in quanto vengono asservite al delirio. Dopo tutto è proprio in questo che consiste la grande forza del delirio. Nel lottare contro gli obiettivi sbagliati, nel mobilitare tutte le forze dell’individuo per combattere contro i mulini a vento, occultando le reali difficoltà. In un suo libro, Freud racconta del delirio di gelosia di una signora innamorata del genero. Non potendo dire a se stessa né accettare una simile realtà, la donna aveva finito col dare vita a un’esperienza delirante che ruotava intorno all’ipotesi che il marito la tradisse, il che naturalmente non era vero, ma le serviva a sopportare, spostandola lateralmente, un’angoscia altrimenti incontenibile. Da fatti come questo possiamo trarre qualche spunto di riflessione. Innanzitutto che, per comprendere il delirio, dobbiamo sempre, preliminarmente, uscire dall’ovvietà naturale. Faccio un esempio. Fino a quando siamo stati sulla terra senza andare nello spazio abbiamo considerato ovvio il fatto di stare con i piedi per terra. Le imAnimazione Sociale magini che la televisione ci offre in questi giorni, con la missione che ha portato il primo turista nello spazio, ci mostrano invece gli astronauti che si muovono in assenza della forza di gravità. Può sembrare un’assurdità a prima vista, un delirio (proprio nel senso etimologico di uscire dalla lira, dal seminato), ma il fluttuare degli astronauti nello spazio può essere spiegato con le stesse leggi di gravità. Il rapporto tra ragione e delirio, secondo me, funziona allo stesso modo. La nostra ragione, sana tra mille virgolette, può interpretare il delirio che sembra sottratto a ogni regola, perché ci sono regole che governano il delirio, solo che non sono quelle dell’evidenza naturale, dell’ovvietà. Il vantaggio di questo tipo di razionalità è la sua asimmetria, e cioè che la ragione ospitante può interpretare il delirio, mentre il delirio reclama una validità solo locale. Questo è un punto importante. Perché limita le pretese di validità delle logiche del delirio. Non c’è una logica del delirio, per così dire, universale. Il delirio è sempre individuale. Certo, esistono degli schemi, come quelli che presiedono all’uso del linguaggio, per cui parliamo l’italiano, la langue, ma ciascuno di noi ha la parole, come dicono i linguisti, ognuno ha un suo specifico modo di usare il linguaggio. Analogamente, il delirio si muove all’interno di un certo numero di schemi generalizzabili, ma deve poi trovare una sua forma specifica. C’è poi una seconda considerazione da fare. Per sua natura, il delirio è un po’ come le passioni, siamo portati a considerarlo irrazionale per la sproporzione che c’è tra la causa e l’effetto, per l’eccesso che lo caratterizza. Sulla natura eccessiva del delirio si è ampiamente soffermata la psichiatria degli ultimi trenta, quarant’anni. Nell’Ottocento, Pinel, quello che ha liberato i malati mentali dalle catene, e poi Esquirol, il suo allievo, avevano concepito il delirio come dérèglement des passions, come passioni eccessive. Quando la passione, la gelosia, l’amore o l’odio diventano eccessivi si fa il salto nel delirio. Poca attenzione si era però prestata a che cosa questo volesse dire nel campo delle funzioni cogniti2001 Giugno/Luglio 5 I N T E R V I S TA ve e affettive. Perché c’è una discontinuità tra passioni e delirio, come è stato evidenziato da Jaspers e da altri psichiatri. Le passioni, infatti, pur alterando in modo rilevante la visione del mondo (si pensi alla gelosia o alla collera) non giungono mai a una sorta di black out con la realtà. Protetti dalla stupidità e dal torpore Ciò non significa che le idee deliranti siano inintelligibili. Personalmente sono fautore dell’idea che le idee deliranti siano invece comprensibili, ma che lo siano, per così dire, come le pietre che ci sono nel guado di un ruscello, ossia in maniera discontinua, in una situazione in cui non c’è un ponte o un passaggio stabilito, ma ciascuno lo deve trovare da sé, saltellando qua e là. La logica che le governa è infatti la logica aggregante e agglutinante delle passioni, che mette insieme elementi eterogeni o, come si dice, che fa di ogni erba un fascio. In questa prospettiva, più che di eccesso, io credo che dovremmo parlare, come suggeriscono Cameron e Frith, e poi anche Matte Blanco, di overinclusion, di iper inclusione. L’idea è che la malattia mentale e il delirio acuto siano caratterizzati dal fatto, per esempio, di ricordare cose che non interessano a nessuno o di prestare attenzione a particolari insignificanti, un po’ come il geloso che non vede come gli altri, ma vede di più, stravede, e, prima di tutto, il capello biondo sulla giacca del partner. Questo modo di intendere il delirio tende a porre l’attenzione sul surplus cognitivo e affettivo, sull’eccesso di permeabilità al reale, sulla tendenza a non utilizzare filtri selettivi, capovolgendo, in un certo senso l’immagine della follia che abbiamo ereditato dal passato. Basti pensare che Janet, uno dei grandi médicin philosophe dell’Ottocento, seguito in questo anche da Jung, concepiva la malattia mentale come abaissement du niveau mental, dunque come una figura del deficit, 6 Giugno/Luglio 2001 come mancanza di qualcosa. Altri psichiatri hanno visto nel ragionamento delirante poca concretezza e capacità di astrazione. Gli autori richiamati, hanno invece evidenziato come spesso si tratti di soggetti dotati di un’intelligenza addirittura più acuta della norma, il cui aspetto patologico consiste tuttavia nel recepire in modo indifferenziato la realtà, e dunque nella difficoltà a utilizzare filtri selettivi. Anche se su quest’ultimo punto, riflettendo tra me e me e poi confrontandomi anche con dei colleghi, mi sono accorto che non è esattamente come se non esistesse un meccanismo di selezione. Se mi si passa l’immagine, io direi che il ragionamento delirante funziona un po’ come quelle macchine che fanno la pasta fresca. Per cui c’è la pasta e ci sono dei buchi da cui esce la pasta: ma invece di uscire lo spaghetto stretto del ragionamento normale escono le fettuccione larghe del delirio, che pure però hanno una forma. Interpretare il delirio significa allora provare a capire come avviene l’entrata e l’uscita della pasta fresca. L’uscita, in ogni caso, è modulata; e questo significa che esistono moduli di pensiero delirante, che possono cambiare, ma che sono individuabili. Quindi il problema non è quello mettere tutto sotto la categoria dell’eccesso, che è una categoria che appartiene a una grande tradizione classica, che pensa che è bello ciò che ha forma e possiede confini precisi, mentre l’eccesso è un male, ma soprattutto è l’indeterminato, l’amorfo. Il punto è un altro. Occorre capire la logica dell’eccesso che è quella di un’overinclusion e che, a mio avviso, diversamente da quanto ritengono Cameron e Frith, ha dei selettori, ma soprattutto occorre capire la natura di questi selettori. Io credo che si tratti di capire, in altri termini, una cosa che disse Montaigne, dopo essere andato a trovare Torquato Tasso, ormai completamente pazzo, all’ospedale Sant’Anna di Ferrara. Montaigne aveva notato che spesso sono le persone più intelligenti ad ammalarsi, e dunque ipotizzato che noi saremmo protetti dalla follia da un certo quoziente di stupidità e di torpore che ci viene insegnato. In sostanza, che non siamo o non diventiamo Animazione Sociale I N T E R V I S TA pazzi semplicemente perché non abbiamo – come dire? – il coraggio o l’opportunità di guardare gli abissi dell’esistenza. Di pensare i pensieri scivolo o ascensione, come li ho chiamati nel libro, perché altrimenti ne usciremmo pazzi. Allora, il problema non è quello di rovesciare la frittata, di fare l’elogio del delirio contro la razionalità, come hanno fatto Deleuze e Guattari o una certa cultura degli anni Settanta e Ottanta. Il problema è invece quello di negoziare la propria stupidità, e di avere più coraggio, perché vuol dire più vita. Altrimenti diventiamo come mummie, protetti da una stupidità che ci mette continuamente a riposo (perché questo mi fa bene e quello mi fa male), ma in realtà divorati da una viltà mentale e affettiva che sì, ci fa vivere tranquilli, ma è come se fossimo dei morti. Detto questo, non bisogna pensare che occorra abbandonarsi al delirio. Il delirio è una cosa drammaticamente seria, è tremendo e non è poi così inventivo come sembra. La creatività c’è solo all’inizio. Dopo tutto diventa ripetitivo: si vive in una specie di bozzolo protettivo, che è il rifacimento di un’altra vita piluccando qua e là quello che passa il convento, ossia la nostra esperienza. E alla fine... questo è drammatico. Domanda. Come avviene il processo di costruzione dell’Io? E che cosa può comprometterne, in itinere, l’esito? Lei attribuisce all’Io un importante compito di traduzione «tra spazi omogenei di tempo psichico separati da cesure». Che cosa intende dire? Mi sembra che sia qualcosa di più e di diverso dall’affermare la natura linguistica dell’inconscio. Risposta. Bisogna intendersi su che cosa vuol dire Io. Se restiamo nell’ambito del freudismo e, in particolare, della seconda topica, ne deriva che l’Io, come sono solito dire, è servo di tre padroni: il mondo esterno, il Super Io e l’Es. Se ci rifacciamo invece a un’idea dell’Io erede, per esempio, della tradizione psicoanalitica francese che fa capo a Racamier, Ribot e Pinel abbiamo invece a che fare con una pluralità tendenziale dell’Io. Ciò significa Animazione Sociale che l’Io non è una sostanza, ma una relazione. Ossia che l’Io non è, come nella tradizione cristiana, unico, indivisibile e semplice. Se partiamo da quest’ipotesi, il problema è capire come si possano tenere insieme – detto in termini drammaturgico-pirandelliani – i centomila Io che ci sono in noi, mediante un Io che li governa e che, a seconda dei casi, può essere simile a un governo parlamentare o a una specie di tiranno egemone. Dobbiamo poi tenere conto del fatto che la follia è stata spesso interpretata come ritorno alla pluralità originaria dell’Io, come avviene per chi si trova a convivere con quindici o sedici personalità distinte. La follia, letta in questa chiave, sarebbe allora un sorta viaggio a ritroso, che passa attraverso la deposizione o l’abdicazione dell’Io egemone, a favore di una pluralità di Es. Pirandello ha scritto ben sessanta opere che hanno per oggetto la scissione dell’Io. D’altro canto tutte le religioni hanno affrontato questo tema. Ora, se partiamo dall’ipotesi di una stratificazione dell’Io, che è un po’ quella che io ho cercato di esplicitare, ne consegue che l’Io è opera di traduzione, nel senso che l’Io traduce e mette in comunicazione quello che gli altri poli di coscienza o, meglio, l’arcipelago dei diversi poli di coscienza contiene in sé. In questo senso l’Io è un po’ come il kula dei polinesiani. Possiamo allora immaginare l’Io come una nave che commercia e contratta con tutto l’arcipelago dei poli di coscienza e che traduce materiali da un luogo all’altro. Questo fa sì che ci sia un continuo lavorìo, che favorisce l’assorbimento delle spinte. Naturalmente, il problema è quello dell’intensità. Può venire il momento in cui l’Io non è più capace di far fronte alla complessità dei compiti, per cui si sfalda il sistema faticosamente composto e si torna alle divisioni (originarie o meno che siano). La psichiatria ci ha mostrato come talvolta si verifichi la compresenza di numerose personalità che sono successive e contemporanee al tempo stesso. Negli USA, per esempio, un certo Billy Mulligan è stato assolto nel 1960 dall’accusa di omicidio plurimo dopo che gli erano state riscontrate complessivamente ven2001 Giugno/Luglio 7 I N T E R V I S TA titré personalità, di cui tredici in servizio effettivo e dieci dismesse. È un caso che ha fatto giurisprudenza. Esistono situazioni di questo tipo, certo. Anche se io non sono tanto persuaso del fatto che noi abbiamo quattro o cinque personalità, quanto che noi dobbiamo fare i conti con quello che potevamo essere e che non siamo stati. C’è un racconto di Pirandello, che si intitola La compagnia dei gobbi, che illustra bene che cosa ho in mente. C’è un notaio piemontese massone e anticlericale, che da giovane era stato attratto dalla religione e stava per farsi prete, ma poi questo suo Io era stato abbandonato e dimenticato a favore di quello massone e anticlericale. Dopo molti anni gli capita un feroce mal di denti. Va dal solito dentista, il dolore non passa, prova altri medici senza successo. In quella situazione, passando davanti a una statua della Madonna istintivamente il suo Io sepolto in fondo al pozzo risale e lui si fa il segno della croce. Immediatamente il mal di denti passa. Questo Io che era stato subordinato, respinto, ma non cancellato, dopo essere rimasto a lungo in sordina ritorna in superficie. Il finale è molto pirandelliano. Il notaio non può accettare l’idea del miracolo. E allora che cosa fa? Va dal solito dentista e si fa estrarre il dente, per non dare soddisfazione al suo Io iniziale. Ecco. Noi siamo un po’ come il notaio Bobbio del racconto di Pirandello. Abbiamo dentro di noi tanti Io che potevamo diventare. Ognuno di essi è come un ramo che cresce. Noi cerchiamo di potare i nostri Io, ma non ci riusciamo. Ogni potatura è una ferita che sanguina e che può tornare a fare male anche dopo decenni, quando siamo in difficoltà. Tutti noi costruiamo faticosamente il nostro Io attraverso opere di traduzione e di rafforzamento, che formano dei bastioni. L’Io diventa così una fortezza che, tanto più è chiusa e impedisce all’Io di espandersi, quanto più rischia di scoppiare. Mentre un Io più aperto, elastico, più cosciente della pluralità delle sue possibilità, e in definitiva più sano, è un Io che non è Zelig, ma che è un po’ meno ossessionato dalla paura di essere altro da sé, che 8 Giugno/Luglio 2001 è la stessa paura che spinge a murarsi vivi e a lasciare fuori il mondo. Chi vive in questa situazione è evidentemente candidato a chiudersi nell’esperienza delirante. Per quanto riguarda il problema della lingua, io credo che una delle cose interessanti, tra le tante discutibili, che ha fatto Lacan sia stata quella di non concepire l’inconscio come un calderone delle streghe, ma di vederlo strutturato in forma di linguaggio. Quindi è vero, esiste una dimensione linguistica. Anche se a me in fondo questa espressione non piace perché sembra che il linguaggio di cui si parla sia la lingua del vocabolario. Forse è meglio dire che il linguaggio (e l’inconscio come linguaggio) è ciò che rende possibile il nostro pensare e il nostro parlare, e in questo senso è una logica. Non a caso, in greco leghein vuol dire pensare e parlare, non sono separati. Il dolore incapsulato Domanda. A proposito dell’insorgenza del delirio, lei parla di dolore incapsulato e di passato che non passa. Che cosa accade quando si verifica una situazione di questo genere? Risposta. La mia ipotesi è che il delirio sopravvenga in seguito a degli shock attuali, che riaprono vecchie ferite mai rimarginate, portando con sé tutta l’intensità del dolore che allora avevano provocato. Il dolore che era stato pensato in un’altra logica, sentito con un’altra intensità, provoca nell’oggi tensioni talmente insopportabili da mettere radicalmente in gioco la razionalità successivamente costruita. Il delirio è allora il risultato di una frattura, di un vero e proprio terremoto che sconvolge gli strati della personalità faticosamente composti fino a far vacillare il vecchio mondo che ne era l’espressione. Dopo la ferita dell’infanzia, il dolore non tradotto tra le diverse epoche psichiche è stato incapsulato nello spazio scavato dall’evento traumatico. È evidente che c’è voluta una quantità enorme di energie per tenerlo a bada. Tutto ciò ha provocato un reale impoverimento dell’individuo, il quale, tra l’alAnimazione Sociale I N T E R V I S TA tro, ha accettato, diciamo così, controvoglia la realtà successiva al trauma. Così, quando lo shock attuale risveglia lo shock secondario c’è come un effetto liberatorio, una sorta di eureka delirante, la gioia di riconoscere che la verità stava nella logica infantile e che dunque è falso quel mondo che si è stati costretti a costruirgli attorno per tenere a bada i contenuti rimossi. Il delirio porta dunque con sé la liberazione dal dispendio energetico. Non è un caso che ci si senta relativamente bene nell’esperienza delirante, perché in fondo si dispone finalmente di una quantità enorme di energia, che prima era come una molla che si faceva fatica a tenere compressa. In questo senso, esistono forme di delirio che presentano un carattere liberatorio e una significativa analogia con le nevrosi traumatiche di guerra. Può sembrare strana l’ipotesi freudiana sulle nevrosi di guerra; non è infatti facile capire perché una persona che abbia vissuto da vicino lo scoppio di una granata possa provare piacere nel rivivere continuamente la scena, mentre il punto è che il rivivere è funzionale alla possibilità di scontare a rate l’evento traumatico. Qualcosa del genere si può dire anche a proposito del delirio. Il delirio rivive ricreando un mondo diverso, non mima l’evento traumatico – il più delle volte è stato rimosso, e comunque non lo si ricorda – ma lo agisce, inventando qualche cosa che funge da lenimento e che contemporaneamente ha l’effetto di depotenziare il delirio rendendolo esausto, esaurendolo. In questo senso il delirio può costituire una particolare forma di cura, a patto di essere adeguatamente indirizzato dal terapeuta o dall’interprete per trovare una soluzione altrimenti difficile da identificare. Purtroppo normalmente non succede, perché non ci sono terapeuti bravi, perché la gente non è seguita o per centomila altre ragioni, così che il malato si avvita su se stesso, come un aereo a cui si imballa il motore, che entra in una spirale di caduta finendo con lo sfracellarsi. In questo senso, il delirio è come la febbre. È un sintomo, un malessere, una reazione del corpo. Se però la febbre è molto alta se ne può anche morire. Animazione Sociale Sii ciò che non sei! Domanda. Vorrei chiederle ancora due cose. La prima riguarda le sue perplessità rispetto alle teorie del doppio legame e delle trappole relazionali della scuola di Palo Alto. La seconda ha invece a che vedere con la ricaduta e la possibile convergenza della sua riflessione sul delirio e sulla follia con il movimento italiano dell’antipsichiatria e, in altri termini, con le conseguenze pratiche e politiche di questo modo di leggere e interpretare la follia. Risposta. La riflessione di Gregory Bateson e Paul Watzlawick ha permesso di fare un’importante passo in avanti nell’interpretazione della schizofrenia e dei comportamenti schizofrenici. La così detta teoria del doppio legame ci ha infatti consentito di spiegare i paradossi cognitivi del pensiero schizofrenico, sintetizzabili nella frase di una grande psichiatra italiana, la Selvini Palazzolo: «Sii ciò che non sei!». Per capire come funzionano queste ingiunzioni paradossali possiamo prendere il caso di una madre che stabilisce un rapporto perverso e bloccante con il figlio, ricattandolo affettivamente e impedendogli la conquista dell’autonomia. Il ricatto consiste nel dire esplicitamente o nel far pensare: «Tu non mi vuoi bene se hai opinioni tue, se cresci indipendentemente da me, se esci da solo di casa». Quello che a me preme evidenziare è innanzi tutto la dimensione affettiva di questo legame paradossale, che invece i teorici della scuola di Palo Alto, che pure io apprezzo molto, analizzano principalmente dal punto di vista logico e cognitivo. Le implicazioni di tipo cognitivo vanno ovviamente benissimo, quello che però a me preme mostrare è che il paradosso è duplice, e che ci sono due facce del problema, che da un lato è cognitivo e dall’altro è invece affettivo. La madre di cui dicevo prima usa la dolorosa arma del ricatto attraverso il ragionamento, l’imposizione tacita o espressa, ma contemporaneamente usa anche le leve passionali, affettive e amorose, con la minaccia della pri2001 Giugno/Luglio 9 I N T E R V I S TA vazione di amore, facendo leva sulla paura del «Non ti voglio più bene», in un gioco perverso e paradossale che poi madre e figlio finiscono per proiettare uno sull’altro. C’è una logica in questi comportamenti che Bateson e Watzlawick ci hanno aiutato a decifrare. Da parte mia, ho cercato però di dimostrare che non si tratta di una logica double face, e questo perché – come ho accennato all’inizio – la logica affettiva nasce prima di quella cognitiva: l’affettività è la prima modalità relazionale che noi conosciamo. La mamma abbraccia il bambino, gli fa i discorsi, il bambino probabilmente non li capisce, ma certamente capisce se è bene accetto oppure no. Non a caso molti psichiatri sono dell’opinione che alcune forme di autismo e di schizofrenia nascano dalla precoce percezione del bambino di non essere accettato. Circa il secondo punto, io penso che la riflessione di Basaglia, così come quella dell’antipsichiatria di Laing, riposi su un punto di partenza che è fallace, ma che può essere recuperato in un’altra prospettiva. Gli studi di tipo epidemiologico hanno ormai dimostato che non c’è una genesi sociale e familiare della schizofrenia. L’1% della popolazione mondiale, di tutti i ceti, nazioni e società è colpita da patologie di questo tipo. Questa constatazione non mette in discussione l’importante lavoro svolto dalla riforma basagliana e neppure implica l’abbandonarsi al fatalismo e lasciare che la lotteria nazionale colpisca Tizio e Caio. Per chi svolge un’attività professionale come quella dei lettori della vostra rivista è evidente che non possa essere così. Soprattutto perché sono tante le persone che hanno queste ferite aperte e che tuttavia riescono a vivere una vita normale, in quanto sono inserite in contesti sociali vivi e vivibili. Viceversa, in situazioni sociali molto compresse, l’abbandono e la povertà posso costituire dei fattori decisivi, scatenanti il disagio e la malattia. In questo senso dicevo che, dal mio punto di vista, la riflessione di Basaglia muove da una premessa falsa, che però successivamente è possibile recuperare. Il fatto che l’incidenza della malattia 10 Giugno/Luglio 2001 mentale si mantenga sostanzialmente stabile nella popolazione mondiale non significa che non si possono aiutare e sostenere coloro in cui si è manifestata o si manifesterà. Senza dimenticare che ci sono delle batoste esistenziali che non sono solo personali, ma anche familiari e sociali. E Basaglia ha certamente interpretato molto bene questa dimensione del problema. Il nostro Io è fluido, magmatico Domanda. Che cosa ci insegna l’esperienza del delirio? Risposta. Se questa riflessione può offrire un contributo di natura educativa, esso va ricercato nell’invito rivolto a ciascuno ad affinare le proprie capacità e abilità (e talvolta i virtuosismi) necessari a ricostruire continuamente se stessi. Perché noi non disponiamo di un io fisso, rigido, che sta già da sempre lì e con cui possiamo fare i conti. L’io non è, come suggeriva Rilke, qualcosa di simile a un nocciolo, che di conseguenza i grandi hanno semplicemente un po’ più grande di quello dei piccoli. Il nostro io è fluido, magmatico. Le uniche cose fisse sono i morti. Se fossimo morti non subiremmo cambiamenti, finchè siamo vivi siamo in un processo di continua di costruzione. Irrigidire il proprio io, sia in termini cognitivi, sia in termini affettivi, significa rinunciare alla possibilità di essere psichicamente vivi, mentre invece riscrivere senza sosta la propria biografia è l’unico modo che abbiamo per essere coerenti con noi stessi, pur spostando continuamente il baricentro dei nostri interessi. Remo Bodei - docente di Storia della filosofia presso l’Università di Pisa - tel. (050) 911471 e-mail: [email protected] Animazione Sociale